Allonsanfàn

Ambientato nel periodo della restaurazione post-napoleonica ma con il pensiero rivolto alla restaurazione post anni sessanta. Sorprendente la lucidità dell'analisi, visto che è stata fatta prima che gli autori potessero vedere non dico lo sfacelo di inizio millennio, ma neanche l'effervescenza fasulla degli anni ottanta.

Peccato che la regia non sia all'altezza della sceneggiatura. Sono rimasto sorpreso dato che avevo visto solo lavori più recenti, e meglio rifiniti, di Paolo e Vittorio Taviani. Tra l'altro mi pare che il risultato non eccellente sia dovuto più ad una studiata noncuranza che ad una qualche reale mancanza specifica e infatti i prodotti successivi mostrano che i Taviani possono fare ben meglio di così. Nota di demerito particolare al montaggio (che è del solitamente eccellente Roberto Perpignani, reduce da Ultimo tango a Parigi), che ho trovato a tratti anche indisponente.

Si narrano le vicende di un nobile giacobino, interpretato da un ottimo Marcello Mastroianni, a partire dalla sua scarcerazione da parte degli austriaci. Esce e si rende conto che i suoi compari sono sciocchi e illusi, non si accorgono che la storia va da un'altra parte e pensano di avere ancora una voce in capitolo. Cerca di lasciarli per tornare al privato, ma una serie di circostanze fa sì che parta in una spedizione rivoluzionaria destinata alla catastrofe.

Dalla colonna sonora di Ennio Morricone spicca il tema associato alla banda rivoluzionaria, ben utilizzato in alcune occasioni per accennare una sorta di balletto che risulta molto potente nell'evocare lo spirito di corpo.

Harvey

Anche qui, come in Donnie Darko, il protagonista è un po' fuori di testa, e l'azione ruota attorno il suo amico invisibile descritto come un coniglio gigante. Ma il punto di Harvey è molto meglio focalizzato: una critica alla nostra società per come viene trattata la malattia mentale.

A dire il vero non mi spiego il successo di questo film. James Steward è comunque bravo ma certamente non al suo meglio. La storia ha buone potenzialità ma che solo raramente vengono sfuttate quanto potrebbero. La regia (Henry Koster) non brilla e non mi pare riesca a sfuttare appieno il cast, che del resto non è che sia strepitoso. Josephine Hull, ad esempio, è qui la sorella maggiore di Steward e pur non essendo male, funziona molto meglio in Arsenico e vecchi merletti, certamente grazie a Frank Capra.

Il succo della storia mi pare che sia che un po' di quieta follia non fa male, e che bisognerebbe essere capaci di conviverci, sia con la propria che con quella degli altri, invece di combatterla.

Harry a pezzi

L'esplicito riferimento al decostruzionismo va perso nel titolo italiano, mentre spadroneggiava nell'originale, Deconstructing Harry. Non credo che se il film fosse uscito titolato Decostruendo Harry avrebbe guadagnato di più (o di meno) - credo piuttosto si sia trattato di un problema di articolazione della parola. Me lo figuro il distributore che chiede al traduttore "decostru-che?"

Oltre al titolo, anche il montaggio a scatti, funzionale ma fastidiosetto, potrebbe allontanare lo spettatore, che del resto potrebbe restare basito anche da una dose di volgarità a tratti spiazzante, considerando quello che ci si aspetta da un film di Woody Allen.

L'azione si svolge nel classico territorio alleniano (questa volta centrato nell'Upper West Side) ma il tema è quasi una meditazione sul suo cinema, appunto una sorta di decostruzione dei suoi film. Grazie al cielo l'argomento, a tratti spaventoso, viene trattato con il consueto garbo, e con l'atteso contorno di battute fulminanti.

Woody Allen interpreta, per l'appunto, un personaggio simile allo stesso autore/regista, colto dopo l'ennesimo divorzio, e in piena crisi creativa (è un affermato autore letterario). Inoltre, ha il problema di aver mescolato per tutta la vita realtà e finzione, e si trova ora a non riuscire più a fare una netta distizione. Si inizia con un litigio con una ex-amante, sorella della ex-moglie, in cui scambiano i nomi delle persone reali con quelli dei personaggi dell'ultimo libro e si finisce con i personaggi creati dall'autore che entrano allegramente nel film.

Notevole il cast con ruoli minori Billy Crystal, Demi Moore, Tobey Maguire (ai tempi ancora sconosciuto), Stanley Tucci e Robin Williams che appare tutto il tempo sfuocato. Quest'ultima trovata è tipica del film, e del cinema di Allen in genere, dove situazioni palesemente drammatiche (una persona che perde la consapevolezza di sé) vengono rese in modo comicamente sorprendente.

Getta la mamma dal treno

Simpatica commedia basata su Delitto per delitto - Strangers on a train di Alfred Hitchcock, di cui viene mostrato anche qualche secondo.

L'idea è buona ma sia la sceneggiatura che la regia (Danny DeVito) vanno un po' ad alti e bassi. Curiosa la partecipazione di Branford Marsalis e Rob Reiner in ruoli secondari (più Oprah Winfrey che interpreta sé stessa).

Uno scrittore (Billy Crystal) è stato mollato dalla moglie, che gli pure fregato il romanzo a cui ha lavorato per anni, pubblicandolo con un successo spaventoso. Conseguentemente si trova in una devastante crisi produttiva e personale. Per sbarcare il lunario insegna ad un corso di scrittura creativa, frequentato da improbabili soggetti, tra cui un semiritardato (DeVito) vessato da una madre terribile (una eccezionale Anne Ramsey).

La situazione è matura per la catastrofe, che scatta come DeVito, invitato dal Crystal a vedersi Hitchcock per capire come impostare un giallo, crede di capire che Crystal voglia che lui gli ammazzi l'ex-moglie, ripagandolo con l'omicidio dell'amata/odiata madre.

La storia è disseminata di buoni spunti - ad esempio: Crystal si rende conto di odiare così tanto la ex-moglie perché si riconosce in lei; i due scrittori, Crystal/DeVito, sono distanti anni luce, ma sono anche estremamente simili; DeVito ha una collezione di monete che, a prima vista, sembra demente, mentre in realtà è una vista sull'anima del personaggio. Purtroppo scene mediocri, come il finale balneare, rovinano l'insieme.

Per qualche dollaro in più

Il successo di Per un pugno di dollari ha portato direttamente alla realizzazione di questo secondo episodio (e subito dopo de Il bello, il brutto, il cattivo) che ha dalla sua un budget più elevato e una migliore qualità complessiva della recitazione, anche se paga pegno, a mio parere, in una storia meno efficace. La colonna sonora, sempre di Ennio Morricone, rimane sullo stesso livello.

Un particolare bizzarro dei tre film è che le storie sono solo apparentate dal filo conduttore del protagonista, Clint Eastwood (qui chiamato Il monco), che mantiene più o meno la stessa personalità ma senza che vi sia un reale legame. In particolare qui il cattivo è nuovamente Gian Maria Volonté (molto più in palla, questa volta) che era morto nel finale dell'episodio precedente e che interpreta ora un violento capobanda messicano. Terzo protagonista Lee Van Cleef, che a sua volta apparirà nel terzo episodio in un ruolo diverso. Ruolo minore per Klaus Kinski, a ricordarci che si tratta di una coproduzione tedesca.

Van Cleef e Eastwood sono cacciatori di taglie sulle tracce di Volonté. Essendo quello un osso troppo duro persino per loro, decidono di allearsi. In realtà Van Cleef ha altri motivi per volere morto il ricercato, motivi che intaccano il suo punto forte (un certo "distacco professionale") e che lo portano vicino alla morte. Se non che Eastwood deciderà che non fa il bounty killer solo per i dollari.

La scena chiave, ripetuta più volte, è quella del duello regolato da un orologio a carrilon. Come la musica smette, cantano le pistore - diventato un classico del genere.

Per un pugno di dollari

Primo titolo della trilogia del dollaro che verrà completata due anni dopo da Il buono, il brutto, il cattivo, scritta e diretta da Sergio Leone facendo praticamente un remake in salsa spaghetti western (genere ai tempi inesistente) de La sfida del samurai di Akira Kurosawa.

E' un film a basso costo, con pecche evidenti nella recitazione e nella produzione ma salvato dalla potente idea narrativa iniziale, un'ottima mano alla regia, e dalla creazione di una atmosfera western che scardinava molte delle consuetudini del genere. Da non dimenticare la colonna sonora di Ennio Morricone, anch'essa diventata un punto di riferimento per il genere.

Il protagonista senza nome (chiamato Joe dal becchino) è Clint Eastwood, che appare subito nel poncho che ha trovato sul finire del terzo episodio (anche questo gusto per l'incongruenza temporale troverà proseliti). Il suo avversario principale è Gian Maria Volonté, non al suo meglio - pare che avesse accettato la parte per ripianare debiti causati da una catastrofica produzione teatrale, ma in realtà Eastwood è semplicemente alla ricerca di rogne. Si mette in mezzo ad una situazione spinosa, ammazza direttamente e soprattutto causa indirettamente una valanga di morti, viene malmenato all'inverosimile, e alla fine, dopo essere riuscito a uccidere l'uomo col fucile, nonostante lui sia armato di Colt, e l'antico proverbio messicano citato dallo stesso Volonté lo desse per spacciato, saluta i pochi superstiti e se ne va.

Le iene

Primo lungometraggio di Quentin Tarantino (scritto, diretto e, in un ruolo minore, interpretato) in linea con quella che saranno i canoni classici della sua filmografia: violenza, tupriloquio, dialoghi incessanti, frequenti salti temporali. Nonostante il basso budget - o forse proprio grazie a questo - è tra le sua cose che mi piacciono di più.

Nato grazie ad un colpo di fortuna, la sceneggiatura è finita in mano ad Harvey Keitel, che ha apprezzato, ci ha messo soldi diventando produttore e protagonista e, graziato da un ottimo cast (tra gli altri, da citare almeno Tim Roth e Steve Buscemi), narra una storia non particolarmente nuova ma con modalità molto personali. Un (piccolo) mafioso californiano creata una squadretta di delinquenti per fare un semplice colpetto che dovrebbe filare liscio come l'olio e portare a tutti un mucchio di soldi. Moriranno tutti, tranne (forse) Buscemi.

Gran parte dell'azione si svolge, con modalità quasi teatrali, in un capannone abbandonato dove i superstiti si ritrovano dopo la catatrofica rapina e interagiscono tra loro come i cani inselvatichiti del titolo originale (Reservoir dogs). A favore dei distributori italiani c'è da dire che il film è noto anche con il più adeguato sottotitolo Cani da rapina.

Io & Annie

Classica commedia di Woody Allen (scritta, diretta, interpretata) in cui non si risparmia sulle battute, senza che questa abbondanza vada a scapito della storia.

Alvy Singer, alter ego di Allen, racconta la sua storia con Annie Hall (una sfolgorante Diane Keaton) cercando di darsi una spiegazione sul perché sia finita. Ne approfitta per parlare della sua infanzia a Brooklyn, la sua gavetta di comico, incontri con le donne fino a trovare Annie e poi perderla. C'è modo di parlare di sesso, morte, ebraismo, politica, rapporti tra newyorkesi e resto degli USA, indugiando sulla contrapposizione NY - LA, aragoste e ragni.

Apparizioni di Christopher Walken (fratello di Annie con istinti suicidi), Paul Simon (cantante di successo stabilitosi a Los Angeles che gli soffia Annie), Jeff Goldblum (losagelesiano ad un party, disperato per essersi dimenticato il suo mantra) e Marshall McLuhan (estratto come jolly in una disputa in coda al cinema).

Platoon

Inspiegabilmente, si è trattato di una prima visione. L'impressione di già visto che ne ho avuto è quindi da ribaltare su gli innumerevoli film successivi che hanno calcato il percorso segnato da Oliver Stone (sceneggiatura originale e regia). C'è da dire che Stone ha avuto l'innegabile vantaggio di aver fatto la guerra del Vietnam e perciò di sapere bene di cosa stava parlando. Il fatto che sia riuscito a farlo solo a metà degli anni ottanta (e solo grazie al fatto che Il cacciatore e Apocalypse Now avevano mostrato che era possibile parlare del tema e non perderci soldi) spiega bene quanto quella sconfitta sia (tuttora) un argomento molto delicato per gli americani.

Il tema principale del film è il percorso di crescita di Charlie Sheen, sbarbatello volontario che viene catapultato al fronte e scopre subito che la realtà della guerra è leggermente diversa da come viene raccontata ai civili. Incontra due figure dominanti, il sergente carogna (Tom Berenger) e il sergente buono (Willem Dafoe) che vengono idealizzate nel conflitto tra bene e male. La cosa, in effetti, può risultare un po' ingenua, ma bisogna tener conto che il racconto è fatto da un giovinetto che forse ha alterato i fatti per darsi una sorta di autoassoluzione al suo comportamento non limpido.

Tra le curiosità, la partecipazione di Johnny Depp (ruolo minimo) e un cameo per il regista, alle prese con una scena realmente esplosiva.

The breakfast club

Commedia liceale scritta e diretta da John Hughes. Lo spessore è decisamente superiore al tipico film del genere, anche se i personaggi sono stereotipati fino quasi a raggiungere il livello di macchietta.

Nonostante gli evidenti difetti, è un film a suo modo importante che è stato ripreso, citato, rivisto in numerosi altri lavori. In breve: cinque studenti dello stesso liceo di Chicago sono condannati a passare la domenica a scuola come punizione per le rispettive marachelle. Non si conoscono e sono completamente diversi. La forzata giornata assieme fa scoprire loro di essere in un certo modo affini, al punto da arrivare a considerarsi un "club".

Difficile non accorgersi di una certa somiglianza con la prima parte de I soliti sospetti, anche se quella storia va a parare i direzioni completamente diverse.

Da notare nella colonna sonora i Simple Minds con Don't you (forget about me), canzone scritta apposta per l'occasione. Tra i ragazzetti protagonisti uno Sheen, Emilio Estevez, meglio noto aver scritto e diretto Bobby venti anni dopo.

Testimone d'accusa

Basato su un racconto di Agatha Christie, poi trasformato in piece teatrale, e qui adattato (direi quasi trasformato) da Billy Wilder per il grande schermo aggiungendogli un suo tocco personale molto piacevole.

Tyron Power protagonista ma francamente dimenticabile - forse anche a causa di un ruolo più strumentale all'intreccio che dotato di vita propria - meglio il resto del cast, con Marlene Dietrich in finale di carriera (ma non lo dimostra) e un ottimo Charles Laughton. Ben gestiti anche i personaggi minori, tratto tipico della regia di Wilder, tra cui spicca Elsa Lanchester nei panni di una terribile infermiera.

Ricomincio da capo

Meglio il titolo originale, Groundhog day - Il giorno della marmotta. Simpatica commedia romantica il cui il tempo si inceppa e il protagonista (Bill Murray) si trova a dover ripetere indefinitivamente la stessa giornata. Scoprendo che gli risulta impossibile rovinarsi la vita, finirà per migliorarsela. Ruolo principale femminile a Andie MacDowell (abbastanza in ombra).

Sceneggiatura e regia di Harold Ramis.

Il concerto

Commedia, scritta e diretta da Radu Mihaileanu, che reinterpreta in modo originale alcuni ben noti stereotipi.

In breve, l'ex orchestra del Bolshoi, inattiva da un trentennio, piomba a Parigi con l'inganno per dare la possibilità al suo direttore di completare il concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky (numero 35) che ai tempi non aveva potuto completare, causa licenziamento in tronco di tutti quanti.

Potrebbe essere interessante un paragone con Mosca a New York.

I soliti sospetti

E' uno di quei film che restano impressi, grazie soprattutto ad una storia (Christopher McQuarrie) che si risolve solo nelle ultime battute ma che a me lascia un certo retrogusto amaro, in quanto manca la catarsi finale, e io in questo sono un tradizionalista. Se la storia non si "chiude", mi resta una certa inquietudine.

La regia (Bryan Singer) non mi pare eccellente, i riferimenti alla grande cinematografia americana di mezzo secolo prima, nei vari generi che vengono toccati dallo sviluppo della vicenda (poliziesco/delinquenziale sopra a tutti, direi, nelle diverse varianti disponibili, ma anche il militare, dato che la scena dell'attacco suicida alla nave ricorda svariati film di guerra) mi sembrano sprecati.

Buono il cast (tra gli altri Gabriel Byrne, Kevin Pollak, Chazz Palminteri, Benicio Del Toro), memorabile la recitazione di Kevin Spacey che pur non essendo tecnicamente il protagonista risulta essere al centro della narrazione.

Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo

Terzo episodio dei Pirati disneyani, che m'è parso meglio del secondo, ma comunque inferiore al primo. Direi che lo spettatore che non resta entusiasta dalla Prima Luna si potrebbe pure fermare lì. Volendo vedere solo due episodi, salverei questa puntata, che mostra in alcuni punti della sceneggiatura un persino un certo spessore (mi scuso per il parolone forse non appropriato).

Bizzarra l'apparizione di Keith Richards come padre di Johnny Depp. Il padre di Bloom, invece, è interpretato da Stellan Skarsgård che ho riconosciuto solo nel finale. Piacevolmente sorpreso dal titolo italiano, che è finalmente una traduzione dell'originale Pirates of the Caribbean: At world's end.

Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma

Secondo episodio della serie dei Pirati di Walt Disney. Stesso cast del primo episodio, risultato che m'è parso inferiore, forse a causa dello scemare dell'effetto sorpresa.

Altro tratto comune è nel titolo, tradotto a capocchia. L'originale, Pirates of the Caribbean: Dead man's chest, è un gioco di parole tra la canzonetta piratesca inventata da Stevenson per l'Isola del tesoro (Dodici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum - mi pare che facesse in italiano) e il soggetto del film, un forziere che contiene il cuore pulsante (!) del capitano dell'Olandese Volante (nel senso del vascello fantasma). Una storia un po' intricata che potrebbe sembrare più interessante di quel che si scopre nel film.

I punti forti del film continuano ad essere Depp e la gran messe di milioni spesi dalla produzione.

La maledizione della prima luna

Vabbé, è una produzione Walt Disney.

La sceneggiatura (Ted Elliot e Terry Rossio) è costellata di spunti divertenti anche se, nel complesso, ci si sarebbe potuti aspettare di meglio. La regia (Gore Verbinski) mi pare anneghi negli innumerevoli milioni gettati dalla produzione nel progetto. Salva la baracca il cast (Orlando Bloom, Keira Knightley, Jonathan Pryce), e in particolare uno straordinario Johnny Depp nel ruolo, che gli calza a pennello, di uno strampalato pirata.

Il titolo originale faceva già presagire come si trattasse solo del primo episodio di una lunga serie (Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl). La nostra distribuzioni, chissà perché, ha rimosso il tag Pirati dei caraibi e ha trasformato la perla nera in una fase del nostro satellite naturale.

Verdetto finale

Non si tratta di un capolavoro, ma la versione che ne ho visto oggi su Sky è decisamente orribile, in quanto i numerosi tagli subiti - operati in una maniera che mi è parsa casuale - causano bizzarri buchi di sceneggiatura rendendo il film poco comprensibile. Fortuna che per me si trattava di una seconda visione, e ricordavo che qualcosa mancava.

La storia sarebbe quella di due destini che si incrociano. Un feroce delinquente tendenzialmente fuori di testa (interpretato in maniera abbastanza credibile da John Lithgow) e un ambizioso poliziotto (Denzel Washington). I due si incontrano all'inizio della loro rispettiva carriera, il primo soccombe aprendo la via ad una rapida crescita professionale del secondo. Passa una lunga serie di anni in galera meditando una vendetta francamente assurda, finché riesce ad evadere, in un modo improbabilmente truculento, e a mettere in opera il suo incredibile piano.

Il suo scopo non è quello di uccidere la sua nemesi, ma di distruggergli la vita, facendogliene passare di tutti i colori e ammazzando i suoi amici. Una delle scene scomparse dalla versione televisiva è per l'appunto la morte del suo migliore amico (Kevin Pollak - poliziotto con cui ha condiviso l'inizio della sua carriera), che però viene citata più volte nel finale, creando un certo sconcerto nello spettatore meno avvertito. Anche altre parti del piano diabolico di Lithgow non sono mostrate, rendendolo meno esageratamente complesso ma, nel contempo, ancora meno comprensibile.

Sorvolo, e arrivo alla scena finale, in cui Washington riprende l'iniziativa, chiede aiuto al suo antico amico d'infanzia (Ice-T) diventato un boss della delinquenza locale che, come tale, non era previsto da Lithgow. In un modo spettacolare ma francamente inattendibile il buono riesce così a chiudere lo scontro a suo favore - facendo un ricorso eccessivo a una inutile violenza, a mio gusto.

Risultato scarsotto per un film di genere che ha coinvolto un cast di tutto rispetto. La storia ha degli spunti interessanti ma mi pare sovraccaricata da troppi temi secondari, che finiscono per essere presentati in modo embrionale o sviluppati per luoghi comuni. La regia di Russell Mulcahy non mi pare eccezionale, anche se ha qualche bel momento (ad esempio una carrellata sugli abiti sparsi per la casa di Washington e signora fino ad arrivare ai due nel letto - niente di innovativo, ma eseguita con grazia). La cosa più interessante m'è parsa essere il titolo originale - Ricochet - che sarebbe qualcosa come proiettile di rimbalzo. Può essere usato per dare una propria interpretazione a questo racconto. Se se ne ha voglia.

Casanova

Simpatica commedia romantica in costume che ha come protagonista principale Venezia, che non delude mai. Vien da chiedersi come mai noi, che Venezia ce l'abbiamo in casa - come le innumerevoli altre perle incastonate nel Belpaese - la usiamo così poco nella nostra cinematografia. E' proprio vero che ad avere costantemente sotto gli occhi certe bellezze si finisce per non vederle neanche più, ohimé.

La storia è narrata in flash back da Casanova stesso, ormai vegliardo, come se si trattasse di un episodio segreto della sua vita che, per un motivo che ci verrà svelato alla fine del film, non gli pare il caso di includere nelle sue corpose memorie.

Impianto classico, con un giovane Casanova (Heath Ledger), dotato di carisma tale da far cadere ai suoi piedi tutte le donne su cui si posa il suo sguardo, che deve prender moglie per non essere espulso da Venezia. Sceglie una fanciulla (che si innamora di lui appena lo intravvede) ma poi si innamora di un'altra (Sienna Miller) che però è stata promessa in sposa ad un ricco commerciante di lardo genovese (Oliver Platt). A complicare ulteriormente la trama arriva l'inquisitore Jeremy Irons (un ottimo cattivo, come sempre) che ha la missione di terminare la carriera del seduttore veneziano. Equivoci, travestimenti, impicci vari come da attese, fino al lieto fine che fa felici un po' tutti.

Regia di Lasse Hallström, non un genio nel suo campo (si veda lo scarsotto Hachiko se ci si vuol fare del male) ma qui si comporta abbastanza bene, e ha anche dei buoni momenti. Oltre all'incredibile setting veneziano, vale la pena di ascoltarsi la colonna sonora, abbastanza centrata col periodo, e di ammirare i begli abiti indossati dagli attori. Piacevoli gli extra del DVD.

Mine vaganti

Una storia di tensioni familiari in interno alto-borghese in linea con la produzione tipica di Ferzan Ozpetek (regia e sceneggiatura, quest'ultima scritta a quattro mani con Ivan Cotroneo - Dillo con parole mie, Io sono l'amore).

Il tono è più leggero e scanzonato del solito e questo, a mio gusto, rende un buon servizio al film, aiutato anche da un budget piuttosto elevato per gli standard italiani.

Due fratelli (Riccardo Scamarcio e Alessandro Preziosi) sono destinati a succedere al padre (Ennio Fantastichini) nella direzione di un pastificio a Lecce. Nessuno dei due se la sente e, per di più, sono entrambi gay - cosa difficile da dire al padre. Scamarcio rivela a Preziosi che glielo dirà a cena, davanti a tutti, ma Preziosi lo frega, dicendolo prima lui. Il problema di Scamarcio è ora quello di riuscire a sfilarsi dalla faccenda senza far venire un accidenti al padre. Come spesso accade nei film di Ozpetek, altre storie si accavallano a quella principale, coinvolgendo la nonna (Ilaria Occhini), la zia (Elena Sofia Ricci), Nicole Grimaudo (una pepata collaboratrice dell'azienda paterna), in un meccanismo che funziona bene portando ad un finale aperto ma - mi pare - soddisfacente.

Piacevole la colonna sonora, buono il cast, premiato con due David (Occhini, Fantastichini) e numerosi altri premi, tra cui un premio speciale della giuria del Tribeca Film Festival.

Monster's ball - L'ombra della vita

Il rapporto tra bianchi e neri negli USA in generale, e nel suo sud in particolare, è uno di quei temi delicati che in un modo o nell'altro finiscono sempre per attirare l'attenzione. Immagino sia questo un motivo del successo di questo film, che in realtà mi sembra superiore a quelli che sono i suoi meriti.

Il film, relativamente a basso costo, è stato il trampolino di lancio per il regista, Marc Forster, che adesso gira robe come Quantum of solace. Come sia riuscito ad attirare nell'impresa un cast che comprende Billy Bob Thornton, Halle Berry (che si è presa l'oscar e un orso d'argento per questo film) e Heath Ledger è per me un mistero, ma di sicuro è l'altro fattore che ha portato successo all'opera.

Varie tragedie costellano la storia raccontata: alla Berry muoiono il marito (sedia elettrica) e il figlio (travolto da una macchina). Thornton si sciroppa un padre insopportabile (ben reso da Peter Boyle) e maltratta il figlio Ledger. Tutti e tre in famiglia sono guardie carcerarie ma solo Boyle, ormai pensionato, lo sente come un vanto. Per Ledger è un peso insopportabile, al punto che, beh, non lo sopporta. L'uscita di scena del figlio riesce finalmente a smuovere Thornton che finalmente si distacca dal padre e si mette a vivere una vita sua.

Le scene di sesso, nonostante la Berry, mi sono sembrate stiracchiate e noiosette, le avrei ridotte. Capisco il gioco di contrapporre la passione tra Thorthon e la Berry alla rapida piattezza del rapporto con una prostituta, ma penso si sarebbe potuto ottenere un effetto anche migliore in altro modo.

Inception

Le fantasie che ci costruiamo possono anche essere molto belle, ma la realtà è meglio. Più o meno questo il riassunto delle due ore e mezza del film di Christopher Nolan (scritto, diretto, prodotto).

A mio gusto un po' troppo lunghetto, qualche sforbiciata nella storia gli avrebbe giovato.

Leonardo Di Caprio si sente in colpa per la morte della moglie (Marion Cotillard). Per mestiere lavora in modo improbabile nel subconscio altrui e, per poter tornare negli USA dove sono rimasti i figli, accetta un "lavoretto" che gli offre Ken Watanabe e che tutti ritengono impossibile. In realtà lui sa che è possibile, in quanto c'è una soluzione che si basa però proprio sul trucco che ha usato con la moglie, causandone la morte. Deve quindi sfidare i suoi sensi di colpa per tirare fuori il ragno dal buco.

Produzione molto danarosa, evidentemente resa possibile dal successo della serie di Batman (da notare la presenza del film, oltre a Watanabe, anche di Michael Caine - padre del protagonista).

Il cielo può attendere

Facile confondere questo titolo con Il paradiso può attendere, che però non ha nulla a che fare con questa commedia sentimentale di Ernst Lubitsch, nonostante condividano il titolo originale, Heaven can wait.

Qui il protagonista muore subito, e racconta ad un diabolico Laird Cregar in un lungo flash back la sua vita da libertino, cercando di convincerlo di avere abbastanza titoli per andar "giù". Non ci riuscirà.

Nine

Ufficialmente non si tratta di un remake di 8½ ma di un adattamento cinematografico del musical omonimo (nel senso di Nine) scritto da Mario Fratti e che ha avuto (e forse continua ad avere) un ottimo successo a Broadway. Non essendo un estimatore del musical, poco so di Nine ma, per la miseria, la parentela con il capolavoro felliniano è così stretta che si può fare a meno di riconoscerla solo per ragioni di copyright.

Nonostante l'impegno profuso, il risultato mi pare scarso. Non è facile parlare agli stranieri del carattere italiano. Pensare che una produzione americana riesca nell'impresa è fatica sprecata. Esigenze di cast hanno reso la cosa ancor più bizzara, simulando un internazionalismo europeista in Italia che, soprattutto negli anni sessanta, suona decisamente fuori luogo.

Meglio sarebbe stato, a questo punto, riscrivere completamente il soggetto, portarlo direttamente negli USA e non pensarci più. Del resto questa è la strada che hanno seguito per Everybody's fine, e lì il risultato è stato decisamente interessante. Da notare che i due remake hanno in comune anche il fatto di aver rimpiazzato in entrambi i casi Marcello Mastroianni (qui con Daniel Day-Lewis nei panni del regista "Contini").

Il notevole cast include Marion Cotillard, la moglie, Penélope Cruz, amante principale, Sophia Loren, la mamma, Nicole Kidman, la prima attrice e molti altri, tra cui un buon numero di italiani in particine minori (Ricky Tognazzi il produttore, Valerio Mastandrea alla reception nell'albergo).

La regia, Rob Marshall, non mi è parsa memorabile.