Tower heist - Colpo ad alto livello

C'è del buono in questa sonnacchioso incrocio tra un remake e uno spoof di Ocean's eleven, anche se mi pare che produzione (tra cui Eddie Murphy), regista (Brett Ratner), sceneggiatori, cast, siano stati tutti d'accordo nel puntare al minimo risultato utile.

La storia ruota attorno ad un simil-Madoff (ma sì, quello che diceva di essere un finanziere d'assalto alla Gekko di Wall Street ma che invece era un truffatore che usava uno schema piramidale alla Ponzi), interpretato da Alan Alda, che prima che il suo castello di carte crolli riesce a far sparire svariati milioni di dollari. Costui vive in un condominio (chiamato The Tower, nella realtà la Trump Tower) di extra-iper-lusso che si affaccia sul Columbus Circle di New York, e ha spazzato via con la sua truffa anche i fondi pensione del personale, che ora non è molto contento di lui.

Il capo (Ben Stiller, uno dei punti deboli del film) viene licenziato in seguito alla sua reazione all'evento, portandosi dietro nella rovina anche il receptionist (Casey Affleck - connessione diretta con gli Ocean's) e un addetto agli ascensori (Michael Peña). Avuta la dritta da una agente dell'FBI (Téa Leoni), con cui c'è del tenero, che il tipaccio deve avere un bottino da qualche parte a portata di mano, pensa di introdursi nel suo appartamento e scippare la somma. Il quarto uomo è un agente finanziario in rovina (Matthew Broderick), appena sfrattato da The Tower. Per le conoscenze criminali viene chiesto aiuto a un malandrino di bassa leva (Eddie Murphy), vicino di casa, e poi ad una dipendente giamaicana (Gabourey Sidibe) che dal padre ha ereditato una sospetta conoscenza nel ramo casseforti.

Una combriccola decisamente non all'altezza del compito, che però viene eseguito in modo molto improbabile ma a tratti anche divertente.

Product placement a pioggia, script piuttosto fiacco, regia poco vivace, tranne un paio di scene piuttosto spettacolari.

Curiosa la prospettiva del racconto, dal punto di vista del personale del condominio, come dire dalla casta dei servitori, vista come contrapposta a quella di pochi felici che abitano quegli appartamenti.

Simpatica la colonna sonora, che cita la citazione fatta in Ocean's eleven dell'originale con Sinatra.

Art school confidential - I segreti della scuola d'arte

Commedia non riuscitissima della coppia Terry Zwigoff (regia) - Daniel Clowes (storia originale a fumetti e trasposizione cinematografica) che già aveva prodotto il più interessante Ghost world. Per Zwigoff, tra i due c'è in mezzo il ben più noto Babbo bastardo.

Non mi ha entusiasmato il protagonista (Max Minghella agli inizi) e direi che la sceneggiatura patisce una certa indecisione sulla strada da far prendere alla storia, che finisce per non essere né carne né pesce.

Minghella junior interpreta un ragazzetto dei sobborghi di New York che, dopo una esperienza non esaltante nelle scuole locali, vittima predestinata dei bulli, si iscrive ad un college a indirizzo artistico della grande città. Ha qualche talento nel disegno, che mi sembra attingere al rinascimento italiano, o magari ai preraffaelliti inglesi, ma le idee molto confuse, al punto da indicare come suo artista di riferimento nientemeno che Pablo Picasso, quagliante come i cavoli a merenda con la sua vena artistica. I suoi compagni di studio, come si può immaginare, sono molto pittoreschi, e forniscono spunti per scenette divertenti.

Il punto principale credo sia la totale insensatezza del mondo artistico corrente (o almeno, della sua parte evidente), ben rappresentata anche da uno degli insegnanti (John Malkovich, anche tra i produttori, con Clowes), pittore fallito che ha passato venticinque anni ad affinare la sua tecnica nel dipingere triangoli.

Una sottotrama rosa riguarda il tentativo del protagonista di conquistare la bella (Sophia Myles), indecisa tra l'artista e un suo pessimo collega (ma fustacchione). Una sottotrama gialla prevede strangolamenti, e la caccia all'assassino da parte di una polizia pasticciona.

Ruolo minore per Anjelica Huston, sempre in gamba.

Hunger

Primo lungometraggio di Steve McQueen, che però aveva già un notevole background nell'uso della macchina da presa, dovuto alla sua precedente esperienza artistica, e si vede.

Film duro, violento, difficile da vedere quanto deve essere stato difficile da girare, su uno dei momenti più drammatici della storia recente europea, la feroce contrapposizione tra cattolici e protestanti, irlandesi e inglesi, nell'Irlanda del Nord.

Focalizzato sullo sciopero della fame che portò alla morte dieci militanti dell'IRA, primo dei quali Bobby Sands (Michael Fassbender, eccellente), è girato accoppiando una tecnica registica molto pulita ad una modalità di narrazione quasi documentaristica. Poco o nullo lo spazio lasciato alle parole, se non il colloquio a metà film tra Sands e un prete, che si risolve tecnicamente principalmente in un lunghissimo piano sequenza eseguito senza alcun movimento di camera. Lo stesso dicasi per la colonna sonora, ridotta al lumicino. McQueen usa praticamente solo immagini, per trascinarci in quell'inferno che era quella prigione.

L'assenza di parlato nel film corrisponde all'assenza di dialogo tra le due parti. Non si entra nei dettagli della contrapposizione, più che le ragioni di una parte o dell'altra ci viene mostrata l'ostinazione, l'incomprensione, il conflitto fine a se stesso tra di due schieramenti.

Il principe cerca moglie

Non mi era piaciuto ai tempi, ma non mi ricordavo più perché. La seconda visione mi ha rinfrescato le idee. Storia (Eddie Murphy) non particolarmente originale, sceneggiatura un po' tirata via, come pure la regia (John Landis). Recitazione scarsotta, spesso ho avuto l'impressione di guardare una serie televisiva.

Il film punta tutto su Murphy che, a mio parere, dà il suo meglio quando viene contenuto dalla regia in parti limitate (era partito benissimo con 48 ore e Una poltrona per due) ma quando trasborda, come in questo caso, il risultato è quello che è.

Breve apparizione di Samuel L. Jackson nei panni di un rapinatore e dei fratelli Duke (di Una poltrona per due) che riemergono dalla miseria grazie ad una sconsiderata donazione da parte del principe.

Murphy è il giovin principe di un regno africano di fantasia, molto finto, molto da telenovela. Giunta la maggiore età si dovrebbe sposare che una povera disgraziata che è stata allevata con questo preciso scopo. Riesce a strappare una breve proroga e ne approfitta per andare a New York. E visto che vuole cercarsi una regina, va nel Queens - e qui c'è qualche scenetta divertente per contrasto tra la ricchezza esagerata del principe e la miseria dell'abitazione scelta appositamente per essere tale. Il resto procede come da copione, sia pure con qualche intermezzo che mi ha strappato qualche risata.

Le due ore scarse di durata sono veramente eccessive, ma se ne sarebbe potuto tirar fuori un cortometraggio divertente.

Bobby Fischer against the World

Difficile a credersi, ma ci fu un tempo non lontano in cui in televisione si parlava di scacchi in prima serata. Come si vede in questo documentario HBO, i telegiornali americani addirittura aprivano sull'incontro valido per il campionato mondiale di questo sport. La spiegazione sta nel fatto che era il 1972, nel pieno della guerra fredda, e lo sfidante, Bobby Fischer, contendeva il titolo al russo Boris Spassky.

La vicenda fu dunque pompata da ambo le parti per scopi propagandistici, e a perderci furono proprio i due scacchisti. Spassky perse credito in patria per essere stato battuto dal capitalista, ma peggio ancora andò a Fischer che perse quel briciolo di equilibrio mentale che gli era rimasto.

Nulla da dire sul lavoro di Liz Garbus, che del resto ha un invidiabile curriculum da documentarista, anche il titolo illustra esattamente quello che è il senso della pellicola. Colpa mia, quindi, che mi sarei aspettato qualcosa di diverso, più incentrato sul gioco, e su come Fischer lo affrontava. Si racconta invece come mai Fischer è diventato scacchista, sacrificando praticamente tutta la sua vita allo scopo di vincere il mondiale. E come, dopo averlo vinto, si sia trovato completamente svuotato.

Giustamente non ci viene risparmiata l'imbarazzante imbecillità autodistruttiva dell'uomo Bobby Fischer, bizzarro caso di ebreo antisemita, particolare che fa pensare a The believer.

The bank - Il nemico pubblico n. 1

Primo lungometraggio (scritto e diretto) di Robert Connolly. Chi è costui, mi sono chiesto. Grazie a imdb ho scoperto che si tratta di un regista australiano che fa un film ogni quattro anni, e recentemente ha fatto qualcosa anche per la televisione. Il tutto sempre in Australia, con una eco molto limitata nel resto del mondo.

Però è correntemente al lavoro in una produzione americana, riconducibile a Jonathon Stevens, personaggio che fino ad oggi si è fatto notare più nel campo dei videogiochi e dell'editing musicale (The social network e Millennium - Uomini che odiano le donne, tra gli altri). Dal punto di vista artistico c'è da dire che A view from the bridge (questo il titolo) basa la sua sceneggiatura su di pezzo teatrale di Arthur Miller e ha come protagonista Vera Farmiga. Sarà interessante scoprire cosa viene fuori da questo strano impasto.

Tornando a The bank, anche la sua produzione ci riserva una sorpresa, nel nome di Domenico Procacci che appare come coproduttore. E morì con un felafel in mano, altra e più nota produzione australiana per conto della sua Fandango, è dello stesso anno.

Le star sono due attori che sono restati legati a Connolly, David Wenham (protagonista) e Anthony LaPaglia (antagonista). LaPaglia (è anche in A view from the bridge) è decisamente il migliore in campo, interpretando con convinzione il suo personaggio.

Alla regia Connolly non è male, purtroppo la sceneggiatura, pur essendo basata su una valida idea, non viene sviluppata adeguatamente. Si apre sul passato del protagonista, bimbetto in una scuola nel nulla australiano che si sta sorbendo una sorta di Mostra e Dimostra da parte di un bancario che racconta il senso del risparmio.

Salto in avanti, lo troviamo sulla trentina abbondante, immerso in conti e simulazioni di andamenti di borsa. Pare che abbia ottenuto un risultato interessante. Un estratto della ricerca viene mandato ad una banca. In quella stessa banca LaPaglia si sta beccando un fervorino dal consiglio di amministrazione per non aver generato abbastanza utili. Non abbiamo nessun motivo per stare dalla sua parte, è evidentemente un tipaccio. Per migliorare la redditività aziendale ha una sola ricetta: licenziare e tagliare le spese. E siccome a già tagliato tutto quello che poteva tagliare, non ha più carte da giocare. La ricerca del matematico capita perciò a fagiolo. Se funziona, riuscirà a far contenti i suoi capi.

Ora, l'idea di poter predirre l'andamento borsistico è priva di senso. A naso direi che chi ci crede dovrebbe cadere in una tra le seguenti categorie: male informati, sciocchi, matti. In Pi di Darren Aronofsky (una volta tanto, il titolo italiano Pi greco - Il teorema del delirio, aggiunge senso invece che toglierne) si esplora la terza ipotesi, e il protagonista, partendo dalla teoria della complessità (a quei tempi più nota come teoria del caos), sbarella pensando di essere sul punto di trovare il senso di tutto, che poi sarebbe un altro modo di dire dio.

In The bank, il matematico non sembra appartenere a nessuna delle tre categorie, mentre il banchiere reclama a gran voce di essere inserito nella seconda. A dire il vero, parlando con un dipendente (anch'egli matematico, ma molto meno brillante del protagonista, e che direi appartenga al primo gruppo) gli dice chiaramente di avere seri dubbi in proposito, giustamente notando che il fattore umano non è contemplato dalla matematica. E allora direi che l'ingordigia abbia finito per ottundere le sue capacità intellettive. Ma la figura che fa alla fine è sempre quella dello sciocco.

Credo sia proprio questo il tema principale del film: l'ingordigia rende sciocchi. Non è solo il manager, è tutto il consiglio di amministrazione della banca (con una sola ammirevole eccezione) che si dimostra incapace di ragionare, con la mente e con il cuore, quando le cifre diventano troppo alte. Fuori dalla metafora, è quello che vediamo anche oggi nel nostro sistema economico-finanziario. Non funziona, sappiamo che non funziona, però nell'immediato genera quattrini (per alcuni, almeno, e per quei pochi le cifre sono davvero alte). E allora ce lo teniamo.

Vicenda parallela è quella di una famigliola rovinata dalla stessa banca. Strumentale per sottolineare come il miraggio del profitto abbia fatto perdere il lume della ragione a una parte (voglio sperare sia solo una parte) del sistema bancario e come i motivi del matematico per agire come agisce siano molto forti, al punto da farlo spergiurare in tribunale - cosa che vediamo gli costa parecchio.

Altra storia che si incastra è quella di una amoretto tra il matematico e una dipendente della stessa banca (Sibylla Budd). Personaggio debole, interpretazione dimenticabile. Lo scopo credo sia quello di far vedere come il gioco della finanza finisca per distruggere ogni possibilità di relazioni umane propriamente dette, ma la mancanza di approfondimento non fa un buon servizio a questa tesi.

Penso sarebbe stato opportuno sacrificare una delle due sottotrame in modo da rendere più sostanziosa la superstite - o, alternativamente, dare maggior spazio ad entrambe. Ma questo avrebbe comportato un allungamento del minutaggio del film, e maggiori investimenti in un cast più credibile.

Nonostante le debolezze del film, ho notato con piacere una buona cura verso i dettagli. Il tema della teoria della complessità fa capolino da tutte le parti. Anche nella colonna sonora minimalista di Alan John, godibile anche se non memorabile.

Johnny English – La rinascita

La fonte principale è 007, ma la sceneggiatura mescola allegramente elementi proveniente da svariati cicli del genere spionistico, come ad esempio la serie Bourne, con una mezza citazione nel titolo originale (Johnny English Reborn), o le Mission: Impossible. Il tutto è tenuto assieme dalla comicità molto fisica di Rowan Atkinson, che però avrebbe potuto essere sfuttato meglio.

Tra il primo episodio e questa ripresa c'è un buco di otto anni, parzialmente colmato dalla sceneggiatura spiegando che anni prima English ha ridicolizzato il servizio segreto inglese e per questo motivo ha perso il titolo di Sir, è stato espulso dal lavoro ed è finito in un monastero zen per cercare la sua via. Il nuovo capo del servizio segreto (Gillian Anderson) è costretta malvolentieri a richiamarlo in servizio perché un agente è disposto a spifferare solo a lui un segreto di importanza capitale. English dimostra subito quanto lei abbia ragione causando una serie di danni che non possono che far pensare a Clouseau, a cui il personaggio deve molto per come è in bilico tra genio e imbecillità, simpatia e odiosità. Dopo una serie di catastrofi, English è solo, ma riesce a riconquistare dalla sua parte il collega (Daniel Kaluuya), di cui aveva scioccamente stroncato la carriera, e la psicologa (Rosamund Pike), e partire alla riscossa.

Meritorio il tentativo di non fare un semplice spoof basato una debole sceneggiatura e tenuto a galla solo dalle risate, e di fornire invece una storia con un capo e una coda che, per così dire, attacca dall'interno i luoghi comuni del genere. Il risultato però è discontinuo, con scene che mi hanno fatto rotolare dalle risate, altre di azione passabilmente avvincenti, ma inframmezzate da lunghi momenti di stanca.

Da non perdere la comica finale sui titoli di coda, in cui Atkinson appare da solo (con una partecipazione minima della Pike) in veste di cuoco che prepara una pietanza a ritmo di musica (dal Peer Gynt di Edvard Grieg) - e come non pensare a Charlie Chaplin barbiere al ritmo della danza ungherese numero 5 di Johannes Brahms

Young adult

La bassa affluenza in sala mi ha fatto pensare che la mia alta opinione nei confronti di Jason Reitman come regista non sia condivisa da molti connazionali. Ho sbirciato i risultati al botteghino su MyMovies e ho avuto la tragica conferma della mia impressione. Se lavorasse in Italia, temo che non troverebbe un produttore disposto non dico a finanziargli un film, ma nemmeno a perder tempo a sentirlo parlare dei suoi progetti. Per fortuna sua (e anche mia, in quanto spettatore) le cose vanno in modo diverso.

Secondo lavoro in coppia con Diablo Cody (Juno), ma più simile per la materia trattata al precedente Tra le nuvole. Ma anche la sua opera prima, Thank you for smoking, ha da dire la sua, più per un certo sbarazzino cinismo che per il tema. Insomma, la mano del regista si sente, le storie sono interessanti e narrate piacevolmente, anche attraverso una attenta scelta musicale, e il risultato finale è all'altezza delle (mie) aspettative.

Qui si narra di una adulta irrisolta (Charlize Theron, brava in una parte così sgradevole) che, pur sentendosi ancora una ragazzina, si sta avvicinando alla quarantina. Ha lasciato il suo paesino nel nulla del Minnesota per andare a vivere nella grande città (Minneapolis) dove ha raggiunto una sorta di celebrità minore come scrittrice di romanzetti seriali per adolescenti (o, come vuole la catalogazione americana del genere, young adult). Divorziata, vive da sola in un (mostruoso) condominio di lusso in compagnia di un cagnetto petulante. Nel corso del film la vediamo spararsi quantità industriali di superalcolici con una nonchalance tale da connotarla come alcolizzata, anche se nessuno sembra farci caso. Ha un blocco dello scrittore, ma non sembra preoccuparsene molto, fa sesso casuale senza grandi aspettative, viene colpita da una email in cui un suo antico amore (Patrick Wilson) annuncia agli amici la nascita del primo figlio. Un lontano dramma nel suo passato fa scattare qualcosa nella sua mente ottenebrata e decide che lui, in realtà, è innamorato di lei, e non aspetti altro che il suo arrivo per mollare moglie e figlia e scappare con lei a Minneapolis.

La vicenda è dunque il contrasto tra una folle che pensa che il tempo si sia fermato una ventina di anni prima e chi la conosce, per cui il tempo è passato eccome. A mediare questi due poli tra cui non si riesce a creare un dialogo (è come se parlassero lingue diverse - bravi gli attori e il regista a rendere l'incomunicabilità) c'è la figura di un povero disgraziato (Patton Oswalt, ottimo) compagno di scuola della protagonista la cui notorietà è dovuta al fatto di essere stato massacrato di botte da degli imbecilli che odiavano i gay. Doppiamente imbecilli dato che lui non era gay. Oltre al danno la beffa, ora è storpio e tutti pensano che sia omosessuale. Fatto è che la sua situazione di fuori-casta gli fa capire meglio di tutti gli altri quello che sta accadendo, e diventa una sorta di riferimento per la protagonista.

La storia va veloce verso l'annunciata catastrofe ma il finale è molto simile a quello di Tra le nuvole. Anche qui la protagonista non riesce ad affrontare il cambiamento, e vede come soluzione il semplice negare che ci sia un problema, o meglio, ribaltare la frittata e convincersi che siano gli altri ad avercelo.

Appuntamento a Belleville

Dopo aver visto L'illusionista, ho pensato bene di andarmi a recuperare il primo lungometraggio scritto e diretto da Sylvain Chomet, Les Triplettes de Belleville, in inglese The Triplets of Belleville. In italiano il terzetto è inesplicabilmente diventato un appuntamento.

La storia è decisamente sorprendente e spiazzante, narrata con un tono realistico ma includendo dettagli impossibili, surreali, caricaturali. Inizia come un cartone animato anni trenta, un po' Betty Boop, un po' Walt Disney, che ha per protagonista un terzetto che a noi potrebbe ricordare il Trio Lescano, in cui succedono cose folli, tipo un clone di Fred Astaire mangiato vivo dalle sue scarpe. Scopriamo però che stiamo guardando la televisione, a casa di una vecchina e del suo nipotino. Il piccolo tende alla depressione, e lo si può ben capire, visto che tutto quello che gli resta dei genitori è una loro foto in bicicletta. La nonna prova a fargli passare la malinconia regalandogli un cagnolino - scarsi risultati - e poi, scoprendo la sua passione per il pedale, un triciclo.

Passano gli anni, la casetta che era nella campagna è stata fagocitata dalla periferia parigina. Il cagnolino è diventato un cagnone obeso, e il bimbo un giovanotto triste, vagamente somigliante a Fausto Coppi, del quale ha pure una foto con autografo, e che pedala incessantemente, sempre seguito dalla nonna in triciclo e fischietto. Le bizzarre sessioni di allenamento servono per prepararlo al Tour, a cui finalmente partecipa, sempre seguito dalla nonna manager e dal cane, combattendo per riuscire a terminare le tappe. Ma in una terribile salita succede l'incredibile, due individui molto preoccupanti (scopriremo trattasi di scagnozzi della mafia franco-americana) rapiscono lui e altri due ciclisti e li imbarcano su una assurda nave.

Può la nonna arrendersi alla scomparsa del nipote? Investe tutte le sue finanze (un franco) nel noleggio per mezz'ora di un pedalò (il noleggiatore resterà in attesa del suo ritorno per tutto il resto del film) e assieme al fedele segugio parte all'inseguimento che li porterà a Belleville, curiosa metropoli americana che pare una New York stravolta, descritta da uno che non l'abbia mai vista e sia dotato di molta fantasia. E qui l'intreccio si infittisce, il trio del titolo, ora molto invecchiato, rientra in azione, fa comunella con la nonna, che scopre che la french connection organizza un crudele (e folle) giro di scommesse clandestine sulla pelle dei ciclisti rapiti. Dopo rocamboleschi avvenimenti, si giunge alla resa dei conti, i cattivi vengono sconfitti, il bene vince.

Strani i punti di contatto di questo film con The artist, anche questo è francese, ambientato negli USA, quasi-muto, il personaggio principale maschile ha una sola battuta, che è l'ultima del film, e che fa pensare se non sia il caso di rivedere l'intera vicenda sotto un diverso punto di vista.

Simpatica la colonna sonora, che mescola allegramente jazz anni trenta, un po' di classica (Mozart e pochi secondi di Bach nell'esecuzione di Glenn Gould), e persino musica concreta. Le citazioni sono prevalentemente legate al mondo dell'animazione, ma c'è spazio anche per Jacques Tati, che viene anche citato esplicitamente quando il Trio di Belleville si mette a guardare il suo Giorno di festa (divertendosi molto).

La storia è vista prevalentemente dal punto di vista della nonna, ma ogni tanto prende il sopravvento il cane, di cui ci sono narrati anche gli incubi che mostrano un interessante spaccato sulla (immaginaria) psiche canina. Ma forse, come potrebbe suggerire il finale, è il nipote il protagonista, in quanto voce narrante. Anche se la vicenda narrata è così incongrua da far pensare che sia inventata. Potrebbe dunque trattarsi del ricordo distorto della sua gioventù ormai lontana, in cui brandelli di verità, il fedele cane, la nonna che per lui avrebbe attraversato l'oceano in pedalò, si mescolano con fantasie e invenzioni.

E' un film di una ricchezza incredibile, moltissime le scene che meriterebbero di essere ricordate. Il cane che ha un appuntamento fisso con i treni che passano sotto la finestra di casa, e interrompe qualunque cosa stia facendo per andare ad abbaiare al suo passaggio. Vediamo al rallentatore lo scambio di sguardi tra cane e un passeggero (molto canino), e più avanti nel film troveremo la rielaborazione dell'episodio in un sogno del cane. O anche la triste storia di una rana che, pescata da una del trio in un metodo molto poco ortodosso (lancia una bomba a mano, residuato bellico chissà come finito nelle loro mani, nello stagno a due passi dalla loro fatiscente abitazione), bollita con le sue compagne in un pentolone, sfuggita dal piatto, liberata dalla protagonista che la fa uscire dalla finestra, finisce sotto il treno un attimo dopo.

The artist

La scorpacciata di Oscar è stata tale da riportarlo nelle sale, dove è tuttora presente - e quindi permettermi di vederlo e scriverne, sia pure con un solenne ritardo.

Una star del muto (Jean Dujardin) incappa nella tragedia del passaggio al sonoro. Per motivi che riusciranno meno oscuri quando sentiremo l'ultima battuta del film, si rifiuta di fare film parlati, e questo lo porta alla rovina. La sua uscita di scena si incrocia con l'entrata di una nuova stella (Bérénice Bejo). I due si vedono, si piacciono, ma le circostanze, incomprensioni, passi falsi, rigidità caratteriali li allontanano. Oltre al sonoro ci pensa anche la grande depressione a rovinare il protagonista, che si trova solo, avendo licenziato anche il fedele factotum (James Cromwell) per non trascinarlo con sé nel baratro, con l'unica compagnia del suo longevo cagnetto (Uggie). Sfiora la catastrofe, lei lo accoglie e cerca di rimetterlo in pista, ma lui si sente macchiato dalla Grande Colpa della nostra società ipercompetitiva (soprattutto se pensiamo che il film è ambientato negli USA), è un "loser", un perdente, e perdipiù è anche orgoglioso. Dunque preferisce andarsene. Lei però non desiste, riesce a convincerlo che esiste una via d'uscita, e insieme riescono (forse) a percorrerla.

Storia ben scritta e diretta da Michel Hazanavicius, che sfrutta a dovere la tecnica per veicolare il messaggio. Bella la scena dell'incubo, con atmosfere in bilico tra Fellini e Bergman. Funzionale l'uso del tema di Vertigo - La donna che visse due volte (del Maestro Hitchcock, ça va sans dire) nel pre-finale. Piacevole l'alternanza di toni leggeri e drammatici, ottimo il risultato complessivo.

Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans

Il forte pregiudizio negativo che avevo nei confronti di questo film s'è rivelato (almeno parzialmente) ingiustificato. È tutto sommato una visione accettabile, anche Nicolas Cage ne esce bene, soprattutto se paragonato alle cosacce in cui solitamente si ficca con gran gusto. A proposito di paragoni, Il cattivo tenente di Abel Ferrara ha davvero poco a che fare con questo supposto remake. Si tratta in realtà di due storie superficialmente simili sviluppate in modo completamente diverso.

Solita mia parentesi sul titolo originale, questa volta mi lagno del fatto che da The bad lieutenant: Port of call - New Orleans, inspiegabilmente il porto di passaggio sia stato trasformato in una ultima chiamata che non ha riscontro nella trama.

La storia perde la forte tensione filosofico-religiosa e anche la decisa connotazione negativa del protagonista. Questo cattivo tenente non è per niente ossessionato dalla sua vita insulsa, e non si avvita in una serie di balordaggini con un evidente istinto autodistruttivo, ma è un semplice disgraziato qualunque, che si mette nei guai parzialmente per sua immaturità, ma anche un po' per sfortuna. Tanto per dirne una, inizia a consumare stupefacenti per lenire il dolore causatogli da una azione erroneamente considerata eroica, quando invece in realtà stava facendo lo smargiasso con il suo compare (Val Kilmer, ruolo piccolo e molto sotto le righe).

A ben vedere, la vicenda narrata da Werner Herzog è ancora più drammatica di quella originale. Lì il protagonista tocca il fondo dell'abiezione ma almeno nel finale aveva una sorta di redenzione che finiva per dare quel senso alla sua vita che aveva così disperatamente cercato (o rifiutato) prima. Qui invece Cage è un mediocre che alterna azioni positive e negative a casaccio, sembra che non sappia nemmeno lui cosa faccia e perché. E il resto del mondo non è certo meglio di lui, basti dire che la promozione a tenente gli viene conferita per la fraintesa spacconata di cui sopra. Un mondo distratto, amorale, in cui gran parte delle cose capitano per caso.

Il tono della narrazione, invece, è molto meno cupo. Grazie anche alla recitazione di Cage, a tratti eccessiva, ma perfettamente giustificata dal personaggio e dalla sua condizione di tossicodipendente. Alcune scene sono permeate da un umorismo nero che mi hanno fatto pensare ai Coen, anche se Herzog si mantiene sempre ad un livello molto più vicino alla realtà.

Il punto di vista è quasi sempre quello del protagonista ma in una manciata di occasioni scivola via, come se Herzog si distraesse da una vicenda dopotutto non particolarmente interessante per seguire invece un serpente, coccodrilli, iguane. Forse voleva rappresentare in questo modo lo scollamento dalla realtà del protagonista, o forse di tutti noi umani (vedi La sottile linea rossa di Malick).

Tra i personaggi minori spiccano Eva Mendes, prostituta redenta, e Jennifer Coolidge, la mamma di Stifler di American pie, dieci anni dopo - alcolizzata e lasciatasi andare alla rovina, ma anche lei redenta nel finale.

Ah, tutte queste redenzioni non facciano pensare che Herzog si sia rammollito. È tutta una finta. Il film ha un happy ending di una zuccherosità micidiale, ma non finisce lì, ha una coda che scompiglia le carte all'ultima mano.

Paradiso amaro

Titolo non estasiante, a me più che altro fa venire in mente l'aranciata amara, imposto dalla distribuzione italiana a rimpiazzo dell'originale The descendants, i discendenti, evidentemente non considerato abbastanza sexy.

Ripescato in questo weekend grazie al suo Oscar per la sceneggiatura non originale (al regista e coproduttore Alexander Payne, più altri) che gli è valso un supplemento di uscita nei cinema. Oltre a Payne, l'altro nome che conta in questo progetto è George Clooney, protagonista e perno dell'intricata vicenda. Il resto del cast non ha molta rilevanza, spicca Beau Bridges, fratellone di Jeff, e anche lui con un certo sguardo da dude, ma mi pare sia usato al meglio da Payne nello sviluppo della trama.

Interessante l'ambientazione alle Hawaii di tutti i giorni, con qualche capatina veloce in luoghi più all'altezza della fama vacanziera, che sembra una qualunque provincia americana, a parte i tratti somatici prevalenti nella popolazione, ma graziata da un clima particolarmente gradevole.

Il protagonista è colto in un momento cruciale della sua esistenza, e dovrà prendere alcune decisioni fondamentali nel giro delle due ore del film (alcuni giorni di tempo reale). La moglie è in coma a causa di un incidente nautico, procuratosi grazie ad una lunga serie di attività spericolate, le due figlie sono allo sbando, deve decidere la sorte del fondo di cui lui è garante e che possiede una fetta di natura incontaminata nell'arcipelago, e dunque ambita dalla speculazione. Come se non bastasse scopre che la moglie, che trascurava ma di cui era innamorato, lo cornificava con gusto con un venditore di appartamenti (vedi American beauty per un idea del personaggio nell'immaginario collettivo).

Payne gestisce al meglio la situazione, fornendoci un quadro in cui non ci sono situazioni in bianco e nero, ma è invece ricco di sfumature. Bello il personaggio di Clooney, ha pregi e difetti, si rende conto degli errori che ha fatto e, sia pure in un modo un po' pasticciato, riesce alla fine a prendere delle decisioni difficili che, se non faranno felici tutti, sembra che almeno portino un buon equilibrio nel finale.

Notevole che quasi tutti i comprimari abbiano modo, pur nel poco tempo a disposizione, di mostrare la complessità del loro carattere. Non ci sono macchiette (mah, forse l'amico della moglie causa involontaria dell'incidente, ma è una apparizione minuscola, difficile approfondire in pochi secondi), magari bizzarri, come del resto bizzarra è la vita, ma comunque reali.

Hugo Cabret

Preso per la coda, nel senso di ripresa nelle sale in seguito al meritato successo agli Oscar, credo che sia un titolo che varrebbe la pena di vedere in 3D (ma anche in due dimensioni ha reso bene), nel senso che Martin Scorsese ha usato la tecnologia funzionalmente al racconto, e non ce l'ha sparata dentro per moda.

Una nota sugli Oscar, fa piacere e mi sembra molto giusto quello a Ferretti-Lo Schiavo, in particolare per la bella ricostruzione degli Studi Méliès, ragionevole quello agli effetti visuali, non capisco bene il senso di quelli all'editazione e missaggio del sonoro, che non mi ha particolarmente colpito. Anche se devo ammettere che, causa allergia primaverile, un orecchio tappato potrebbe essere la ragione del mio mancato apprezzamento.

Restando in tema musicale, la colonna sonora originale non mi è sembrata un granché, anche se il giudizio complessivo non è negativo grazie alle integrazioni a base di musica del periodo, tra cui un paio di Gnossienne di Erik Satie.

Svariati i temi trattati nelle due ore abbondanti della pellicola, che pure sono filate via senza intoppi. In breve, si tratta del racconto romanzato della vita di uno dei padri del cinema, Georges Méliès (Ben Kingsley), vista dal punto di vista di un ragazzino (Asa Butterfield), solo al mondo dopo la morte del padre (Jude Law). L'ambiente dominante è la stazione ferroviaria parigina in cui l'orfanello vive in bilico tra Copperfield (non il mago) e Senza famiglia, in una perenne schermaglia col capostazione (Sacha Baron Cohen). Altri personaggi rilevanti sono un'altra orfanella (Chloë Grace Moretz), adottata dai Méliès, e un oscuro libraio dal buon cuore (Christopher Lee).

La storia viene raccontata sullo stile delle comiche mute, ci viene anche vedere la classica scena di Harold Lloyd (non il mio favorito del periodo) che resta appeso alle lancette di un orologio, che Hugo citerà più avanti. Il personaggio di Baron Cohen, poliziotto antipatico che tampina il vagabondo, sembra preso di peso dalle comiche di Charlot, con la variante che è lui, e non il vagabondo, a innamorarsi della bella fioraia. Altre citazioni sparse al cinema anche europeo, soprattutto tedesco direi, del periodo.

Una chiave per accedere nei meandri del film ... oh bella, è proprio una chiave, che rappresenta il sentimento e, per renderlo ben chiaro anche allo spettatore più distratto, è proprio a forma di cuore. Del resto anche i meandri del film sono resi con i meandri della stazione, in cui Hugo si muove nel suo invisibile lavoro di cui tutti hanno bisogno ma a cui nessuno fa caso. Un po' troppo pleonastico lo Scorsese, potrebbe chiosare qualcuno, ma direi che l'impostazione del film e la generale distrazione del pubblico cosiddetto adulto, proteggono il regista da questa critica.

La metafora può essere applicata ai film, che vengono dunque visti come macchinari complessi (fuori contesto, ma non ho potuto fare a meno di pensare ad Effetto notte), che devono essere oliati e muoversi con precisione. Ma questo non basta, serve una chiave che li faccia partire. Se manca, anche l'automa più complesso non è altro che un triste ammasso di ferraglie.

Ma la si può applicare anche alle persone. Anche la persona migliore, senza un cuore, non è che poco più di niente.

50 e 50

Ecco un film su cui è praticamente impossibile essere accusati di spoilerare. Già spiegando il titolo si spiega quasi tutto, visto che 50 sono le possibilità che il protagonista (Joseph Gordon-Levitt) sopravviva e 50 quelle che il tumore spinale che lo ha beccato lo faccia fuori. Aggiungiamoci che la sceneggiatura è stata scritta da Will Reiser basandosi, sia pure con molte libertà, sulla propria vicenda personale per arrivare alla conclusione che difficilmente ci potranno essere colpi di scena eclatanti.

Ma non è facile raccontare una storia del genere, e va riconosciuto a Jonathan Levine il merito di aver mantenuto la rotta evitando gli eccessi del dramma o della comicità sguaiata, ottenendo invece una commedia drammatica di buona fattura. Peccato però per il finale un po' troppo caramelloso.

Il punto del film non è dunque tanto su come andrà a finire ma nel come personaggi affrontino la vicenda. Gran parte dell'attenzione, ovviamente, è rivolta al cambiamento nel protagonista. Vagamente depresso all'inizio del film, lascia che le cose succedano senza prendere particolarmente parte e nemmeno la notizia del cancro riesce a scuoterlo più di tanto, solo il giorno prima dell'operazione riuscirà finalmente a scuotersi dal suo torpore.

Anche i comprimari sono raccontati efficacemente. L'amico (Seth Rogen, stesso ruolo nella realtà, e con il regista anche tra i produttori), eccessivo per natura, vede nella malattia una possibile carta aggiuntiva per sedurre pollastrelle o per procurarsi marijuana per scopi terapeutici; alla fine scopriamo quanto ci tenga davvero all'amicizia. La psicoterapeuta a cui viene indirizzato (Anna Kendrick), ha modo di crescere professionalmente (lui è il suo terzo paziente, lei non è ancora laureata e, per dirla tutta, è proprio un disastro) e anche umanamente. Diversa la situazione della madre (Anjelica Huston), presentata inizialmente come soffocante ed eccessiva, che non mi pare cambi molto, è la percezione del figlio nei suoi confronti che cambia. Sarà lui a rendersi conto che ci sono anche altri aspetti in lei che lui ha sbagliato a non considerare. Poco da dire invece sulla fidanzata (Bryce Dallas Howard), già sull'orlo di chiudere la relazione all'inizio del film (anche se lui non capiva), si forza a non mollarlo, date le circostanze, ma finisce per essere incastrata dall'amico (a cui non era mai piaciuta) e finisce per andarsene malvolentieri. Avrà imparato qualcosa da questa storia? Sembra che abbia capito di aver sbagliato, ma non ci è dato saperne di più.

I personaggi minori sono pure tratteggiati con mano felice, a partire dai due compagni di trattamento del protagonista, Matt Frewer e Philip Baker Hall, e il personale dell'ospedale, anche se sono generalmente presentati come professionali ma incapaci di una sostanziale empatia con i pazienti.

Ci sta bene un confronto con Amore e altri rimedi a cui questo titolo mi pare superiore perché evita di disperdersi su troppi fronti.

In time

Scritto, diretto e (co)prodotto da Andrew Niccol. Dovrebbe bastare questo a spiegare le somiglianze soprattutto con Gattaca, per il piglio fantascientifico, ma anche con il più realistico Lord of War, per la critica (anche se un po' confusa, alla Fight club mi verrebbe da dire) nei confronti di Corporate America.

La storia potrebbe essere sorbita seguendo diverse prospettive, nessuna delle quali mi pare però convincente.

Siamo in un imprecisato futuro in cui gli umani sono ingegnerizzati per crescere invecchiare fino a 25 anni e poi restare così indefinitivamente, o meglio, fino a che scade il proprio credito misurato in secondi, che sono diventati la moneta corrente. Protagonista assoluto Justin Timberlake, che regge bene la parte, nei panni di un pezzente che campa alla giornata, letteralmente, in un quartiere ghetto dove tutti sono nella stessa situazione. Date le premesse, tutti i personaggi hanno un'età di 25 anni, o meno, e questo crea simpatiche bizzarrie come avere Olivia Wilde nella parte della madre di Timberlake. Per una serie di curiose circostanze, Timberlake diventa improvvisamente straricco ma (ingiustamente) ai ferri corti con la polizia, con il cattivo (con beneficio del dubbio, personaggio che avrebbe meritato un maggior approfondimento) Cillian Murphy che lo pedina quasi come se fosse un fatto personale (e forse lo è, ma non si capisce bene). Timberlake va nel quartiere straricco, dove diventa ancora più ricco e conosce un super-ricco (Vincent Kartheiser) a cui scippa la figlia (Amanda Seyfried), a questo punto la storia ha una virata brusca e si trasforma in un bizzarro remake di Bonnie and Clyde.

Nota curiosa: buona parte del cast viene da Alpha dog: Timberlake, Wilde, Kartheiser, Seyfried.

Lo spettatore deve accettare un alto grado di inattendibilità della vicenda. Timberlake è povero in canna, sembra che le auto siano cose solo per i ricchi, eppure impara a guidare spericolatamente in pochi secondi. Non ha mai visto il mare, ma nuota come un pesce. Dovremmo essere in un futuro non particolarmente vicino, almeno un secolo in là, eppure si vedono auto che sembrano vecchiotte e riadattate per avere una parvenza futuribile. L'economia sembra praticamente inesistente, eppure l'unico problema sembra la sperequazione nella distribuzione del tempo.

Ma diciamo che Niccol non fosse tanto interessato al versante fantascientifico-distopico e fosse più focalizzato sul messaggio. Mi sembra evidente che il tempo sia usato come metafora del denaro, e dunque si tratterebbe di una critica paragonabile a quella degli "indignati". Anche perché il supercattivo Kartheiser è a capo di una sorta di grande banca del tempo. Già, ma la virata verso il gangster movie non è che sia geniale, in questo contesto.

Ah, a proposito Kartheiser viene spacciato come fan di Darwin, al punto di usare la data di nascita di Charles come combinazione della sua supercassaforte, e di cui distorce il pensiero per affermare che la sopraffazione del più ricco sarebbe giustificata come legge darwiniana della sopravvivenza del più forte. È una evidente fesseria. La sopravvivenza teorizzata da Darwin è quella del più adatto, non del più forte, e il soggetto dell'affermazione non è un individuo ma un suo carattere ereditario. Con la scoperta del DNA le cose sono diventate ancora più chiare ed evidenti. Almeno a chi sia interessato a queste cose. Niccol, purtroppo, pare che non faccia parte del gruppo.

Scarterei dunque la fantascienza. Che si tratti di un film d'azione? C'è qualche inseguimento in macchina, si corre molto (un po' mi ha fatto pensare Lola corre, un po' I guardiani del destino), si sparacchia e ci scappa più di un morto. Per gli appassionati del genere, però, è davvero poca roba.

In poche parole riassumerei il tutto così: lo spunto iniziale è anche interessante, ma lo svolgimento lascia a desiderare.

Fight club

Mia seconda visione per questo film che ha un buon seguito di fan affezionati. Sarà anche per questo che con il passare degli anni avevo finito per crearmi un ricordo indotto migliore di quello che è il mio gusto. Fortunatamente ai tempi avevo segnato su imdb il mio voto, un 7 senza infamia e senza lode, in cui mi riconosco ancora adesso.

La sceneggiatura è basata sul romanzo omonimo di Chuck Palahniuk, già abbastanza confuso, ma che viene resa con un ancor minor focalizzazione su un tema.

Il romanzo è una sorta di tragicommedia che narra la confusione che sfocia nella follia del protagonista. Potrebbe essere visto come una critica radicale al nostro sistema economico turbo-consumista, resa amara dal fatto che non si riesce a proporre una valida alternativa al sistema.

La regia di David Fincher è piacevole, ma non mi pare faccia un favore al romanzo, sottolineando gli aspetti macho e rendendo ancora meno chiara l'impostazione tragicamente disperata della vicenda. Il finale, poi, diventa nel film una sorta di bizzarro lieto fine romantico in cui il protagonista pare che riesca a trovare un improbabile equilibrio emotivo e relazionale.

Nel film il ruolo del protagonista va a Edward Norton, adeguato nel rendere un personaggio di una mediocrità tra il comico e il drammatico. Ha un lavoro spiacevole che però non riesce a lasciare, cerca sfogo in un becero consumismo, rappresentato da una fissazione per il catalogo IKEA, ma questo non gli basta, e subisce la ribellione del suo corpo che gli infligge un'insonnia da cui non riesce a liberarsi.

Fa alcuni incontri, uno povero disgraziato ex-wrestler con cancro ai testicoli (Meat Loaf, un habitué dei ruoli estremi, vedasi The Rocky Horror Picture Show); una mezza pazza (Helena Bonham Carter, anche lei a suo agio con questi personaggi) da cui è contemporaneamente attratto e repulso; e uno sciroccato bello e dannato (Brad Pitt, non c'è niente da dire, il casting è davvero ottimale). I due, Norton e Pitt, diventano amiconi, fondano il fight club del titolo, in cui loro e altri sbandati fanno una sorta di autoanalisi che funziona a cazzottoni. Pitt ha una relazione di puro sesso con la Bonham Carter, Norton è contemporaneamente geloso e disgustato da ciò, nota che curiosamente non riesce mai ad essere nella stessa stanza con gli altri due vertici di questo strano triangolo, ma non ci dà poi un gran peso. Finché non capisce di essere matto come un cavallo.

Nel frattempo il Fight club si trasforma del Progetto Mayhem, una cospirazione autodistruttiva che vorrebbe colpire il sistema esistente per costruire qualcosa di nuovo, che finisce per delinearsi come qualcosa persino peggiore di quello che abbiamo adesso, una sorta di cieca dittatura carismatica in cui bisogna solo credere, obbedire, combattere.

Entra in ballo anche Jared Leto (personaggio poco significativo) che si applica con gioia alle finalità nichiliste autodistruttive del progetto, ottenendo in cambio l'approvazione di Pitt. Scintilla finale, una demente azione dei teppisti porta alla morte di Meat Loaf. Norton perde la persona più simile ad un amico che abbia mai avuto, è geloso della relazione tra la Bohnam Carter e Pitt, ma forse pure di quella tra Pitt e Leto, con possibile tensione omosessuale, e il piano Mayhem gli pare sempre più idiota. Si arriva dunque alla resa dei conti: Norton vs. Pitt.

Mi vien da credere che il successo del film sia dovuto quasi esclusivamente alle scazzottate e agli atti di bizzarro teppismo della insensata società segreta. E direi purtroppo, perché di spunti interessanti ce ne sarebbero pure.