Knockout - Resa dei conti

Storia poco originale, alla Hanna, per restare sul recente, ma reinterpretata in salsa direi quasi hitchcockiana (almeno a tratti) da Steven Soderbergh con un cast sorprendente. Il risultato mi pare inferiore alle potenzialità espresse anche se non saprei bene dire cos'è che mi ha convinto di meno. Forse una scarsa amalgama degli ingredienti.

Una gentil fanciulla (Gina Carano) ha un appuntamento in un bar trattoria (beh, lì non li chiamano certo così) nell'upstate newyorkerse con un tale (Channing Tatum) che la invita a salire in macchina. Lei non vuole, lui cerca di convincerla, segue scazzottata e sparatoria che lascia capire il carattere di lei.

Rapisce un tale, con il solo apparente scopo di avere un pretesto per raccontare in flash back quanto ci serve sapere, e insieme se ne vanno verso la seconda metà del film.

Ma prima il flashback. Di lavoro la nostra eroina è una contrattista, nel senso che il suo ex (Ewan McGregor) la manda in giro per il mondo con altri tipacci a fare lavori sporchi per conto del governo. In quel caso, il governativo era Michael Douglas, che ha messo in contatto il committente (Antonio Banderas) con l'agenzia per un lavoretto in Spagna.

Missione risolta, tutti a casa. Ma il capo la ricontatta per un extra, una puntata a Dublino dove dovrà fare da spalla ad un altro contractor (Michael Fassbender). Non ci sarebbe bisogno di una super-agente come lei, ma il cliente insiste. In realtà si tratta di una trappola, Fassbender (illuso) dovrebbe non solo ucciderla, ma anche farle perdere la reputazione. Giusto per aggiungere un nome, nel complotto entra anche Mathieu Kassovitz.

Fine del flashback, seconda parte in cui lei randella tutti quanti fino a che non scopre cosa è successo davvero e perché.

La Carano al centro di un cast che include i nomi sopra citati fa un po' impressione, ma tant'è. È certamente una attrice adatta al ruolo, anche se non ho capito bene se l'espressività limitata è un suo limite o il risultato dell'immedesimazione richiesta.

Che Soderbergh alla regia ci sappia fare non è certo una grande scoperta, bello l'uso della colonna sonora, non mi hanno particolarmente interessato le scene di lotta, ma direi che sono fatte decentemente.

Detachment - Il distacco

Il distacco è l'atteggiamento che il protagonista (Adrien Brody) mantiene nei confronti di chiunque. Un po' come in Shame anche lui si comporta così per difendersi dal ricordo di una infanzia infelice, ma in questo caso non usa una qualche dipendenza per affogare il male di vivere, bensì si dedica ad una causa persa: insegnare.

Già, perché la tesi della sceneggiatura (Carl Lund) è che insegnare alle superiori nella scuola pubblica americana è una nobile attività destinata al fallimento. La mancanza di fondi, di credibilità, di interesse da parte di studenti, genitori, dalla società stessa, finisce per scoraggiare anche quegli insegnanti che vorrebbero almeno provarci. Vediamo la preside (Marcia Gay Harden) che viene fatta fuori dall'amministrazione, perché non in linea con le moderne direttive (che vedono le scuole come un sistema produttivo finalizzato alla valorizzazione economica della zona), insegnanti che reggono a fatica la pressione di un ambiente percepito come ostile (tra i molti, c'è anche una sorprendente Lucy Liu), e rari insegnanti che usano un loro approccio molto personale alla faccenda (James Caan che mi fa sempre piacere incontrare a sorpresa in qualche pellicola).

La critica all'approccio americano all'insegnamento resta sullo sfondo, mentre seguiamo la vicenda del nostro uomo, che vuole fare qualcosa, ma senza immischiarsi troppo. Insegna sì, e si dimostra capace, ma solo come supplente. Non se la sente di prendersi la responsabilità di essere un insegnante permanente. Stabilisce un rapporto efficace con gli alunni, che alla fine gli riconosceranno il valore del suo lavoro, ma non riesce a entrare in relazione con quella che avrebbe avuto più bisogno di aiuto.

Stesso atteggiamento titubante nei confronti del nonno, unico legame familiare che gli è restato. È in un ricovero, probabilmente con l'Alzheimer, certamente con poco da vivere. Da un lato lo visita costantemente, dall'altro si comporta rudemente quando un'infermiera lo chiama per avere il suo supporto. Scopriremo poi che è proprio il nonno all'origine del suo problema.

Terzo fronte, incontra una giovanissima prostituta (Sami Gayle) già all'ultimo stadio. La aiuta, riesce a tirarla via dalla strada, ma anche con lei cerca comunque di mantenere un distacco.

Il finale sembra catastrofico, l'insegnante chiude tutte le relazioni, per mantenere il suo distacco, ma una studente riesce a fargli capire che il suo comportamento lo rende una non-persona che occupa un non-posto. Un insegnante senza faccia in un'aula vuota. Forse si salverà.

La regia (Tony Kaye) mescola un approccio documentaristico, con un taglio alla film verità (La classe di Cantet non è lontana) e con inserti animati che alleggeriscono la trattazione.

Scott Pilgrim vs. the World

Molto post-moderno, nel senso che si tratta di un film basato su una recente serie di fumetti, progettata per essere una specie di risposta canadese ai manga. I riferimenti culturali della graphic story sono quelli della pac-man generation, roba anni ottanta. In contemporanea al film, è anche uscito un videogioco, il che direi che chiude il ciclo.

Non ho letto il fumetto, non ho giocato con il videogame, qui mi limito a parlare del film.

Credo che il pubblico di riferimento a cui hanno pensato Edgar Wright e Michael Bacall (regia e sceneggiatura) sia quello dei minorenni, dati i modelli espressivi utilizzati, che mi ricordano i programmi del Disney Channel. Anche se non sono state risparmiate strizzate d'occhio ad un pubblico più cresciutello.

Inizio divertente, con il logo Universal e la relativa musica digitalizzati a bassa qualità. Si viene poi sparati direttamente nella storia che viene data largamente per scontata, e che ho seguito con una certa fatica, nonostante i pop-up che introducono i personaggi, che poi è quella di un ragazzetto nella prima ventina (Michael Cera) la cui vita consta principalmente di prove musicali con la sua band in cui suona il basso e con cui spera in un radioso futuro. Ha avuto una vita sentimentale tendente all'inconsistente, mollando (ed essendo mollato da) ragazze senza reali motivi, al momento ha una relazione platonica con una minorenne. In linea con il personaggio, vede una ragazza bizzarra (Mary Elizabeth Winstead) e decide di provarci anche con lei.

Ma lei è una tipa decisamente anticonvenzionale, e dal passato turbolento. Se vuole uscire con lei dovrà meritarsela battendo i suoi terribili sette ex, dotati di strabilianti poteri. E qui si entra nella modalità videogioco a livelli, con tanto di vita aggiuntiva. L'eroe è coinvolto in una serie di incongrui combattimenti con improbabili personaggi che dovrà sconfiggere trovandone il punto debole.

Potrei fare un ardito parallelo tra una scena di Scott Pilgrim e una di Natural born killer, ma a pensarci meglio non mi sembra il caso.

Shame

Che poi a ben vedere è la solita storia di un tossico newyorkese che scopre che la sua dipendenza gli ha mangiato la vita. Una sorta di Requiem for a dream, insomma.

Qui però saltiamo tutta la fase in cui il tossico è felice di farsi, e partiamo già dalla situazione in cui il soggetto (Michael Fassbender) è costretto ad assumere la sua dose semplicemente per tirare avanti. Inoltre la dipendenza non è da alcoolici (per quello vedi I giorni del vino e delle rose o Young adult) o cocaina (anche se vediamo una volta, quasi per inciso, che il protagonista se la spara su per il naso e dunque possiamo assumere che sia una cosa che fa spesso) ma da sesso.

'sto figaccione newyorkese (ma la sceneggiatura astutamente ci fa sapere che è nato in Irlanda, così da rendere credibile Fassbender anche a livello di pronuncia) consuma sesso come fosse una droga. Non farebbe fatica a procurarsi donne, data la presenza fisica, l'agiatezza economica derivantegli da un lavoro intenzionalmente indeterminato, e la capacità seduttiva. Ma tendenzialmente se ne frega. Se gli capita una occasione, la sfrutta, altrimenti rimedia in altro modo, con prostitute, pornografia di ogni genere, sesso virtuale su internet. Pur essendo evidentemente attratto dal sesso opposto, se la circostanza lo guida in quella direzione, gli va bene pure un incontro omosessuale.

Questo quadro desolante è perturbato da due donne, la sorella (Carey Mulligan) e una possibile relazione sentimentale (Nicole Beharie).

Anche la sorella ha notevoli problemi relazionali, si accenna che la loro infanzia deve essere stata terribile, ma ha preso una via diversa dal fratello. Lui toglie ogni sentimento dal sesso, riducendolo a mero esercizio fisico finalizzato alla produzione di endorfine, lei, invece, investe sentimentalmente in ogni incontro, ottenendo una serie infinita di delusioni. Lei gli piomba in casa, praticamente costringendolo ad ospitarla, e i due (ri)cominciano a beccarsi, come devono aver fatto per tutta la loro vita. Però quando in metropolita, aspettando il treno si guardano negli occhi e poi si abbracciano, si vede che si vogliono davvero bene.

L'altra "lei" è una collega, i due si danno appuntamento per una cena al ristorante, e passano una serata normale. Niente sesso, solo chiacchiere. Come persone normali. Evidentemente stanno bene assieme, potrebbe essere per lui il biglietto di uscita dalla dipendenza.

La scoperta che una vera relazione offre stimoli ben maggiori della pornografia, e la vergogna (shame) di essere casualmente visto dalla sorella mentre è dedito ai suoi trastulli, lo spingono (a) ad allontanare la sorella e (b) a distruggere la sua imponente raccolta di materiale di conforto per i momenti cupi.

Il giorno dopo porta la collega nel suo pied-à-terre e i due si danno da fare. Ma, orrore, lui scopre di non "funzionare". Il sesso reale non lo eccita più, la situazione non è tale da stimolarlo. Se ne dispera, ma non ha il coraggio di spiegare la situazione a lei, preferisce tornare a usare prostitute, e mettersi in situazioni sempre più pericolose, in una spirale evidentemente autodistruttiva. Ormai il sesso non solo non lo soddisfa, ma anzi, lo vediamo nel momento del coito ed è come vedere l'immagine della disperazione.

Il finale è ormai dietro l'angolo, potrebbe essere una tragedia, ma se avrà la forza di ammettere la sua debolezza, potrebbe ancora cavarsela.

Come il precedente Hunger, Steve McQueen (regia e sceneggiatura) punta quasi tutta la posta su Fassbender, affidandogli un ruolo impervio, che però questi interpreta in modo eccellente. Là il protagonista distruggeva scientemente il suo corpo, essendo quello l'unico modo rimastogli per proclamare la sua libertà, costretto com'era in un carcere di massima sicurezza. Qui avviene l'opposto. Avrebbe tutta la libertà immaginabile, bello, (sufficientemente) ricco, a New York. Ma non sa cosa farsene.

Bella la colonna sonora, e funzionale al carattere dei protagonisti. Include una struggente versione di New York, New York cantata dalla Mulligan, tanto Bach al piano (via Glenn Gould), una spruzzata di jazz (c'è anche My favorite things di Coltrane, quando arrivano nel club dove canta la sorella) e un po' di disco.

Indiscreto

Cary Grant e Ingrid Bergman, dunque Notorius! E invece no, Indiscreto. Dodici anni dopo, e con la regia di Stanley Donen, pur sempre valida ma lontana anni luce dall'Hitch.

I due protagonisti sono sfolgoranti, la storia originale ha battute appuntite, alcune anche feroci, in linea con il genere della commedia sofisticata, ma qualcosa non funziona nella messa in scena cinematografica. Forse è tutta una questione di ritmo. Tempi lunghi che potrebbero essere tagliati all'inizio, tempi troppo stretti nel finale.

Siamo a Londra, la Bergman interpreta una grande attrice teatrale non più giovanissima che vorrebbe un uomo al suo fianco, ma non ne riesce a trovare all'altezza. Caso vuole che inciampi in Grant, americano di San Francisco, genio della finanza (non quella creativa dei nostri giorni, quella governativa del dopoguerra), di passaggio a Londra. I due si piacciono, ma c'è l'impiccio, una moglie lontana, una separazione ma nessuna possibilità di divorzio. Ma si sa gli artisti come sono, lei decide che lui gli va bene anche così, e intraprendono una relazione molto upper class. Lui accetta un lavoro per la NATO a Parigi, lei recita a Londra, e stanno assieme nei fine settimana.

Tutto filerebbe liscio se non accadesse che lui è richiesto per una missione di alcuni mesi a New York. I viaggi aerei intercontinentali non sono così praticabili come la tratta Parigi-Londra, e le cose si complicano. Anche perché si scopre che lui non è veramente sposato, la moglie inesistente è solo uno schermo per semplificargli la vita, invece di dire che non si vuole sposare (e non essere creduto) dice di essere già sposato.

Il nodo viene al pettine, e causa la tipica complicazione da commedia romantica, lei gli rende la pariglia, proprio mentre lui aveva escogitato una via d'uscita onorevole alla sua menzogna originale. Conseguenza catastrofica ma, visto che si tratta di una commedia, le cose si aggiustano. Purtroppo lo fanno in un battibaleno, senza lasciare il tempo di assaporare il ribaltamento di toni.

The tree of life

La storia è quella di un signore di mezza età (Sean Penn) che, circa ai nostri giorni, ha un litigio telefonico con suo padre (Brad Pitt) a proposito della morte del fratello avvenuta alcuni decenni prima. Questo scatena una lunga serie di frammentari ricordi della sua infanzia, con particolare riferimento alla sua relazione con i genitori (Jessica Chastain è la madre), che vengono mescolati (e confrontati?) con la storia dell'universo e in particolare con quella della vita sulla Terra.

Sembra che alla fine il meditabondo protagonista si riconcili con il proprio passato, o meglio, aneli alla riconciliazione che immagina avverrà dopo la sua morte.

Lo stile narrativo della sceneggiatura e regia (Terrence Malick) mi hanno fatto pensare al tempo in cui si imputava al cinema europeo di scoraggiare intenzionalmente lo spettatore. La differenza è che Malick ha avuto a sua disposizione un budget sontuoso, almeno se lo confrontiamo al cinema d'autore europeo degli anni 70/80, che gli ha permesso tra l'altro di visualizzare la sottotrama universale con effetti speciali alla Odissea nello spazio.

Tecnicamente impeccabile, bellissima la fotografia, funzionale il montaggio, ottima l'integrazione con la colonna sonora, affidata ad Alexandre Desplat e che usa in modo ammirabile brani che spaziano da Bach al contemporaneo.

Il solista

In Tropic Thunder Robert Downey Jr. spiega a Ben Stiller come mai un film come The soloist non è un film da Oscar. La produzione deve averlo preso sul serio, e dunque ne ha spostato l'uscita dal periodo canonico per lavori di questo genere (gli ultimi mesi dell'anno) alla primavera dell'anno successivo, causandone un bel flop commerciale.

Cos'ha dunque che non va, secondo i canoni commerciali americani, questo film?

La storia è quella di un giornalista del LA Times (lo stesso Downey Jr.) alla ricerca di pezzi di colore per la sua colonna in prima pagina. Si imbatte in un barbone (Jamie Foxx) che gli pare adatto ai suoi scopi. Suona un vecchio violino scassato, sembra fuori di testa, ma pare che abbia frequentato una prestigiosa accademia musicale. Per rientrare nelle aspettative dell'Academy, si diceva in Tropic Thunder, il barbone avrebbe dovuto essere un genio della musica, conciliare la sua schizofrenia (o quello che è) con il mondo "normale", e magari prendersi un Nobel, come Nash in A beautiful mind (che è un film altrettanto interessante, ma non è questo il punto).

Qui invece le cose vanno in modo diverso, il barbone resta barbone, e forse la sua vittoria più significativa è di riuscire a tollerare di dormire in un appartamento, invece di farlo per strada.

Ma la vera storia narrata non è quella del barbone, ma del giornalista. Infatti per gran parte del tempo noi seguiamo la soggettiva di quest'ultimo, e di lui ci vengono raccontati i cambiamenti.

Per il giornalista, il barbone musicista sarebbe stato solo un pezzo sul giornale, come mille altri, se non fosse successo che una lettrice, colpita dalla lettura, non gli avesse spedito il proprio violoncello da donare. Nello sviluppo imprevisto vede la possibilità di un nuovo pezzo, ma quando lo sente suonare, Beethoven fa la magia.

Il giornalista ora vuole aiutare il musicista. Non si capacita della sua malattia, pensa che basti dargli qualche medicina per renderlo meno scontroso, e che lui possa tornare più o meno "normale". Ma non funziona così. Ci metterà molto tempo per capirlo, ma alla fine riuscirà a comprendere che il rapporto tra i due è un rapporto tra pari, diversi, ma con la stessa rispettabilità.

Una idea duretta da digerire per molti, perché sottintende l'accettazione del principio che non esista una "normalità" standard che tutti devono raggiungere, la realtà sono molto più complicate.

Del resto il giornalista, che si considera "normale", non è che sia in una situazione particolarmente felice. Anzi, è infelicemente divorziato, la ex-moglie (Catherine Keener) è una sua collega, ha difficoltà a interagire con la gente rifiutando ad assumersi responsabilità che lui reputa eccessive. Sarà proprio la relazione con chi pensava di aiutare ad aiutare lui.

La regia di Joe Wright mi pare ottima. Bella, ad esempio, la scena che rende l'effetto della musica suonata dal barbone sul giornalista lasciando che la camera si allontani dai due per seguire il volo di uccelli. Wright è come sempre abile a far entrare la musica nell'azione (si veda ad esempio Espiazione) a maggior ragione qui, dove seguiamo la storia di un musicista.

Bravi un po' tutti nel cast, soprattutto il solito Downey Jr, ma anche Foxx, la Keener e anche i ruoli al contorno, incluso Tom Hollander (che con Wright pare si trovi bene).

Lo strumento favorito dal protagonista rimanda a Hilary and Jackie, film che narra la tristissima vicenda della Du Pré, che del resto viene citata assieme a Yo-Yo Ma.

Il film sarebbe basato su una vicenda reale, il giornalista è Steve Lopez, ma (evviva!) i fatti sono stati scientemente stravolti non per renderli più appetibili alla narrazione standard ma per rendere più lineare l'assunto della sceneggiatura. Dunque si è trasformato Lopez in un divorziato che pure vive in contatto continuo con la ex moglie per mostrare la bizzarria di un cosiddetto individuo "normale" (il vero Lopez era, e credo che continui ad essere, tranquillamente sposato). Inoltre si è cambiato lo strumento di Nathaniel Ayers (il musicista) dal contrabbasso ad un più popolare violoncello.

Machete

Avevo già sentito di cortometraggi cresciuti fino a diventare lungometraggi, ma per me è la prima volta che un trailer di film inesistente (era in Grindhouse) subisce l'incredibile trasformazione. Responsabile principale della faccenda Robert Rodriguez, che pare abbia rimuginato sulla storia di questo personaggio in bilico tra il leggendario e il ridicolo per una quindicina d'anni, prima di metterla in scena.

Girata come se fosse una (pessima) pellicola anni settanta, combina in sé tematiche, ingenuità, svarioni, di svariati generi in voga nel periodo, rimescolandoli in una maniera che mi è risultata indigesta.

Il protagonista eponimo (Danny Trejo) è un federale messicano che cade in una trappola del suo arcinemico, un narcotrafficante imbolsito (Steven Seagal) che non ha un gran rispetto per la vita, e infatti gli ammazza moglie e figlia, anche se è così distratto da pensare da mancare di completare l'opera. Infatti questo è solo il prologo, e dopo i titoli di testa, e alcuni anni, ritroviamo Machete sano e salvo ma dall'altra parte del confine. Una affascinante poliziotta (Jessica Alba) dell'immigrazione USA dal nome preoccupante (Sartana) lo tiene sott'occhio, come pure una procace venditrice nachos (Michelle Rodriguez) che si scoprirà essere a capo di una organizzazione che aiuta i clandestini, sotto il nome di battaglia di She (ogni riferimento al Che sembra troppo grossolano per essere vero, dunque forse lo è).

È pure tempo di elezioni, e il senatore in carica (Robert De Niro, sprecato come al solito) ha posizioni ferocemente anti-immigrati, al punto di coltivare l'hobby di prenderli a schioppettate nottetempo in compagnia di una banda di esaltati capitanati niente meno che da Don Johnson. Il braccio destro del senatore (Jeff Fahey), che ha una figlia tossica e molto disinibita (Lindsay Lohan) e una moglie non da meno, ed è pure in affari con il narco arcinemico del Machete, ha una idea geniale per far risalire i sondaggi del suo capo, prendere un fesso a caso, ovvero il Machete, pagarlo per sparare al senatore, e ucciderlo prima che possa eseguire il compito.

Machete rimane solo ferito, medita vendetta e chiede aiuto al fratello prete (Cheech Marin). D'altra parte i cattivi chiedono aiuto ad un superkiller a pagamento (Tom Savini), con tanto di filmato promozionale. La matassa si sbroglia con l'aiuto di carneficina finale.

Ce n'è un po' per tutti i gusti, mi sembra molto citato il cinema italiano a basso costo del periodo, horror, soft-porno, spaghetti-western, mescolato con riferimenti molto più americani ai film da giustiziere alla Bronson, e perfino i film politici dalla parte degli immigrati.

Alcune scene mi hanno fatto ridere, ma, per quanto intenzionali, l'eccesso di truculenza e la sciatteria generalizzata (sceneggiatura, regia, recitazione) alla lunga mi hanno dato fastidio.

Billy Elliot

Un minatore inglese (Gary Lewis) è nel punto più basso della sua vita. La moglie è morta da poco, lasciandolo con due figli e una suocera tendente al rimbambimento. Anche il lavoro non aiuta, siamo nel bel mezzo del tremendo braccio di ferro tra la sua categoria e la Thatcher. Cosa può accadere di peggio?

Ad esempio potrebbe scoprire che il figlio minore (Jamie Bell), un ragazzino di undici anni è gay. E si sbaglierebbe, visto che più altro è disinteressato al sesso, ma è più attratto dalla danza che dal pugilato. Ma questo, nel suo ambiente, non è che sia considerato un buon segno.

Sia detto per inciso, a mio parere Billy sarebbe potuto diventare un ottimo pugile, visto che in realtà boxe e danza hanno molto in comune. Ma come spesso accade, nella vita il caso conta parecchio. Se Billy avesse incontrato un istruttore pugilistico più sgamato, invece di una istruttrice di danza classica (Julie Walters, più nota come la madre di tutti i Weasley nella saga di Harry Potter) dall'occhio attento, avrebbe avuto una vita diversa.

Seguono le immaginabili traversie e solo nella seconda parte avanzata del film il padre riuscirà a capire il figlio e, come vedremo nella scena finale, giusto per un secondo, persino ad apprezzare la danza classica.

In realtà la vicenda è narrata seguendo il punto di vista di Billy, ma in questa seconda visione mi è piaciuto seguire con maggior interesse l'avventura del padre che, a ben vedere, ha molto da raccontare. Più in ombra il fratello maggiore, che pure avrebbe anche lui qualcosa da dire.

Bella la colonna sonora, basata principalmente su pezzi dei T-Rex, con il bonus di London Calling dei Clash a commentare degnamente uno scontro tra polizia e scioperanti.

Mi sarebbe piaciuto piazzar qui la scena in cui Billy balla su Town called Malice dei Jam ma non si può. Però si può seguire il link e vedersela su you tube.

È il primo lungometraggio di Stephen Daldry, ottimo regista ma non particolarmente produttivo, visto che il recente Molto forte, incredibilmente vicino è solamente il suo quarto titolo. Gegio mi faceva notare come il tono leggero di questo primo lavoro si discosti dall'approccio dei successivi The hours e The reader. Innegabile. Però nell'ultimo Molto forte (...) viene recuperato sia la visuale "minorile" sia una levità da commedia, anche se lì è innestata su un racconto decisamente più drammatico. Starebbero bene in un double-bill.

Crossing over

Film corale ad incastro, alla America oggi, Magnolia, Bobby, Traffic (eccetera). Il tema di fondo è di quelli molto spinosi, capaci di generare problemi un po' a tutti i livelli, e infatti leggo che il regista-sceneggiatore (Wayne Kramer) c'è rimasto molto male quando la produzione (Weinstein) gli ha tagliato 20 minuti del film, con conseguente sparizione dell'intera parte di Sean Penn. In teoria Kramer avrebbe avuto il diritto di approvare il montaggio finale, ma pare che sia stato messo di fronte all'alternativa di avere il film come lo voleva lui, distribuito direttamente su DVD, o la versione amputata ma con la distribuzione in sala.

Pur smussato nei toni, il film ha dato fastidio a molti, mostrando l'idiozia del sistema di regolamentazione degli accessi negli USA. Il personaggio chiave che lega le varie vicende è quello di Harrison Ford, un agente del reparto di polizia che si occupa della faccenda. Tendenzialmente sarebbe una brava persona, e cerca di trattare con umanità gli immigrati clandestini che gli capitano, ma sotto la pressione dei colleghi, finisce per non aiutare una messicana, cosa che gli peserà per il resto del film.

Ma non sono solo i messicani a subire le sciocche leggi che limitano la libertà di movimento negli USA, e così seguiamo anche la vicenda di una attricetta australiana (in realtà la londinese Alice Eve) e di un cantante inglese (Jim Sturgess). Per ottenere il permesso di residenza lei si prostituisce, lui si finge religioso ebraico.

Mettiamoci poi anche la paranoia post undici settembre, e otteniamo anche il bel risultato di una famiglia smembrata per timore che una ragazzina possa darsi al terrorismo.

Ladri di cadaveri - Burke & Hare

Una delle non molte occasioni per vedere Andy Serkis recitare con la sua faccia. È anche la prima regia cinematografica del nuovo millennio per John Landis (mica paglia). Co-protagonista Simon Pegg, una parte minore per Tom Wilkinson e tante facce note (inglesi) in piccoli ruoli, incluso un cameo di Christopher Lee.

Però come sceneggiatura si sarebbe potuto far di meglio. Tutto scorre senza intoppi ma anche senza grandi emozioni. La parte migliore mi è sembrata il finale, così che mi è venuto da pensare che, chissà, rimontando il materiale, iniziando con gli arresti, e poi tornando indietro con un lungo flashback, magari si otterrebbe un effetto diverso.

Come avverte la scritta iniziale, si tratta di una storia vera, tranne le parti che sono state inventate, che fortunatamente devono essere state numerose. Si narra dei due imbroglioncelli citati nel titolo che trovano un modo per sbarcare il lunario, vendere cadaveri alle scuole di medicina. Queste ultime fiorivano nell'Edimburgo ottocentesca, al punto da creare una scarsità di prodotto. La necessità aguzza l'ingegno, e i due decidono di procurarsi materiale aggiuntivo forzando gli avvenimenti.

La storia è in realtà un pretesto per prendere in giro i meccanismi del capitalismo. Persino l'omicidio è accettabile, ma solo se eseguito nelle giuste forme.

Ponyo sulla scogliera

In genere le animazioni di Hayao Miyazaki cozzano maggiormente contro lo stereotipo che vuole questo mezzo espressivo diretto principalmente ad un pubblico molto giovanile.

In questo caso, invece, la storia è (quasi) quella di un classico cartone animato. I due protagonisti, Ponyo e Sosuke, sono bambini. C'è una certa somiglianza con la vicenda della sirenetta, non ci sono morti, cade una sola goccia di sangue, anche i danni causati da un terribile uragano non sembrano sostanziali. Anche il tipico conflitto tra diverse forze è qui più sfumato del solito.

Dal punto di vista della sceneggiatura (sempre di Miyazaki) mi sembra dunque che questa produzione dello Studio Ghibli sia stata addomesticata, forse per renderla più accettabile a tutti.

Invece non ci sono limitazioni sulla fantasia e sulla sua rappresentazione grafica. In particolare sono stato colpito dalla ricchezza e vivacità dei colori usati. Una vera festa per gli occhi.

Semplicemente incredibile la sequenza iniziale, di cui preferisco non dir nulla, per lasciare il piacere, a chi non avesse ancora visto il film, di farsi sorprendere dalle immagini.

La storia è quella di una bizzarra giovane sirenetta, somigliante ad un pesciolino rosso con faccia umana, che incontra un bambino umano e decide che il suo futuro sarà con lui. La storia è ostacolata dal padre, un umano che, un po' come il Nemo di Verne, ha preferito il mare al genere umano. L'unione tra i due giovani è vista da lui come uno sbilanciamento delle forze, che come tale non può che portare a catastrofi.

La madre di Ponyo, come spesso accade alle donne nei film di Miyazaki, ne sa di più, e riesce a trovare una soluzione alternativa.

Questo canovaccio piuttosto standard è arricchito da dettagli e variazioni tali da renderlo sorprendente come una storia mai sentita.

La principessa Mononoke

Vista in inglese (Princess Mononoke), dove Billy Bob Thornton dà voce a Jigo (un importante personaggio secondario, che inizialmente si presenta come monaco).

Magistrale regia del solito Hayao Miyazaki. Storia complicatissima (sempre di Miyazaki) su cui mi permetto di dire poche parole più avanti. Stupenda fotografia, e prima di vedere prodotti Studio Ghibli non avevo mai pensato che si potesse dire qualcosa del genere per le animazioni, e ottima integrazione con la colonna sonora. Punto debole, il doppiaggio. Alcune voci mi sono sembrate poco in parte.

Solita ambientazione in un mondo parallelo, qui siamo alla fine del medioevo giapponese, dove però incontriamo animali giganteschi con caratteristiche più o meno divine, e nessuno se ne sorprende più di tanto. Il principe di una comunità periferica uccide un demoniaco cinghiale prima che questo distrugga il suo villaggio, ma viene ferito e gli viene passata la maledizione originale. Parte, dunque, con la remota speranza di trovare una cura. Dopo alcune vicende, arriva in una città-stato dominata da una tipetta molto determinata, che ha un rapporto conflittuale con la principessa Mononoke, nata donna ma adottata dai lupi, e che ha finito per rinnegare la sua natura umana, vista la propensione distruttiva della sua razza. Il nostro protagonista dovrà cercare di ribilanciare la situazione.

Le scene di guerra mi hanno fatto pensare ad Akira Kurosawa, alcune atmosfere del bosco e della città semi-industriale al Signore degli anelli. Ma l'aria generale è quella tipica di casa Ghibli, vedi ad esempio i buffi (ma un po' inquietanti) spiriti del bosco.

21 Jump Street

Basato su una serie televisiva a me del tutto ignota ma che ha avuto tra i sui protagonisti Johnny Depp, dando così lo spunto per una sua rapida apparizione nel finale.

La versione cinematografica è un buddy movie che studia il rapporto tra due personaggi molto diversi, interpretati da Jonah Hill, che ha anche partecipato alla scrittura e alla produzione, e Channing Tatum. Il prologo è un gioiello di concisione, in cinque minuti ci viene spiegato il carattere dei due, uno studioso imbranato e un figaccione poco sveglio, ci vengono mostrati contrapposti all'ultimo anno delle superiori, e come poi il caso faccia sì che si ritrovino in polizia, riuscendo a superare la selezione aiutandosi a vicenda.

I due colleghi/quasi amici sono attorno ai trent'anni, nonostante questo vengono mandati in un reparto speciale che infiltra poliziotti sotto copertura nelle scuole superiori per combattere lo spaccio di droga. Tutto ciò è ridicolo ma comune nei film di questo genere, e non da oggi. Basti pensare a Grease. Qui almeno c'è una certa consapevolezza di quanto sia assurdo, e alcune battute usano per l'appunto l'improbabilità del presupposto. Stessa autoconsapevolezza che è usata per dileggiare le sceneggiature che riciclano vecchie idee. L'intreccio viene movimentato sfruttando l'imbranataggine dei protagonisti, che riescono a sovvertire il semplicissimo piano progettato dal loro capo (Ice Cube), e dal rapido cambiamento delle mode scolastiche, che li rende impreparati ad un mondo che pensavano di conoscere bene.

C'è dunque una certa buona volontà da parte di regia (Phil Lord e Chris Miller, Piovono polpette) e sceneggiatura (Michael Bacall), e anche il duo Hill-Tatum funziona abbastanza bene.

Una tomba per le lucciole

Basato su un romanzo semiautobiografico, racconta una tragica storia di guerra, dal punto di vista di due bambini giapponesi. Tutta la storia è narrata in flashback, a partire dalla morte del ragazzino per stenti, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. A raccontarcela è il suo spirito, che rievoca l'ultimo periodo della sua vita, a partire da pochi mesi prima, quando un bombardamento americano con bombe incendiare distrugge il quartiere dove viveva. La madre viene uccisa, e lui resta con la sorellina.

Una zia li accoglie per qualche tempo, ma li tratta sempre peggio, finché i due orfani decidono che è meglio vivere in una cava abbandonata. Il cibo diventa sempre più scarso, fino al finale che ci è già stato raccontato all'inizio.

È un cartone animato dello studio Ghibli, diretto da Isao Takahata, che è originariamente uscito in abbinata con Totoro. Stavo per scrivere che in questo caso l'uso dell'animazione invece che di attori umani fosse puramente incedentale, ma a pensandoci meglio direi che l'animazione aggiunge valore alla narrazione, togliendo spazio all'aspetto documentaristico, ed enfatizzando l'aspetto emozionale.

La rivincita delle bionde

Primo lungometraggio di Robert Luketic, che riesce a far quadrare una sceneggiatura simpatica ma sbilenca grazie alla bella prestazione Reese Witherspoon nei panni di una bionda oca per spinta ambientale e non per carenza di materia grigia. Il resto del cast non si fa notare, se non per la curiosità di vedere Raquel Welch in un cameo e Jennifer Coolidge in una particina secondaria ma con un suo perché.

Già il nome della protagonista, Elle, spiega molto. L'azione inizia che lei è il fulcro della sezione femminile della sua scuola, sono tutte in trepidazione per lei, visto che sono praticamente certe che il suo fidanzato sia sul punto di farle la proposta di matrimonio. Errore colossale, lui è invece sul punto di mollarla. Sta infatti per iniziare l'università ad Harvard, e ha pianificato il suo futuro, una laurea in legge, carriera politica, per diventare senatore a trent'anni. Ma lei in questo quadro non ci sta, è una Marilyn, e non una Jackie, per come la vede lui.

Dopo un primo momento di sconcerto, Elle passa al piano B. Grazie alla sua bellezza, ricchezza, testardaggine, e anche al fatto che non è l'oca che sembra, lei riesce a guadagnarsi l'accesso ad Harvard - da cui il titolo originale, Legally blonde. Ma essere ammessi è solo il primo passo, Elle è un pesce fuor d'acqua in quell'ambiente, e rischierebbe di sparire in un baleno, se non riuscisse a fare un paio di amicizie, un misterioso ragazzotto che sembra sapere molto dell'università, e una estetista sull'orlo della disperazione (la Coolidge) con cui fa amicizia.

Anche il piano B fallisce miseramente, visto che l'ex fidanzato non sembra essere particolarmente interessato dagli sforzi di lei, ma si passa al piano C, Elle vuole dimostrare, a questo punto a sé stessa, di poter diventare un avvocato. Si impegna a tal punto che viene selezionata, assieme al suo ex, e la di lui nuova fidanzata per supportare un loro professore in un bizzarro caso di omicidio. Va bene mirare al risparmio, ma prendere matricole per lavorare ad un processo con una alta rilevanza mediatica mi pare eccessivo. In ogni caso, in questo caso la scelta si rivela azzeccata, perché alcuni dettagli modaioli/cosmetici/alta società del caso rendono Elle la persona giusta nel posto giusto.

Al punto che il professore le propone di entrare nel suo studio. Sì, però anche per motivi non solo legati alla sue capacità professionali. Questo è davvero troppo per la povera (si fa per dire, gira in Porsche) Elle, che decide di tornarsene in California (che sarebbe il piano D, a questo punto).

Ci sono un altro paio di colpi di scena, fino al gran finale in cui Elle trionfa.

Con una sceneggiatura del genere, il rischio che Elle, bella e ricca da far paura, risulti antipatica è alto, ma attrice e regista lo schivano agevolmente. Sarebbe stato però davvero difficile arrivare fino alla fine senza cadute, e in effetti non succede. La sottotrama dell'amicizia con l'estetista, in particolare, non mi pare che sia sviluppata al meglio. La scena madre è in tribunale, e ricorda vagamente quella di Mio cugino Vincenzo, ma qui si gioca praticamente tutta sulla Witherspoon, mentre là c'è un duetto tra Joe Pesci e Marisa Tomei, supportati adeguatamente dal resto del cast. Lei da sola fa del suo meglio, come del resto in quasi tutto il film, e più di tanto non sarebbe giusto pretendere.

21

Tecnicamente non è male, un prodotto medio mediamente diretto (Robert Luketic) e interpretato. Il mio problema nei confronti di questo film sta nella sceneggiatura, o meglio nella produzione, che ha deciso di prendere la versione drammatizzata di una storia reale (il libro di Ben Mezrich) e trasformarla aggiungendo personaggi, situazioni, modificando un po' tutto per richiamare altri titoli, ottenendo come risultato una pappetta di facile consumo.

La storia è un incrocio tra un film sul gioco d'azzardo e uno d'ambientazione universitaria, che si riflette nell'ambientazione alternata tra Las Vegas e Boston. Il protagonista è il solito studente geniale (Jim Sturgess) ma squattrinato. Sta per laurearsi al prestigioso Massachusetts Institute of Technology e vorrebbe iscriversi all'altrettanto prestigiosa Harvard Medical School. Il problema è che l'istruzione negli USA costa cifre spaventose e lui non ha quei soldi. Cerca di accedere ad una borsa di studio, ma gli fanno capire che la concorrenza è molto serrata. Questo sarebbe un buon problema da affrontare in un film. È giusto che praticamente solo i ricchi abbiano accesso ad una educazione di alto livello?

Ma invece di essere il punto del film, questo problema viene utilizzato semplicemente come pretesto per caratterizzare come "buono" il protagonista, e giustificare il fatto che scarichi i suoi amici, visti come nerd all'ultimo stadio (tra cui Josh Gad che nella parte ci sguazza), per cadere nelle lusinghe di Micky Rosa (Kevin Spacey), un cattivo professore che usa i suoi alunni più brillanti per guadagnare somme mirabolanti giocando a blackjack. Da notare che già nel libro il personaggio di Micky Rosa è di fantasia, fusione di diversi personaggi, qui viene descritto come un John Keating (Attimo fuggente) in negativo. Il suo unico interesse sono i soldi, e vede nei suoi alunni migliori solo macchine per farne.

Il personaggio principale nella sezione Las Vegas è Cole (Laurence Fishburne), addetto alla sicurezza, vecchia guardia, vecchio stile. Fa pensare a The cooler, ma siamo fuori tempo massimo, e Cole fa cose da codice penale in un contesto completamente errato. Se in The cooler (o in Casinò) si usava la violenza contando sulla protezione della mafia e sul fatto che chi subiva la punizione era a sua volta in torto, avendo barato, qui siamo in un periodo successivo, non c'è mafia, e non c'è illegalità. Fra l'altro, il metodo indicato non è che sia così semplice come sembra, e non offre nessuna garanzia di successo. Quello che offre è migliorare la probabilità di successo. Infatti ai casinò di Las Vegas il film non è dispiaciuto, e hanno tranquillamente concesso la possibilità di girare.

Control

Ero un ragazzetto. Un giorno un mio compagno di scuola entra in aula e mi dice che è morto Ian Curtis, il leader dei Joy Division. Ai tempi non c'era internet e, per dirla tutta, non è che i Joy Division fossero molto noti in Italia. Per questo ora penso che forse la notizia mi potrebbe essere arrivata con un notevole ritardo, forse dopo l'uscita del secondo e postumo album.

Fu uno shock notevole. I Joy Division rappresentavano il passaggio dal punk dei Clash, potente nella sua forza distruttiva ma che non mi pareva un terreno adatto su cui costruire qualcosa, ad un nuovo territorio, ancora inesplorato ma promettente. E infatti oggi si sente come le loro sonorità siano state riprese nei decenni successivi.

È un rapido ripasso sulla breve vita e carriera musicale di Ian Curtis, basata sulle memorie della vedova. Alla regia uno gran fan della band, Anton Corbijn, suo primo film per il grande schermo, dopo una lunga carriera al seguito di band come gli U2. In seguito dirigerà The american ma qui resta in bilico sul documentarismo, anche se la bella fotografia e qualche interessante movimento di macchina lasciano già capire quali siano le sue potenzialità. L'uso del bianco e nero direi che ben si abbina al low-cost e ai toni piuttosto deprimenti che traspirano dalla vicenda.

Notevole l'interpretazione di Sam Riley, che rende benissimo il personaggio di Ian Curtis. Nel ruolo della fidanzata, moglie e infine vedova (una santa, visto il carattere di lui), Samantha Morton.

Bad taste - Fuori di testa

Intenzionalmente brutto, a tratti disgustoso, ma non è la cosa più orribile che io abbia visto in vita mia, e che qualche risata me l'ha pure fatta fare. A chi non piace il genere splatter, tendenza trash, potrebbe risultare indigesto.

È il primo lungometraggio di Peter Jackson, nato come corto e poi pompato a un'ora e mezza, grazie anche ad un generoso finanziamento della Film Commission neozelandese. Fa quasi tutto Jackson, produzione, sceneggiatura, regia, recitazione in un paio di ruoli principali, cura la fotografia, il montaggio, il trucco, e gli effetti speciali. E chissà che altro.

Gli alieni invadono un paesino in Nuova Zelanda, con lo scopo di trasformare gli abitanti in fast food galattico. In seguito ad una segnalazione, il governo manda un team paramilitare la cui stabilità mentale giustifica il titolo italiano.

È un film a bassissimo costo, e dunque gli alieni decidono di assumere sembianze umani, che abbandoneranno solo nel finale. Meno spiegabile che parlino tra di loro in inglese, ma non vale la pena di sottolineare questa incongruenza, viste le altre assurdità di cui la sceneggiatura è colma. Ad esempio il Jackson-umano si "opera" da solo al cervello più volte, a mani nude, buttando materia grigia (sua o altrui) nella propria scatola cranica, per poi "fissarla" prima con un cappello e poi con la cintura.

La mia vita è uno zoo

Lo spettatore potenziale faccia attenzione, che si tratta di un film per adulti. Non nel senso anagrafico del termine, visto che è evidentemente progettato per risultare appetibile anche alle famiglie con figli. Però credo che chi non abbia sperimentato la perdita di una persona cara potrebbe non riuscire a capire appieno il punto che si intende fare.

Se la mia precedente visione, Un ponte per Terabithia, è centrato sull'esperienza della scomparsa, qui si parla del periodo seguente. L'azione infatti parte con il protagonista (Matt Damon) e i suoi due figli che hanno perso la moglie/madre già da sei mesi.

Il figlio si fa espellere da scuola e il padre non riesce a dimenticare la moglie, così decide per un repentino cambio di vita. L'idea sarebbe quella di cambiare casa, ma il caso ci mette il becco e la famiglia si trova catapultata nell'avventura di far ripartire un vecchio zoo sull'orlo della dismissione. Il figlio è poco entusiasta dell'idea, ma finirà per fare amicizia con una giovane paesana (Elle Fanning, protagonista in Super 8), il che lo riconcilierà con la vita.

La sorpresa principale del film è che la protagonista femminile (Scarlett Johansson, un po' improbabile come spalatrice di letame in uno zoo) non finirà tra le braccia di lui, se non fugacemente.

Regia e co-sceneggiatura di Cameron Crowe, sei anni dopo Elizabethtown, che direi che questa volta ha deciso di giocare relativamente più sul sicuro, con una storia più semplice del solito e più facilmente vendibile.

Anche la colonna sonora, sempre molto curata, è tenuta più al guinzaglio del solito, anche se non ci si risparmia. La struttura è infatti fornita da Jónsi (più un brano dei Sigur Rós), a cui si aggiungono pezzi di Cat Stevens (Don't be shy), Dylan (da notare che il ragazzetto fa di nome, per l'appunto Dylan, ma scopriremo che non c'è relazione con Bob), Tom Petty, Echo & The Bunnymen, Neil Young, eccetera eccetera.

Alcuni personaggi secondari non mi sono sembrati in palla, in particolare il "cattivo" (John Michael Higgins) direi che rende poco. Simpatico invece Thomas Haden Church (Sandman in Spider-Man 3 e l'amico di Giamatti in Sideways), nel ruolo del fratello.

Un ponte per Terabithia

Il fatto che sia basato su un romanzo per ragazzi poco noto in Italia ma ben conosciuto nei Paesi di lingua inglese spiega come mai il film abbia avuto un buon risultato di pubblico da loro e sia passato inosservato da noi. Se non fossi un lettore abituale del blog del bibliofilo sarebbe sfuggito pure a me. Quando si dice dei vantaggi che portano le buone letture.

Jess (Josh Hutcherson, il figlio maschio in I ragazzi stanno bene) è un ragazzetto davvero sfortunato. Famiglia povera rurale (e negli USA quando sei povero, lo sei per davvero), quattro sorelle, genitori che diventan pazzi a far quadrare i conti, soliti bulli fastidiosi a scuola. Ha un paio di passioni, il disegno, che gli guadagna una certa diffidenza paterna (cose da donne!) e la corsa. Nessun amico. Ah, sì, ha anche una cottarella infantile per l'insegnante di musica (Zooey Deschanel, sorella in Quasi famosi, Trillian nella Guida galattica per autostoppisti ed è la protagonista della serie televisiva New girl, che sembra faccia sfracelli). Succede che nella sua classe arriva una nuova ragazzina, Leslie (AnnaSophia Robb, la gran consumatrice di chewing-gum in La fabbrica di cioccolato), che ha anche lei i suoi problemi. Figlia unica, con genitori ben messi economicamente ma distratti, "strana" per i suoi coetanei. Dopo qualche tensione iniziale, i due fanno amicizia, si creano un loro mondo parallelo in un bosco vicino a casa, la Terabithia, e si divertono un mucchio.

Solo che poi c'è un inciampo. Jess un giorno va al museo con la sua insegnante preferita, e quando torna Leslie non c'è più. Il lieto fine sta nel fatto che Jess supera lo shock, che in un certo senso lo aiuta pure a crescere.

Bel racconto, storia densa emotivamente, che vale la pena di conoscere. È la prima regia di Gabor Csupo, bizzarro personaggio di origine ungherese che credo sia noto soprattutto per il suo lavoro con i Simpson. Con la matita ci sa davvero fare, e si vede nelle animazioni che invadono, senza essere invadenti, anche questa pellicola.

Paper man

Visto per la curiosità nata quando ho scoperto che la sceneggiatura del secondo Sherlock Holmes di Guy Ritchie è stata scritta dai coniugi Mulroney che hanno scritto e diretto anche questo film. La signora Michele ha anche co-scritto una commedia, Sunny & Share Love You, che è praticamente ignota al mondo (su imdb ad oggi sono in 48 ad ammettere di averla vista), per Kieran, invece, non ci sono altri precedenti.

Paper man ha qualcosa di buono, ma non mi ha convinto. Soprattutto la prima parte è fiacca e bisogna armarsi di tanta pazienza per arrivare sani e salvi al finale. C'è qualche battuta divertente, qualche scena commovente, un paio di punti su cui meditare, ma la struttura del racconto mi è parsa debole.

Due coniugi newyorkesi in crisi, lei (Lisa Kudrow, sposava Billy Crystal in Terapia e pallottole) è un medico di buon successo, lui (Jeff Daniels, partito forte negli anni 80, decisamente sottoutilizzato in seguito) uno scrittore in blocco creativo. Decidono di prendere una casetta in provincia, dove lui cercherà di scrivere il suo libro, mentre lei lo passerà a trovare nei fine settimana. Oltre al blocco, lui ha un notevole problema: ha un amico invisibile (Ryan Reynolds), un supereroe che non fa nulla ma si atteggia a Superman. Come se questo non bastasse, tampina una ragazzetta (Emma Stone) chiedendole di fare da baby sitter, trascurando di spiegarle che non ha bambini.

Nasce una curiosa amicizia tra i due, sulla falsa riga di Ghost world, giustificata dall'affinità caratteriale. Seguono alcune sorprese, fino a giungere ad un finale sfumato ma che lascia pensare che le cose migliorino un po' per tutti.

Incantesimo

In originale Holiday, visto che il punto chiave della storia è la vacanza che il protagonista (Cary Grant) vorrebbe prendersi. Il titolo italiano non ho capito a cosa alluda, se non all'eccellente risultato. Impossibile non notare la somiglianza con Scandalo a Filadefia, entrambi sono basati su un pezzo teatrale di Philip Barry, stessa regia, George Cukor, e stessa protagonista femminile, Katharine Hepburn. Cary Grant là è un po' sottotono, qui invece è in forma scintillante.

Grant è un giovanotto in carriera, lavora da quando è bambino ed è vicino a mettere da parte una cifra ragguardevole. La sua idea è che, una volta raggiunto quel traguardo, sia tempo di prendersi una lunga vacanza, e poi decidere che fare della sua vita. L'azione inizia che ha incontrato quella che pensa essere la donna della sua vita (ma è Doris Nolan, e dunque sappiamo che non sarà lei), ne parla con una coppia di amici (lui è Edward Everett Horton, uno di quei caratteristi che restano impressi), in una scena molto teatrale che ha lo scopo di farci sapere il setting della storia senza perdere troppo tempo.

Subito dopo assistiamo alla sorpresa di lui nello scoprire che lei è figlia di un riccone e vive in una specie di maniero nel bel mezzo di New York, sulla quinta Avenue. Ci viene presentata la famiglia di lei, e scopriamo che la sorella è niente meno che la Hepburn. Difficile non immaginare come andrà a finire, il bello è nel come il tema viene svolto. La coppia Grant-Hepburn funziona a meraviglia, ben supportata dal resto del cast.

I toni da commedia romantica nascondono, per chi ne fosse interessato, una tematica più profonda. Ci si chiede infatti che senso ha una vita che miri esclusivamente all'accumulo di ricchezza, quando poi questo implichi il sacrificio di quelle che sono le reali aspirazioni dell'individuo. Siamo dunque dalle parti di Revolutionary road o, volendo, Margin call.

Viaggio in paradiso

"Ma è Mel Gibson o Gene Gnocchi?" mi sono chiesto quando la faccia dell'australiano dalla popolarità più ballerina che esista è apparsa sullo schermo. Più avanti, le scene d'azione mostrano con un buon grado di impietosità che i tempi di Arma letale, per non dire Mad Max, sono ormai lontani.

Prima regia per Adrian Grunberg, che ha una lunga storia come aiuto regista in film tra i più inaspettati (Amores perros, Traffic, Master & commander, Apocalypto, Wall Street 2) ma che, per l'appunto, anche se alcuni momenti sono ben fatti (sequenza iniziale, con interessanti riprese dall'alto sul confine USA-Messico, ad esempio) mi pare che non regga benissimo un film intero. La sceneggiatura è una collaborazione tra il regista e il protagonista (anche produttore), e pare abbia preso forma quando Gibson ha letto di un curioso esperimento di carcerazione creativa messicano, in cui hanno simulato 1997 fuga da New York ma su piccola scala. O forse è il contrario.

Per il resto, abbiamo un tipaccio (Gibson) che ha appena fatto una rapina, è in macchina con il suo compare, già moribondo al primo minuto, entrambi sono vestiti da pagliacci, con tanto di maschere che coprono loro la faccia (ma non sappiamo perché), e si stanno dirigendo verso il Messico. Riescono rocambolescamente ad superare il confine, e il sopravvissuto viene sbattuto in galera, che risulta essere proprio El pueblito, l'esperimento carcerario di cui si diceva sopra, e fa amicizia con un ragazzino (Kevin Hernandez) destinato ad una fine orribile, e la madre. I derubati, inoltre, vogliono i loro soldi indietro, che in parte sono stati "confiscati" da poliziotti corrotti messicani, in parte sono dove tutti (tranne chi li cerca) sanno dove sono.

Negli USA il film non è ha trovato una distribuzione in sala, ed è andato direttamente in pay TV. Anche il titolo è stato in dubbio, inizialmente rilasciato come How I spent my summer vacation (Come ho passato le mie vacanze estive), è diventato poi Get the gringo. Non soddisfatta di nessuno dei due titoli, la distribuzione italiana ha deciso di inventarsene un terzo.

Tenendo conto di tutto ciò, il risultato non è poi malaccio, una sorta di film alla Robert Rodriguez, ma meno esagerato.

Operazione sottoveste

Me lo ricordavo col titolo Il sottomarino rosa, ma nel frattempo lo ha cambiato per tradurre fedelmente l'originale Operation petticoat. È il primo successo di Blake Edwards alla regia, Colazione da Tiffany arriverà due anni dopo.

In teoria è una commedia paradossale virante al rosa, ma in realtà nasconde una satira antimilitarista che, a ben vedere, si estende alla nostra intera società. La commedia si basa principalmente sul conflitto tra i due protagonisti, il comandante del sottomarino (Cary Grant) e un ufficiale di complemento (Tony Curtis) che gli viene affibbiato nonostante sia decisamente poco adatto alla vita di mare. Come in ogni buddy movie che si rispetti, i due inizialmente non si sopportano, ma alla fine diventeranno amici.

Elemento chiave è il sottomarino, che viene affondato nei primi minuti da un attacco aereo giapponese, siamo infatti nella fase iniziale della seconda guerra mondiale sul fronte pacifico, con i giapponesi in attacco e gli americani in difesa. L'equipaggio non ne vuole sapere di abbandonare la nave al suo destino, e si prodigano per rimetterla in grado di prendere il mare. Il responsabile del porto, come aiuto, manda qualche uomo disponibile, tra cui Curtis che, al contrario di Grant, non ha alcun interesse nella guerra che vede come male minore per costruirsi una reputazione tale da permettergli di trovarsi una moglie con una ricca dote. Ma ha anche delle capacità, che risultano utili nelle circostanze in cui si trova Grant. Ha una abilità, che direi quasi italiana, di tagliare le pastoie burocratiche e di trovare quel che serve muovendosi in aree grigie. Grant è un tipo tutto di un pezzo, e non apprezza questo mestare nel torbido, ma sa anche che la folle burocrazia militare non gli lascia scampo, e dunque accetta il male minore.

Seguono varie traversie, in un porto imbarcano una mezza dozzina di donne militari, che creano notevoli (buffi) problemi di convivenza, in una successiva fermata imbarcano pure civili (bambini e donne, tra cui un paio incinte) e addirittura una capra. Prima di riprendere il mare ridipingono la nave, prima una mano di antiruggine, poi la tinta mimetica, vorrebbe la procedura. Ma il minio non basta, e viene allungato col bianco, ottenendo un bel rosa ben poco militaresco. Inoltre un attacco giapponese li costringe a prendere il largo facendo a meno della tinta definitiva.

A causa di un disguido rischiano di essere affondati da fuoco amico, ma noi sappiamo che non rischiano la catastrofe, visto che la vicenda è narrata tutto in un lungo flashback, quando anni dopo il sottomarino giunto a fine carriera verrà demolito.

Hanna

Strano film, una sorta di rilettura in chiave favolistica del thriller spionistico alla Bourne. La sceneggiatura avrebbe meritato una bella riscrittura per eliminare alcuni buchi, riscrivere qualche scena troppo aldilà della credibilità, e magari per disegnare meglio il contorno della vicenda, ma il risultato direi che è comunque quello di un buon prodotto medio.

Interessante il lavoro di Joe Write, che mostra di non voler essere incasellato come regista di genere. Ottimo l'uso nei suoi film delle colonne sonore, qui è affidata ai Chemical Brothers, in Orgoglio e pregiudizio e in Espiazione era di Marianelli. Dovrò recuperare Il solista.

Tra gli attori, il peso principale dell'azione cade su Saoirse Ronan, che interpreta per l'appunto Hanna (era anche in Espiazione, dove interpretava la petulante Briony da bambina). In realtà, la storia narrata è quella dello scontro tra un presunto buono (non è molto chiaro quanto lo sia davvero, sembra più che altro un cattivo che si sia stufato di essere tale), rappresentato da Eric Bana, e una acclarata cattiva, Cate Blanchett. Ma il punto di vista prevalente è quello di Hanna, e i due sono piuttosto in ombra.

Per una quindicina di anni (!) Hanna e suo padre (Bana) sono vissuti nel nord della Finlandia (ben fotografato) come se la piccola si stesse preparando ad una qualche missione impossibile. A un certo punto lei dice che non ne può più, e vuole agire. E l'azione parte. I due si separano, e ognuno per conto proprio ammazza una certa quantità di persone, con l'intenzione di incontrarsi a Berlino. Il tragitto di lui è più rettilineo, lei invece si consegna ai "cattivi", che sarebbero poi un qualche dipartimento misterioso della CIA, capitanato dalla perfida Blanchett, cerca di ammazzare la "strega", e pensa anche di esserci riuscita (ma noi sappiamo che si sbaglia, ah ah). Scopre di essere stata portata in Marocco (chissà perché) e da lì, approfittando del passaggio involontario di una buffa ma simpatica famigliola inglese (che temo finisca molto male, ma non ci viene detto esplicitamente) procede verso la meta.

Altri incontri a Berlino, ammazzamenti vari, disvelamento del segreto di Hanna, e conclusione con scontro finale tra Hanna e la sua perfida avversaria.

Qualche parola aggiuntiva sulla famigliola inglese, composta da Jessica Barden (piccola peste che fa amicizia con Hanna nonostante la sua stranezza, anzi, appunto per quello), fratello, Olivia Williams (attrice che mi piace molto, era l'insegnante in An education, e la moglie del simil-Blair ne L'uomo nell'ombra, qui fa una madre un po' stonata), e padre. Sono tutto quello che Hanna non ha avuto, una vera famiglia, per quanto bislacca, e forse lei mollerebbe tutto per qualcosa del genere. Ma non è destino.

Leoni per agnelli

Ottimo cast, densa sceneggiatura (Matthew Michael Carnahan), buona regia (Robert Redford) che usa a dovere i mezzi a sua disposizione, inclusa la colonna sonora (Mark Isham) e soprattutto il montaggio (Joe Hutshing), per realizzare un film decisamente non semplice.

Con il nome che ha, Robert Redford può permettersi di fare film che rischiano di risultare indigesti praticamente a tutti e, grazie al cielo, lo fa. D'altronde, il punto principale della storia narrata è che in troppi, per una serie di motivi, preferiscono una comoda poltrona invece di prendersi rischi. È più comodo mandare gli altri a farsi sparare per conto nostro, o mettere il silenziatore ai nostri dubbi, piuttosto che prendere delle decisioni che ci possono creare qualche, magari minimo, grattacapo.

Nell'oretta e mezza del film, assistiamo a tre eventi che avvengono in contemporanea.

A Washington un senatore repubblicano (Tom Cruise), molto vicino a Bush Jr., concede una intervista a una giornalista (Meryl Streep, strepitosa come suo solito) tendenzialmente liberal. Il tema esplicito è sul cambiamento di strategia militare in Afghanistan, in realtà scopriamo che la nuova strategia è destinata al fallimento (già adottata con risultati sconfortanti in Vietnam), e che ha lo scopo principale di distogliere l'attenzione dal disastro in Irak, il tutto per preparare la candidatura a presidente del suddetto senatore.

In una università californiana, un insegnante (Robert Redford, un nome una garanzia) cerca di convincere un suo studente (Andrew Garfield) a tornare ad impegnarsi nel suo corso. Ma anche qui, in realtà, il punto è diverso, il professore si è accorto che il ragazzo sta alzando bandiera bianca, e si sta preparando ad una vita anestetizzata.

In Afghanistan, nel corso di una azione che non sembra sia stata congegnata con la dovuta attenzione, un paio di soldati (Michael Peña e Derek Luke) si trovano isolati, feriti, circondati da nemici, su un picco innevato.

Il secondo evento sembra slegato, ma i due militari erano nella stessa classe di Garfield-Redford, e hanno deciso di andare in guerra interpretando alla loro maniera l'invito del professore ad impegnarsi maggiormente nella vita reale.

Non è un film di guerra, l'episodio militare serve soprattutto a dare spessore ai due dialoghi degli altri episodi. Di conseguenza si parla per gran parte del tempo, e si spara solo per pochi minuti. Non è nemmeno un film antimilitarista. È vero che l'azione mostrata è catastrofica, ma non per colpa dell'esercito, o per lo meno dei militari mostrati. I due protagonisti fanno del loro meglio, considerando le circostanze, il loro capo (Peter Berg, non è un omonimo, ma proprio il regista di Battleship, e anche di The Kingdom, anche lì sceneggiatura di Carnahan, più adatto a chi cerchi azione militaresca) è conscio di mandarli in una azione bislacca (ma gli ordini sono ordini) e fa il possibile. Il problema, sostiene il film, è semmai chi decide le strategie.
Non è particolarmente anti-repubblicano (nel senso del partito USA), nel senso che non si mostra che i democratici abbiano idee migliori, semmai mostra un legittimo sospetto sulle politiche adottate dall'amministrazione Bush Jr., e non è nemmeno antipolitico, un paio di frecce lanciate da Cruise, raggiungono il bersaglio, facendo notare come la stampa abbia abdicato alla sua funzione di controllore, per adagiarsi sul binario di una più comoda passività.

Killer elite

Siamo dalle parti di Bourne, ambientazione anni ottanta, un killer semiufficiale (Jason Statham) viene richiamato al lavoro, usando come esca il suo maestro (Robert De Niro). Dovrà ammazzare alcuni ex-agenti dell'SAS che in passato avevano ucciso i figli di uno sceicco arabo, se lo vuole rivedere vivo. Dall'altra parte della barricata si trova il capo operativo (Clive Owen) di una struttura segreta che dovrebbe difendere gli ex-agenti inglesi da simili sorprese.

La situazione sembra già tortuosa così, ma nel corso delle due ore del film le cose diventeranno ancora più complicate, a causa di diversi interessi (e disinteressi) in gioco.

La strutturazione, gli inseguimenti, e forse anche la presenza di De Niro (non male qui, anche se in una parte piccola), mi hanno vagamente ricordato Ronin, con le dovute scuse a John Frankenheimer, visto che Gary McKendry, alla sua prima vera regia, pur impegnandosi non è al livello.

La parte simil-romantica con Yvonne Strahovski nella parte della paesana australiana mi pare un inutile appesantimento della storia. Direi anche che Statham patisce il rallentamento dell'azione e l'assenza di uno spessore disincantato/divertito del suo personaggio.

Marilyn

Non bisogna farsi ingannare dalla distribuzione italiana perché, come spiega chiaramente il titolo originale, My week with Marilyn, questa non è una biografia della Monroe, ma semmai di tal Colin Clark che ebbe la fortuna di passare una settimana con lei, complice la produzione de Il principe e la ballerina.

Il punto di vista di Clark è inaspettatamente privilegiato, nel senso che si trattava della sua prima esperienza cinematografica, in un ruolo produttivo assolutamente secondario, e che questo gli ha permesso di essere relativamente oggettivo. Per quanto si possa essere oggettivi in tale situazione.

Notevole il lavoro di Adrian Hodges (sceneggiatura basata sulla autobiografia di Clark) e Simon Curtis (regia) che hanno estrapolato in cento minuti un racconto che si può prestare alle più diverse interpretazioni, a seconda dell'umore dello spettatore. Curtis ha anche il merito di aver gestito al meglio un ricco cast di ottimo livello. Adeguata la colonna sonora, da notare che Lang Lang appare nei titoli di coda come pianista solista.

La lettura più piana della vicenda credo sia quella della rievocazione del mitico incontro da due mostri sacri del cinema del secolo scorso, con Sir Laurence Olivier (piacevolmente interpretato da Kenneth Branagh) nello scomodo ruolo del contraltare.

Oppure si può seguire la formazione del giovinastro (Eddie Redmayne, in ombra, dato il cast e i personaggi fantastici con cui si deve confrontare, ma regge bene) che affronta la realtà del cinema e, se ha la fortuna di incontrare Marilyn, ha anche la sfortuna di farsi scappare quello che avrebbe forse potuto essere l'amore della sua vita (Emma Watson, primo vero ruolo post-Hermione, parte piccola, ma con un paio di buone battute).

Ci si può anche divertire a seguire i numerosissimi ruoli minori, ognuno con una sua storia, alcuni hanno solo pochi secondi per raccontarsi, ma tutti hanno qualcosa di interessante da dire. Tra gli altri ricordo Julia Ormond che impersona Vivien Leigh, Toby Jones, ufficio stampa di Marilyn, Dougray Scott nei panni di Arthur Miller, e Judi Dench come Sybil Thorndike.

Ma a rubare la scena è Marilyn Monroe (Michelle Williams, per quanto possibile rende l'idea) che è il fulcro dell'azione, anche se non fa niente, anche se non è nemmeno in scena.

Credo che il punto fondamentale sia praticamente lo stesso di The wrestler, anche se qui lo si fa con una leggerezza da commedia, che fa quasi passare inosservati i vari drammi che vengono più accennati che detti. Marilyn, come The ram, si è chiusa in una realtà parallela in cui ha un successo strepitoso, e anche se vede che tutto questo non la fa felice, non riesce ad abbandonarlo.

Da notare che il film non fa sconti a nessuno, nemmeno a Marilyn. La si mostra impietosamente incapace di recitare, costringendo a ripetere fino alla noia le scene più banali, anche se, quando riesce a spiccare il volo, non ce n'è più per nessuno. Vediamo le sue debolezze, ma ci vengono ricordati anche i lati più spigolosi del suo carattere.