L'uomo carponi

Il professor Presbury (Charles Kay) è un primatologo, credo. Sicuramente di chiara fama. Subito all'inizio (*) parla con il suo assistente, Jack Bennett (Adrian Lukis), di una sua pubblicazione che dovrà gettar luce su un errore compiuto da Charles Darwin. Niente meno. Altre cose bollono in pentola. Il professore è infatti sul punto di sposarsi con Alice Morphy (Anna Mazzotti), che ha l'età di sua figlia Edith (Sarah Woodward), la quale è fidanzata con l'assistente del padre.

Una notte Edith viene risvegliata da strani rumori, e vede che uno strano essere umanoide la sta osservando dalla finestra. L'impressione è così forte che la tapina, che pur è di carattere molto forte, sviene. Il giorno dopo ne parla con il padre, che però minimizza, suggerendo che abbia avuto un incubo. Il fidanzato, succube del suo boss e futuro suocero, si accoderebbe alla versione professoriale, se non fosse che lei gli proponesse la scelta tra portare il caso a Sherlock Holmes (Jeremy Brett) o veder terminato brutalmente il loro fidanzamento.

Si sviluppa quindi una avventura che ha tonalità gotiche ma a cui fanno da contrappunto svariati spunti comici. Ad esempio, Holmes convoca il dottor Holmes (Edward Hardwicke) perché lo assista nel colloquio iniziale con il Bennett con un perentorio biglietto che dice qualcosa come:

vieni immediatamente, se ti è possibile
sennò, vieni lo stesso


In questo episodio torna in azione l'ispettore Lestrade (Colin Jeavons), anche se non ha molto da fare, se non vedersi accreditati i risultati dell'indagine holmesiana. L'ambientazione scimmiesca della storia permette di vedere all'opera Peter Elliott, uno tra i principali interpretatori umani di scimmioni. Ad esempio è stato chiamato anche per Gorilla nella nebbia e Congo.

La storia di Sir Conan Doyle su cui è basata la sceneggiatura è considerata a grande maggioranza tra le cose peggiori dell'opus sherlockiano, anche a causa della sua implausibilità. Nonostante questo ha degli elementi di notevole interesse. Lo si può vedere come un tentativo di combinare elementi pulp con meditazioni più elevate sul confine e i rischi della ricerca scientifica. Il riferimento a Frankenstein e a Dottor Jeckill e Mr Hide non mi pare sprecato.

La versione Granada ha cercato di alleggerire i toni, rimuovendo un collegamento a Praga e introducendo Jenkins e Wilcox (Peter Guinness), due manigoldi ben noti alle reali galere, che spostano l'enfasi dalla misteriosa mitteleuropa ai bassifondi londinesi.

(*) Dopo una sequenza iniziale che è un vero e proprio spoiler.

Il cliente illustre

Madamina, il catalogo è questo
delle belle che amò il padron mio


Spiega Leporello ad una allibita Donna Elvira nel Don Giovanni, capolavoro di Lorenzo da Ponte e Wolfgang Amadé Mozart. Il buon Leporello ha un rapporto bivalente col suo padrone, che lo ricambia con altrettanta scostanza, e non saprei dire se il catalogo lo ha compilato con ammirazione o disgusto. Fatto è che Donna Elvira non può che vacillare nello scoprire che il suo amato ha la necessità di sedurre ogni donna entri nel suo orizzonte visivo.

Un malato, dunque. Che non riesce ad evitare di provarci con chiunque, purché porti la gonnella.

Eppure il barone Gruner (Anthony Valentine) lo prende a modello, al punto da mantenere lui stesso il catalogo dongiovannesco, che, anche se non è all'altezza del prototipo, ha di che lasciar basito il lettore. Deve esserci in questo una specie di desiderio autodistruttivo, perché è evidente che prima o poi quel resoconto delle sue avventure varrà come una confessione di una vita sprecata.

C'è da dire che il barone fa maggiore attenzione per altre sue attività che sono sanzionabili anche penalmente. Lo vediamo infatti subito all'inizio del racconto eliminare la baronessa, e scopriamo poco dopo che ha congegnato la cosa in modo da renderla una specie di incubo diplomatico. I Gruner, austriaci, erano in vacanza in Svizzera, e il barone ha fatto in modo di spingere la moglie in un burrone sul passo dello Spluga, proprio sul confine italiano. Per maggior sicurezza, poi, ha provveduto a far sparire l'unico testimone.

Un brutto personaggio, non c'è che dire, ma non sarebbe di pertinenza holmesiana se non fosse che il barone decidesse di stabilirsi a Londra, e infine di circuire Miss Violet Merville (Abigail Cruttenden), figlia di un importante generale britannico. A portare il caso all'attenzione di Sherlock Holmes (Jeremy Brett) è un nobile che dice di agire per conto di altri di cui non può fare il nome, e siamo quindi portati a immaginare che sia qualcuno molto ma molto in alto.

Il problema sembra essere irresolubile. La Merville è abbacinata dal barone e non vuol sentir ragione, non badando nemmeno la testimonianza della precedente amante, Kitty Winter (Kim Thomson), che è stata usata, menomata (*) e abbandonata dal perfido barone. Inoltre il Gruner non ha problemi nell'usare metodi malavitosi, tentando prima di eliminare la Winter, e poi addirittura Holmes, che viene brutalmente malmenato quasi in stile hard-boiled.

Sarà proprio il catalogo di cui sopra, abbinato all'altra passione del barone, che è noto come grande esperto e collezionista di ceramiche, a dare ad Holmes la chiave della soluzione.

Particolare buffo. Il povero dottor Watson (Edward Hardwicke) si dovrà spacciare per un intenditore di cineserie, e verrà costretto a studiarsi grossi libroni contenenti innumerevoli nomi impronunciabili.

(*) Particolare aggiunto in questa versione, probabilmente per rendere più giustificabile il suo fiero cipiglio vendicativo.

Head over heels

Letteralmente, testa sopra i calcagni. Figurativamente, viene tipicamente utilizzato come avverbio per rendere una gran confusione. L'uso classico è in compagnia del verbo "to fall", come in fall in love, a indicare quello che i francesi chiamano amour fou.

Il cortometraggio in tecnica stop-motion di Timothy Reckart è entrato nella cinquina degli Oscar di categoria nel 2013 (*), ha strappato numerose nomination e premi un po' in tutto il mondo. Purtroppo non è che sia poi così facile vedere corti, se non si è un addetto ai lavori. Non c'è mercato. Fortuna che ogni tanto gli autori decidono di usare la rete.

Da qualche giorno H.O.H. è disponibile online sul sito (quasi omonimo) www.headoverheels.tv/ e su vimeo.
Per comodità del lettore, eccolo qui sotto:

Lui e Lei sono una coppia di lunga data. Qualcosa è successo nel passare degli anni, e ora sono separati in casa. Un po' come in Upside down, la distanza tra i due è resa operando sorprendentemente sulla forza di gravità. I due protagonisti sono attratti da un centro di gravità opposto. E la loro casa è costruita così che il tetto di uno sia lo scantinato dell'altra.

Ad un certo punto Lui ha una antica memoria, che lo spinge a cercare la riconciliazione. Ahimé la sua incapacità di esprimersi sembra causare un peggioramento della situazione. La casa stessa, che era in uno stato indeterminato di volo, trova le sue radici terrene. Ma questo vuol dire che la gravità finisce per dar ragione a uno dei due, chi risulta avere i piedi per terra, e torto all'altro.

Potrebbe essere la rottura definitiva. Però magari anche no.

(*) Vinse Paperman e si potrebbe pensare che essere un prodotto di casa Pixar l'abbia aiutato a conquistare qualche decisivo voto in più.

Il mistero di Boscombe Valley

Molto vicino al racconto di Sir Arthur Conan Doyle, spicca la mancanza di Lestrade, rimpiazzato da un ispettore Summerby creato giusto per l'occasione, la riduzione degli indizi che porteranno Sherlock Holmes (Jeremy Brett) sulla giusta strada, e la morte del colpevole per motivi naturali in tempi più ristretti.

Nota di riguardo per il cast al contorno che include Peter Vaughan e Joanna Roth. Quest'ultima non è che abbia fatto molto in seguito, ma in un buon periodo della sua carriera, l'anno prima era stata Ofelia nel geniale Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard.

Alice Turner (la Roth) è preoccupata per James McCarthy (James Purefoy) che, per una serie di sfortunate circostanze, sembra essere colpevole dell'omicidio del suo stesso padre. L'ispettore Summerby (Jonathan Barlow), che pure è abbastanza convinto della colpevolezza di James, le consiglia di chiedere aiuto a Holmes. Il quale, intrigato da un dettaglio della scrittura del telegramma che richiede la sua presenza, lascia Londra, passa da Watson (Edward Hardwicke) che si stava placidamente godendo una sua vacanza, lo strappa dal torrente in cui pescava, e i due raggiungono la scena del delitto.

Il caso sembra chiaro. McCarthy senior (Leslie Schofield) era una gran brutta persona, tra l'altro voleva far sposare a forza junior alla figlia di un suo vicino, John Turner (il Vaughan), fregandosene allegramente del fatto che né James né il padre della futura sposa fossero interessati al matrimonio. I McCarthy sono stati visti litigare in un bosco poco prima del fattaccio, e il giovane non vuole dire quale fosse il motivo.

A sparigliare le carte ci pensa l'incontro col committente dell'indagine, ovvero Alice, che sarebbe poi la figlia di Turner, e dunque colei che sarebbe dovuta andare in sposa al giovane James. Nonostante che quest'ultimo fosse nettamente contrario a sposarla, si vede lontano un miglio che è cotta e stracotta di lui, al punto di dargli ragione. Dopotutto sono entrambi così giovani, dice lei.

L'indagine spiegherà i motivi dell'opposizione del giovane McCarthy e dell'anziano Turner, e Holmes riuscirà a trovare una soluzione che pare accettabile. Anche se, a ben vedere, non è che si possa dire che sia ortodossa.

Shoscombe Old Place

Tra le prime cose di Jude Law, qui nel ruolo secondario ma a suo modo importante di un ragazzetto che per avere una chance come fantino sarebbe disposto a fare qualunque cosa.

Altro caso per Sherlock Holmes (Jeremy Brett) nell'ambiente dei cavalli da corsa, dunque, con il gran giro di soldi che ne consegue. Il racconto è meno riuscito di Silver Blaze e, in fin dei conti, alla fine si scopre che l'intervento del consulting detective è inutile. Anche se il dottor Watson (Edward Hardwicke) e la sigora Hudson (Rosalie Williams) non sarebbero d'accordo con la mia osservazione, visto che scommettono su Shoscombe Prince, il cavallo di punta della scuderia che dà il titolo al racconto, che effettivamente vince.

Il problema del Thor Bridge

Strano caso in cui Sherlock Holmes (Jeremy Brett) viene contattato da Neil Gibson (Daniel Massey), un antipatico riccone, per scagionare Grace Dunbar (Catherine Russell), giovane istitutrice dei suoi rampolli, dall'accusa di aver ucciso la di lui moglie Maria (Celia Gregory).

C'è ovviamente qualcosa di strano in tutto ciò, anche perché le prove a carico della Dunbar sembrano schiaccianti, come pure le voci che asseriscono quanto il Gibson maltrattasse la moglie. Con gran fatica, Holmes riesce a far ammettere al Gibson che il matrimonio era in difficoltà da tempo, e per colpa sua, aveva scoperto tardivamente di aver sposato la persona sbagliata, e che si era innamorato, non ricambiato, della Dunbar.

Si giunge rapidamente all'ipotesi che l'omicidio sia stato in qualche modo adattato ma perché questo possa essere dimostrato in giudizio occorre determinare chi ha provveduto a manipolare gli eventi. In particolare, bisognerebbe trovare la pistola utilizzata.

Particolare buffo, Holmes usa il metodo sperimentale per verificare una sua ipotesi, utilizzando la pistola di Watson (Edward Hardwicke) come cavia, che finirà nel lago, con gran sconforto del buon dottore.

La scomparsa di Lady Frances Carfax

Diversamente dal solito, la sceneggiatura segue con molte libertà il racconto originale. Secondo Conan Doyle, Watson viene mandato da Holmes ad indagare la scomparsa della Carfax, il dottore fa quel che può, al che interviene il protagonista, rimbrotta poveretto, e salva il risultato.

Qui invece Watson (Edward Hardwicke) è in vacanza per conto suo, ha un mezzo interesse per lady Carfax (Cheryl Campbell) che però non è particolarmente in vena di reciprocare, affascinata com'è da un presunto benefattore dell'umanità, tal Albert Schlessinger (Julian Curry). C'è anche un suo vecchio pretendente, Philip Green (Julian Curry), che le ronza attorno, con suo gran fastidio. Viene anche aggiunto un fratello della Carfax, che ha acquisito il titolo di conte di Rufton, di carattere opposto alla sorella.

Holmes, che legge i resoconti di Watson, si accorge che lady Carfax è in pericolo, ma non riesce ad intervenire in tempo. Pur riuscendo in qualche modo a raddrizzare la situazione, in questa versione il consulting detective si considera sconfitto, al punto di non accettare un generoso compenso per il suo intervento.

Il tono della puntata è cupo, grazie anche agli arrangiamenti che Patrick Gowers compie sul tema canonico della serie, anche se viene ravvivato a tratti da alcune graffianti battute dei protagonisti.

E' il primo episodio del terzo blocco, che riprende il titolo dell'ultima raccolta dei racconti originali, Il taccuino di Sherlock Holmes (*), ma questa avventura era nella raccolta precedente, L'ultimo saluto.

(*) In originale The case-book, che sarebbe più un manuale che un taccuino, una collezione di casi.

Il mastino dei Baskerville

Credo si tratti della più famosa avventura di Sherlock Holmes. Tra gli svariati adattamenti cito quello del '39 che ha iniziato la serie dove Basil Rathbone è protagonista, la curiosa versione horror del '59 di casa Hammer, con Peter Cushing, e la trasposizione contemporanea con Benedict Cumberbatch.

Come è nello stile della serie, qui si rispetta il testo originale di Conan Doyle, quasi filologicamente. Holmes (Jeremy Brett) appare poco, preferendo seguire i fatti a distanza. Ne approfitta il dottor Watson (Edward Hardwicke), suo malgrado, per stare al centro dell'attenzione e indagare, per quanto sia nelle sue possibilità. Il fatto che sia stato prodotto come episodio speciale "doppio", durando un centinaio di minuti invece dei soliti cinquanta, permette di sviluppare la materia con ordine.

Come vuole la lettera, il precedente Sir Baskerville muore per infarto, che sembra ricollegarsi alla antica maledizione della casata, perseguitata da un malefico cagnaccio. Il dottor Mortimer (Alastair Duncan) teme che anche il nuovo Baskerville subisca la stessa sorte e invoca l'aiuto di Holmes. Il quale accetta ma, adducendo la necessità di seguire un'altra indagine, lascia che sia il solo Watson a seguire Baskerville nel suo insediamento in campagna, nel Devon.

Watson resta in contatto con Holmes via lettera, spedendogli il resoconto delle sue giornate. Il maggiordomo, Barrymore (Ronald Pickup), sembra sospetto; un entomologo a caccia di farfalle, Stapleton (James Faulkner) suscita dubbi, anche perché quella che lui presenta come sua sorella (Fiona Gillies) ha un comportamento che lascia perplesso anche il buon dottore, e pure il dottor Mortimer, con la sua passione per reperti preistorici, potrebbe riservare sorprese.

I piani Bruce-Partington

Come sempre molto fedele al racconto originale di sir Arthur Conan Doyle (*), anche se qui viene lasciato scappare uno dei colpevoli, che invece avrebbe dovuto essere arrestato e lì morire poco dopo, non si dice dell'onoreficenza che la regina consegna a Sherlock Holmes (Jeremy Brett) come ringraziamento per la soluzione del caso, e si elimina il limitato coinvolgimento dell'ispettore Lestrade. Inoltre, subito all'inizio del racconto, invece di dire che Holmes è (o si reputa) un esperto dell'opera di Orlando di Lasso, gli si fa cantare, con risultati poco felici musicalmente ma abbastanza comici, parte di una sua composizione. Nel frattempo il dottor Watson (Edward Hardwicke) legge il giornale e non commenta.

Torna in azione Mycroft Holmes (Charles Gray), di cui era stato accennato all'apporto nell'affare delle cascate del Reichenbach ma che non vedevamo dai tempi del caso dell'interprete greco.

Un impiegato del ministero della marina militare viene trovato morto lungo i binari della metropolitana londinese, in tasca ha alcune pagine relative al progetto di un nuovo tipo di sottomarino che farebbe gola a qualunque potenza straniera. Ne mancano altre, e non si capisce come costui abbia potuto impossessarsi delle segretissime carte. La soluzione arriverà anche grazie allo studio della cartina del Tube.

(*) L'avventura dei progetti Bruce-Partington dalla raccolta L'ultimo saluto.

I pinguini di Madagascar

Non sono un fan della serie Madagascar, di cui ho visto solo il primo episodio, però per i piguini si può ben fare una eccezione.

L'inquieto quartetto di pinguini abbandona il resto degli animali per fare una sorpresa a Soldato, il più giovane (e bistrattato) del gruppo. Irrompono in Fort Knox per impossessarsi di qualcosa di introvabile, ovvero degli orrendi snack banditi in quanto pieni di schifezze. Lì però vengono rapiti da una piova folle che vuole distruggere la fama di carineria e coccolosità dei pinguini di tutto il mondo.

Li porta dunque in elicottero a Venezia, dove è all'ancora il suo sommergibile superattrezzato, ma non riesce a metterli in gabbia sia per la imprevedibile reazione degli scriteriati uccelli sia per l'intervento del Vento del Nord, un gruppo altamente tecnologizzato di animali artici che ha la sua ragione di esistere nella difesa degli esseri viventi carini e coccolosi.

I due team hanno modi di approcciare i problemi diametralmente opposti, e non riescono a lavorare assieme. Da questo ne trae vantaggio il cattivo di turno. Ma solo fino a quando l'elemento che sembrava meno capace, il solito Soldato, si rivelerà essere al centro della storia.

La colonna sonora sottolinea come l'impostazione data dalla DreamWorks a questa avventura sia quella da spoof di 007, serie che viene citata esplicitamente più volte, a cui si sommano riferimenti di tutti i tipi, a volte un po' a casaccio.

Forse sarebbe meglio guardarlo in inglese, visto che altrimenti si perdono le voci di lusso di alcuni comprimari, e alcune battute che non penso possano essere state tradotte mantenedone il senso in italiano. Ad esempio il cattivo ha un corredo di piovre al suo servizio dai nomi bizzarri a cui da ordini in modo da citare (apparentemente a sua insaputa) noti attori americani. Per chiarire meglio, chiede a Nicholas di ingabbiare i pinguini "Nicholas, cage them!", o a Drew e Barry di dare più potenza ai motori "Drew, Barry, more power!"

Nientemeno che Werner Herzog dà la voce al documentarista che filma pinguini all'inizio del film. Sfortunatamente il personaggio non ha alcuna somiglianza con la sua voce, e questo rovina l'effetto anche in originale. Però fa ridere lo stesso. Dave, la piovra folle, è John Malkovich, mentre il capo del Vento del Nord, l'husky Classified (*) è Benedict Cumberbatch.

(*) Non sappiamo il suo vero nome, che è informazione riservata. Ma Skipper fraintende (oppure ci marcia, non si può mai essere troppo sicuri) e lo chiama Informazione Riservata. In italiano ha il deludente nome di Agente Segreto.

Chi è senza colpa

La sceneggiatura di Dennis Lehane è basata sul suo racconto Animal rescue che però è così breve che ha dovuto rimpolparlo notevolmente, introducendo nuovi personaggi e situazioni, anche se lo spirito della storia resta abbastanza fedele all'originale.

Se non sbaglio, è la prima volta che Lehane sceneggia, essendosi limitato fino ad ora alla scrittura letteraria, lasciando ad altri il compito della trasposizione cinematografica. Che ha portato ai risultati di Mystic river, Gone baby gone, e Shutter Island. Mica paglia.

Protagonista della storia è Bob (Tom Hardy), un tipo taciturno che non pare molto sveglio. Lavora al bancone da "Cusin Marv's" a Brooklin, legalmente di proprietà proprio di suo cugino Marv (James Gandolfini) anche se ormai costui è solo il prestanome di un boss della mafia cecena.

Tornando a casa una sera, sente uggiolare da un bidone dell'immondizia. E' un cucciolo di pitt bull che è stato massacrato di botte. Il bidone, invece, appartiene a Nadia (Noomi Rapace). Il problema è Eric Deeds (Matthias Schoenaerts), un tipo instabile, ex di Nadia, proprietario del cane che, chissà perché, ha picchiato e buttato nel bidone di lei. Non si capisce bene cosa voglia, e probabilmente non lo sa nemmeno lui. Però non gli va che Bob abbia preso il suo cane, e nemmeno che abbia una relazione, anche se solo amichevole, con la sua ex.

In più, i ceceni usano di tanto in tanto il bar di Marv come cassaforte per gli incassi della giornata, e questo può attirare un qualche disperato alla ricerca di molti soldi e grossi problemi.

Aggiungiamoci anche un detective (John Ortiz) che indaga su un paio di strani casi accaduti da quelle parti, e il quadro è abbastanza delineato.

Il regista è Michaël R. Roskam che, al suo primo film oltreoceano (*), riesce nel miracolo di mantenere una sua dignità europea e non cedere disastrosamente alle richieste della produzione.

Parecchi gli spunti interessanti. Ad esempio su quanto sia inutile persino la pena di morte come deterrente per un delinquente che vive in una realtà dove la vita vale poco. Il titolo del racconto originale rafforzava il parallelo tra il cucciolo destinato ad una vita di violenza e chi lo accudisce. Il titolo inglese del film, The drop, è più asettico, spostando l'attenzione sul locale e il giro losco di soldi che ci si tiene. Quello italiano è piuttosto spammeggiante, suggerendo come un po' tutti i personaggi principali abbiano qualche scheletro nell'armadio. Metaforico o meno.

(*) Opera prima Bullhead, una produzione belga del 2011 che mi pare non sia uscita in Italia.

Villa dei glicini

Altro episodio extra londinese. Questa volta Sherlock Holmes (Jeremy Brett) e il dottor Watson (Edward Hardwicke) indagano nel Surrey, su richiesta di un cartografo, John Scott Eccles (Donald Churchill), che si è trovato invischiato in un caso di cui, da buon scienziato con la testa fra le nuvole, non ha capito niente.

Appena giunto nel villino di campagna di un suo nuovo amico, Luigi Garcia, che condivideva il suo amore per le mappe, si era accorto che qualcosa non quadrava. Nessuno sembrava più interessato a lui, anche la servitù lo trattava con una scostanza che lo lasciava perplesso. Ma il peggio doveva accadere il mattino successivo, quando si accorge che nella notte se ne sono andati tutti via. Tornato a Londra, scopre che nessuno conosce Garcia, che gli aveva dato un cumulo di referenze fittizie. Sottopone il caso a Holmes, e poco dopo scoprono che la polizia, e in particolare l'ispettore Baynes (Freddie Jones), lo stava pedinando da qualche ora, ritenendolo in qualche modo collegato all'efferato omicidio di Garcia.

E' subito chiaro che il cartografo è del tutto estraneo ai fatti, però Baynes non sembra avere idea di chi sia il vero colpevole, e finisce per arrestare un figuro che, per quanto losco, non pare essere un buon sospetto. Un colpo di scena ribalterà la prospettiva e scopriremo che Baynes è molto più astuto di quel che sembra.

Il racconto originale di Conan Doyle è piuttosto lungo, al punto di essere diviso in due parti, seguendo uno stile tipico dell'autore, basti pensare a Uno studio in rosso, dove da una parte c'è l'indagine poliziesca che identifica il colpevole, dall'altra un lungo spiegone che si avventura in un ambiente completamente diverso per fornire il retroscena dei fatti. Per esigenze di tempo e di ritmo, qui è tutto più sincopato, alcuni personaggi minori scompaiono e il loro contributo viene assorbito dalle figure principali. Resta anche qualche perplessità sullo svolgimento dei fatti.

Silver Blaze

Sherlock Holmes (Jeremy Brett) e John Watson (Edward Hardwicke) questa volta si recano nel Dartmoor, bella regione selvaggia, ora parco nazionale, nel Devon. A chiamarli sono l'ispettore Gregory (Malcolm Storry), che secondo Holmes è anche bravino ma manca di immaginazione, e il colonnello Ross (Peter Barkworth), proprietario del cavallo da corsa di gran pregio che dà il nome all'episodio e che è misteriosamente scomparso.

Il racconto è tra i più noti della serie, sia per il suo sviluppo anticonvenzionale, sia per una battuta di Holmes che è diventata mitica. Fra l'altro, pur mal tradotta in italiano, è il titolo del romanzo best seller di Mark Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. In originale è The curious incident of the dog in the night-time.

Dicevo che Holmes viene chiamato per il cavallo, anche se l'indagine principale, dal punto di vista della polizia, riguarda la morte di John Straker, che curava la forma di Silver Blaze in vista dell'incombente Wessex Cup. Gregory si sente tranquillo, hanno beccato un bookmaker che voleva truccare la gara, e molti indizi lo fanno ritenere colpevole. Sherlock dubita, e usando induzioni (e anche abduzioni, come lui stesso ammette) scopre chi ha davvero ucciso lo Straker e perché. Che però sembra scampare ogni forma di giudizio e relativa pena.

Il piede del diavolo

Sherlock Holmes (Jeremy Brett) è proprio messo male in questo episodio (*). Depresso e malridotto viene praticamente costretto dal dottor Watson (Edward Hardwicke) a prendersi un periodo di assoluto riposo. Per questo scopo viene scelta la placida, per quanto aspra, Cornovaglia.

Ma figuriamoci se non si presenta un caso pure lì. I due londinesi sono immediatamente agganciati da un curato di campagna che funge da contraltare irrazionalista all'approccio sherlockiano. Succede infatti che una donna muore e due suoi fratelli sono ridotti alla demenza da quello che sembra un attacco di panico causato da un immane spavento. Il giorno dopo toccherà al quarto fratello, che era scampato al primo attacco abbandonando la congrega giusto in tempo, morire nello stesso modo.

Il pastore ritene che tutto ciò sia opera del diavolo. L'investigazione privata porterà a scoprire che si è trattato solo del suo piede, nel senso della radice di un erba africana praticamente ignota in Europa che, bruciata, causa terribili allucinazioni. Holmes eviterà di dare il suo parere alle autorità locali, anche se ha lasciato loro un paio di dritte che avrebbero potuto guidarli sulla giusta strada, sia perché esplicitamente invitato a stare fuori dall'indagine ufficiale, sia perché ha uno dei suoi rari, ma poi non così infrequenti, momenti di simpatia nei confronti di alcuni perpetratori.

Da notare che evidentemente Holmes mente quando dice di non essersi mai innamorato e di essere semplicemente nel campo delle ipotesi quando cerca di immedesimarsi in chi agisca scorrettamente in seguito alla passione. Bisognerebbe accennare al nome di Irene Adler e valutare la sua reazione. Ma sarebbe una inutile crudeltà.

L'uso di una misteriosa erba africana permette a Patrick Gowers di variare il tema musicale introducendo una vena tribale. Le percussioni sono un tocco decisamente troppo esplicito, e forse sarebbe stato meglio evitarle.

Brett è evidentemente sciupato in questa puntata e, purtroppo, non è solo caratterizzazione.

(*) Primo del secondo blocco, denominato "Il ritorno" e diviso in due annate con in mezzo uno speciale di lunghezza doppia. Nel canone ufficiale di Sir Arthur Conan Doyle, fa parte della più tarda collezione "L'ultimo saluto". Tra le poche le differenze nelle due versioni, spicca che per Granada qui Holmes dice addio (o almeno ci prova) alla sua dipendenza da cocaina, che assume per endovenosa in soluzione (sette per cento), esemplificata dal suo sotterrare una siringa.

Love is the devil

La versione italiana fa a meno del sottotitolo, Study for a portrait of Francis Bacon, che chiarisce subito che trattasi di un tentativo di approcciare la vita di quell'artista inglese. Progetto ambizioso, in particolare se si tiene conto che i detentori dei diritti della sua immagine si sono rifiutati di concederne l'uso a John Maybury (sceneggiatura e regia).

L'ingegnosa soluzione è stata quella di rappresentare il processo creativo a partire dalle sorgenti (foto di modelle, la visione de La corazzata Potemkin, un incontro di pugilato), mostrando l'ambiente in cui si muoveva Bacon (il suo studio, i locali che frequentava) e possibili interpretazioni delle distorsioni che filtravano il suo punto di vista. Ovviamente il gioco regge solo se e tanto quanto lo spettatore conosca la sua opera.

Londra, 1964. George Dyer (Daniel Craig) è un furfante sulla trentina che, senza avere idea di cosa lo aspetti, irrompe nottetempo in casa Bacon (Derek Jacobi) e finisce proprio nel suo inquietante studio. Il gran baccano che fa, attira il padrone di casa, che ai tempi virava già verso la sessantina, il quale non si scompone più di tanto, e invita l'inatteso ospite a spogliarsi ed entrare nel suo letto.

Seguono sette anni di una relazione a tinte forti. George è insicuro e perseguitato da incubi, forse vede in Francis una figura paterna, che però non gli può dare alcuna sicurezza. Anche perché Francis esprime i suoi sentimenti con la sua arte, mentre nella vita reale è spesso brutale e arrogante, incapace di mostrare quello che ha realmente dentro. Sessualmente, la coppia cambia i ruoli, e George infierisce sadicamente sul masochista Francis.

Piccolo ruolo per Tilda Swinton che si dimostra, come suo solito, camaleontica.

Colonna sonora, impervia quanto appropriata, di Ryuichi Sakamoto.

Still Alice

Alice Howland (Julianne Moore) è una splendida cinquantenne che ha tutto. Vive a New York, nell'Upper West Side, ha una prestigiosa cattedra alla Columbia University, un marito (Alec Baldwin) innamorato e amato, e figli che si stanno costruendo ognuno la propria vita.

E poi, bang, le diagnosticano un Alzheimer precoce. Si sommi a quanto possa essere terribile per chiunque trovarsi in quella condizione che lei ha fatto della memoria e della ricercatezza del linguaggio un punto chiave della definizione della sua persona, in particolare in ambito accademico. E se questo non bastasse, la versione del suo morbo è a carattere genetico, il che vuol dire che viene colpita anche come madre, passandola con alta probabilità alla discendenza.

La narrazione è pericolosamente in bilico sul crinale del patetico (*), anche perché al co-regista e co-sceneggiatore Richard Glatzer (**) è stata diagnosticata una forma di SLA piuttosto aggressiva nel 2011 che, è notizia di pochi giorni fa, l'ha portato rapidamente alla morte. A salvare il film è in primo luogo la notevole performance della Moore, che non sovraccarica i toni, e lascia che spesso il dramma passi solo attraverso i suoi sguardi. Nota di demerito invece per Kristen Stewart, che interpreta Lydia, figlia della coppia, con una monotonalità che mi ha lasciato perplesso.

Volendo essere cattivi, consiglierei di paragonarlo a Amour di Haneke o a Wit di Nichols.

(*) Nel senso deleterio del termine.
(**) Wash Westmoreland è l'altro elemento del sodalizio creativo.

Yet, the best universe ever

Italianissimo cortometraggio di Edoardo Palma che però è stato realizzato in inglese, sperando che questo lo aiuti a girare il mondo.

Da un mesetto è disponibile su you tube. Fai prima a guardarlo che a leggere quello che ne penso io:

Nonostante tutto, il miglior universo in assoluto. Anche se il risultato della dichiarazione alla donna della propria vita non si risolve come atteso? Sì. Anche perché, a voler essere pignoli, ogni teoria rigorosa del multiverso postula (*) l'impossibilità di comunicazione tra i diversi universi. E dunque conviene farci piacere il nostro.

Simpatica l'idea di nascondere questa meditazione dietro lo stratagemma che Lui (Elio D'Alessandro) usa per trovare un aggancio per portare la chiacchierata con Lei (Celeste Gugliandolo) nella direzione voluta. Bello anche il modo di giustificare uno sproposito di citazioni cinematografiche, che del resto erano partire ancora sui titoli di testa, con la particella di polvere che ricorda la piuma di Forrest Gump.

Notevole la cura messa a tutti i livelli nella produzione del corto. Da parte mia, solo un appunto. Se mi spiego benissimo l'uso dell'inglese come mezzo per aiutare la distribuzione della pellicola - e mi pare una ottima idea - non mi convince a livello di sceneggiatura. Mi sarebbe piaciuto di più se si fosse in qualche modo giustificato che i due, evidentemente non di madre lingua inglese, lo usino in una discussione così personale. Qualcosa come lei tedesca, lui italiano, si trovano a Parigi, magari lui per studio e lei per lavoro. Ma direi che è un problema più mio che del film.

Da non farsi sfuggire i divertenti titoli di coda, dove si vedono tre possibili risultati dello scontro iniziale.

(*) Per quel che ne so. Smentite sono gradite.

Foxcatcher - Una storia americana

Cinque nomination agli Oscar (*) e nemmeno una statuetta per questo film di Bennett Miller. Non è tanto il risultato finale che mi stupisce, quanto le candidature, visto che la storia narrata, pur essendo basata su fatti reali, deve essere risultata aliena a molti dei votanti. O per meglio dire, una di quelle storie che non si vuole stare a sentire. Si parla infatti di gente che all'inizio del racconto potremmo pensare sia di successo, due atleti con medaglie d'oro olimpiche, e il rampollo di una famiglia tra le più influenti al mondo. La narrazione ci fa vedere cosa c'è davvero dietro i lustrini, e il finale è decisamente tragico. Insomma, l'esatto contrario di un film come La ricerca della felicità di Muccino o Whiplash, che quest'anno si è aggiudicato ben tre Oscar.

Inoltre anche la struttura del cast è poco chiara. Secondo l'Academy il protagonista è Steve Carell, anche se a bene vedere gran parte della storia è narrata seguendo il punto di vista del personaggio interpretato da Channing Tatum, e la scena madre che definisce il film è, a mio parere, quella che vede il solo Mark Ruffalo di fronte alla macchina da presa, con il suo personaggio costretto a dire, per amor di quieto vivere, cose che non pensa.

Mettiamoci pure che i tre personaggi principali sono quasi irriconoscibili e si muovono e agiscono in un modo che potrebbe sembrare grottescamente fuori luogo, visto che di comico c'è ben poco in questa storia. Però, da quanto ho letto, e per quanto possa sembrare strano, sia l'aspetto di Carell sia le movenze di Tatum sono descritte da chi li conosceva come rappresentazioni ragionevoli dei modelli originali.

Iniziamo facendo la conoscenza di Mark Schultz (Tatum), lottatore che non pare particolarmente sveglio e, pur avendo vinto una medaglia d'oro alle recenti olimpiadi di Los Angeles (**), se la passa economicamente piuttosto male e non riesce ad avere un rapporto decente con anima viva, a parte il fratello, David Schultz (Ruffalo), anche lui olimpionico, che gli fa anche da allenatore.

John du Pont (Carell) è un rampollo di quella che, nel video che viene omaggiato a chi passa dalla sua magione, viene descritta come la più ricca degli Stati Uniti. Contatta Mark per fargli un'offerta di quelle difficili da rifiutare. Vuole creare un team di lottatori e lui sarebbe la star del gruppo. Decida lui lo stipendio. Il povero Mark dice la cifra più alta che gli viene in mente, venticinquemila dollari all'anno, che viene ovviamente accettata senza batter ciglio. John vorrebbe anche David, ma questi ha moglie (Sienna Miller), due figli e nessuna voglia di muoversi.

Scopriamo rapidamente che John è completamente fuso e che la sua passione per la lotta probabilmente non è altro che una infantile contrapposizione a quella di sua madre (Vanessa Redgrave) per i cavalli. Mark diventa il suo campione da esibire alla serate di gala e, tra l'altro, pur richiedendogli prestazioni da atleta, lo introduce all'uso della cocaina.

Nonostante lo scarso acume, John si rende conto la sua squadra di lottatori è destinata all'irrilevanza. Convince quindi David (***) a raggiungerli e a prendere in mano il team. La situazione diventa esplosiva. Mark pensava di essere diventato indipendente dal fratello, ma scopre che non è così, ha i muscoli ma gli manca l'intelligenza necessaria per essere un vero campione. David fa il lavoro che gli piace, ma è costretto a mentire a se stesso, per non ammettere apertamente che il suo capo è un vanaglorioso imbecille. John ha quello che vuole, ma non può non accorgersi che la sua vita è finta, costituita da menzogne tenute assieme dal denaro.

E non può che succedere una catastrofe.

(*) Regia, sceneggiatura, protagonista, non protagonista, trucco e parrucco.
(**) Che sono state quelle del boicottaggio da parte del blocco sovietico, in risposta alla mancata partecipazione del blocco NATO (con qualche eccezione, tipo la nostra) a quelle precedenti di Mosca.
(***) Non ci viene detto come, si lascia immaginare che abbia staccato un assegno molto più pesante di quello per Mark.

Il segno dei quattro

Siamo nel bel mezzo del blocco che in Granada hanno deciso di chiamare Il ritorno di Sherlock Holmes, come la seconda raccolta dei racconti firmati da Conan Doyle, ma senza mantenere la composizione originale. Nel 1987 esce solo questo episodio ma per rabbonire la clientela è una versione lunga, da cento minuti, il doppio di una puntata standard. Forse sarebbe stato meglio tagliare il risultato di un quarto d'ora.

Come sempre, rispetto alle altre produzioni, la vicinanza allo scritto è ammirevole. Si aggiusta un po' il finale, anche per riconciliare la storia alla cronologia made in Granada. Infatti, per Conan Doyle questa è la seconda avventura della coppia Holmes (Jeremy Brett) Watson (Edward Hardwicke), ed è qui che il dottore conosce Miss Mary Morstan (Jenny Seagrove) che diventerà la signora Watson. La povera Mary non apparirà molto nelle avventure successive e perirà in modo non chiarito prima del ritorno di Holmes dall'esilio susseguente ai fatti delle cascate dei Reichenbach. Così in questo episodio vediamo che tra Mary e John scocca una indubitabile scintilla, ma il dottore perde il momento buono e non si dichiara.

La storia è piuttosto complicata, anni prima era misteriosamente sparito il padre di Mary, ora si viene a scoprire che era entrato in possesso di un tesoretto che avrebbe dovuto dividere con i "legittimi" proprietari. Un collega del capitano Morstan, il maggiore Sholto, in letto di morte ha rivelato ai due figli gemelli (Ronald Lacey) di essersi impossessato del tesoro, e di non aver più avuto la forza di separarsene (un po' come il caso di chi entrava in possesso dell'anello nella saga di Tolkien). Non riesce però a dire dove sia, per cui i due eredi ci mettono anni a trovarlo. Trovatolo, il gemello buono contatta la figlia Morstan per consegnarle la sua parte.

Seguono traversie varie, tra cui un omicidio in stanza chiusa dall'interno, e uno tra gli inseguimenti più lenti a cui abbia mai assistito.

I sei Napoleoni

Ultimo episodio della terza stagione Granada su Sherlock Holmes, con Jeremy Brett nei panni del protagonista. Alla regia c'è David Carson, che già aveva diretto pregevoli precendenti puntate, come Il cerimoniale dei Musgrave o Il carbonchio azzurro che ha una struttura molto simile al racconto corrente.

Anche qui c'è infatti un malfattore che nasconde qualcosa da qualche parte, e poi deve faticare non poco per cercare di recuperarla. Purtroppo per lui, la sua ricerca viene notata prima da Scotland Yard, poi da Holmes (e in questo caso anche da altri), il che lo porta alla rovina. Le differenze sono comunque tali da lasciare il piacere di vedere entrambe le variazioni.

La parte dei cattivi tocca a nostri connazionali. Tale Beppo (Emil Wolk) ha infatti rubato qualcosa, ma per far ciò ha anche pestato i piedi ad una famiglia piuttosto mafiosa, i Venucci. Non solo, ha pure sedotto e abbandonato Lucrezia (Marina Sirtis), scatenando le ire del fratello Pietro (Vincenzo Nicoli), e poi la reazione del capofamiglia (Steve Plytas).

Si parla molto in italiano (*), dunque, e un po' anche in tedesco, perché Beppo lavora per tal Mendelstam (Vernon Dobtcheff) che mescola l'inglese alla sua lingua natia. Non mi pare di aver notato una tal commistione babelica di lingue in precedenti episodi.

Toccante il finale in cui l'ispettore Lestrade (Colin Jeavons) ammette per una volta la sincera ammirazione per Holmes da parte sua e di tutta Scotland Yard, e questi, colto di sorpresa, lascia vedere quanto questo lo emozioni.

(*) Anche Holmes, nel finale, azzarda qualche parola nella nostra lingua.

La scuola del priorato

Trasferta nel nord dell'Inghilterra per Sherlock Holmes (Jeremy Brett) che viene chiamato dal responsabile di una scuola sconvolto per la sparizione di un suo illustre allievo, figlio del duca locale (*). Il caso è intricato più a causa dei problemi famigliari del duca che per altro. Non saranno quindi tanto le indagini su come sia sparito il giovane lord a portare alla soluzione quanto la scoperta del perché. Tra l'altro il duca è separato e la duchessa, Lady Francesca, è tornata a casa dai suoi a Venezia.

Rispetto al racconto originale di Conan Doyle sono stati fatti alcuni cambiamenti. In particolare il finale è stato riscritto così che il cattivo non possa far valere la sua differenza di casta per scamparla.

Puntata interessante dal punto di vista musicale. La ottima colonna sonora originale è del solito Patrick Gowers, ma questa volta c'è anche Simon Preston e il suo coro delle voci bianche dell'abbazia di Westminster.

(*) Alan Howard, che poi darà voce all'anello nella saga de Il signore degli anelli.

L'uomo dal labbro storto

In questo caso il principale cambiamento dal racconto originale di Conan Doyle (*) sta nel fatto che la mini-avventura iniziale in cui Watson (Edward Hardwicke) recupera un suo cliente che si è perso in un mondo parallelo (**) viene modificata per far sparire la moglie del dottore.

Il caso è piuttosto bizzarro, un tal Neville St Clair (Clive Francis), non titolato ma benestante, sparisce praticamente sotto gli occhi della moglie. Pur non essendoci l'habeas corpus, vari indizi portano la polizia, e anche Holmes (Jeremy Brett) a pensare che sia morto. Ad essere indiziato è un pezzente, tal Hugh Boone, che vive di elemosine.

Epperò Lady St Clair non si arrende, anche perché gli è arrivata una lettera autografa del marito che sembra scritta dopo il fatto e che le dice di non preoccuparsi. Holmes spende una notte a fumar la pipa e alla fine arriva alla soluzione del caso.

Notevole il livello di realismo in questo che è l'unico episodio che vede Patrick Lau alla regia. Non ci viene risparmiato niente del lato lacero e miserabile della Londra di fine ottocento.

(*) Noto anche col titolo italiano di L'uomo dal labbro spaccato, inserito nella prima collezione, quella col titolo Le avventure di Sherlock Holmes, mentre in questo adattamento Grenada è stato spostato nel secondo blocco che ha quello della seconda collezione, Il ritorno di S.H.
(**) A quel tempo le fumerie di oppio erano legali nel Regno Unito.

La seconda macchia

Quarta e ultima regia di John Bruce per lo Sherlock Holmes in versione Granada. Aveva diretto altri pregevoli episodi, in particolare segnalerei il curioso La lega dei capelli rossi, ma questo li batte.

Come al solito, grande è la fedeltà formale rispetto all'originale di Conan Doyle. C'è un leggero cambiamento nel finale sul modo in cui l'oggetto dell'indagine viene ritornato, che risulta peraltro funzionale e molto soddisfacente per il taglio che si è voluto dare all'episodio.

Come ne Il patto navale, Holmes (Jeremy Brett) viene contattato dal governo di Sua Maestà per ritrovare un documento diplomatico misteriosamente scomparso, il cui uso da parte di altri governi causebbe grosse turbolenze internazionali. Si parla addirittura della possibilità tutt'altro che remota di una guerra.

Nei guai è finito il segretario di stato per gli affari europei, Trelawney Hope (Stuart Wilson), ma sembra che Holmes sia più mosso all'azione dall'interesse per la di lui signora (Patricia Hodge). Ad una affermazione del dottor Watson (Edward Hardwicke) sullo stile di Lady Trelawney Hope, Holmes risponde dicendo di essere più interessato al suo carattere, però il suo linguaggio non verbale mi dice altro, e mi fa venire il sospetto che veda in lei un riflesso di Irene Adler, da Scandalo in Boemia.

Interessante il parallelo con l'ispettore Lestrade (Colin Jeavons). Se questi non si fa problemi nell'attribuirsi successi altrui, Holmes in questo caso arriva a dichiararsi inutile alla soluzione del caso, facendo in modo che questo, come il gatto del Cheshire, sparisca lasciando al suo posto solo un sorriso.

I due volti di gennaio

Basato sul romanzo omonimo di Patricia Highsmith, portato sullo schermo da Hossein Amini (*), ne mantiene lo spirito e la ambientazione anni sessanta, spingendosi fino al punto di sembrare un film realizzato mezzo secolo fa. Il che potrebbe essere visto come un difetto dallo spettatore abituato ad un passo più veloce.

Il titolo è un riferimento al dio romano Giano, con tutto quel che ne consegue in termini di relazione con la paternità (in quanto padre degli dei), di passaggio all'età adulta (dio della porta), e pure di doppiezza (per il suo essere bifronte). L'ambientazione greca aggiunge una impostazione tragica alla vicenda.

Succede che i MacFarland arrivano come turisti americani ad Atene. Chester (Viggo Mortensen) ha il fascino della ricchezza esibita, anche attraverso Colette (Kirsten Dunst), moglie troppo giovane. Incontrano Rydal (Oscar Isaac), anche lui americano, che sbarca il lunario facendo da guida per i connazionali. Chester nota le occhiate di Rydal e pensa che siano per Colette, mentre invece sono per lui. Rydal dirà che è colpito dalla rassomiglianza tra Chester e suo padre, ma sembra una spiegazione poco sostanziosa, più probabile che veda in Chester un sostituto paterno, una figura di riferimento per quello che vorrebbe essere.

Da notare che la regia è vecchio stile, tutta l'ambiguità del racconto è nei comportamenti dei personaggi. La macchina da presa mira a quella oggettività che difficilmente al giorno d'oggi vediamo al cinema. Scopriamo quindi seguendo lo sviluppo che Chester è un lupo newyorkese che ha preferito lasciare gli USA per evitare le rimostranze dei clienti, Colette ha visto in lui l'accesso ad un mondo di caviale e champagne, e Rydal arrotonda gli introiti da guida spennando i suoi clienti.

La situazione è già abbastanza complicata così, e non si capisce bene cosa tiene insieme il terzetto. Colette sembra avere un atteggiamento materno nei confronti di Rydal, ma i due sono coetanei. Rydal sembra essere attirato dai soldi della coppia e dalla bellezza di Colette, ma i suoi sguardi vanno più a Chester che a lei. Chester sembra geloso di Colette, ma non fa niente per ostacolare l'intesa tra i due. Quando arriva l'inghippo sotto forma di investigatore privato mandato da alcuni clienti di Chester che non hanno preso bene la sua fuga.

Nonostante una serie di tragici eventi, il finale è in un suo modo positivo. Lo scontro tra padre e figlio viene ricomposto, e la vita può proseguire.

(*) Lunga esperienza nell'adattare sceneggiature, vedasi Drive, questa è la sua prima regia.

Confessioni di una mente pericolosa

La sceneggiatura (Charlie Kaufman) è basata sulla autobiografia non autorizzata (sic) di Chuck Barris, nome che a noi dice poco, ma che conosciamo indirettamente in quanto è colui che ha inventato il format di alcuni tra i programmi televisivi più deprimenti nella storia dell'umanità, quali The dating game (*) e The gong show (**).

Barris è un nome noto negli USA, i diritti cinematografici per la sua storia saranno costati un botto, e quindi non aveva molto senso farne un film indipendente, che non sarebbe riuscito a rientrare nelle spese. D'altro canto la storia è così assurda che difficilmente si potevano trovare produttori disposti a rischiare le cifre ingenti di un film mainstream. Questo ha comportato una gestazione travagliata fino alla decisione di affidare la regia al debuttante di lusso George Clooney. Scelta che si è dimostrata arrischiata per l'equilibrio del racconto, ma che ha permesso di ottenere un cast a supporto di tutto rispetto, in quanto in molti hanno partecipato per amicizia, accettando un compenso relativamente modesto.

In pratica Barris sostiene di essere stato reclutato dalla CIA per uccidere in giro per il mondo, e di aver colpito una trentina di volte prima di essere messo a riposo. Il che si sposa piuttosto male con la sua carriera di produttore televisivo. La scelta della sceneggiatura, e sopratutto della regia, è quella di dargli corda, raccontare la storia come se fosse plausibile, e lasciare allo spettatore il compito di decidere cosa ne vuole pensare. Siamo un po' a metà strada tra la scelta di Ron Howard per A beautiful mind, e quella di Peter Weir per The way back. Nel primo è chiaro, almeno da un certo punto in avanti, che il protagonista ha problemi mentali, e che non possiamo fidarci di quello che viene narrato seguendo la sua prospettiva. Nel secondo non ci viene dato praticamente nessun indizio sulla falsità della storia e viene lasciato tutto allo spettatore l'onere di informarsi su cosa ci sia dietro.

Ci viene detto che Chuck ha un solo grande interesse nella vita, le donne. O meglio, fare sesso con le donne. Lo vediamo ragazzetto (Michael Cera) approcciare disastrosamente sue coetanee e poi, più adulto (Sam Rockwell), scegliere la sua vita in base alle probabilità di andare a segno. Finisce dunque per produrre spettacoli televisivi. Nel passare da donna in donna, incontra Debbie (Maggie Gyllenhaal) che condivide l'appartamento con Penny (Drew Barrymore), tipetta bizzarra con cui Chuck finirà per avere una lunghissima per quanto anomala relazione.

Sta ancora lottando per emergere quando viene contattato da un losco figuro, Jim Byrd (lo stesso Clooney), che lo convince a partecipare ad un bizzarro corso per assassini e poi lo manda in Messico ad uccidere un tale per conto del governo. Tornato dalla missione, scopre che Penny ha avuto una svolta hippy e che il suo Dating Game ha fortunosamente ottenuto il via libera per la produzione. Nonostante questo Jim gli tiene gli occhi addosso, anzi, quando scopre che il programma ha successo, suggerisce a Chuck di introdurre una variazione che gli permetterà di usarlo come copertura per missioni all'estero.

Però nemmeno il KGB scherza, e ci viene suggerito che pure loro usino il programma di Chuck per i loro scopi. Vediamo infatti che in una puntata la tipa sceglie il suo compagno scartando nientemeno che Brad Pitt e Matt Damon per favorire quello che scopriremo essere un agente doppiogiochista. Tra i colleghi di Chuck facciamo la conoscenza della letale Patricia (Julia Roberts) e del disilluso Keeler (Rutger Hauer). I due sembrano una copia in negativo di Penny e Chuck, e forse non è un caso che Chuck li debba eliminare per potersi sposare con Penny.

Lo stile della narrazione è in una via di mezzo tra quello dei fratelli Coen e di Steven Soderbergh (che è tra i produttori). Meglio andrà quando Clooney riuscirà a fare a meno di modelli altrui e userà le sue capacità. Vedasi Le idi di marzo.

(*) Da noi noto come Il gioco delle coppie, anche perché il termine "date" era, e credo continui ad essere, praticamente intraducibile.
(**) Molto simile al nostro La corrida, che però è precedente.

Il cerimoniale dei Musgrave

Questa versione presenta alcune variazioni non trascurabili rispetto all'originale (*), a cui però è sostanzialmente fedele nella sostanza. Se lo confrontiamo con lo Sherlock Holmes di fronte alla morte (**) non possiamo che ammirare l'aderenza al testo originale.

Il cambiamento principale è che il dottor Watson (Edward Hardwicke) partecipa attivamente all'avventura a fianco di Holmes (Jeremy Brett), mentre in originale questa era una vecchia storia, uno dei suoi primi casi, risolta in solitaria e che aveva raccontato all'amico. Di questa struttura resta una rimembranza nella sceneggiatura, in cui si allude ad appunti holmesiani che il nostro vuole rivedere prima di mostrarli al dottore.

Al centro della storia c'è Brunton (James Hazeldine), maggiordomo infedele di Sir Musgrave (Michael Culver). Costui non solo è infedele al suo datore di lavoro, ma anche alle donne. Questa doppia debolezza gli sarà fatale. Ha passato infatti anni a rimuginare su una antica pergamena della famiglia Musgrave che sembra indicare una specie di mappa del tesoro e pensa infine di averne trovato la soluzione. Scoperto da Musgrave a ficcanasare, gli viene dato poco tempo per agire e, non avendo alternative, pensa di usare come complice una sua ex fiamma, con tutto quello che ne consegue.

Il tesoro è niente meno che la corona di Carlo I d'Inghilterra, andata persa in seguito ai tumultuosi tempi della repubblica inglese.

(*) Parte della collezione Le memorie di Sherlock Holmes. Questo blocco di episodi Granada ha invece il titolo di Il ritorno di S.H., come la seguente collezione di racconti di Conan Doyle.
(**) Produzione Universal anni quaranta, con Basil Rathbone protagonista.

La tragedia di Abbey Grange

Secondo episodio del blocco denominato Il ritorno di Sherlock Holmes, come la seconda raccolta dei racconti che Conan Doyle ha dedicato al consulting detective per eccellenza. Solo in questa versione italiana si parla di tragedia quando, a ben vedere, come livello di tragicità siamo nella media, o è magari anche leggermente inferiore.

Holmes (Jeremy Brett) viene convocato dall'ispettore Hopkins nel sobborgo londinese che dà il titolo all'avventura (*), in seguito all'omicidio di Sir Brackenstall, persona di notevole influenza. L'ipotesi dell'indagine di polizia è che una famigliola di ladri locali sia stata colta sul fatto da Lady Brackenstall (Anne-Louise Lambert), che è stata messa a tacere con un potente sganassone, e questi abbiano eliminato il di lei marito prima di allontanarsi.

Nonostante alcuni particolari poco chiari, Holmes sembra disposto ad accettare questa ipotesi e, maledicendo l'ispettore che l'ha attirato fuori città per un caso così poco interessante, tornerebbe in Baker Street. Se non fosse che alcuni particolari relativi a bicchieri e una bottiglia non gli facessero venire dei dubbi.

L'infelicità del matrimonio dei Brackenstall, lei australiana non abituata alla rigida società inglese ottocentesca, lui brutale e con una perniciosa tendenza all'alcolismo, unita ad alcuni dettagli caratteriali di uno dei pochi conoscenti che lei ha in Inghilterra, sembrano indicare una possibile soluzione alternativa.

E' uno di quei racconti in cui Holmes si limita a suggerire al committente che la soluzione che questi ha in mente forse non è la più vicina alla realtà dei fatti, e finisce per decidere lui, nonostante qualche flebile protesta da parte di Watson (Edward Hardwicke), sul come devono andare a finire le cose.

Interessante notare come Conan Doyle sia in questo caso piuttosto in anticipo sui tempi, trattando di un argomento, la violenza familiare, su cui ai tempi si preferiva sorvolare. Ancor più di quanto sia comune oggi, intendo.

(*) Niente a che vedere con Abbey Normal - cit. Frankenstein Junior

La casa vuota

Con gran sorpresa di tutti (*) Sherlock Holmes (Jeremy Brett) torna nella sua Londra. Sono passati tre anni dai fatti della cascata del Reichenbach e ormai tutti quanti si erano messi il cuore in pace sul suo trapasso, con l'eccezione di suo fratello Mycroft, che era stato informato dei fatti. Ancor più sorprendente, però, il cambio di connotati del dottor Watson, a cui però nessuno sembra fare caso. Ce ne accorgiamo solo noi spettatori perché a cambiare non è il personaggio ma l'interprete (Edward Hardwicke).

Questo primo episodio del secondo blocco mi è parso al di sotto degli standard della serie, ma solo perché è il racconto stesso originale ad essere piuttosto noioso, costretto com'è dal dover fornire uno spiegone sulla finta morte del protagonista e sul suo colpevole silenzio anche nei confronti di Holmes, e dal dover fare agire come investigatore il povero Watson, che per esigenze di copione deve essere mostrato come relativamente incapace.

Il caso trattato è piuttosto insipido. Un luogotenente del professor Moriarty è tuttora attivo a Londra, ma campa a stento barando al gioco. Quando scopre che Holmes è tornato in Baker Street si prepara ad eliminarlo sparandogli da una casa di fronte provvidenzialmente sfitta (da cui il titolo).

(*) In particolare di Conan Doyle, che avrebbe voluto lasciar defunto il suo consulting detective e dedicarsi ad altro.

The Judge

La storia Nick Schenk e David Dobkin, con il secondo anche alla regia. Ma non è poi così importante. Con un cast del genere è davvero difficile sbagliare. Anche se tagliare una mezz'oretta facendo sparire qualche sviluppo secondario non sarebbe stata una cattiva idea.

L'apparenza è quella del legal thriller ma il cuore dalla storia sta tutto in una incasinatissima relazione padre - figlio, con tutto quello che ne consegue. Anche se, nonostante il clima molto teso all'interno della famiglia Palmer, due funerali, un omicidio con relativo processo, un divorzio incipiente e altri fatterelli minori, l'azione si dipana con sufficiente levità, almeno per gran parte del tempo.

Hank (Robert Downey Jr.) è un avvocato di dubbia moralità ma gran successo che esercita a Chicago. L'immagine di vincente è però molto sottile, e ci accorgiamo rapidamente che non ha amici, il matrimonio è in fase terminale, e non sa praticamente nulla della figlia. In più, sua madre muore improvvisamente, così che si trova a dover tornare nel suo paesello nell'Indiana, da cui si è tenuto accuratamente lontano per un paio di decenni.

Il padre (Robert Duvall) ha un caratterino molto particolare, basti dire che tutti, compresi i figli, lo chiamano Giudice. Persino quando si troverà ad essere al banco del testimone il giudice titolare del dibattimento lo chiamerà Giudice. Come si vedono incominciano a scoccare scintille. Hank se ne tornerebbe appena possibile a Chicago, ma un incidente lo trattiene. Pare che il padre abbia investito e ucciso un tale, anche se lui non ne ha alcun ricordo. Visto che in passato aveva avuto un problema di alcolismo, Hank sospetta che quella sia la ragione.

Il processo aiuterà a chiarire anche il motivo della tensione tra i due. Anzi, i due sfrutteranno la procedura giudiziale come artificio per parlare dei fatti loro. Avendo finalmente l'avvocato modo di poter fare domande dirette ed esigere risposte sincere dal Giudice.

Notevole anche il cast a supporto. Vale la pena di ricordare almeno Vera Farmiga nei panni della ex con cui Hank filava quand'era un ragazzetto (*) e Billy Bob Thornton è il pubblico ministero deciso a sfruttare la situazione per far vedere i sorci verdi a quello che vede, non a torto, come un pessimo esempio di avvocato.

Nota autoironica degli sceneggiatori, il fratello più giovane di Hank, Dale (Jeremy Strong), ha problemi mentali. E' quello che, volendo essere politicamente scorretti, si potrebbe definire lo scemo del paese. Costui usa una vecchia cinepresa a otto millimetri per nascondere la sua insicurezza, riprende tutto quello che può, e realizza filmini curando da sè anche il montaggio.

(*) Scopriamo che l'ha mollata in concomitanza di un concerto dei Metallica. Evento del quale conservano entrambi memoria, e lui la t-shirt.

Stardust

L'unica spiegazione ragionevole al fatto che io abbia scoperto solo ora che l'omonimo romanzo fantasy di Neil Gaiman è stato trasformato in film è che qualcuno mi abbia colpito con un maleficio, quale quello usato da Lamia (Michelle Pfeiffer) su Uggiosa Sal (Melanie Hill). Il lato positivo è che, essendo passato molto tempo dalla lettura, mi sono maggiormente divertito a indovinare se le discordanze che notavo erano dovute a mancanze nella mia memoria o a variazioni di sceneggiatura.

La storia originale è piuttosto intricata, e Matthew Vaughn, sceneggiatore (*) e regista, ha tagliato e aggiustato molto sia per riuscire a stare in un paio d'ore sia per adattare i personaggi al cast. Il risultato è discontinuo e poco chiaro in alcuni passaggi, consiglio perciò di leggere prima il libro. Anche dove le differenze sono sostanziali, le informazioni aggiuntive rendono molto più comprensibile anche il film.

Sostanzialmente si narra di un ragazzotto, Tristan (Charlie Cox), che vive in un villaggetto inglese ottocentesco in cui c'è ben poco di interessante, a parte Victoria (Sienna Miller) e una curiosa muraglia che il folklore locale vuole separi il nostro mondo da un mondo di favola.

Per far colpo su Victoria, le promette in omaggio una stella cadente che i due hanno visto precipitare proprio in direzione dell'altro mondo. Quello che Tristan non sa è che nel mondo fatato le stelle sono donne, quella in particolare si chiama Yvaine (Claire Danes). Non sa altre cosette, come ad esempio che Yvaine è caduta sulla Terra per colpa del re locale (Peter O'Toole) che, essendo moribondo, deve per tradizione trovare il modo di far sì che uno solo tra i suoi figli maschi sopravviva e ne prenda il posto. O che ci sono tre sorelle streghe, tra cui la sopra citata Lamia, che ambiscono a impossessarsi del cuore di una stella.

Assistiamo dunque alla lotta per la successione tra i due principi superstiti, Secundus (Rupert Everett) e Septimus (Mark Strong); la caccia alla stella da parte di Lamia; e il percorso di crescita di Tristan che trova subito Yvaine, ma che dovrà patire non poco per tornare al suo paese e scoprire che, dopotutto, ha di meglio da fare.

Ad aiutare Tristan ci penserà sua madre, che però è asservita ad una strega, e un bizzarro pirata, il capitano Shakespeare (Robert De Niro). Lungo il suo percorso avrà anche modo di incontrare un inaffidabile mercante (Ricky Gervais), che fornisce un ulteriore variazione nello svolgimento della storia.

Il tono del racconto cinematografico è simile a quello de La storia fantastica di Rob Reiner, a parte l'inserto piratesco, che mi ha fatto pensare più ai Monty Python, vedasi ad esempio i Banditi del tempo.

*) Co-sceneggiatrice è Jane Goldman.

Vizio di forma

L'articolo 1906 del Codice Civile afferma che "Salvo patto contrario, l'assicuratore non risponde dei danni prodotti da vizio intrinseco della cosa assicurata, che non gli sia stato denunziato". Ma questa volta non è colpa della distribuzione italiana se l'Inherent vice ha perso il senso originale, bensì dell'editore italiano del romanzo omonimo su cui è basata la sceneggiatura. Essendo l'autore Thomas Pynchon, si è preferito mantenere il riferimento letterario.

Oltretutto, non è nemmeno chiarissimo a cosa ci si riferisca nel titolo. Un personaggio parla di un assicuratore marittimo che non copre un rischio, ma si tratta di un episodio secondario in una narrazione magmatica che difficilmente può essere considerato fondamentale. E' dunque una metafora di qualcosa di più generale. Direi che però ogni spettatore (o lettore) può decidere a che cosa si riferisce. Io ci ho visto un riferimento alla inerente disfunzionalità del nostro modello di vita. Altre opinioni sono disponibili.

L'idea originaria di Paul Thomas Anderson era quella di convertire parola per parola lo scritto di Pynchon immagini. Grazie al cielo è arrivato ad una mediazione, ad esempio modificando un personaggio minore, Sortilège (Joanna Newsom), che diventa una versione filmica dello stesso Pynchon che così può, in un certo qual modo, farci sentire la sua voce originale. Nonostante ciò, posso testimoniare che l'estrema complicazione della vicenda ha causato svariati gradi di disperazione negli spettatori, ridotti quali naufraghi in un mare magno di avvenimenti. Io, dal canto mio, sono arrivato alla visione preparato, cogliendo il riferimento alle complicatissime storie hard boiled anni quaranta, vedasi ad esempio Il grande sonno di Howard Hawks, e lasciando quindi da parte le preoccupazioni di onniscienza. Nonostante questo, le due ore e mezza del film mi sono sembrate eccessive. Tagliare qualche trama secondaria avrebbe reso la visione più piacevole.

Al centro della storia c'è Larry Sportello (Joaquin Phoenix), che tutti chiamano Doc. Siamo negli anni settanta in California e lui è una specie di Dude ne Il grande Lebowski (*) che per qualche strano motivo si è messo a fare l'investigatore privato. La sua dark lady è Shasta (Katherine Waterston) che lo ha mollato ben prima dell'inizio del film ma di cui lui è evidentemente ancora innamorato. Lo visita rapidamente all'inizio della storia per chiedergli di indagare sul suo compagno corrente, Michael Wolfmann (Eric Roberts), un palazzinaro che è sposato con altra, la quale però ... insomma, è complicato. Se non bastasse questo, Larry viene subissato da richieste di clienti che lo portano nella stessa direzione. E come inizia le sue indagini, si piglia una mazzata in testa e viene incastrato in un omicidio. Per sua fortuna il poliziotto che si trova davanti è Bigfoot (Josh Brolin), molto ruvido ma che sembra, in un suo strano modo, amico di Larry.

Da qui in poi le cose diventano estremamente complicate. Accenno solo al fatto che Larry, quando ha bisogno di un legale, si rivolge a Sauncho (Benicio Del Toro), esperto in diritto marittimo; ha qualcosa di più che una amicizia con Penny (Reese Witherspoon) che, essendo un pubblico ministero, gli è utile per accedere a informazioni giudiziali riservate, ma è anche capace di scaricarlo all'FBI, a seconda di come è il suo umore; un suo cliente, intrappolato in una complicatissima storia, è Coy (Owen Wilson); e nel corso dei labirintici sviluppi del caso si imbatte in un dentista che risponde all'improbabile nome di Rudy Blatnoyd (Martin Short) e che ha forti dipendenze da droga e sesso.

(*) Lo vediamo consumare grandi quantità di alcolici, tabacco, droghe leggere di svariati tipi. E anche gas esilarante.