Harriet (Shirley MacLaine) è ricca da far paura e altrettanto sola. Bastano poche inquadrature per darci l'esatta dimensione di ciò, e rapidi scambi di battute con il suo sconfortato giardiniere (Gedde Watanabe) e la sua perplessa parrucchiera ci spiega anche come mai chiunque possa la rifugge. Ella infatti ritiene suo diritto avere l'ultima parola su qualunque argomento (*) e suo dovere maltrattare ferocemente chiunque abbia a che fare con lei.
La noia, infine, la spinge ad un mezzo tentativo di suicidio che sembra più mirato ad allargare la cerchia delle sue vittime, nella persona del suo medico curante, che a porre fine ad una vita tendente sempre più all'insulso. Un secondo tentativo che parrebbe più sostanzioso viene interrotto da un (im)provvido dubbio, cosa scriveranno nel necrologio?
Data la smania di controllo che Harriet su tutto e tutti, non può morire con questa incertezza. Si reca dunque alla sede del giornale locale e si impossessa di Anne (Amanda Seyfried), la delegata agli articoli obituari, affinché il suo coccodrillo sia confacente alla elevate sue aspettative.
A mio parere, le cose migliori del film si trovano in alcune piccole sottotrame che si sviluppano dalla storia principale, come questa faccenda del giornale locale. La testata è a conduzione familiare, e il corrente direttore, figlio d'arte, sembra un pesce fuor d'acqua, costretto a far funzionare una attività per la quale non pare abbia un particolare attrazione, forse per la sola necessità di mantenere la tradizione di famiglia. Scopriamo ad esempio che non hanno un archivio digitale ma bensì un immenso deposito cartaceo che deve essere la disperazione di tutti i dipendenti, e che lui non sembra ancora essersi ben capacitato di come le nuove tecnologie non siano state solo una moda passeggera. Fatto sta, il giornale è sull'orlo del tracollo, e si conta su una possibile donazione di Harriet per evitare, o almeno ritardare, una catastrofe che non pare lontana.
Si passa dunque alla modalità "strana coppia", Harriet contro Anne, apparentemente molto diverse accumunate controvoglia da uno scopo comune. La prima decide che un buon necrologio ha quattro caratteristiche fondamentali, il personaggio deve: (1) essere rispettato dalla comunità; (2) essere amato da amici e parenti; (3) aver cambiato la vita di qualcuno in modo inaspettato; (4) avere un qualcosa in più di speciale. Il problema è che Harriet ha passato la sua vita a schiacciare come un rullo compressore tutti quelli che gli erano attorno, pensando solo alla sua carriera, e dunque non ha materiale da offrire per ottenere il risultato cercato. Ma non sono certo queste quisquilie che possono preoccuparla.
Lo spunto iniziale non mi è dispiaciuto, ma la sceneggiatura (**) non regge per tutto lo svolgimento. Per essere chiari, se non ci fosse stata la MacLaine nel ruolo principale, potevano anche fare a meno di girare. Non mi ha per niente impressionato la Seyfried. Inizialmente pensavo che fosse fuori ruolo lei, ripensandoci forse è la parte che non è abbastanza robusta, e nessuno avrebbe potuto farci niente. Anche la regia di Mark Pellington non mi entusiasmato, anche se la parte musicale (***) evidentemente trae giovamento dalla sua esperienza nel campo.
La struttura del genere vorrebbe che Harriet capisse, sia pur tardivamente, di aver fatto errori non da poco nella sua vita, e magari riuscisse a metterci in limine una toppa. Qui invece, probabilmente in linea con il cinismo dei tempi, non è lei a cambiare (°), saranno gli altri a dover riconoscere di non averla capita. Anne, addirittura, la prenderà come esempio per la sua vita. Per fortuna il film finisce senza che noi si possa scoprire in che esistenza miserevole si stia andando a cacciare quella giovine donna ancora irrisolta.
(*) Da cui il titolo originale, The last word. Il titolo italiano, come spesso accade, ha ben poco senso.
(**) Di Stuart Ross Fink, praticamente uno sconosciuto.
(***) Un'altra sottotrama non disprezzabile include una radio privata che pare riemergere misteriosamente dal secolo scorso.
(°) C'è una sua battuta quando ormai il finale non è lontano, in cui ribadisce che lei è così, e non ha nessuna intenzione di modificare alcunché del suo carattere. Anzi, ridicolizza la figlia che le ha chiesto di affrontare i suoi problemi.
Il drago invisibile
E' una specie di remake di Elliott il drago invisibile (1977) su cui però si è lavorato parecchio, rendendolo piuttosto distante dall'originale. Quello era un tipico film Disney del periodo, in anche cui i personaggi reali avevano un comportamento da animazione. Questo invece è più vicino ad un live-action puro e semplice, anche se comunque mirato ad un pubblico familiare, con bambini anche piccoli.
In entrambi i casi, il protagonista, Pete, è un orfanello. Ma nella versione del secolo scorso ricorda molto un Oliver Twist sfruttato da chi lo dovrebbe aiutare e in cerca di una famiglia degna di questo nome, qui invece, sembra un piccolo Tarzan che, persi i genitori, trova conforto in un drago, forse invisibile, forse inesistente.
In realtà, il dubbio se il drago esista davvero o se sia solo una proiezione fantastica di Pete (Oakes Fegley), dura poco. Abbiamo infatti prove tangibili della sua esistenza, e ci sarà persino un cattivo, Gavin (Karl Urban), che lo vuole catturare per farne non si sa bene cosa, ma con lo scopo di diventare ricco e famoso.
Ad aiutare Pete saranno Grace (Bryce Dallas Howard), una guardiaboschi con lo spirito da crocerossina, e il di lei padre (Robert Redford), considerato da tutti un po' picchiatello perché da molti anni racconta a tutti che nelle foreste dei dintorni abita un drago.
A vedere Pete in volo su Elliott, si direbbe che che lo sceneggiatore-regista (David Lowery) abbia visto La storia infinita ma non mi sembra abbia tratto giovamento dagli spunti che il romanzo su cui è basato (Micheal Ende) gli avrebbe potuto dare. Si segue piuttosto un filone ambientalista o alla buon selvaggio ben poco approfondito.
Bello comunque il drago e la sua integrazione nella realtà cinematografica.
In entrambi i casi, il protagonista, Pete, è un orfanello. Ma nella versione del secolo scorso ricorda molto un Oliver Twist sfruttato da chi lo dovrebbe aiutare e in cerca di una famiglia degna di questo nome, qui invece, sembra un piccolo Tarzan che, persi i genitori, trova conforto in un drago, forse invisibile, forse inesistente.
In realtà, il dubbio se il drago esista davvero o se sia solo una proiezione fantastica di Pete (Oakes Fegley), dura poco. Abbiamo infatti prove tangibili della sua esistenza, e ci sarà persino un cattivo, Gavin (Karl Urban), che lo vuole catturare per farne non si sa bene cosa, ma con lo scopo di diventare ricco e famoso.
Ad aiutare Pete saranno Grace (Bryce Dallas Howard), una guardiaboschi con lo spirito da crocerossina, e il di lei padre (Robert Redford), considerato da tutti un po' picchiatello perché da molti anni racconta a tutti che nelle foreste dei dintorni abita un drago.
A vedere Pete in volo su Elliott, si direbbe che che lo sceneggiatore-regista (David Lowery) abbia visto La storia infinita ma non mi sembra abbia tratto giovamento dagli spunti che il romanzo su cui è basato (Micheal Ende) gli avrebbe potuto dare. Si segue piuttosto un filone ambientalista o alla buon selvaggio ben poco approfondito.
Bello comunque il drago e la sua integrazione nella realtà cinematografica.
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