Merito indiscusso di Nymphomaniac è di aver creato un tal polverone attorno al nome di Lars von Trier (come se ce ne fosse bisogno, chioserebbe l'illuso) che ha finalmente reso appetibile la distribuzione in DVD di suoi film considerati minori, come quello qui in oggetto, altrimenti praticamente invisibili.
Se la sceneggiatura fosse stata affidata ad un regista meno combattuto tra la voglia di far vedere i suoi film e quella di renderli inguardabili, il risultato sarebbe potuto essere una commedia di successo che avrebbe fatto la gioia di produttori e distributori.
Invece il von Trier regista ha pensato bene di prendere il lavoro del von Trier sceneggiatore e, per la pacata disperazione dei produttori (che del resto sono danesi, e conoscono il loro pollo sin dagli inizi), ha deciso di manipolare le regole di Dogma 95 per introdurre l'uso della casualità nei settaggi della macchina da presa. Abbiamo così sequenze spezzettate, inquadrature sfasate con spreco di taglio di teste (non nel senso horror del termine, ma in quello fotografico da gita scolastica) e maldestri sbalzi di luminosità.
La storia è invece quella di Ravn (Peter Gantzler) che, senza avere conoscenze informatiche né soldi, riesce a creare dal nulla una azienda di successo che produce software di successo, sfruttando l'incapacità relazionale dei suoi dipendenti. Incapace di sfruttarli fino in fondo, ha nascosto sin dall'inizio il suo vero ruolo, millantando l'esistenza di un grande capo su cui scaricare il peso delle decisioni più balorde.
Il film si apre quando i nodi stanno arrivando al pettine. Un munifico investitore islandese (che odia a morte i danesi per motivi storici) ha deciso di comprare l'azienda per una cifra esorbitante, che il perfido Ravn si vuol pappare in un sol boccone, non lasciando niente a tutti gli altri. Il problema è che ha bisogno di qualcuno che faccia finta di essere il grande capo. Lo trova in Kristoffer (Jens Albinus), attore sperimentale perennemente sull'orlo della catastrofe, che prende la cosa come una sfida artistica.
Segue una serie di bizzarri fatti che mettono alla berlina un po' tutto e tutti. Naturalmente von Trier non si limita a dileggiare finanza, informatica, società civile, ma colpisce duramente anche il mondo dello spettacolo, in particolare gli attori, ma senza trascurare gli sceneggiatori e i registi, troppo pieni di sé.
A fistful of fingers
Il primo lungometraggio di Edgar Wright è, almeno a tratti, di una bruttezza raccapricciante. La lezione più interessante che si può trarre è che se uno davvero vuol fare un film può riuscire a farlo. Non importa quanta poca esperienza ci sia (Wright era diciottenne ai tempi, e sembra che l'intero cast - con l'eccezione di Jeremy Beadle impegnato in un cameo - sia fatto da suoi coetanei), e quanto scarsi siano i fondi (e qui di soldi se ne vedono davvero pochi, hai mai pensato che fosse possibile fare un western senza cavalli?). Non verrà fuori un capolavoro, ma qualcuno potrebbe notarlo. E da cosa potrebbe nascere cosa.
Evidente ed esplicito sin dal titolo (Per un pugno di dita) il riferimento agli spaghetti western di Sergio Leone, che servono da ispirazione per una storia al limite del nonsense, e anche oltre, dove il protagonista senza nome si trova a combattere contro un cattivaccio che si scoprirà alla fine essere stato un bulletto che lo aveva angariato quando erano bambini.
Nonostante la povertà dei mezzi, la scarsezza della recitazione, la dubbia colonna sonora, si intravede una certa stoffa nel giovane regista/sceneggiatore.
Evidente ed esplicito sin dal titolo (Per un pugno di dita) il riferimento agli spaghetti western di Sergio Leone, che servono da ispirazione per una storia al limite del nonsense, e anche oltre, dove il protagonista senza nome si trova a combattere contro un cattivaccio che si scoprirà alla fine essere stato un bulletto che lo aveva angariato quando erano bambini.
Nonostante la povertà dei mezzi, la scarsezza della recitazione, la dubbia colonna sonora, si intravede una certa stoffa nel giovane regista/sceneggiatore.
The black balloon
Ha fatto strage di premi in patria (Australia) e ha vinto pure l'Orso di cristallo a Berlino. Simile il risultato a livello di pubblico, buon risultato casalingo, qualche isolato ma interessante successo in giro per il mondo. Praticamente invisibile in Italia.
L'assenza di una sua distribuzione nel Bel Paese è facilmente spiegabile con la sua origine (nonostante l'encomiabile lavoro di Domenico Procacci e della sua Fandango, l'Australia resta per noi un continente incognito) e con il tema trattato. Elissa Down (co-sceneggiatrice e regista) usa a piene mani leggerezza e giocosità (aiutata anche dalla colonna sonora di Michael Yezerski), ma osa parlare dell'impatto che Charlie, un ragazzo (Luke Ford) affetto da autismo e dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività, ha sulla sua famiglia e in particolare su suo fratello Thomas (Rhys Wakefield).
Thomas è in un momento particolare della sua vita, ha incontrato quella che sembra essere destinata a diventare la sua prima storia d'amore (Gemma Ward), e la tecnica che ha usato nei precedenti anni (fare finta che quello che fa suo fratello non sia affare suo) non funziona più, anche perché la madre (Toni Colette, Little Miss Sunshine è di un paio di anni prima, l'anno dopo darà voce a Mary in Mary e Max) è molto incinta e non riesce a seguire l'ingestibile Charlie.
La speranza di Thomas per gran parte del film è che Charlie miracolosamente guarisca, e torni ad essere "normale". Questo, purtroppo, non è possibile ma c'è comunque un lieto fine, perché Thomas riuscirà ad accettare, e in qualche modo pure a capire, il fratello.
L'assenza di una sua distribuzione nel Bel Paese è facilmente spiegabile con la sua origine (nonostante l'encomiabile lavoro di Domenico Procacci e della sua Fandango, l'Australia resta per noi un continente incognito) e con il tema trattato. Elissa Down (co-sceneggiatrice e regista) usa a piene mani leggerezza e giocosità (aiutata anche dalla colonna sonora di Michael Yezerski), ma osa parlare dell'impatto che Charlie, un ragazzo (Luke Ford) affetto da autismo e dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività, ha sulla sua famiglia e in particolare su suo fratello Thomas (Rhys Wakefield).
Thomas è in un momento particolare della sua vita, ha incontrato quella che sembra essere destinata a diventare la sua prima storia d'amore (Gemma Ward), e la tecnica che ha usato nei precedenti anni (fare finta che quello che fa suo fratello non sia affare suo) non funziona più, anche perché la madre (Toni Colette, Little Miss Sunshine è di un paio di anni prima, l'anno dopo darà voce a Mary in Mary e Max) è molto incinta e non riesce a seguire l'ingestibile Charlie.
La speranza di Thomas per gran parte del film è che Charlie miracolosamente guarisca, e torni ad essere "normale". Questo, purtroppo, non è possibile ma c'è comunque un lieto fine, perché Thomas riuscirà ad accettare, e in qualche modo pure a capire, il fratello.
Quell'oscuro oggetto del desiderio
Ultimo film di Luis Buñuel, basato su La donna e il burattino, un feuilleton di un secolo prima, figlio dei suoi tempi, scritto da un autore estetizzante e classicista quale Pierre Louÿs. Radicalmente riscritto col concorso di Jean-Claude Carrière ne viene fuori un racconto surreale che stravolge l'originale autocompiaciuta impostazione decadente per trasformarla in un crudo sberleffo alla nostra società.
Mathieu (Fernando Rey) un alto borghese che sembra non avere molto da fare, lascia frettolosamente Siviglia in treno, diretto a Parigi. In attesa che il treno si decida a partire per Madrid, scambia qualche frase di circostanza con i compagni di viaggio, una madre (Milena Vukotic) con figlia, un giudice, uno psicologo affetto da nanismo. All'ultimo momento giunge in stazione una giovane e splendida donna (Carole Bouquet) che cerca di parlargli e salire in treno. Lui la allontana e gli rovescia in testa un secchio d'acqua.
Il resto del film è quasi completamente assorbito dal lungo flash back in cui Mathieu racconta la sua storia con Conchita, per spiegare questo bizzarro gesto. Scopriamo così che i due si sono incontrati a casa di un giudice amico di Mathieu, dove lei lavorava come cameriera, lui aveva cercato di approfittarsi di lei, ma senza ottenere niente. Segue una serie di incontri, avvicinamenti e allontanamenti, in cui sempre lei gli nega (anche con mezzi che farebbero la loro figura anche in una pochade) quello che sembra essere l'unico interesse di Mathieu.
Nel finale la coppia sembra ricomporsi, o forse no. Dipende da come lo spettatore vuol leggere l'ultima scena.
Tra le numerose stranezze che costellano lo sviluppo della vicenda, la più nota è che la parte di Conchita è recitata dalla Bouquet (al suo debutto cinematografico) e da Ángela Molina. Entrambe belle e brave, e decisamente diverse. Mediterranea la Molina, più esile e nordica la Bouquet. Pare che questa curiosa scelta sia figlia del caso. Originariamente Conchita sarebbe dovuta essere interpretata da Maria Schneider. A seguito del suo forfait Buñuel, trovandosi indeciso tra le due attrici, decise di dare la parte ad entrambe.
Mathieu (Fernando Rey) un alto borghese che sembra non avere molto da fare, lascia frettolosamente Siviglia in treno, diretto a Parigi. In attesa che il treno si decida a partire per Madrid, scambia qualche frase di circostanza con i compagni di viaggio, una madre (Milena Vukotic) con figlia, un giudice, uno psicologo affetto da nanismo. All'ultimo momento giunge in stazione una giovane e splendida donna (Carole Bouquet) che cerca di parlargli e salire in treno. Lui la allontana e gli rovescia in testa un secchio d'acqua.
Il resto del film è quasi completamente assorbito dal lungo flash back in cui Mathieu racconta la sua storia con Conchita, per spiegare questo bizzarro gesto. Scopriamo così che i due si sono incontrati a casa di un giudice amico di Mathieu, dove lei lavorava come cameriera, lui aveva cercato di approfittarsi di lei, ma senza ottenere niente. Segue una serie di incontri, avvicinamenti e allontanamenti, in cui sempre lei gli nega (anche con mezzi che farebbero la loro figura anche in una pochade) quello che sembra essere l'unico interesse di Mathieu.
Nel finale la coppia sembra ricomporsi, o forse no. Dipende da come lo spettatore vuol leggere l'ultima scena.
Tra le numerose stranezze che costellano lo sviluppo della vicenda, la più nota è che la parte di Conchita è recitata dalla Bouquet (al suo debutto cinematografico) e da Ángela Molina. Entrambe belle e brave, e decisamente diverse. Mediterranea la Molina, più esile e nordica la Bouquet. Pare che questa curiosa scelta sia figlia del caso. Originariamente Conchita sarebbe dovuta essere interpretata da Maria Schneider. A seguito del suo forfait Buñuel, trovandosi indeciso tra le due attrici, decise di dare la parte ad entrambe.
Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore
Wes Anderson è uno di quei filmmaker (si scrive i soggetti da sé e poi li dirige) che sembra non fare alcuna fatica ad assemblare cast strepitosi, anche se poi le sue star si devono adattare a ruoli limitati.
Vedasi per l'appunto questo caso, in cui a far da protagonisti sono due ragazzetti alla loro prima esperienza, Kara Hayward (che sembra ben più matura dei suoi dodici anni) e Jared Gilman, e al contorno hanno gente come Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand e Tilda Swinton.
Si narra una storia minima in cui due adolescenti con problemi familiari, lui è un orfanello, lei ha una coppia di bizzarri genitori (Murray e la McDormand), entrambi avvocati, in profonda crisi coniugale, si incontrano, si riconoscono nell'altro, e decidono di fuggire assieme.
Il tutto avviene su un isoletta sulla costa orientale americana, il paesaggio è quello tipico del New England, negli anni sessanta, in corrispondenza con l'abbattersi in quei luoghi di una disastrosa tempesta.
I toni utilizzati sono al limite del favolistico, alcuni fatti narrati come se fossero reali sono evidentemente impossibili, o almeno largamente esagerati, come se fossero il racconto che i due protagonisti facessero oggi mezzo secolo dopo gli accadimenti davanti ad un caminetto ai loro nipotini.
A confermare l'atmosfera tra il giocoso e il fantastico ci pensa anche la colonna sonora firmata da Alexandre Desplat che cuce armoniosamente assieme sue composizioni originali con brani classici per un pubblico molto giovanile (molto riconoscibile Benjamin Britten).
Vedasi per l'appunto questo caso, in cui a far da protagonisti sono due ragazzetti alla loro prima esperienza, Kara Hayward (che sembra ben più matura dei suoi dodici anni) e Jared Gilman, e al contorno hanno gente come Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand e Tilda Swinton.
Si narra una storia minima in cui due adolescenti con problemi familiari, lui è un orfanello, lei ha una coppia di bizzarri genitori (Murray e la McDormand), entrambi avvocati, in profonda crisi coniugale, si incontrano, si riconoscono nell'altro, e decidono di fuggire assieme.
Il tutto avviene su un isoletta sulla costa orientale americana, il paesaggio è quello tipico del New England, negli anni sessanta, in corrispondenza con l'abbattersi in quei luoghi di una disastrosa tempesta.
I toni utilizzati sono al limite del favolistico, alcuni fatti narrati come se fossero reali sono evidentemente impossibili, o almeno largamente esagerati, come se fossero il racconto che i due protagonisti facessero oggi mezzo secolo dopo gli accadimenti davanti ad un caminetto ai loro nipotini.
A confermare l'atmosfera tra il giocoso e il fantastico ci pensa anche la colonna sonora firmata da Alexandre Desplat che cuce armoniosamente assieme sue composizioni originali con brani classici per un pubblico molto giovanile (molto riconoscibile Benjamin Britten).
Doctor Who - Speciale di Natale 2013
Chissà come e quando verrà trasmesso dalla Rai. Fortuna che, con un tocco di fantasia, sono riuscito a vederlo direttamente dal sito della BBC. Per considerazione nei confronti di chi aspetta la versione italiana, mi limito ad accennare a dettagli secondari o che dovrebbero già essere di conoscenza comune tra gli whoviani.
La puntata ha titolo "The time of the Doctor". Dopo il nome e il giorno, tocca dunque al tempo del Dottore. E davvero in questo episodio il Dottore finirà per usare moltissimo del suo tempo a disposizione.
Sapevamo già che questa doveva essere l'ultima puntata per l'undicesimo Dottore (Matt Smith) e che il dodicesimo (Peter Capaldi), come da tradizione, avrebbe fatto capolino nel finale.
Come pure sapevamo che si sarebbe andati a finire su Trenzalore, dove sarebbe dovuta accadere una accanita battaglia che si dovrebbe concludere con la morte definitiva del Dottore.
Facendo il conto delle rigenerazioni su cui un Time Lord può far conto, e considerando il Dottore Dimenticato (John Hurt) di cui è raccontata la storia nello speciale del cinquantesimo, e la rigenerazione forzata utilizzata dal Decimo Dottore (David Tennant) nel finale della quarta stagione, effettivamente ci siamo. Il Dottore ha finito la sua scorta di vite. Eppure sappiamo che il Dodicesimo Dottore è già pronto ad entrare in pista.
Qualcosa di imprevedibile dovrà dunque accadere.
La battaglia coinvolgerà buona parte dei nemici storici del Dottore, in particolare i Dalek (che sì, si erano dimenticati di lui, ma nell'universo del Dottore nulla è per sempre) che avranno i loro buoni motivi per scatenarla.
Oltre a Clara (Jenna Coleman), ci sarà una apparizione di Amy Pond (Karen Gillan). Il che è molto bello, pensando che la piccola Amalia è stata la prima persona che l'Undicesimo Dottore ha incontrato, ma è anche bizzarro, considerando come sia, a tutti gli effetti, sua suocera. Solo una menzione onorevole per la moglie del Dottore, River Song.
Le relazioni femminili del Dottore includeranno un altro personaggio notevole, Tasha (Orla Brady), una specie di papessa di una religione che ai nostri occhi potrebbe sembrare inconsueta.
Ci sono alcune debolezze nella sceneggiatura, ma l'impatto emotivo dell'uscita di scena del Dottore (nonostante che Smith non sia il mio preferito) è tale da farmele considerare del tutto secondarie.
La puntata ha titolo "The time of the Doctor". Dopo il nome e il giorno, tocca dunque al tempo del Dottore. E davvero in questo episodio il Dottore finirà per usare moltissimo del suo tempo a disposizione.
Sapevamo già che questa doveva essere l'ultima puntata per l'undicesimo Dottore (Matt Smith) e che il dodicesimo (Peter Capaldi), come da tradizione, avrebbe fatto capolino nel finale.
Come pure sapevamo che si sarebbe andati a finire su Trenzalore, dove sarebbe dovuta accadere una accanita battaglia che si dovrebbe concludere con la morte definitiva del Dottore.
Facendo il conto delle rigenerazioni su cui un Time Lord può far conto, e considerando il Dottore Dimenticato (John Hurt) di cui è raccontata la storia nello speciale del cinquantesimo, e la rigenerazione forzata utilizzata dal Decimo Dottore (David Tennant) nel finale della quarta stagione, effettivamente ci siamo. Il Dottore ha finito la sua scorta di vite. Eppure sappiamo che il Dodicesimo Dottore è già pronto ad entrare in pista.
Qualcosa di imprevedibile dovrà dunque accadere.
La battaglia coinvolgerà buona parte dei nemici storici del Dottore, in particolare i Dalek (che sì, si erano dimenticati di lui, ma nell'universo del Dottore nulla è per sempre) che avranno i loro buoni motivi per scatenarla.
Oltre a Clara (Jenna Coleman), ci sarà una apparizione di Amy Pond (Karen Gillan). Il che è molto bello, pensando che la piccola Amalia è stata la prima persona che l'Undicesimo Dottore ha incontrato, ma è anche bizzarro, considerando come sia, a tutti gli effetti, sua suocera. Solo una menzione onorevole per la moglie del Dottore, River Song.
Le relazioni femminili del Dottore includeranno un altro personaggio notevole, Tasha (Orla Brady), una specie di papessa di una religione che ai nostri occhi potrebbe sembrare inconsueta.
Ci sono alcune debolezze nella sceneggiatura, ma l'impatto emotivo dell'uscita di scena del Dottore (nonostante che Smith non sia il mio preferito) è tale da farmele considerare del tutto secondarie.
The secret life of Walter Mitty - Sogni proibiti
Volevo vedere I sogni segreti di Walter Mitty, diretto e interpretato da Ben Stiller, ma il proiezionista deve aver sbagliato pellicola. La confusione, se questo è il caso, potrebbe essere stata causata dal fatto che in lingua originale il titolo non è cambiato. Avessero mantenuto il titolo italiano per il remake, ci si sarebbe pure potuti confondere con Sogni mostruosamente proibiti, con Paolo Villaggio nel ruolo di protagonista.
Non è molto importante chi sia il regista (Norman Z. McLeod) o chi siano gli sceneggiatori che hanno preso un racconto di James Thurber e lo hanno martellato a lungo per adattarlo ai talenti del protagonista, Danny Kaye, quanto il produttore, Samuel Goldwyn, che è stato, nel bene e nel male, il vero responsabile di questo film.
Tra gli interpreti secondari spicca Boris Karloff, in un ruolo piccolo che pare sia stato sacrificato anche in fase di montaggio per tenere il minutaggio sotto le due ore (lo spettatore attento noterà incongruità in altre parti, dovute probabilmente ad altri tagli draconiani). In quel periodo Karloff faceva cose come Dick Tracy meets Gruesome, in cui lui era Gruesome (in italiano, qualcosa come Raccapricciante - un po' come il protagonista di Cattivissimo me, che si chiama Grue) e dunque non credo abbia fatto particolarmente caso a questi dettagli.
Walter Mitty (Kaye) è un dipendente di una casa editrice pulp (vedasi Pulp fiction per dettagli) di New York. Fa ogni giorno il pendolare dal suo paesino nel New Jersey, dove è vessato dalla terribile madre, a Manhattan, dove è vessato dal terribile capo. Un po' come il suo omologo in Quando la moglie è in vacanza, anche lui trova rifugio in fantasticherie che lo consolano dalla triste realtà. La madre è così tremenda che gli ha pure imposto la fidanzata (Ann Rutherford), una odiosetta, anch'ella succube della propria madre. Il capo, invece, si limita a maltrattarlo e a soffiargli le idee.
A sconvolgere la routine ci pensa una bella straniera (Virginia Mayo) che lo trascina in un inghippo alla Notorious (uscito un anno prima), Intrigo internazionale, e un po' a tutto quel genere di storie che piacevano molto ad Alfred Hitchcock. Non è difficile immaginare come andrà a finire.
Il ritmo della narrazione è spezzato di continuo sia dai sogni ad occhi aperti di Walter, che vengono dilatati esageratamente per dar modo a Kaye, che proveniva dall'avanspettacolo, di fare sfoggio delle sue capacità (qui ricorda a tratti Charlie Chaplin, che viene anche citato esplicitamente, e il nostro Totò), sia da siparietti comici che però non centrano sempre il bersaglio.
Le numerose le attrici di bella presenza ma dalla scarsa o nulla possibilità di emetter parola rimarcano la impostazione da vaudeville della produzione, che però deve fare i conti con il codice Hays che ai tempi regolamentava il cinema americano. Ne conseguono abiti succinti ma non troppo, e niente situazioni che possano essere considerate sconvenienti. Anche il finale paga pegno e il protagonista, pur ribellandosi alla sua precedente situazione, finirà per rimanerne comunque impastoiato.
Non è molto importante chi sia il regista (Norman Z. McLeod) o chi siano gli sceneggiatori che hanno preso un racconto di James Thurber e lo hanno martellato a lungo per adattarlo ai talenti del protagonista, Danny Kaye, quanto il produttore, Samuel Goldwyn, che è stato, nel bene e nel male, il vero responsabile di questo film.
Tra gli interpreti secondari spicca Boris Karloff, in un ruolo piccolo che pare sia stato sacrificato anche in fase di montaggio per tenere il minutaggio sotto le due ore (lo spettatore attento noterà incongruità in altre parti, dovute probabilmente ad altri tagli draconiani). In quel periodo Karloff faceva cose come Dick Tracy meets Gruesome, in cui lui era Gruesome (in italiano, qualcosa come Raccapricciante - un po' come il protagonista di Cattivissimo me, che si chiama Grue) e dunque non credo abbia fatto particolarmente caso a questi dettagli.
Walter Mitty (Kaye) è un dipendente di una casa editrice pulp (vedasi Pulp fiction per dettagli) di New York. Fa ogni giorno il pendolare dal suo paesino nel New Jersey, dove è vessato dalla terribile madre, a Manhattan, dove è vessato dal terribile capo. Un po' come il suo omologo in Quando la moglie è in vacanza, anche lui trova rifugio in fantasticherie che lo consolano dalla triste realtà. La madre è così tremenda che gli ha pure imposto la fidanzata (Ann Rutherford), una odiosetta, anch'ella succube della propria madre. Il capo, invece, si limita a maltrattarlo e a soffiargli le idee.
A sconvolgere la routine ci pensa una bella straniera (Virginia Mayo) che lo trascina in un inghippo alla Notorious (uscito un anno prima), Intrigo internazionale, e un po' a tutto quel genere di storie che piacevano molto ad Alfred Hitchcock. Non è difficile immaginare come andrà a finire.
Il ritmo della narrazione è spezzato di continuo sia dai sogni ad occhi aperti di Walter, che vengono dilatati esageratamente per dar modo a Kaye, che proveniva dall'avanspettacolo, di fare sfoggio delle sue capacità (qui ricorda a tratti Charlie Chaplin, che viene anche citato esplicitamente, e il nostro Totò), sia da siparietti comici che però non centrano sempre il bersaglio.
Le numerose le attrici di bella presenza ma dalla scarsa o nulla possibilità di emetter parola rimarcano la impostazione da vaudeville della produzione, che però deve fare i conti con il codice Hays che ai tempi regolamentava il cinema americano. Ne conseguono abiti succinti ma non troppo, e niente situazioni che possano essere considerate sconvenienti. Anche il finale paga pegno e il protagonista, pur ribellandosi alla sua precedente situazione, finirà per rimanerne comunque impastoiato.
Elysium
Forse il problema è che in questo film Neill Blomkamp (sceneggiatura e regia, suo primo film americano dopo il successo di District 9) ha cercato di metterci dentro troppa roba.
Le premesse sono quelle di Metropolis, in un futuro distopico (tra meno di centocinquant'anni) i super-ricchi, stufi del degrado terrestre, e pare anche infastiditi dal dover aver a che fare fin troppo frequentemente con miseri mortali, decidono di andare a vivere un po' più in là. In questo caso su una bella (anche se scientificamente discutibile) stazione orbitante che innesca memorie relative a 2001 Odissea nello spazio.
La assurda distanza tra il mondo dei pochi felici e il resto dell'umanità viene poi trattato come altri film di fantascienza hanno fatto, soprattutto nel recente passato, vedasi ad esempio Total recall (con il quale si può fare un parallelo anche per il lavoro del protagonista), Upside down, In time, eccetera.
Il nostro eroe, Max (Matt Damon), deve giocare il tutto per tutto in brevissimo tempo per riuscire a raggiungere Elysium, coinvolgendo involontariamente nella corsa anche la sua amica di infanzia (Alice Braga), che del resto ha pure un suo interesse. Dall'altra parte della barricata c'è la crudele responsabile della sicurezza elisiana (Jodie Foster) che nel frattempo ha le sue idee per la testa, che coinvolgono anche il capo (William Fichtner) dell'azienda dove lavora Max, con cui il nostro ha un conticino in sospeso.
In mezzo si mette pure un feroce mercenario sudafricano (Sharlto Copley, era il protagonista di District 9) che ha un certo gusto per la violenza, a prescindere da quanto questa sia necessaria.
Visto il debole ruolo della donna del protagonista, la si sarebbe a mio avviso eliminare del tutto, e utilizzare il tempo ottenuto per dare più spessore ad altri personaggi. Infatti a venir disegnato bene è solo il protagonista, anche la antagonista avrebbe tratto giovamento da qualche minuto in più per la costruzione del personaggio.
Le premesse sono quelle di Metropolis, in un futuro distopico (tra meno di centocinquant'anni) i super-ricchi, stufi del degrado terrestre, e pare anche infastiditi dal dover aver a che fare fin troppo frequentemente con miseri mortali, decidono di andare a vivere un po' più in là. In questo caso su una bella (anche se scientificamente discutibile) stazione orbitante che innesca memorie relative a 2001 Odissea nello spazio.
La assurda distanza tra il mondo dei pochi felici e il resto dell'umanità viene poi trattato come altri film di fantascienza hanno fatto, soprattutto nel recente passato, vedasi ad esempio Total recall (con il quale si può fare un parallelo anche per il lavoro del protagonista), Upside down, In time, eccetera.
Il nostro eroe, Max (Matt Damon), deve giocare il tutto per tutto in brevissimo tempo per riuscire a raggiungere Elysium, coinvolgendo involontariamente nella corsa anche la sua amica di infanzia (Alice Braga), che del resto ha pure un suo interesse. Dall'altra parte della barricata c'è la crudele responsabile della sicurezza elisiana (Jodie Foster) che nel frattempo ha le sue idee per la testa, che coinvolgono anche il capo (William Fichtner) dell'azienda dove lavora Max, con cui il nostro ha un conticino in sospeso.
In mezzo si mette pure un feroce mercenario sudafricano (Sharlto Copley, era il protagonista di District 9) che ha un certo gusto per la violenza, a prescindere da quanto questa sia necessaria.
Visto il debole ruolo della donna del protagonista, la si sarebbe a mio avviso eliminare del tutto, e utilizzare il tempo ottenuto per dare più spessore ad altri personaggi. Infatti a venir disegnato bene è solo il protagonista, anche la antagonista avrebbe tratto giovamento da qualche minuto in più per la costruzione del personaggio.
Monsieur Lazhar
Mia seconda visione per questo film canadese (scritto e diretto da Philippe Falardeau) che ha avuto un relativo successo sia a livello di concorsi (premiato a Locarno, tra l'altro) sia di pubblico, al punto che il regista è riuscito a trovare negli USA fondi sufficienti per il suo prossimo film che uscirà nel 2014 ed avrà tra Reese Witherspoon come protagonista femminile.
Storia di ambientazione scolastica che mescola diverse tematiche che variano dalla difficoltà di inserimento in un diverso Paese, al rapporto tra insegnanti, genitori, bambini.
Iniziando con il suicidio di una insegnante, e avendo sullo sfondo la storia del protagonista (Mohamed Fellag) che in Canada è arrivato dall'Algeria in seguito a tragici accadimenti, non è propriamente definibile un film di intrattenimento. Eppure Falardeau mostra di saper trattare argomenti non facili con leggerezza.
Questa volta il finale mi ha fatto pensare a Vita di Pi. Lazhar non riesce a parlare della sua tragica storia con la persona che sente più vicina (anche perché si tratta di una sua alunna, la giovanissima Sophie Nélisse che mi sembra instradata verso una bella carriera cinematografica), ci riesce solo nel finale ricorrendo ad una molto toccante trasposizione favolistica.
Storia di ambientazione scolastica che mescola diverse tematiche che variano dalla difficoltà di inserimento in un diverso Paese, al rapporto tra insegnanti, genitori, bambini.
Iniziando con il suicidio di una insegnante, e avendo sullo sfondo la storia del protagonista (Mohamed Fellag) che in Canada è arrivato dall'Algeria in seguito a tragici accadimenti, non è propriamente definibile un film di intrattenimento. Eppure Falardeau mostra di saper trattare argomenti non facili con leggerezza.
Questa volta il finale mi ha fatto pensare a Vita di Pi. Lazhar non riesce a parlare della sua tragica storia con la persona che sente più vicina (anche perché si tratta di una sua alunna, la giovanissima Sophie Nélisse che mi sembra instradata verso una bella carriera cinematografica), ci riesce solo nel finale ricorrendo ad una molto toccante trasposizione favolistica.
Spaced - Stagione 1
Sit-com sperimentale a bassissimo costo, è stato il punto di partenza del sodalizio tra Edgar Wright (regia), Simon Pegg (co-sceneggiatore e protagonista) e Nick Frost. La protagonista femminile e co-sceneggiatrice è Jessica Hynes (al tempo Jessica Stevenson), che ha rincontrato il terzetto ne L'alba dei morti dementi e il solo Pegg in Burke & Hare ma si è ritagliata una carriera per conto suo.
Lo sperimentalismo sta sia nella regia di Wright, che riesce a trasformare l'assenza quasi assoluta di soldi in un pregio, usando creativamente linguaggi da film di genere (horror, fantascientifico, etc) in una struttura che non li prevederebbero, sia nella sceneggiatura a quattro mani che mescola fantasiosamente i punti di vista maschili e femminili ottenendo effetti comici che, se non colpiscono sempre il bersaglio, quando ci riescono lo fanno bene.
La storia è quella di due quasi trentenni londinesi in cerca di trovare una posizione nella società, Tim (Pegg) vorrebbe disegnare fumetti, Daisy (Hynes) vorrebbe fare la giornalista, entrambi hanno una vita affettiva disastrosa. Per riuscire a conquistare un buon appartamento fingono di essere una coppia stabile con lavoro decente e, sorprendentemente, riescono nell'impresa, anche perché Marsha, la padrona di casa (Julia Deakin, vista anche in successive avventure del terzetto, qui recita come una specie di Anjelica Huston/Morticia Addams con una perniciosa dipendenza alcolica) sembra avere un bizzarro modo di selezionare gli inquilini. Vedasi l'artista (Mark Heap) che alloggia nel seminterrato.
Tra gli altri personaggi, il ruolo più importante ce l'ha Frost, che interpreta l'amico di infanzia di Tim, caratterizzato da una passione sfrenata per le armi e la vita militare.
Lo sperimentalismo sta sia nella regia di Wright, che riesce a trasformare l'assenza quasi assoluta di soldi in un pregio, usando creativamente linguaggi da film di genere (horror, fantascientifico, etc) in una struttura che non li prevederebbero, sia nella sceneggiatura a quattro mani che mescola fantasiosamente i punti di vista maschili e femminili ottenendo effetti comici che, se non colpiscono sempre il bersaglio, quando ci riescono lo fanno bene.
La storia è quella di due quasi trentenni londinesi in cerca di trovare una posizione nella società, Tim (Pegg) vorrebbe disegnare fumetti, Daisy (Hynes) vorrebbe fare la giornalista, entrambi hanno una vita affettiva disastrosa. Per riuscire a conquistare un buon appartamento fingono di essere una coppia stabile con lavoro decente e, sorprendentemente, riescono nell'impresa, anche perché Marsha, la padrona di casa (Julia Deakin, vista anche in successive avventure del terzetto, qui recita come una specie di Anjelica Huston/Morticia Addams con una perniciosa dipendenza alcolica) sembra avere un bizzarro modo di selezionare gli inquilini. Vedasi l'artista (Mark Heap) che alloggia nel seminterrato.
Tra gli altri personaggi, il ruolo più importante ce l'ha Frost, che interpreta l'amico di infanzia di Tim, caratterizzato da una passione sfrenata per le armi e la vita militare.
Le donne del 6º piano
Lo si può vedere come una buona commedia romantica francese che non richiede particolare attenzione e ripaga tranquillamente le aspettative. Va benissimo così, ma si spreca buona parte del lavoro di Philippe Le Guay (sceneggiatura e regia).
Volendo, si può prestare attenzione al lavoro del cast che, oltre al protagonista Fabrice Luchini, include anche Carmen Maura e Lola Dueñas. Magari si può notare che le due spagnole hanno una certa esperienza almodovariana, e chiedersi come mai siano state scelte, oltre che per la loro innegabile bravura. La componente spagnola nel film viene pure risaltata dalla adeguata colonna sonora, firmata da Jorge Arriagada, disegnata anche per sottolineare anche le atmosfere di un tempo ormai lontano.
Siamo infatti nei primi anni sessanta a Parigi, al centro della storia c'è la famiglia medio-alto borghese dei Joubert, e in particolare del capofamiglia Jean-Louis (Luchini). Il quale ha ereditato dal padre un lavoro che gli permette una vita agiata, ma per il quale non prova quasi nessun interesse. Non gli va meglio nemmeno nella vita privata, con un matrimonio che è evidentemente diventato pura routine e due figli che conosce appena.
Questa esistenza da zombie viene travolta dal cambio di governante, l'arrivo della giovane María (Natalia Verbeke) lo porta ad interessarsi all'esistenza delle donne di servizio del caseggiato, alloggiate all'ultimo piano in misere condizioni. E questo lo porta a farsi domande che finiranno per spingerlo a cambiare vita.
Oltre alla trama rom-com, c'è dunque pure una velata critica sociale che possiamo tranquillamente trasporre ai nostri giorni. Del resto, giusto all'inizio vediamo che i Joubert cambiano la precedente governante (bretone, mi pare di ricordare) con una spagnola lamentandosi che le francesi non hanno più voglia di lavorare. Adesso si fanno venire a fare questi lavori persone da angoli più remoti del mondo (Filippine, ex-URSS, ...) ma il concetto resta lo stesso.
C'è pure un accenno, ancor più felpato, sul sessantotto. Si intuisce infatti che i due giovani Joubert siano sul punto di abbracciare la contestazione, li sentiamo fare discorsi egalitari pseudo-rivoluzionari, ma li vediamo anche comportarsi da privilegiati che non hanno nessuna intenzione di applicare realmente i principi che sbandierano con il solo scopo, mi vien da pensare, di mettere in imbarazzo i genitori.
Ma non si spaventi lo spettatore che vuole qualcosa di semplice, tutte queste tematiche sono lasciate sullo sfondo, e a dominare è lo stralunato stupore del protagonista che scopre di voler buttare alle ortiche la sua precedente vita e ricominciare da capo, e il bel sorriso di María.
Volendo, si può prestare attenzione al lavoro del cast che, oltre al protagonista Fabrice Luchini, include anche Carmen Maura e Lola Dueñas. Magari si può notare che le due spagnole hanno una certa esperienza almodovariana, e chiedersi come mai siano state scelte, oltre che per la loro innegabile bravura. La componente spagnola nel film viene pure risaltata dalla adeguata colonna sonora, firmata da Jorge Arriagada, disegnata anche per sottolineare anche le atmosfere di un tempo ormai lontano.
Siamo infatti nei primi anni sessanta a Parigi, al centro della storia c'è la famiglia medio-alto borghese dei Joubert, e in particolare del capofamiglia Jean-Louis (Luchini). Il quale ha ereditato dal padre un lavoro che gli permette una vita agiata, ma per il quale non prova quasi nessun interesse. Non gli va meglio nemmeno nella vita privata, con un matrimonio che è evidentemente diventato pura routine e due figli che conosce appena.
Questa esistenza da zombie viene travolta dal cambio di governante, l'arrivo della giovane María (Natalia Verbeke) lo porta ad interessarsi all'esistenza delle donne di servizio del caseggiato, alloggiate all'ultimo piano in misere condizioni. E questo lo porta a farsi domande che finiranno per spingerlo a cambiare vita.
Oltre alla trama rom-com, c'è dunque pure una velata critica sociale che possiamo tranquillamente trasporre ai nostri giorni. Del resto, giusto all'inizio vediamo che i Joubert cambiano la precedente governante (bretone, mi pare di ricordare) con una spagnola lamentandosi che le francesi non hanno più voglia di lavorare. Adesso si fanno venire a fare questi lavori persone da angoli più remoti del mondo (Filippine, ex-URSS, ...) ma il concetto resta lo stesso.
C'è pure un accenno, ancor più felpato, sul sessantotto. Si intuisce infatti che i due giovani Joubert siano sul punto di abbracciare la contestazione, li sentiamo fare discorsi egalitari pseudo-rivoluzionari, ma li vediamo anche comportarsi da privilegiati che non hanno nessuna intenzione di applicare realmente i principi che sbandierano con il solo scopo, mi vien da pensare, di mettere in imbarazzo i genitori.
Ma non si spaventi lo spettatore che vuole qualcosa di semplice, tutte queste tematiche sono lasciate sullo sfondo, e a dominare è lo stralunato stupore del protagonista che scopre di voler buttare alle ortiche la sua precedente vita e ricominciare da capo, e il bel sorriso di María.
Mud
Prendi una storia che sembra una favola, trasponila in un mid-west dei giorni nostri, segui il punto di vista di due personaggi minori ma che finiranno per dare un contributo fondamentale, che, essendo ragazzetti - quasi bambini, ti permettono di usare toni alla Tom Sawyer (Mark Twain), o alla Stand by me (Stephen King - Rob Reiner). Se riesci a raccontare come Jeff Nichols (sceneggiatura e regia), ti può venire fuori un bel film come questo.
Come nel precedente Take shelter, Nichols segue personaggi minori in ambienti periferici che si comportano in maniera bizzarra, ma che hanno molto da dire, a chi voglia, o possa, ascoltare. Già, perché nonostante il buon successo di critica nei festival a cui è stato presentato (unica possibilità per trovare una distribuzione decente per chi non è coperto da una major) e il conseguente relativo successo commerciale, non mi pare che in Italia sia passato in alcun cinema, e nemmeno sia disponibile in DVD. Fortuna che al giorno d'oggi non è difficile procurarsi versioni per altri Paesi europei a prezzi decenti. Unico problema, niente doppiaggio (ma questo lo vedrei in positivo come uno stimolo ad imparare l'inglese) e, almeno nell'edizione che è capitata nelle mie mani, niente sottotitoli nella nostra lingua.
Abbiamo dunque un eroe (Matthew McConaughey), anche se è difficile definirlo senza macchia, al punto che si fa chiamare Mud, ovvero Fango, nome quanto mai adeguato visto che tutta l'azione si svolge sul fangosissimo Mississippi, che farebbe qualunque cosa per la sua bella Juniper (Reese Witherspoon). Lei, però, pur amandolo, è volatile come l'uccellino che si è fatta tatuare sulla mano, e non riesce proprio a legarsi a lui. C'è poi una folta schiera di cattivi, che vogliono eliminare, possibilmente in modo molto doloroso, Mud.
Il quale è solo al mondo, figlio di genitori ignoti. Avrebbe una specie di padre adottivo, Tom (Sam Shepard), che però si è stufato di dirgli che non si può fidare di Juniper, delle sciocchezze che combina per cercare di conquistarla, e praticamente gli dice che non vuole più aver nulla a che fare con lui.
Entrano in azione i nostri piccoli salvatori, Ellis (Tye Sheridan, che mi sembra destinato ad un brillante futuro) e Neckbone (Jacob Lofland, suo debutto, ottima intesa con Sheridan), ragazzetti di famiglie sull'orlo della povertà e forse pure della catastrofe, i genitori del primo sono decisamente in crisi, il secondo ha solo un bizzarro zio (Michael Shannon, era protagonista in Take shelter) che vive facendo il palombaro nel fiume con una attrezzatura casalinga che sembra da cartone animato. Ellis vede in Mud qualcosa che nessuno sembra vedere, forse nemmeno lo stesso Mud riusciva a vedere più, e riesce, pure attraverso mille pericoli, errori, sconfitte, a propiziare una fine che, se non è esattamente lieta, è almeno positiva.
Come nel precedente Take shelter, Nichols segue personaggi minori in ambienti periferici che si comportano in maniera bizzarra, ma che hanno molto da dire, a chi voglia, o possa, ascoltare. Già, perché nonostante il buon successo di critica nei festival a cui è stato presentato (unica possibilità per trovare una distribuzione decente per chi non è coperto da una major) e il conseguente relativo successo commerciale, non mi pare che in Italia sia passato in alcun cinema, e nemmeno sia disponibile in DVD. Fortuna che al giorno d'oggi non è difficile procurarsi versioni per altri Paesi europei a prezzi decenti. Unico problema, niente doppiaggio (ma questo lo vedrei in positivo come uno stimolo ad imparare l'inglese) e, almeno nell'edizione che è capitata nelle mie mani, niente sottotitoli nella nostra lingua.
Abbiamo dunque un eroe (Matthew McConaughey), anche se è difficile definirlo senza macchia, al punto che si fa chiamare Mud, ovvero Fango, nome quanto mai adeguato visto che tutta l'azione si svolge sul fangosissimo Mississippi, che farebbe qualunque cosa per la sua bella Juniper (Reese Witherspoon). Lei, però, pur amandolo, è volatile come l'uccellino che si è fatta tatuare sulla mano, e non riesce proprio a legarsi a lui. C'è poi una folta schiera di cattivi, che vogliono eliminare, possibilmente in modo molto doloroso, Mud.
Il quale è solo al mondo, figlio di genitori ignoti. Avrebbe una specie di padre adottivo, Tom (Sam Shepard), che però si è stufato di dirgli che non si può fidare di Juniper, delle sciocchezze che combina per cercare di conquistarla, e praticamente gli dice che non vuole più aver nulla a che fare con lui.
Entrano in azione i nostri piccoli salvatori, Ellis (Tye Sheridan, che mi sembra destinato ad un brillante futuro) e Neckbone (Jacob Lofland, suo debutto, ottima intesa con Sheridan), ragazzetti di famiglie sull'orlo della povertà e forse pure della catastrofe, i genitori del primo sono decisamente in crisi, il secondo ha solo un bizzarro zio (Michael Shannon, era protagonista in Take shelter) che vive facendo il palombaro nel fiume con una attrezzatura casalinga che sembra da cartone animato. Ellis vede in Mud qualcosa che nessuno sembra vedere, forse nemmeno lo stesso Mud riusciva a vedere più, e riesce, pure attraverso mille pericoli, errori, sconfitte, a propiziare una fine che, se non è esattamente lieta, è almeno positiva.
Molière in bicicletta
Serge (Fabrice Luchini), attore sulla sessantina, s'è ritirato dal lavoro per vivere, solo e ingrugnito, su un'isoletta lontana da tutto e da tutti.
Ma non ha fatto i conti con Gauthier (Lambert Wilson), un suo vecchio amico di un decennio più giovane, e con il TGV che lo rende facilmente raggiungibile.
Gauthier ha un gran successo televisivo, grazie ad una serie in cui lui interpreta il solito chirurgo burbero ma geniale, ruolo che a lui però va stretto, vorrebbe fare qualcosa di più impegnativo, niente meno che Il misantropo di Molière. Inoltre è preoccupato per Serge, e vorrebbe che tornasse a recitare, sapendo quanto forte sia la sua passione.
Inizia dunque una schermaglia tra i due, molto diversi sia caratterialmente sia nello stile della recitazione. Serge non vorrebbe tornare a recitare, lamentando la corruzione dei tempi, però non riesce a resistere alla possibilità di avere il ruolo principale di Alceste (da cui il titolo originale, Alceste à bicyclette), e dunque cede solo per l'accordo di interpretarlo in alternanza con Gauthier.
Il film segue le prove dei due Alceste che si scambiano i ruoli, inframezzati con altri accadimenti, quali l'incontro con una italiana (Maya Sansa) che sta divorziando e con Zoé (Laurie Bordesoules), una giovane nativa che si vuole dedicare al cinema (ma nel senso del porno).
Trattasi di commedia con risvolto amaro, scritta e diretta da Philippe Le Guay, prendendo spunto dalla passione di Luchini per Molière e per una vita non troppo lontana da quella rappresentata dal suo personaggio.
I momenti migliori sono quelli dove i personaggi provano e si scontrano declamando gli alessandrini di Molière, che purtroppo sono anche quelli che subiscono maggiormente il doppiaggio. Avrei preferito avere la possibilità di vederlo in originale sottotitolato. Come soluzione di ripiego, vedo che youtube, cercando il titolo originale, si trova una buona quantità di spezzoni. Avendo visto la versione italiana prima, si riesce comunque ad apprezzare la musicalità che al cinema (ohimè) va persa.
Ma non ha fatto i conti con Gauthier (Lambert Wilson), un suo vecchio amico di un decennio più giovane, e con il TGV che lo rende facilmente raggiungibile.
Gauthier ha un gran successo televisivo, grazie ad una serie in cui lui interpreta il solito chirurgo burbero ma geniale, ruolo che a lui però va stretto, vorrebbe fare qualcosa di più impegnativo, niente meno che Il misantropo di Molière. Inoltre è preoccupato per Serge, e vorrebbe che tornasse a recitare, sapendo quanto forte sia la sua passione.
Inizia dunque una schermaglia tra i due, molto diversi sia caratterialmente sia nello stile della recitazione. Serge non vorrebbe tornare a recitare, lamentando la corruzione dei tempi, però non riesce a resistere alla possibilità di avere il ruolo principale di Alceste (da cui il titolo originale, Alceste à bicyclette), e dunque cede solo per l'accordo di interpretarlo in alternanza con Gauthier.
Il film segue le prove dei due Alceste che si scambiano i ruoli, inframezzati con altri accadimenti, quali l'incontro con una italiana (Maya Sansa) che sta divorziando e con Zoé (Laurie Bordesoules), una giovane nativa che si vuole dedicare al cinema (ma nel senso del porno).
Trattasi di commedia con risvolto amaro, scritta e diretta da Philippe Le Guay, prendendo spunto dalla passione di Luchini per Molière e per una vita non troppo lontana da quella rappresentata dal suo personaggio.
I momenti migliori sono quelli dove i personaggi provano e si scontrano declamando gli alessandrini di Molière, che purtroppo sono anche quelli che subiscono maggiormente il doppiaggio. Avrei preferito avere la possibilità di vederlo in originale sottotitolato. Come soluzione di ripiego, vedo che youtube, cercando il titolo originale, si trova una buona quantità di spezzoni. Avendo visto la versione italiana prima, si riesce comunque ad apprezzare la musicalità che al cinema (ohimè) va persa.
Blue Jasmine
Un bravo attore può riuscire a farsi valere anche nonostante la sceneggiatura e la regia, ma quando incontra una sceneggiatura che gli sembra cucita addosso ed è seguito da una regia di gran classe il risultato non può che essere eccellente.
La Jasmine del titolo, blue nel senso della depressione che gli anglofoni associano a questo colore, è una Cate Blanchett in piena forma che sfrutta al meglio quello che Woody Allen le offre su un piatto d'argento, una storia centrata sul suo personaggio che le dà modo di spaziare in tutta la gamma espressiva a sua disposizione.
L'umore nero di Jasmine è dovuto al brusco passaggio di status. Un attimo prima era la viziata moglie di Hal (Alec Baldwin), un vorace squalo della finanza d'assalto newyorkese, adesso è una vedova squattrinata (ma che continua a sperperare come se nulla fosse cambiato) costretta a lasciare la sua amata Fifth Avenue di Manhattan per San Francisco, contando sull'ospitalità di Ginger (Sally Hawkins, anche lei bravissima), la sorella-brutto anatroccolo che non ha mai potuto sopportare.
Tenendo come spartiacque volo coast-to-coast (in prima classe, nonostante tutto), il film racconta in flashback il passato alto borghese New York e in presa diretta il presente proletario a San Francisco, tra ex marito, nuovo fidanzato (Bobby Cannavale) e amici di Ginger che, ovviamente, le fanno orrore, mostra un maldestro tentativo di rifarsi la vita, finito male anche per colpa di un viscido dentista (Michael Stuhlbarg), fino all'incontro con un appetibile divorziato (Peter Sarsgaard).
Chi non abbia ancora visto il film faccia attenzione al fatto che non si tratta di commedia che nasconde temi di spessore dietro le battute, ma di tragedia raccontata con levità.
La Jasmine del titolo, blue nel senso della depressione che gli anglofoni associano a questo colore, è una Cate Blanchett in piena forma che sfrutta al meglio quello che Woody Allen le offre su un piatto d'argento, una storia centrata sul suo personaggio che le dà modo di spaziare in tutta la gamma espressiva a sua disposizione.
L'umore nero di Jasmine è dovuto al brusco passaggio di status. Un attimo prima era la viziata moglie di Hal (Alec Baldwin), un vorace squalo della finanza d'assalto newyorkese, adesso è una vedova squattrinata (ma che continua a sperperare come se nulla fosse cambiato) costretta a lasciare la sua amata Fifth Avenue di Manhattan per San Francisco, contando sull'ospitalità di Ginger (Sally Hawkins, anche lei bravissima), la sorella-brutto anatroccolo che non ha mai potuto sopportare.
Tenendo come spartiacque volo coast-to-coast (in prima classe, nonostante tutto), il film racconta in flashback il passato alto borghese New York e in presa diretta il presente proletario a San Francisco, tra ex marito, nuovo fidanzato (Bobby Cannavale) e amici di Ginger che, ovviamente, le fanno orrore, mostra un maldestro tentativo di rifarsi la vita, finito male anche per colpa di un viscido dentista (Michael Stuhlbarg), fino all'incontro con un appetibile divorziato (Peter Sarsgaard).
Chi non abbia ancora visto il film faccia attenzione al fatto che non si tratta di commedia che nasconde temi di spessore dietro le battute, ma di tragedia raccontata con levità.
Hollywoodland
Hollywood dei tempi andati vista da dietro le quinte, seguendo una prospettiva investigativa. Che poi è un tema piuttosto comune della letteratura hard-boiled, e sua conseguente trascrizione cinematografica. Restando ai nostri tempi, nello stesso anno è uscito Black Dahlia, e l'anno prima Kiss kiss bang bang. A chi fosse indeciso su quale dei tre vedere suggerirei, senza pensarci più di un attimo, il terzo.
La differenza è che qui si segue, con le solite ovvie molte libertà di sceneggiatura, una storia vera, quella di George Reeves (Ben Affleck), colui che fu il secondo Superman sullo schermo (essendo il primo Kirk Alyn).
Il povero Reeves era un attore di secondo piano, che viveva nella speranza di fare il grande balzo e diventare una star. Riuscì ad entrare con una particina nel cast di Via col vento ma questo non lo aiutò nella carriera. Seguono infatti apparizioni come figurante e ruoli minimi, con l'eccezione del ruolo da protagonista nel seriale Le avventure di Sir Galahad, citato nel film.
Gli capitano poi un paio di cose. Incontra Toni (Diane Lane) e diventa il suo amante, scoprendo poi che di cognome ella fa Mannix, ed è moglie di Eddie (Bob Hoskins), un pezzo grosso dell'MGM con una nomea non proprio cristallina. E poi ottiene la parte principale per una nuova serie televisiva di Superman. Non che sia entusiasta dei panni di supereroe, ma è la cosa migliore che il suo agente gli riesce a procurare.
Sfruttando il successo della serie (e forse anche qualche appoggio da parte della signora Mannix), George riesce ad ottenere qualche altro piccolo ruolo in produzioni notevoli. Appare infatti (ma non se ne parla nel film) in Gardenia blu, un film minore di Fritz Lang, e soprattutto nel polpettone di gran successo Da qui all'eternità. Succede però che il ruolo di Superman ha finito per oscurare l'attore, rendendo ridicole le sue apparizioni fuori da quel contesto. E' questa la vera maledizione di Superman che, in fin dei conti, finì per colpire anche il quasi-omonimo successore Christopher Reeve. Se un ruolo è troppo ingombrante, finisce per impedire, o rendere molto difficile, all'attore di fare il suo mestiere, che sarebbe quello di interpretare ogni volta un carattere diverso. Si pensi come ulteriore esempio ad un altro Reeves, Keanu, e al suo rapporto con Neo di Matrix.
A mio parere, la drammatica storia di George sarebbe bastata a riempire il film, grazie anche alle ottime prove attoriali di Affleck (una delle sue migliori cose, secondo me, giustamente premiato con la Coppa Volpi a Venezia), Lane e Hoskins. Non dello stesso avviso sono stati sceneggiatore (Paul Bernbaum) e regista (Allen Coulter), forse a causa del loro backgroud televisivo.
Si è dunque fatto in modo che la vicenda di George fosse contrapposta a quella di Louis (Adrien Brody), un investigatore privato sull'orlo della catastrofe umana. Costretto a lavorare in proprio per essersi inimicato il mondo del cinema, divorziato con un figlio che non riesce a seguire, ha un unico cliente che sembra psicopatico (e nel finale dimostra di esserlo), e finisce per prendere un caso che lo porta ad indagare nel mondo del cinema, scoprendone gli aspetti più deprimenti dietro una facciata che sembra così luccicante.
Tecnicamente, la doppia trama è resa mostrando in parallelo le due storie, come se stessero avvenendo contemporaneamente, mentre invece sono sequenziali. Vi sono inoltre un paio di scene che non sono "reali" (nel senso di essere realmente avvenute nell'universo definito dallo svolgimento del film) ma immaginate (o dedotte) da Louis, che vengono però presentate come se lo fossero, lasciando allo spettatore la libertà di decidere cosa farne. Espedienti che credo avrebbero funzionato meglio con una diversa storia e magari con un diverso regista.
La differenza è che qui si segue, con le solite ovvie molte libertà di sceneggiatura, una storia vera, quella di George Reeves (Ben Affleck), colui che fu il secondo Superman sullo schermo (essendo il primo Kirk Alyn).
Il povero Reeves era un attore di secondo piano, che viveva nella speranza di fare il grande balzo e diventare una star. Riuscì ad entrare con una particina nel cast di Via col vento ma questo non lo aiutò nella carriera. Seguono infatti apparizioni come figurante e ruoli minimi, con l'eccezione del ruolo da protagonista nel seriale Le avventure di Sir Galahad, citato nel film.
Gli capitano poi un paio di cose. Incontra Toni (Diane Lane) e diventa il suo amante, scoprendo poi che di cognome ella fa Mannix, ed è moglie di Eddie (Bob Hoskins), un pezzo grosso dell'MGM con una nomea non proprio cristallina. E poi ottiene la parte principale per una nuova serie televisiva di Superman. Non che sia entusiasta dei panni di supereroe, ma è la cosa migliore che il suo agente gli riesce a procurare.
Sfruttando il successo della serie (e forse anche qualche appoggio da parte della signora Mannix), George riesce ad ottenere qualche altro piccolo ruolo in produzioni notevoli. Appare infatti (ma non se ne parla nel film) in Gardenia blu, un film minore di Fritz Lang, e soprattutto nel polpettone di gran successo Da qui all'eternità. Succede però che il ruolo di Superman ha finito per oscurare l'attore, rendendo ridicole le sue apparizioni fuori da quel contesto. E' questa la vera maledizione di Superman che, in fin dei conti, finì per colpire anche il quasi-omonimo successore Christopher Reeve. Se un ruolo è troppo ingombrante, finisce per impedire, o rendere molto difficile, all'attore di fare il suo mestiere, che sarebbe quello di interpretare ogni volta un carattere diverso. Si pensi come ulteriore esempio ad un altro Reeves, Keanu, e al suo rapporto con Neo di Matrix.
A mio parere, la drammatica storia di George sarebbe bastata a riempire il film, grazie anche alle ottime prove attoriali di Affleck (una delle sue migliori cose, secondo me, giustamente premiato con la Coppa Volpi a Venezia), Lane e Hoskins. Non dello stesso avviso sono stati sceneggiatore (Paul Bernbaum) e regista (Allen Coulter), forse a causa del loro backgroud televisivo.
Si è dunque fatto in modo che la vicenda di George fosse contrapposta a quella di Louis (Adrien Brody), un investigatore privato sull'orlo della catastrofe umana. Costretto a lavorare in proprio per essersi inimicato il mondo del cinema, divorziato con un figlio che non riesce a seguire, ha un unico cliente che sembra psicopatico (e nel finale dimostra di esserlo), e finisce per prendere un caso che lo porta ad indagare nel mondo del cinema, scoprendone gli aspetti più deprimenti dietro una facciata che sembra così luccicante.
Tecnicamente, la doppia trama è resa mostrando in parallelo le due storie, come se stessero avvenendo contemporaneamente, mentre invece sono sequenziali. Vi sono inoltre un paio di scene che non sono "reali" (nel senso di essere realmente avvenute nell'universo definito dallo svolgimento del film) ma immaginate (o dedotte) da Louis, che vengono però presentate come se lo fossero, lasciando allo spettatore la libertà di decidere cosa farne. Espedienti che credo avrebbero funzionato meglio con una diversa storia e magari con un diverso regista.
Come non detto
Mi ha fatto male agli occhi e al cuore vedere una brava attrice italiana (Monica Guerritore) in una produzione così scarsa. Anche se, a dire il vero, l'ultima volta che ho visto la Guerritore al suo meglio è stato a teatro, decenni fa, nel Macbeth diretto da Gabriele Lavia.
Un ragazzetto gay romano ha un fidanzato spagnolo, con cui sta per convolare, approfittando della maggior tolleranza iberica sui gusti sessuali dei cittadini. Essendo però italiano, segue i dettami della doppia morale (fa quel che vuoi, basta che non si sappia), cosa che lo spagnolo non capisce, e dunque viene conoscere gli suoceri prima di portar loro via il tenero virgulto.
L'amico del protagonista che ha una lavanderia mi ha ovviamente fatto pensare a My beautiful laundrette di Stephen Frears. Roba di un altro pianeta.
Un ragazzetto gay romano ha un fidanzato spagnolo, con cui sta per convolare, approfittando della maggior tolleranza iberica sui gusti sessuali dei cittadini. Essendo però italiano, segue i dettami della doppia morale (fa quel che vuoi, basta che non si sappia), cosa che lo spagnolo non capisce, e dunque viene conoscere gli suoceri prima di portar loro via il tenero virgulto.
L'amico del protagonista che ha una lavanderia mi ha ovviamente fatto pensare a My beautiful laundrette di Stephen Frears. Roba di un altro pianeta.
Quartet
Storia non particolarmente sorprendente, ma ben narrata, un adattatamento dello stesso Ronald Harwood dalla sua piece teatrale. Che poi Harwood sarebbe quello che ha scritto cose come Il servo di scena o La diva Julia. Il che spiega come mai il mondo teatral-musicale sia raccontato così bene, ma anche come mai, causa la regia affidata all'esordiente (da quel lato della macchina da presa, si intende) Dustin Hoffman, la messa in scena risulti a tratti molto poco cinematografica.
Ambientata in una inesistente casa di riposo per cantanti e musicisti che sarebbe nella bella campagna inglese, ma che prende evidentemente ispirazione dalla milanese Casa Verdi, racconta dei preparativi per il tradizionale concerto che gli ospiti tengono tutti gli anni, in occasione del compleanno del Maestro Giuseppe Verdi (per l'appunto), con lo scopo di raccogliere fondi per aiutare la cassa dell'istituto.
Due i filoni che si rincorrono, da un lato seguiamo i preparativi secondo le direttive di Cedric (Michael Gambon), che presumibilmente era un impresario, dall'altro le vicende sentimentali di una coppia di cantanti d'opera, Jean (Maggie Smith) e Reggie (Tom Courtenay), il cui matrimonio, risalente a decenni prima, era durato solo poche ore. Parte importante hanno anche altri due cantanti, l'estroverso Wilf (Billy Connolly) e la smemorina Cissy (Pauline Collins). I quattro avevano spesso cantato assieme in passato, e dunque vorrebbero ricostruire l'amicizia, e possibilmente anche tornando a cantare come attrazione principale nello spettacolo di cui sopra. Il problema principale sta nel carattere di Jean, che da brava prima donna, fa le bizze.
La colonna sonora non concede molto spazio alle musiche originali di Dario Marianelli, data la gran mole di materiale d'archivio. Molto Verdi, naturalmente, ma anche Bach, Rossini, Puccini (Vissi d'arte dalla Tosca), eccetera.
Ambientata in una inesistente casa di riposo per cantanti e musicisti che sarebbe nella bella campagna inglese, ma che prende evidentemente ispirazione dalla milanese Casa Verdi, racconta dei preparativi per il tradizionale concerto che gli ospiti tengono tutti gli anni, in occasione del compleanno del Maestro Giuseppe Verdi (per l'appunto), con lo scopo di raccogliere fondi per aiutare la cassa dell'istituto.
Due i filoni che si rincorrono, da un lato seguiamo i preparativi secondo le direttive di Cedric (Michael Gambon), che presumibilmente era un impresario, dall'altro le vicende sentimentali di una coppia di cantanti d'opera, Jean (Maggie Smith) e Reggie (Tom Courtenay), il cui matrimonio, risalente a decenni prima, era durato solo poche ore. Parte importante hanno anche altri due cantanti, l'estroverso Wilf (Billy Connolly) e la smemorina Cissy (Pauline Collins). I quattro avevano spesso cantato assieme in passato, e dunque vorrebbero ricostruire l'amicizia, e possibilmente anche tornando a cantare come attrazione principale nello spettacolo di cui sopra. Il problema principale sta nel carattere di Jean, che da brava prima donna, fa le bizze.
La colonna sonora non concede molto spazio alle musiche originali di Dario Marianelli, data la gran mole di materiale d'archivio. Molto Verdi, naturalmente, ma anche Bach, Rossini, Puccini (Vissi d'arte dalla Tosca), eccetera.
Argo
Seconda visione, ad un annetto di distanza dalla prima. Impressioni confermate, buon film, simpatica commistione tra dramma e commedia, realtà e finzione. Unica differenza, questa volta ho sentito meno la tensione. Sotto questo punto di vista è uno di quei film che rende di più la prima volta. Non è tanto sul come vada a finire, questo lo sapevo anche un anno fa, e che è costruito (anche) sul "chissà cosa succede adesso". Gli ostaggi in fuga saranno scoperti? I mujaheddin li fermeranno nel bazar? Eccetera. Tutti dubbi che sono già risolti nelle repliche.
Nonostante questo, e nonostante anche un certa carenza di sottigliezza in alcuni passaggi, la sceneggiatura di Chris Terrio (in pratica al suo debutto) e la regia di Ben Affleck tengono bene, al punto che anche questa volta le due ore sane di pellicola mi sono scorse via senza problemi.
Nonostante questo, e nonostante anche un certa carenza di sottigliezza in alcuni passaggi, la sceneggiatura di Chris Terrio (in pratica al suo debutto) e la regia di Ben Affleck tengono bene, al punto che anche questa volta le due ore sane di pellicola mi sono scorse via senza problemi.
The station agent
Che poi in italiano il titolo sarebbe stato facilmente traducibile in Il capostazione. Prima sceneggiatura e regia di Thomas "Tom" McCarthy, forse più noto come attore. Un po' come Sergio Rubini che ha diretto il suo primo film, La stazione (in inglese The station) un decennio prima. E in effetti i due film hanno in comune, oltre all'ambientazione ferroviaria, anche uno sguardo su personaggi e ambienti periferici.
Il protagonista qui è Fin (Peter Dinklage) un trentenne affetto da nanismo, ormai rassegnato alla crudele ironia dei "normali" e con una grande passione per i treni. A causa di una eredità lascia i sobborghi di New York per prendere possesso di una stazione abbandonata nel nulla del New Jersey. Interessante notare come il passaggio dai due ambienti venga visto come abissale, nonostante che Fin, con il suo passo corto, riesca a cambiare casa con una lunga passeggiata. E, ho controllato sulla cartina, direi che sia fattibile, anche se magari sarebbe meglio mettere in conto due giorni.
Sembra che il suo progetto sia quello di vivere in solitudine avendo meno contatti possibile con il resto dell'umanità, ma finisce per incappare in Olivia (Patricia Clarkson), una cinquantenne molto sbadata che rischia di investirlo (due volte!), e Joe (Bobby Cannavale - di questi giorni lo si può vedere in Blue Jasmine) un loquace cubano sulla trentina che gestisce per conto del padre momentaneamente indisposto un baracchino che, misteriosamente, vende caffè proprio fuori dalla ex-stazione di Fin. Altri incontri, tra cui quello con la bibliotecaria (Michelle Williams ancora non molto nota, Brokeback Mountain è di un paio di anni dopo) e con una bambina cicciosetta, finiranno per fargli cambiare idea.
McCarthy mescola con giudizio i toni da commedia con quelli più drammatici, raccontandoci la storia di tre solitudini che riescono miracolosamente a far sbocciare una bella amicizia. C'è qualche angolo oscuro nella sceneggiatura - per esempio, se si capisce bene come mai Fin e Olivia preferiscano starsene per conto loro, non è chiaro perché Joe sia così attratto da quei due musoni - ma il risultato complessivo è ottimo.
Il protagonista qui è Fin (Peter Dinklage) un trentenne affetto da nanismo, ormai rassegnato alla crudele ironia dei "normali" e con una grande passione per i treni. A causa di una eredità lascia i sobborghi di New York per prendere possesso di una stazione abbandonata nel nulla del New Jersey. Interessante notare come il passaggio dai due ambienti venga visto come abissale, nonostante che Fin, con il suo passo corto, riesca a cambiare casa con una lunga passeggiata. E, ho controllato sulla cartina, direi che sia fattibile, anche se magari sarebbe meglio mettere in conto due giorni.
Sembra che il suo progetto sia quello di vivere in solitudine avendo meno contatti possibile con il resto dell'umanità, ma finisce per incappare in Olivia (Patricia Clarkson), una cinquantenne molto sbadata che rischia di investirlo (due volte!), e Joe (Bobby Cannavale - di questi giorni lo si può vedere in Blue Jasmine) un loquace cubano sulla trentina che gestisce per conto del padre momentaneamente indisposto un baracchino che, misteriosamente, vende caffè proprio fuori dalla ex-stazione di Fin. Altri incontri, tra cui quello con la bibliotecaria (Michelle Williams ancora non molto nota, Brokeback Mountain è di un paio di anni dopo) e con una bambina cicciosetta, finiranno per fargli cambiare idea.
McCarthy mescola con giudizio i toni da commedia con quelli più drammatici, raccontandoci la storia di tre solitudini che riescono miracolosamente a far sbocciare una bella amicizia. C'è qualche angolo oscuro nella sceneggiatura - per esempio, se si capisce bene come mai Fin e Olivia preferiscano starsene per conto loro, non è chiaro perché Joe sia così attratto da quei due musoni - ma il risultato complessivo è ottimo.
Dietro i candelabri
La quasi totale scomparsa dei cinema indipendenti negli Stati Uniti ha avuto tra le sue conseguenze l'appiattimento della loro produzione cinematografica. Un film che non ambisca ad un'ampia platea finisce per essere stroncato all'origine, non trovando gli (ingenti) capitali necessari.
Fortuna che gli autori sono creativi, e dunque si è trovato il modo di superare il problema. E' nato dunque un nuovo tipo di film per la TV. Sono film che potrebbero essere tranquillamente distribuiti al cinema - ed in effetti lo sono, in Europa - ma che sono prodotti dalla televisione (tipicamente la HBO) per essere in primo luogo visti sul piccolo schermo. Vedasi ad esempio Wit (2001) che ha Mike Nichols alla regia ed Emma Thompson come protagonista, trattando il tema della morte per cancro non è stato considerato sufficientemente appetibile.
Stesso destino per questo film, che pur essendo diretto da Steven Soderbergh, con i ruoli principali affidati a Michael Douglas e Matt Damon, comprimari del calibro di Dan Aykroyd, Scott Bakula, Rob Lowe, Debbie Reynolds, ad avendo uno sviluppo su toni piuttosto leggeri, non ha ottenuto l'OK da nessuna major perché si tratta esplicitamente il tema della gayezza che, evidentemente, dopo una parentesi di permissivismo, è tornato ad essere tra gli argomenti che richiedono una particolare attenzione.
La storia è quella di Liberace (Douglas), un pianista estremamente gay famosissimo negli USA, morto a fine anni ottanta di AIDS. Figlio del suo tempo, negò sempre pubblicamente le sue preferenze sessuali, e gran parte dei suoi fan incredibilmente gli credevano senza problemi. Il punto di vista è quello di Scott (Damon), suo amante per alcuni anni nel periodo finale della sua vita.
Gli atteggiamenti da diva del protagonista ricordano gli eccessi de Il vizietto, o delle drag queen di Priscilla, anche se qui viene dato maggior spazio alla fisicità del rapporto tra i due protagonisti, un po' come in My beautiful laundrette. Ne sconsiglierei perciò caldamente la visione agli omofobi, visto che anche a me gli sbaciucchiamenti tra Douglas e Damon sono sembrati eccessivi.
A proposito del lato documentaristico della vicenda, occorre tener presente che il personaggio di Scott è stato pesantemente adattato alle esigenze di sceneggiatura. Nella realtà era minorenne quando conobbe Liberace (e Damon, seppur ringiovanito dal trucco, non riesce a sembrare così giovane), e non aveva per niente una buona relazione con la sua famiglia adottiva.
Riassumendo, ottima prova attoriale, in particolare quella di Michael Douglas, buona regia e sceneggiatura, anche se non ho capito bene dove volesse andare a parare.
Fortuna che gli autori sono creativi, e dunque si è trovato il modo di superare il problema. E' nato dunque un nuovo tipo di film per la TV. Sono film che potrebbero essere tranquillamente distribuiti al cinema - ed in effetti lo sono, in Europa - ma che sono prodotti dalla televisione (tipicamente la HBO) per essere in primo luogo visti sul piccolo schermo. Vedasi ad esempio Wit (2001) che ha Mike Nichols alla regia ed Emma Thompson come protagonista, trattando il tema della morte per cancro non è stato considerato sufficientemente appetibile.
Stesso destino per questo film, che pur essendo diretto da Steven Soderbergh, con i ruoli principali affidati a Michael Douglas e Matt Damon, comprimari del calibro di Dan Aykroyd, Scott Bakula, Rob Lowe, Debbie Reynolds, ad avendo uno sviluppo su toni piuttosto leggeri, non ha ottenuto l'OK da nessuna major perché si tratta esplicitamente il tema della gayezza che, evidentemente, dopo una parentesi di permissivismo, è tornato ad essere tra gli argomenti che richiedono una particolare attenzione.
La storia è quella di Liberace (Douglas), un pianista estremamente gay famosissimo negli USA, morto a fine anni ottanta di AIDS. Figlio del suo tempo, negò sempre pubblicamente le sue preferenze sessuali, e gran parte dei suoi fan incredibilmente gli credevano senza problemi. Il punto di vista è quello di Scott (Damon), suo amante per alcuni anni nel periodo finale della sua vita.
Gli atteggiamenti da diva del protagonista ricordano gli eccessi de Il vizietto, o delle drag queen di Priscilla, anche se qui viene dato maggior spazio alla fisicità del rapporto tra i due protagonisti, un po' come in My beautiful laundrette. Ne sconsiglierei perciò caldamente la visione agli omofobi, visto che anche a me gli sbaciucchiamenti tra Douglas e Damon sono sembrati eccessivi.
A proposito del lato documentaristico della vicenda, occorre tener presente che il personaggio di Scott è stato pesantemente adattato alle esigenze di sceneggiatura. Nella realtà era minorenne quando conobbe Liberace (e Damon, seppur ringiovanito dal trucco, non riesce a sembrare così giovane), e non aveva per niente una buona relazione con la sua famiglia adottiva.
Riassumendo, ottima prova attoriale, in particolare quella di Michael Douglas, buona regia e sceneggiatura, anche se non ho capito bene dove volesse andare a parare.
Equilibrium
Pur essendo, soprattutto nella lunghissima prima parte, noioso oltre misura, questo film scritto e diretto da Kurt Wimmer non mi è totalmente dispiaciuto.
Distopia ambientata nell'immediato futuro, cerca di presentarsi come clone culturalmente più raffinato di Matrix, usando riferimenti letterari e cinematografici di gran lignaggio, come 1984 di George Orwell (e film di Michael Radford), Brave new world di Aldous Huxley, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (e film di François Truffaut), Metropolis di Fritz Lang e, volendo, anche cose un po' meno elevate, come Il mago di Oz, magari via Zardoz di John Boorman, El Mariachi di Robert Rodriguez. Eccetera.
C'è stata la solita catastrofica terza guerra mondiale, un tale (Sean Pertwee) è diventato benevolo dittatore a vita e ha convinto la popolazione che i guai degli umani derivano dal provare emozioni, dunque la ricetta è quella di spararsi tutti quanti una dose di calmante e di evitare assolutamente tutto quello che possa risvegliare la sensibilità, dalle opere d'arte agli animali da compagnia.
Ovviamente ci sono anche quelli a cui questo andazzo non va bene, e dunque viene creata una bizzarra forza di polizia, i cui agenti (clerici) si vestono come i ribelli di Matrix, e usano improbabili tecniche di combattimento orientali che però non disdegnano il supporto di armi da fuoco.
La storia segue il percorso di Preston, un molto reverendo clerico (Christian Bale) che assiste senza quasi batter ciglio alla condanna a morte della moglie (Maria Pia Calzone, purtroppo parte minima), elimina personalmente il suo collega (Sean Bean) in quanto in realtà avido lettore di poesie (ovviamente vietate), ma non riesce a resistere al lato oscuro della passione quando cercano di ammazzargli sotto il naso un cucciolone canino decisamente simpatico. Ah già, anche l'esecuzione dell'ex-amante (Emily Watson) del collega, per la quale anche lui sembra avere un certo interesse non propriamente platonico, contribuisce alla sua conversione.
Spunti interessanti ce ne sono, ma finiscono per annegare o nell'umorismo involontario (In una scena un esercito di poliziotti spara contro un gruppo di ribelli asserragliati in un casermone. Dall'interno il capo dei resistenti prende il suo fucile, rompe l'unico vetro che era miracolosamente sopravvissuto fino a quel momento al fuoco incessante degli assedianti per sparare un paio di colpi a vuoto), o nelle scene di combattimenti che finiscono per aggiungere poco alla storia, o nella noia.
Distopia ambientata nell'immediato futuro, cerca di presentarsi come clone culturalmente più raffinato di Matrix, usando riferimenti letterari e cinematografici di gran lignaggio, come 1984 di George Orwell (e film di Michael Radford), Brave new world di Aldous Huxley, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (e film di François Truffaut), Metropolis di Fritz Lang e, volendo, anche cose un po' meno elevate, come Il mago di Oz, magari via Zardoz di John Boorman, El Mariachi di Robert Rodriguez. Eccetera.
C'è stata la solita catastrofica terza guerra mondiale, un tale (Sean Pertwee) è diventato benevolo dittatore a vita e ha convinto la popolazione che i guai degli umani derivano dal provare emozioni, dunque la ricetta è quella di spararsi tutti quanti una dose di calmante e di evitare assolutamente tutto quello che possa risvegliare la sensibilità, dalle opere d'arte agli animali da compagnia.
Ovviamente ci sono anche quelli a cui questo andazzo non va bene, e dunque viene creata una bizzarra forza di polizia, i cui agenti (clerici) si vestono come i ribelli di Matrix, e usano improbabili tecniche di combattimento orientali che però non disdegnano il supporto di armi da fuoco.
La storia segue il percorso di Preston, un molto reverendo clerico (Christian Bale) che assiste senza quasi batter ciglio alla condanna a morte della moglie (Maria Pia Calzone, purtroppo parte minima), elimina personalmente il suo collega (Sean Bean) in quanto in realtà avido lettore di poesie (ovviamente vietate), ma non riesce a resistere al lato oscuro della passione quando cercano di ammazzargli sotto il naso un cucciolone canino decisamente simpatico. Ah già, anche l'esecuzione dell'ex-amante (Emily Watson) del collega, per la quale anche lui sembra avere un certo interesse non propriamente platonico, contribuisce alla sua conversione.
Spunti interessanti ce ne sono, ma finiscono per annegare o nell'umorismo involontario (In una scena un esercito di poliziotti spara contro un gruppo di ribelli asserragliati in un casermone. Dall'interno il capo dei resistenti prende il suo fucile, rompe l'unico vetro che era miracolosamente sopravvissuto fino a quel momento al fuoco incessante degli assedianti per sparare un paio di colpi a vuoto), o nelle scene di combattimenti che finiscono per aggiungere poco alla storia, o nella noia.
Il mio amico Eric
Il titolo originale, Looking for Eric (qualcosa come Alla ricerca di Eric), rende meglio il fatto che l'amico Eric è immaginario, anche se noi lo vediamo come se fosse in carne ed ossa, ed è il modo disperato che il protagonista (che si chiama anche lui Eric) usa per cercare di uscire da una brutta situazione.
l'Eric reale (Steve Evets) è un postino cinquantenne messo davvero male. Trent'anni prima ha mollato la moglie da poco sposata e che aveva appena avuto la loro figlia, senza sapere nemmeno bene perché. Da quel momento in poi la sua vita è andata sempre peggio. Per sua fortuna ha un nutrito gruppo di amici/colleghi che lo aiutano, per quanto possibile, a non fare naufragio completo.
La lenta deriva viene interrotta dalla necessità di incontrare la ex moglie, cosa che lo mette in grandissimo stato di agitazione, al punto che finisce per materializzare Eric Cantona (interpretato da lui medesimo), suo idolo calcistico.
Inizialmente le cose invece che migliorare peggiorano. Seguendo i consigli di Cantona, il vero Eric viene picchiato, minacciato, umiliato con un filmato su YouTube. Il suo tentativo di riconciliazione con ex-moglie e figlia si risolve in un disastro, con la polizia che gli piomba in casa e arresta tutti quanti.
Ma Eric non si arrende. Continua a seguire gli insegnamenti di Cantona, e alla fine una soluzione, per quanto bizzarra, si trova.
La coppia Ken Loach (regia) - Paul Laverty (sceneggiatura), a mio gusto, funziona benissimo. Laverty ha smussato i toni fin troppo combattivi di Loach fornendo comunque storie che ben si adattano alla verve popolar-contestataria del regista. L'espediente dell'amico immaginario superstar non è certo nuovo, vedasi l'Humphrey Bogart in Provaci ancora Sam di Woody Allen o, in tempi più recenti, Tony Hawk in Tutto per una ragazza di Nick Hornby, ma mi pare che sia gestita in modo molto naturale.
l'Eric reale (Steve Evets) è un postino cinquantenne messo davvero male. Trent'anni prima ha mollato la moglie da poco sposata e che aveva appena avuto la loro figlia, senza sapere nemmeno bene perché. Da quel momento in poi la sua vita è andata sempre peggio. Per sua fortuna ha un nutrito gruppo di amici/colleghi che lo aiutano, per quanto possibile, a non fare naufragio completo.
La lenta deriva viene interrotta dalla necessità di incontrare la ex moglie, cosa che lo mette in grandissimo stato di agitazione, al punto che finisce per materializzare Eric Cantona (interpretato da lui medesimo), suo idolo calcistico.
Inizialmente le cose invece che migliorare peggiorano. Seguendo i consigli di Cantona, il vero Eric viene picchiato, minacciato, umiliato con un filmato su YouTube. Il suo tentativo di riconciliazione con ex-moglie e figlia si risolve in un disastro, con la polizia che gli piomba in casa e arresta tutti quanti.
Ma Eric non si arrende. Continua a seguire gli insegnamenti di Cantona, e alla fine una soluzione, per quanto bizzarra, si trova.
La coppia Ken Loach (regia) - Paul Laverty (sceneggiatura), a mio gusto, funziona benissimo. Laverty ha smussato i toni fin troppo combattivi di Loach fornendo comunque storie che ben si adattano alla verve popolar-contestataria del regista. L'espediente dell'amico immaginario superstar non è certo nuovo, vedasi l'Humphrey Bogart in Provaci ancora Sam di Woody Allen o, in tempi più recenti, Tony Hawk in Tutto per una ragazza di Nick Hornby, ma mi pare che sia gestita in modo molto naturale.
La giusta distanza
Raccontata come se fosse la storia della formazione al giornalismo di Giovanni (Giovanni Capovilla, esordiente), mi è parso piuttosto un affresco sulla periferia padana narrato da uno (Carlo Mazzacurati, regista e co-sceneggiatore) che sa bene di cosa si sta parlando.
Quasi tutta l'azione (o meglio, la sua quasi assenza) si svolge in un microscopico paesino veneto dove tutto sembra immobile e immutabile. "Qui una volta era tutta campagna", dice Franco (Natalino Balasso) a Giovanni, in una stradicciola tra campi e canali, dove nulla è cambiato da tempo immemorabile. Anche se basta prendere la macchina per incontrare la modernità periferica, fatta di prefabbricati e grandi distributori automatici di benzina che fanno anche da supermercati del sesso.
Poco accade, e poco ci si può aspettare che accada. C'è un serial killer, però è specializzato in cani. Il tabaccaio (Giuseppe Battiston) che ha scoperto il modo per arricchirsi grazie al riscaldamento globale, ma non ha idea di come spendere quei soldi, e finisce per sposare una rumena grazie ad un apposito servizio su internet. C'è il mago locale (Dario Cantarelli), che ha una grande notorietà grazie ai suoi amuleti, o forse piuttosto grazie al gran vuoto culturale che niente e nessuno sembra voler colmare. Ci sono pure tanti stranieri, diventati indispensabili ma più tollerati che accettati.
A smuovere le acque arriva Mara (Valentina Lodovini, al suo primo ruolo importante), giovane donna inquieta che insegna alle elementari in attesa di partire per il Brasile per una cooperazione internazionale. Giovanni, un po' come tutti, si prende una cottarella per lei, mentre cerca di scrivere per il Resto del Carlino entrando in contatto con un giornalista locale (Fabrizio Bentivoglio, pochi minuti che riesce comunque a sfruttare bene per dare spessore al suo personaggio).
Ci scapperà il morto, ma lo spettatore non si aspetti un film d'azione, la parte investigativa viene risolta frettolosamente, senza grandi approfondimenti. Ed è proprio questo sbilanciamento della struttura della sceneggiatura (a cui hanno collaborato Doriana Leondeff, Marco Pettenello e Claudio Piersanti) che non mi ha completamente convinto. La storia di Giovanni finisce per essere poco interessante sia perché manca lo sviluppo (OK, il giovane giornalista scopre che l'insegnamento del vecchio maestro, tenere la giusta distanza tra narrazione e narratore, non è che vada preso come oro colato, ma poi che succede?) sia perché il giovane attore non mi pare capace di reggere il ruolo.
Lussuosa la colonna sonora, affidata ai Tin hat.
Quasi tutta l'azione (o meglio, la sua quasi assenza) si svolge in un microscopico paesino veneto dove tutto sembra immobile e immutabile. "Qui una volta era tutta campagna", dice Franco (Natalino Balasso) a Giovanni, in una stradicciola tra campi e canali, dove nulla è cambiato da tempo immemorabile. Anche se basta prendere la macchina per incontrare la modernità periferica, fatta di prefabbricati e grandi distributori automatici di benzina che fanno anche da supermercati del sesso.
Poco accade, e poco ci si può aspettare che accada. C'è un serial killer, però è specializzato in cani. Il tabaccaio (Giuseppe Battiston) che ha scoperto il modo per arricchirsi grazie al riscaldamento globale, ma non ha idea di come spendere quei soldi, e finisce per sposare una rumena grazie ad un apposito servizio su internet. C'è il mago locale (Dario Cantarelli), che ha una grande notorietà grazie ai suoi amuleti, o forse piuttosto grazie al gran vuoto culturale che niente e nessuno sembra voler colmare. Ci sono pure tanti stranieri, diventati indispensabili ma più tollerati che accettati.
A smuovere le acque arriva Mara (Valentina Lodovini, al suo primo ruolo importante), giovane donna inquieta che insegna alle elementari in attesa di partire per il Brasile per una cooperazione internazionale. Giovanni, un po' come tutti, si prende una cottarella per lei, mentre cerca di scrivere per il Resto del Carlino entrando in contatto con un giornalista locale (Fabrizio Bentivoglio, pochi minuti che riesce comunque a sfruttare bene per dare spessore al suo personaggio).
Ci scapperà il morto, ma lo spettatore non si aspetti un film d'azione, la parte investigativa viene risolta frettolosamente, senza grandi approfondimenti. Ed è proprio questo sbilanciamento della struttura della sceneggiatura (a cui hanno collaborato Doriana Leondeff, Marco Pettenello e Claudio Piersanti) che non mi ha completamente convinto. La storia di Giovanni finisce per essere poco interessante sia perché manca lo sviluppo (OK, il giovane giornalista scopre che l'insegnamento del vecchio maestro, tenere la giusta distanza tra narrazione e narratore, non è che vada preso come oro colato, ma poi che succede?) sia perché il giovane attore non mi pare capace di reggere il ruolo.
Lussuosa la colonna sonora, affidata ai Tin hat.
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