The Lego movie

La bizzarra scommessa di invertire il procedimento che la Lego ha applicato ai film, trasformandoli in mondi paralleli del suo universo, creando da questi un film, è farina del sacco di Phil Lord e Christopher Miller, già noti per Piovono polpette e 21 Jump Street.

La follia più assoluta sarebbe stata quella di realizzarlo in passo uno, e chissà, forse era l'idea originaria. Peccato che sarebbe costato una cifra iperbolica e ci avrebbero messo non so quanti anni per arrivare ai canonici 100 minuti. Così si è "ripiegato" sul fare largo uso della grafica computerizzata e lasciare alla stop-motion solo pochi minuti.

La storia raccontata è un curioso rimescolamento di svariate fonti, da Star Wars a Matrix, aggiungendo una miriade di altri ben noti personaggi, come ad esempio Batman, a supporto. In poche parole Emmet, un tipo qualunque, diventa il prescelto per salvare il mondo dal diabolico piano di Lord Business. Il problema è che di una incapacità clamorosa e dunque, piuttosto che liberare i suoi veri talenti, dovrà riuscire ad usare la sua mediocrità come arma letale.

Altamente consigliata la visione in originale, così da poter apprezzare le voci dei doppiatori originali, tra cui Will Ferrell (Lord Business), Elizabeth Banks (Wyldstyle), Morgan Freeman (Vitruvius), Liam Neeson (il poliziotto buono/cattivo), Channing Tatum (Superman) e Jonah Hill (Lanterna Verde).

E soprattutto: Everything is awesome!

One direction: This is us

Prima di vedere il film sapevo ben poco dei One direction. Boyband inglese, gran successo tra le ragazzine.

La mia curiosità principale era rivolta alla regia di Morgan Spurlock, che sarebbe poi quel documentarista che ha iniziato il suo oltraggioso percorso con Super size me in cui, oltre a parlare di come funzionano i fast food, ha sperimentato su sé stesso una dieta estrema, mangiando solo il loro cibo per un mese. Roba da kamikaze.

La sua carriera è poi continuata con documentari più o meno riusciti ma comunque sempre originali e con un tocco decisamente personale, fino a questo ultimo capitolo. Prodotto dalla Syco Entertainment, creatura di Simon Cowell, mente di cosacce televisive come (per l'appunto) The X factor. Caso vuole che la Syco sia anche la casa discografica dei One direction, da cui ci si può ben immaginare quanto corto sia stato il guinzaglio concesso a Spurlock.

Tenendo presente tutto questo, il risultato non è male. Se uno ci fa attenzione, l'impostazione critica di Spurlock riesce comunque a passare, nonostante l'evidente tono agiografico e una serie di strizzate d'occhio dedicate alle giovani fan della band. Ci sono anche alcune trovate registiche divertenti. La principale di queste consiste nel dare la parola ad un neuropsichiatra che cerca di spiegare in pochi secondi il meccanismo mentale che si scatena nelle ragazzine che sembrano possedute da una qualche demoniaca presenza quando vengono messe di fronte ai 1D (nome in codice della band).

Musicalmente parlando, da questo film si capisce poco cosa facciano costoro. Pop per minorenni, roba di facile consumo, direi. Ma si capisce che questo non è il punto. Bene fa dunque Spurlock a dedicarsi piuttosto ad un tratteggio del carattere di questa mezza dozzina scarsa di ragazzetti che sono pure simpatici, anche se non si capisce bene cosa abbiano realmente a che fare col mondo della musica.

Sul fondo, Spurlock fa vedere come i 1D vengano spremuti come limoni dalla produzione, come siano stati portati via dalle loro case che erano poco più che bambini per scaraventarli in un mondo che vorticosamente gli gira attorno, come ripetano incessantemente lo stesso copione davanti a un pubblico che cambia sempre ma che sembra sempre uguale (una smisurata torma di ragazzine urlanti), ma anche come riescano a sopravvivere a questo trattamento disumano grazie all'amicizia che si è fortunosamente creata fra loro.

Nonostante tutti i milioni che stanno mettendo da parte, non ho potuto che indirizzare loro un augurio perché se la cavino, e riescano a vivere una vita decente, una volta che questa pazza girandola si fermerà.

Torchwood - Stagione 1 (5 e 6)

In questi due episodi si aggiunge una buona dose di componenti horror all'impasto Torchwood standard, ottenendo un risultato interessante anche se le sceneggiature non sono ancora ad un livello complessivamente paragonabili a quelle dalla serie madre, Doctor Who.

5) Small worlds - Le fate cattive

Orrore in salsa fantasy. Si prende un mito comune nelle favole, in particolare nord-europee, quello delle fate, e lo si rielabora secondo l'impostazione tipica della serie, tra l'indagine poliziesca e la fantascienza "soft".

Il target di riferimento di questa serie, di una età maggiore a quella originaria, permette di usare un linguaggio meno controllato, introdurre personaggi decisamente poco raccomandabili, qui abbiamo anche un pedofilo, e di eliminarli senza andare tanto per il sottile.

In questo episodio si arricchisce anche il passato del capitano Jack Harkness (John Barrowman), che già aveva un carattere simile a quello del Dottore, per evidenziare come anche in questo caso la vita molto prolungata porti anche a delle seccature. Il buon capitano ha infatti il discutibile dono di non riuscire a morire e di restare fermo (o quasi) all'età in cui gli è successo il primo incidente "mortale". Il che può sembrare una benedizione, ma si trascina pure dietro una serie di seccature. Ad esempio, in questo episodio incontriamo Estelle (Eve Pearce) una allegra vegliarda sulla novantina convinta dell'esistenza delle fate e della loro bontà, che scopriamo essere stata la donna del capitano, prima che la guerra sconvolgesse i loro piani. La situazione è così bizzarra che Jack l'ha ricontattata spacciandosi per il figlio di sé stesso.

Altro punto interessante è che questa avventura si chiude con una sconfitta. Torchwood deve accettare che ci siano forze superiori che fanno un po' quel che vogliono, loro non possono che prenderne atto.

6) Countrycide - Il villaggio degli orrori

Quasi un horror classico. Il team di Torchwood lascia la città (Cardiff) per affrontare il caso della sparizione di numerose persone dalle parti del parco nazionale del Brecon Beacons. Abbiamo così il bonus di goderci le immagini di quelle belle parti, meno contento è Owen (Burn Gorman) che rivela di essere cittadino nell'anima.

Continuano le tensioni all'interno del gruppo, con Tosh (Naoko Mori) che lascia trasparire di essere gelosa di come Gwen (Eve Myles) si riuscita rapidamente ad acchiappare l'attenzione di Owen. Ma come, si chiederà lo spettatore, ma Gwen non è felicemente fidanzata con Kai (Rhys Williams)? Sì, però.

Le idee esplosive di Nathan Flomm

Chissà chi si sarà preso la briga di inventare il titolo italiano di quello che in originale suona come un molto più tranquillo Clean history. E chissà come mai questo film, che era stato inizialmente pensato per il grande schermo, ha finito per essere prodotto dall'HBO e destinato direttamenete alla televisione. L'idea che mi sono fatto è che sia una vittima della multisalizzazione (!) della distribuzione cinematografica. Troppe pellicole che devono sgomitare per avere una visibilità sufficiente per far rientrare la produzione nelle spese, e così risulta meno rischioso puntare direttamente sulla televisione, anche per un prodotto come questo che può vantare un cast e un interesse che sarebbe pur degno della sala.

La regia è di Greg Mottola, che non sarà tra i nomi più noti del momento, ma che viene comunque da Paul, Adventureland e Superbad. Il protagonista e co-sceneggiatore è Larry David, nome che a noi potrebbe non dire molto (anche se è stato il protagonista di Basta che funzioni, uno dei migliori film di Woody Allen degli ultimi anni) ma che negli USA è molto noto, soprattutto per essere tra i creatori di serie televisive molto popolari, come Seinfeld. E anche il resto del cast ha il suo interesse.

La storia è quella di Nathan Flomm (David), un genio del marketing destinato alla catastrofe dalla sua insensibilità e incapacità di relazionarsi. Il prologo lo mostra in azione mentre riesce ad inimicarsi il capo dell'azienda per cui lavora (e in cui ha investito tutti i suoi soldi) e come, piuttosto che cedere su un punto minore, preferisca abbandonare la società, subito prima del lancio di una rivoluzionaria vetturetta elettrica, perdendo in questo modo una somma stratosferica di denaro, la moglie, e la faccia. Marcato infatti inesorabilmente come perdente ("loser", uno tra gli insulti più sanguinosi per la mentalità americana) non può che scomparire.

Lo rivediamo dieci anni dopo, quando ha cambiato completamente look e stile di vita, sembra anche essersi ammorbidito, anche se vediamo che sotto sotto è restato il solito testone bizzoso. Per campare ora fa il factotum per una vecchietta terribile, cosa che non gli sembra dare nessun fastidio. Lo infastidisce molto il successo della macchina elettrica sulla quale avrebbe potuto fondare la sua fortuna. Figurarsi come la prende quando scopre che il suo capo del tempo (Jon Hamm) si è sposato con una appariscente Rhonda (Kate Hudson) e si è comprato una villetta sulla sua isoletta, che sta riadattando per renderla una gigantesca villona.

Numerosi personaggi secondari vivacizzano ulteriormente l'azione. Abbiamo uno svitato (Michael Keaton) che non sopporta la costruzione della magione, una ex di Nathan (Amy Ryan) che ha avuto un burrascoso passato in occasione di un concerto dei Chicago, una sua amica (Eva Mendes) diventata improvvisamente molto popolare quando si è decisa a perdere peso, eccetera.

Una serie di accadimenti mostrano come la catastrofe iniziale non sia bastata a Nathan per capire che il suo approccio alla vita non era dei migliori, ci vorranno una serie di batoste non indifferenti par fargli sorgere finalmente un dubbio. Finale aperto ma, curiosamente, al contrario rispetto al solito.

Normalmente, infatti, succede che il protagonista veda una luce e si indica come potrebbe seguire la direzione che lo faccia uscire dal baratro. Qui invece Nathan sembra aver capito la lezione ma un colpo di scena finale (complici ancora i Chicago, che fanno pure una breve apparizione in carne e ossa) ci fa temere che il nostro uomo ricada per una ennesima volta.

Torchwood - Stagione 1 (3 e 4)

Spero vivamente che questi due siano gli episodi peggiori della serie. Trame poco focalizzate, regie piuttosto confuse, personaggi che non coinvolgono. Non un disastro, ma quasi. Da notare che i registi dei due episodi sono Colin Teague e James Strong, entrambi agli inizi nella loro collaborazione con il mondo del Dottor Who (forse è questo il problema) ma che ci daranno in futuro soddisfazioni con episodi molto più riusciti.

3) Ghost machine - La macchina dei fantasmi

Domina il personaggio di Owen (Burn Gorman), che si dimostra piuttosto antipatico. Non c'è un vero avversario al team, viene piuttosto trovato un oggetto alieno che fa rivivere a chi lo usa fatti ad alta tensione emotiva avvenuti in passato. Combinandolo con un modulo aggiuntivo è persino capace di ipotizzare possibili sviluppi nel futuro. Il nostro team di pasticcioni non riesce ad usarlo decentemente, con conseguenti disastri.

4) Cyberwoman - La donna cibernetica

Chi ha tradotto il titolo in italiano non doveva sapere chi fossero i Cybermen, presenza costante nell'universo del Dottore sia negli episodi classici, sia in quelli moderni, già a partire dalla seconda stagione. E infatti qui si parla non di una donna cibernetica qualunque, bensì di una umana che ha subito il processo di conversione in Cyberman nel corso della mitica battaglia di Canary Wharf. Per sua (dubbia) fortuna il processo non si è completato e si trova così ad aver mantenuto la sua apparenza femminea molto più del solito. Ad accudirla per tutto questo tempo è stato il suo fidanzato, che non è altri che il mite Ianto (Gareth David-Lloyd), factotum dei torchwoodiani, che si rivela essere ancora più incapace di quanto aveva lasciato supporre negli episodi precedenti.

Torchwood - Stagione 1 (1 e 2)

In crisi di astinenza da Doctor Who, che latita ormai dai tempi dello Speciale di Natale e di cui è previsto il ritorno solo ad agosto, con un Dottore tutto nuovo, il buon vecchio Peter Capaldi, mi sono procurato dal mio spacciatore di serie televisive di fiducia le prime tre annate di Torchwood, che mi pare il più interessante tra i vari spin-off che popolano l'universo whoviano.

Il destino della serie è già nel suo nome (Torchwood è un anagramma di Doctor Who, ed è il titolo usato come depistaggio per la stampa quando si stava pensando alla rinascita delle avventure del Dottore), e nonostante che sia stata pensata inizialmente per essere ben distinta dall'illustre progenitore, già nelle prime due puntate si nota come ci sia una magnetica attrazione al modello di riferimento.

In teoria dovrebbe essere la storia di un gruppo di agenti speciali, però la figura di Jack Harkness (John Barrowman) fa fatica a distinguersi da quella di un piccolo (il capitano non me ne voglia) Dottore, e la poliziotta Gwen Cooper (Eve Myles) assume rapidamente i connotati della fida compagna. A rimetterci sono gli altri elementi della banda che, almeno in questi primi due episodi, non riescono ad avere abbastanza spazio e ad essere caratterizzati in modo interessante.

1) Everything changes - Tutto cambia

Gwen fa la poliziotta a Cardiff, che non è certo città nota per la vita spumeggiante, le capita però di incontrare un gruppetto di bizzarri individui che si qualificano come Torchwood e che si comportano come se fossero un CSI con potere di scavalcare tutto e tutti. Si accorge pure che hanno metodi e strumenti ben poco ortodossi, come se tentassero di usare tecnologie avanzate senza aver letto prima il manuale d'uso.

Scopre in breve che Torchwood mescola pure competenze d'avanguardia con errori da pivello, hanno infatti una base segretissima e dal difficilissimo accesso, ma poi si fanno recapitare pizze a domicilio dando tranquillamente il nome come riferimento.

Jack Harkess ha una lunghissima esperienza, e un gran rispetto per il Dottore, che conosce da tempo e con cui incrocerà il suo destino ancora molte volte. Gli vediamo anche custodire la mano, per così dire di riserva, che avrà una parte importante nella saga del Dottore, ma anche le sue debolezze. In primo luogo una attrazione molto fisica per chiunque stimoli i suoi sensi, a qualunque sesso appartenga, e poi ha una certa difficoltà nell'instaurare una disciplina decente nel gruppo.

Vediamo infatti come i suoi ordini siano allegramente disattesi dai suoi sottoposti, con conseguenze piuttosto spiacevoli. Ci penserà Gwen a salvare la giornata anche se, a dire il vero, lo fa più per caso che per scelta. Sia come sia, entra a far parte di Torchwood, come agente di collegamento tra la polizia e l'istituto.

2) Day one - Primo giorno

Primo vero avversario della combriccola, un bizzarro alieno che esiste in forma gassosa ed è afflitto da una sorta di ninfomania, per cui possiede (nel senso parapsicologico del termine) una donna che cerca di farsi possedere (nel senso sessuale del termine) da quanti più uomini possibile. Ci sono un paio di effetti collaterali nell'azione. L'alieno in pratica si ciba dell'energia sessuale (boh?) scatenata dall'atto e l'uomo esplode al giungere del culmine. E non intendo l'esplosione in senso figurato. Solo un mucchietto di polvere resta a suo ricordo.

Il caso non sembra particolarmente complicato, ma la pasticciosità del team riesce a far sì che l'alieno riesca a combinare una certa confusione.

Puntate non eccelse, a dire il vero. Ma si potrebbe riuscire a costruire qualcosa di interessante.

Carter

Ai tempi il film fece scalpore per la violenza e il dubbio senso della morale del protagonista, Jack Carter (Michael Caine), al punto che il romanzo da cui Mike Hodges aveva tratto la sceneggiatura (di Ted Lewis) emerse dall'anonimato e divenne un importante riferimento per l'immaginario esplicito e piuttosto ruvido della letteratura nera inglese di fine secolo.

Carter è una brutta persona che tempo prima era sceso a Londra dal nord dell'Inghilterra per dedicarsi all'arte dell'omicidio per conto di una banda locale. La morte del fratello, catalogata dalla polizia come accidentale, lo richiama alla natia Newcastle, dove svolge una sua sbrigativa indagine parallela alla ricerca di una verità che lo convinca.

La situazione è molto ingarbugliata, sembra quasi una trasposizione di un hard boiled, se non fosse per l'ambientazione, e per il brutto ceffo che fa da protagonista. Ci sarebbe anche un carattere che viene introdotto come se fosse una classica dark lady, Glenda (Geraldine Moffat), ma ha una fine talmente ingloriosa da farne quasi una caricatura.

Molto asciutta la regia di Hodges, che si concede praticamente solo un momento di virtuosismo, con un curioso montaggio alternato tra un breve viaggio in macchina e la susseguente scena di sesso tra Carter e Glenda, con un bel lavoro anche da parte della fotografia che gioca con le inquadrature di diversi dettagli. Qualcosa di simile alla famosa scena di A Venezia ... un dicembre rosso shocking, che è di due anni dopo.

Fondamentale la recitazione di Caine, che rende alla perfezione un carattere decisamente difficile.

Nel 2000 è stato fatto un remake che mantiene il titolo originale, Get Carter, e che da noi è diventato La vendetta di Carter. Ho avuto la sventura di vederlo ai tempi, e ne sconsiglio la visione. Lì Carter lo interpretava Sylvester Stallone, lascio immaginare con quali risultati. Interessante però l'idea di dargli una sia pur minima espressività facendolo recitare tutto il tempo con la barba, che poi si taglia nel finale.
Anche la sceneggiatura è stata ammorbidita, per far diventare il protagonista un carattere tutto sommato positivo. Rovinando così il punto significativo della storia.

Re per una notte

Il titolo italiano prende una battuta dal monologo del protagonista (Better to be king for a night than schmuck for a lifetime, tradotto malamente "in meglio re per una notte che buffone per tutta la vita", quando schmuck in realtà vuol dire qualcosa come fessacchiotto, essere inutile) forza l'interpretazione della storia verso una delle due possibili direzioni che è possibile dare al finale. Meglio dunque il più neutro originale, The king of comedy.

Martin Scorsese ci racconta la storia di Rupert Pupkin (Robert De Niro), un povero diavolo sulla trentina che si è messo in mente di fare lo stand-up comedian. Non sappiamo bene come gli sia nata l'idea, e nemmeno se abbia tentato approcci più convenzionali prima di giocare la carta dell'assalto diretto a Jerry Langford (Jerry Lewis), un tale che conduce uno di quei programmi come da noi è Che tempo che fa, che è per l'appunto ispirato ad un format che da decenni spopola negli USA, condotto da gente come David Letterman, Ed Sullivan, Jay Leno, eccetera.

A voler essere estremamente gentili, come comico Rupert non è niente di particolare, e non riesce ad attirare l'attenzione di Jerry e del suo entourage. Stabisce perciò una strana alleanza con un'altra sciroccata, Masha (Sandra Bernhard), innamorata cotta di Jerry, e decidono di rapire il disgraziato, ognuno per ottenere il proprio scopo.

Il precario equilibrio mentale di Rupert è reso da Scorsese mostrandoci le sue fantasie di gloria come se fossero realtà, e più di una volta sono rimasto indeciso per svariato tempo prima di decidere che livello di verità assegnare ad una particolare scena. Non è neanche ben chiaro cosa voglia davvero Rupert, la celebrità o l'amore della donna di cui è innamorato da tutta una vita (che detto, per inciso, è interpretato da Diahnne Abbott, ai tempi realmente moglie di De Niro)? O, forse ancora, semplicemente una via di fuga da una brutta vita.

Colonna sonora impreziosita da Wonderful remark di Van Morrison, che corre sui titoli di coda, scritta espressamente per il film.

Tra le bizzarre apparizioni nel film segnalo quella dei Clash, attorno alla mezz'ora, in atteggiamento derisorio nei confronti di Masha; la madre del regista, nel ruolo della madre di Rupert (solo voce); e di una sua figlia, Cathy, che chiede un autografo a Rupert in una delle sue fantasie.

Il grande Gatsby

Per gli anglofoni The great Gatsby di Scott Fitzgerald è un po' quello che per noi sono i Promessi sposi di Manzoni. Magari qualcuno non l'ha letto, ma praticamente tutti conoscono la storia, almeno in linea generale.

Non capisco bene dunque come mai Baz Luhrmann abbia deciso di farne un film di un paio d'ore che in pratica segue pedissequamente lo sviluppo originale aggiungendo solo una cornice, di cui non sono riuscito a capire bene il senso, e tagliando tutto quanto non riusciva ad entrare nel tempo necessariamente limitato. Stessa perplessità che avevo avuto vedendo la precedente versione (1974) sceneggiata da Francis Ford Coppola e interpretata da Robert Redford e Mia Farrow, peraltro.

A mio parere, meglio sarebbe stato farne una miniserie televisiva, se si voleva pensare a chi non legge più, o agire con maggior decisione sul materiale originale, stravolgendolo se necessario, per tirarne fuori qualcosa di più personale.

Come da romanzo, il narratore è Nick (Tobey Maguire), un anonimo impiegato bempensante, arrivato dal midwest a New York per seguire il miraggio dei guadagni di Wall Street (siamo nei turbinosi anni venti del secolo scorso). Il caso, che gli fa trovare una modesta abitazione proprio attaccata alla megagalattica villa di Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio), e i natali, che lo hanno reso lontano parente di Daisy (Carey Mulligan), lo mettono al centro degli eventi.

Succede infatti che Gatsby è perdutamente innnamorato di Daisy, con la quale ha avuto una breve relazione cinque anni prima, che non ha potuto sposare per una serie di sfavorevoli eventi (tra cui una guerra mondiale) ma che possono essere sintetizzati così: lui era povero, lei voleva una vita da ricchi. Potenza dell'amore, ai tempi dei fatti narrati Gatsby è diventato ricco da far paura. C'è solo un piccolo particolare che complica la vicenda, nel frattempo Daisy si è sposata con Tom (Joel Edgerton). Seguono vari fatti che portano ad un epilogo dalle parti della tragedia.

Luhrmann fa sì che Nick scriva i fatti in forma di romanzo seguendo l'indicazione del suo medico curante, visto che la storia lo avrebbe così sconvolto da portarlo in una casa di cura. Abbiamo quindi il bel risultato che Nick sarebbe una specie di alter ego di Scott Fitzgerald e che il suo racconto sarebbe poco attendibile, a causa della sua corrente condizione mentale.

Lo stile narrativo è molto luhrmanniano, ma non mi pare che il risultato sia all'altezza di Moulin rouge! Qui, in più occasioni, mi è sembrato tendere al manierismo di sé stesso. Il rimescolare musiche d'epoca con brani moderni credo voglia alludere ad una critica sul nostro non aver imparato un tubo dal tracollo di Wall Street del '29, visto che abbiamo finito per ricreare le condizioni per nuovi tracolli fotocopia di quello.
Il sovraccarico di informazioni visuali e sonore con cui il povero spettatore viene bombardato soprattutto nella prima parte direi che è un mezzo per farci capire come si doveva sentire Nick, arrivato dal placido entroterra per finire in una gabbia di matti assetati di saturazione di segnali più o meno insensati.
La recitazione affettata, distaccata, ben poco realistica, mi pare diretta ad indicare come più che gli attori siano gli stessi personaggi a recitare le loro vite, Daisy e Tom perché fondamentalmente vuoti dentro, incapaci di provare reali sentimenti, Gatsby forzato a recitare per cercare di raggiungere quella luce verde che gli sembrava così a portata di mano, ma che era così irraggiungibile. A questo proposito, in alcune scene non ho potuto fare a meno di notare quanto DiCaprio sembrasse interpretare Redford che interpretava Gatsby.

Grand Budapest Hotel

Hanno appena assegnato i David di Donatello. Il premio per il miglior film italiano è andato a Il capitale umano di Virzì, per il miglior film europeo Philomena di Frears, e per il resto del mondo, proprio questo film di Wes Anderson.

Che dire. Nella storia ha una parte piccola ma significativa il laboratorio del mastro pasticcere Mendl, per cui lavora la piccola Agatha (Saoirse Ronan). Una cosa che tutti i golosastri, prima o poi in vita loro (o meglio, nostra) si sono chiesti è come è possibile fare un lavoro del genere senza rischiare di mangiarsi fuori, letteralmente, tutto il prodotto finito. La risposta è in realtà molto semplice. Il nostro corpo è molto più astuto del nostro cervello, e ad un certo punto gli manda messaggi che si possono tradurre in un lapidario "adesso basta".

G.B.H. è un bel film, eh. Però mi sono sentito pericolosamente vicino a ricevere il segnale di stop dai miei sensi saturati dagli eccessi (prevalentemente visivi) tipicamente Wesandersoniani.

La vicenda è basata in uno Stato-burla mitteleuropeo, e ci viene raccontata di terza/quarta mano. Stiamo infatti seguendo la lettura del libro di una turista (?) che visita la tomba di Gustave H. (Ralph Fiennes) nel cimitero locale e intanto legge il libro che l'autore (Tom Wilkinson) ha scritto anni dopo che lui stesso, ma più giovane (Jude Law) aveva incontrato l'ormai anziano Moustafa Zero (F. Murray Abraham) che da giovane (Tony Revolori) era stato al sevizio di Gustave.

L'intreccio è di una complicazione tale che rinuncio a riassumerlo se non per dire che Gustave, che ha un debole per le donne anzianotte e danarose, entra negli impicci di un asse ereditario piuttosto turbolento a causa della morte di D. (Tilda Swinton), il cui figlio Dmitri (Adrien Brody), spalleggiato dal fido e mortale Jopling (Willem Dafoe), farà di tutto per semplificare a suo vantaggio il lavoro dell'esecutore testamentario (Jeff Goldblum). Alcuni dei personaggi citati sono facili da riconoscere, la Swinton è nascosta da un tale strato di trucco che mi sono fidato dei titoli di coda per abbinarla al ruolo. Altri attori il cui riconoscimento è lasciato come esercizio sono Mathieu Amalric, Harvey Keitel, Bill Murray e Owen Wilson.

Per restare in tema, la colonna sonora è di un irriconoscibile Alexandre Desplat che finge di essere un autore di musica schlager slavo-tedesca novecentesca. Se tal cosa esiste. Ma in realtà tutto esclama a gran voce la sua improbabilità, resa però con uno spiazzante iperrealismo.

Come riferimenti ho pensato al Grande dittatore di Charlie Chaplin, alle commedie sofisticate di Lubitsch, e dunque anche ad Essere o non essere di Mel Brooks (e già che ci siamo pure al suo Mistero delle dodici sedie).

Rush

Credo che il succo della storia dovrebbe essere che i due protagonisti avrebbero meritato un pareggio. Lo scapestrato James Hunt (Chris Hemsworth) tutto cuore ed impeto, il freddo Niki Lauda (Daniel Brühl), ragione e calcolo, affrontavano la guida in modi completamente diversi, ma con praticamente gli stessi risultati.

In realtà la produzione (prevalentemente inglese), la sceneggiatura (dell'inglese Peter Morgan) e la regia (Ron Howard) finiscono per parteggiare più o meno esplicitamente per Hunt. Lo si vede già a partire dalla copertina del DVD, con i due piloti affiancati, ma con James che sopravanza Niki. E un po' tutto il film è così, si trascurano dettagli spiacevoli per il pilota inglese (ad esempio si lascia intendere che si sia ritirato subito dopo aver vinto il campionato, mentre invece si è trascinato per alcune deludenti stagioni prima di decidere che era il caso di cambiar mestiere) e non si accenna nemmeno al fatto che Lauda, dopo la drammatica annata che viene seguita dal film, vinse un secondo mondiale l'anno successivo. E poi un terzo anni dopo.

Anche i caratteri dei due vengono appiattiti e semplificati, eliminando tutto quello che renderebbe la storia meno lineare. E quindi Lauda viene reso come un nerd incapace di relazionarsi con chiunque, trascurando, ad esempio, che anche lui finirà per divorziare dalla moglie, per risposarsi poi con una giovane hostess della sua compagnia aerea, non prima di aver riconosciuto come suo un figlio illegittimo avuto da una terza. Insomma, se James Hunt era certamente uno sciupafemmine, anche Niki Lauda non è che trascurasse il gentil sesso per viti e bulloni.

Poco spazio resta per i personaggi secondari, si fa giusto in tempo a notare che Clay Regazzoni è interpretato da Pierfrancesco Favino che poco però riesce a dire o fare.

Stesso problema per la colonna sonora, del pur sempre bravo Hans Zimmer, che è nascosta dal prorompente suono dei motori.

Mi sarebbe piaciuto anche si sottolineasse maggiormente quanto babelico sia il mondo della Formula 1, con inglesi, tedeschi, italiani, ispanici (eccetera) che portano ognuno la propria impostazione culturale, creando un ribollire di energie sorprendente.

Nonostante tutto ciò, il film scorre via rapidamente, le due ore non mi sono pesate affatto, e il risultato dopotutto non è disprezzabile.

Venere in pelliccia

Alcune particolari circostanze hanno fatto sì che non guardassi il film con la concentrazione che richiede. In più l'ho visto in versione originale, il che è buona cosa perché il doppiaggio necessariamente fa perdere spessore all'interpretazione dei due protagonisti. Ma conosco poco il francese, e ho finito per trascurare troppo spesso i sottotitoli per non togliere gli occhi dalla scena (e in particolare, devo ammetterlo, da Emmanuelle Seigner). Mi converrà rivedermelo in italiano per apprezzare in pieno, oltre al lavoro di regia (Roman Polanski) anche quello di sceneggiatura.

Che poi si tratta di una piece teatrale scritta da David Ives e dallo stesso convertita assieme a Polanski in sceneggiatura per il grande schermo. Per i noti problemi del regista, l'ambientazione è stata spostata da New York a Parigi, ma credo che per il resto si sia mantenuta una buona aderenza al lavoro originale. Che, a sua volta, è una riscrittura del romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, di cui mi sembra ci si faccia apertamente beffe. Sconsiglierei quindi la visione agli appassionati del genere sadomasochista, che potrebbero non gradire questo cambiamento di tono.

Già che ci sono, sconsiglio la visione anche a chi non abbia apprezzato il precedente Carnage di Polanski, trovandolo claustrofobico e non apprezzando il ridottissimo cast. Qui gli attori sono solo due, e tutta l'azione si svolge all'interno di un decrepito teatro. Si sono svolte le infruttuose selezioni per la protagonista di una versione teatrale di Venere in pelliccia scritta da Thomas (un Mathieu Amalric molto somigliante ad un (im)possibile Roman Polanski ringiovanito di una trentina d'anni). Un po' mi ha fatto pensare a Molière in bicicletta, per come anch'esso abbia i suoi momenti migliori nelle schermaglie tra i due protagonisti nell'interpretare un testo teatrale.

Thomas sta per andarsene quando arriva Vanda (la Seigner), che implora una audizione. Sembra tempo perso, anche perché Vanda combacia perfettamente con la descrizione che Thomas sta facendo al telefono di tutte i difetti che ha trovato nelle candidate precedentemente scrutinate e bocciate. Eppure, nonostante sia sguaiata, greve, maleducata, piagnucolosa, si trasforma miracolosamente quando inizia a declamare la sua parte, lasciando basito Thomas. E anche lo spettatore (almeno nel mio caso).

L'azione si svolge seguendo la declamazione del testo e, soprattutto, le sorprendenti mutazioni di Vanda e Thomas. Magistrale l'uso della colonna sonora di Alexandre Desplat, spesso assente, ma che sottolinea perfettamente i momenti principali.

Non so se vedendolo in italiano riuscirò a risolvere il mistero della vera identità di Vanda. Forse non c'è soluzione, ed è lasciato ad ognuno scegliere una variante di proprio gusto. Mi intriga pensare che in realtà Vanda non esista, sia solo immaginata da Thomas.

Dallas buyers club

Film che mi interessava poco, visto solo perché gentilmente prestatomi da un amico ma quando ho cominciato a guardarlo ... no, nessuna illuminazione. Continua a sembrarmi poco interessante, e anche un pochetto noioso.

In teoria la storia dovrebbe far pensare a Philadelphia di Jonathan Demme, visto che si parla di AIDS e omofobia, ma il paragone che a me sembrava più naturale, mentre lo stavo guardando, era con Larry Flynt di Milos Forman, perché si parla di un brutto ceffo indifendibile che lotta contro le leggi del suo Paese per un suo tornaconto personale ma, curiosamente, la sua battaglia ha pure un lato che ha una utilità collettiva. In ogni caso sia la storia (questa è scritta da Craig Borten e Melisa Wallack) che la regia (Jean-Marc Vallée) mi sembra un gradino sotto ai film citati.

Il nocciolo della vicenda è reale, con il protagonista, Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che s'è davvero beccato l'AIDS nei fantastici anni ottanta, e ne è morto qualche anno dopo, ma tutti gli altri personaggi sono inventati di sana pianta. Lo stesso Ron, a leggere quello che si trova in giro, era molto diverso dalla sua rappresentazione cinematografica. Meno impresentabile all'inizio della sua parabola, e probabilmente meno "redento" alla fine della stessa.

Il Ron che conosciamo noi, è un ignorantone razzista omofobico con dipendenze da alcol, droghe varie, e sesso, che sarebbe morto senza nemmeno sapere perché se, per una fortuna travestita da disgrazia, non fosse finito all'ospedale dove un provvidenziale test del sangue scopre che è praticamente spacciato.

Passa rapidamente dalla negazione del malanno alla consapevolezza che sta davvero per tirare le cuoia, cerca dunque di entrare nel processo sperimentale per l'AZT, unico medicinale che al tempo avesse un qualche risultato positivo. Ma come scopre come funziona la ricerca scientifica (lunga, incapace di offrire certezze immediate, costellata di errori), preferisce ripiegare sul DIY (do it yourself, fatelo da soli). Si procura AZT illegalmente, lo assume senza controllo, in dosi spropositate, rischiando di uccidersi ancor più rapidamente.

Questa brutta esperienza lo spinge su un percorso ancor più sdrucciolevole. Dal Texas è un attimo (relativamente parlando) andare in Messico, lì si procura medicinali non testati (alcuni inutili, altri dannosi, tutti pericolosi) li abbina ad un trattamento piuttosto new age e si illude di avere trovato una cura miracolosa. E dunque pensa come fare soldi da questa sua scoperta. Contrabbandare quella roba è il problema secondario per lui, il guaio è che i principali clienti sono gay, e lui non riesce proprio ad interagire con loro. E qui entra in gioco Rayon (Jared Leto) un travestito molto appariscente che ha conosciuto in ospedale. Riuscirà pure ad usare l'amicizia con Eve (Jennifer Garner), la dottoressa che ha seguito entrambi, per aiutare il suo commercio.

La storia prosegue in due direzioni. Da un lato c'è la conversione di Ron, che finisce per essere una persona migliore, contrapposta all'esistenza di Rayon che continua una parabola autodistruttiva. Dall'altro c'è il confronto tra il metodo medico-scientifico che viene presentato come inumano e immorale, in mano a Big Pharma che vuole solo fare soldi, e l'approccio informale di Ron che consiste fondamentalmente nel aggrapparsi ad ogni possibilità, fidandosi dell'istinto. Schematismo troppo in bianco e nero che mi ha lasciato poco soddisfatto. Perché, ad esempio, non è vero che l'AZT, come sostiene il Ron che ci viene presentato, fa solo danni, al contrario, è usato ancora oggi, solo che bisognava capire come usarlo correttamente.

La parte che mi ha più interessato del film è stata la sua produzione. Bisognerebbe farci un film. Film piccolo (per gli standard americani) costato pochi milioni, è riuscito a trovare la via delle sale solo grazie al coinvolgimento di McConaughey, che ha fatto scelte attoriali decisamente interessanti, probabilmente per cambiare la sua immagine prima che fosse troppo tardi, vedasi in particolare il bellissimo Mud, e a quello delle altre due star del film.

La mafia uccide solo d'estate

Per chi abbia a cuore il tema della lotta all'illegalità in Italia, la tensione emotiva generata da un racconto che ripercorre decenni di lotta alla mafia (qui in particolare quella palermitana) è assicurata. Anche l'alleggerimento che deriva dal seguire un punto di vista alla Forrest Gump, dando un taglio da commedia romantica a quella che è una tragedia, ha il suo perché, anche se Pierfrancesco Diliberto (noto anche come Pif) non è certo un novello Robert Zemeckis come regista, la sceneggiatura (nonostante il supporto di Marco Martani) non abbia la robustezza che aveva quella di Eric Roth (grazie anche al fatto che si basava sul solido romanzo di Winston Groom) e, soprattutto, nel recitare il paragone tra Pif e Tom Hanks è semplicemente improponibile.

Come dire, l'idea non è malvagia, meglio se Pif si fosse limitato al soggetto e avesse lasciato il resto ad altri. Almeno, per quanto mi riguarda. Perché io il buon Diliberto non lo conosco per niente, ma so che ha una piccola (?) coorte di fan a cui piace molto, grazie alle sue apparizioni televisive. E penso che questi, al contrario di me, abbiano apprezzato il film proprio per quello di personale che ci ha messo.

Si narra di Arturo (Pif), un giovanotto palermitano non troppo brillante che pensa che la mafia sia alla base di tutte le sue disgrazie. Un po' come il Tristram Shandy di Laurence Sterne, ritiene che persino il suo concepimento abbia avuto un malefico contributo mafioso, in quanto il coito sarebbe stato turbato dalla strage di Viale Lazio. Tutta la sua vita è un continuo incrociarsi con fatti di mafia, che lui percepisce solo come interferenze con la sua vita. Come se questo non bastasse, il giovane Arturo decide pure che il suo mito personale è Giulio Andreotti, il che gli crea ulteriori difficoltà nel capire quello che gli accade attorno.

Il lato romantico della vicenda è dato dal suo unico amore di tutta una vita, Flora (che da grande è interpretata da Cristiana Capotondi), di famiglia benestante evidentemente collusa con la mafia, che sembra essere così tonta da non rendersi conto di nulla, nemmeno quando viene chiamata per fare la segretaria di Salvo Lima proprio poco prima che venga eliminato a pistolettate. Il tremendo uno-due degli attentati mortali a Falcone e Borsellino accende un barlume di consapevolezza in Flora, che finirà per accettare la corte di Arturo e sposarselo.