The circle

Mae (Emma Watson) è una giovane donna di belle speranze ma dalla realtà piuttosto avvilente. Un brutto lavoro malpagato, un padre (Bill Paxton *) malato di sclerosi multipla che non può permettersi cure adeguate (**), un ex fidanzato, Mercer (Ellar Coltrane), che le ronza attorno ma che per lei è solo un amico.

Tutto ciò cambia quando una sua cara amica, Annie (Karen Gillan), le procura un colloquio per l'azienda presso cui lavora, niente di meno che The circle, una specie di mostruosa combinazione tra Google, Facebook, Apple et similia. Dopo una chiacchierata insulsa da cui Mae non esce né bene né male, il lavoro è suo (***), e finisce a fare circa le stesse cose che faceva prima, ma in modo molto più cool e, soprattutto, con uno stipendio e benefit migliori.

Col passare del tempo, Mae entra sempre più nello stile di vita di The circle, anche se non si capisce bene quanto sia veramente convinta di quello che sta facendo o se lo faccia per mera convenienza (°). L'impegno lavorativo, teoricamente limitato, diventa sempre più pesante, anche perché le numerose attività parallele, che dovrebbero essere su base volontaria e ricreative, sono a tutti gli effetti obbligatorie, se non si vuole essere tagliati fuori.

Al vertice di The circle si trova un terzetto composto da un simil Steve Jobs, Bailey (Tom Hanks), visionario, simpatico, a cui non si riesce a non dir di no, da quanta bontà sprizza da ogni poro, a qualunque cosa egli dica, un sinistro uomo nell'ombra, Tom (Patton Oswalt), e un evanescente Ty (John Boyega), presentato come il genio informatico che ha posto le basi tecniche dell'azienda ma che poi ha preferito una posizione molto defilata. Scopriremo più avanti che Ty è molto critico sulla direzione che i suoi due soci hanno dato al suo lavoro, ma sembra che non abbia la forza di opporsi. Il resto dei dipendenti, levata Annie che gira per il mondo senza un attimo di riposo, sembrano una massa indistinta di zombie, decerebrati ma felici.

Alcuni fatti, tra cui un incidente che non mi spiego in cui Mae rischia di perdere la vita, portano la nostra protagonista a salire rapidamente nella considerazione di Bailey, portandola a diventare il testimonial planetario di The circle. Nel contempo, Mae ha anche a che fare con Ty, che le rivela le sue perplessità. In più, succedono altre cose che coinvolgono i genitori di Mae, Mercer e Annie che dovrebbero mettere dei dubbi in Mae sul suo lavoro. Sembriamo diretti verso una catastrofe totale, però verremo salvati da un improbabile, e poco definito, finale.

Nonostante alcune aree oscure, il film mi è abbastanza piaciuto. Sicuramente è buona la storia originale, basata sul romanzo omonimo di Dave Eggers, ottimo il cast, almeno nella mezza dozzina di ruoli principali. Qualche dubbio ce l'ho nella sceneggiatura e regia di James Ponsoldt. In particolare il lieto fine, che diverge nettamente dai toni distopici dell'originale, suona falso, attaccaticcio e irrisolto. Ma forse Ponsoldt ne è almeno parzialmente incolpevole, se è stato imposto dalla produzione che temeva l'assenza di un happy ending. Lo sviluppo però è tutto poco chiaro, spesso non ho capito cosa muove Mae, ma più che una legittima incapacità del carattere di predere decisioni in un contesto più grande di lei, ho avuto l'impressione che Ponsoldt non sapesse bene in che direzione fare andare la storia.

Ne sconsiglierei comunque la visione ad alcune categorie. In primis, a chi non piace Emma Watson. Dietro di me al cinema avevo un rappresentante di questo gruppo che si è più volte lagnato rumorosamente di lei, in quanto, secondo lui, non faceva altro che riproporre il personaggio harrypottesco di Hermione. La Watson è praticamente sempre sullo schermo. Se non vi piace, evitate la pellicola.

Anche i fanboy di Steve Jobs, o dei marchi a cui, volenti o nolenti, si allude, potrebbero non gradire la critica. In più, per il nostro mercato, gli entusiasti del movimento cinque stelle potrebbero restarci male nel vedere come un autore del tutto estraneo alla nostra realtà abbia percepito e ben rappresentato il pericolo di una oscura commistione tra web e politica.

Di materiale per fare un opera pungente ce n'è in abbondanza. Peccato che non si sia osato spingersi in nessuna delle direzioni appena sfiorate. Ne sarebbe potuto venire fuori qualcosa di molto più interessante. La cosa buffa è che quello che forse è lo scambio di battute più memorabile del film è qualcosa come "Cos'è che temi di più?" "Il potenziale inespresso".

(*) Nei titoli di coda gli viene dedicato il film, che è stato il suo ultimo.
(**) La storia è ambientata negli USA, e la nostra sanità pubblica, al confronto, è paradisiaca.
(***) Il che fa pensare che l'influenza di Annie abbia pesato sul giudizio finale. Il ruolo di Annie non è chiarissimo, ma di sicuro sta ai piani alti di The circle.
(°) Che include anche l'estensione della sua copertura sanitaria alla famiglia.

L'altro volto della speranza

Abbastanza simile al precedente lavoro di Aki Kaurismäki, Miracolo a Le Havre (2011), e sempre in linea con lo stile narrativo del film maker finlandese. Qui seguiamo le vicende in bilico tra farsa e tragedia di due personaggi principali, Wikström (Sakari Kuosmanen) e Khaled (Sherwan Haji).

Wikström è un finlandese in piena crisi matrimoniale e occupazionale, che decidere di risolvere abbandonando la sua signora e il suo lavoro, per tornare single e dedicarsi alla ristorazione, senza avere alcuna seppur minima esperienza a riguardo. Trovati fortunosamente i capitali, li investe in un terribile ristorantino sull'orlo della catastrofe.

Khaled in Finlandia c'è arrivato per caso, scappato dalla Siria in guerra con la sorella, diviso da lei in un passaggio di frontiera, ha vagabondato per l'Europa alla sua ricerca, finché la necessità di sfuggire ad un agguato lo ha portato su di una nave diretta ad Helsinki. Il suo tentativo di restare nella legalità dura poco, causa una burocrazia ottusa, e si ritrova sulla strada con ben poche possibilità di durare a lungo.

Le due storie si incrociano con esiti buffi e drammatici fino ad un sanguinoso lieto fine.

Ghost in the shell

Basato sul manga di Masamune Shirow che ha dato origine ad universo cyberpunk giapponese con ramificazioni un po' su tutti i media. L'idea della produzione (*) era evidentemente quella di creare un franchise alla X-Men / Wolwerine ma qualcosa sembra essere andato storto, e i bassi incassi americani sembrano aver già decretato la fine subitanea della serie.

La storia del maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson) ricorda un po' quella di RoboCop, incrociata influenze da Total recall. Causa qualcosa che lei non ricorda, solo il suo cervello si è salvato, che è stato inserito dalla Hanka Robotics in un corpicino niente male ma interamente bionico. Do ut des, in cambio della sopravvivenza viene convertita in arma letale, parte di una squadra di polizia molto particolare al comando di Daisuke Aramaki (Takeshi Kitano). In genere agisce in coppia con Batou (Pilou Asbæk), gli altri elementi, pur sembrando anch'essi tipacci poco raccomandabili, restano sullo sfondo.

L'azione vera e propria inizia quando una organizzazione segreta, che pare essere capitanata da tal Kuze (Michael Pitt), si mette ad ammazzare scienziati della Hanka. E si limitassero a questo. Sfruttando l'intreccio sempre più stretto tra componenti biologiche e informatiche, costoro fanno del vero e proprio hackeraggio che incide anche sulla componente umana delle loro vittime.

La faccenda si inspessisce ancor di più quando rischia la vita la dottoressa Ouelet (Juliette Binoche) che è un po' la mamma del Maggiore, con tutte le implicazioni e complicazioni di tale rapporto. E poi le cose diventano ancor più intricate.

La regia di Rupert Sanders, pur non essendo molto personale non è disprezzabile. Evidenti, e probabilmente ineludibili, i riferimenti a un gran numero di altre pellicole del genere, a partire da Blade runner per le atmosfere futuristico-decadenti. Più complicata la relazione con Matrix, che è a sua volta inspirato dal manga di partenza, e che quindi non si capisce bene chi citi chi.

Polemiche a mio avviso poco sensate sono state fatte sulla occidentalizzazione della storia, in particolare per quanto riguarda la Johansson, che pure ha un pedigree tale da giustificare appieno la sua scelta come protagonista. Vero che fa un po' strano vedere il solo Kitano (**) rappresentare il sol levante tra i protagonisti, e ancora più che sia l'unico a parlare in giapponese. A questo punto sarebbe stato più simpatico se ci fosse stato un magma linguistico, che però sarebbe stato un incubo per lo spettatore.

Ovvia anche la semplificazione della trama, che da una originale meditazione sui problemi di accettare la fusione tra carne e metallo, e l'interazione tra individui così diversi anche strutturalmente, verte qui più sul tema dell'identità. Siamo più quello che facciamo o quello che la nostra storia ci porta ad essere? Più semplice, sì, ma certo non banale.

Avrei preferito un maggior approfondimento sui personaggi, che tendono ad essere rappresentati bidimensionalmente. Il tempo necessario lo avrei preso dagli scontri a fuoco, fatti anche bene, ma poco interessanti.

(*) Al cui centro sta la DreamWorks.
(**) E comunque il grande vecchio Beat regge benissimo la baracca, anche con i pochi minuti effettivi a disposizione.