Professore per amore

A me piace di più il titolo provvisorio usato durante le riprese, qualcosa come Il professore riluttante. Il titolo originale definitivo, The rewrite, ha pure un suo fascino, creando un parallelo tra l'attività del protagonista, uno sceneggiatore che una volta era di successo, ma che ora non riesce nemmeno a trovare lavoro come aggiustatore di sceneggiature ballerine, e la sua necessità di riscrivere quella che è la sceneggiatura della sua vita. Il titolo scelto dalla distribuzione italiana porta a fraintendere la storia.

Si narra di Keith Michaels (Hugh Grant) che per una serie di motivi non riesce più ad imbroccare un lavoro decente. Il suo agente, forse per toglierselo di torno, gli offre un lavoro inaspettato, andare ad insegnare in una piccola università periferica nello Stato di New York come si scrivono sceneggiature. Keith ne farebbe volentieri a meno, anche perché ha una pessima opinione dei corsi che vorrebbero insegnare ad essere creativi, è solo la disperazione lo porta ad accettare.

Ma quando uno è in parabola discendente c'è poco da fare, è troppo facile continuare la serie negativa. Finisce così che in brevissimo tempo Keith si porti a letto una sua giovanissima studentessa (Bella Heathcote) ancora prima di cominciare il corso, selezioni i suoi studenti usando un metodo molto discutibile, faccia di tutto per non fare il suo lavoro, e si metta in rotta con Mary Weldon (Allison Janney), potentissima docente, esperta di Jane Austen e con una opinione molto bassa dell'arte filmica.

Succedono però alcune cose che, lentamente, lo portano a riconsiderare la sua esperienza. Ad esempio il rettore, Dr. Lerner (J.K. Simmons), e un insegnante di inglese, Jim (Chris Elliott) gli offrono incondizionatamente la loro amicizia, nonostante le evidenti differenze. Scopre poi che insegnare non è così male, anzi, ci prova gusto, e scopre che ad insegnare si finisce per imparare parecchio. E poi conosce Holly Carpenter (Marisa Tomei), studentessa di ritorno, spiantata, con una vita alle spalle non delle più semplici, che però, alla sua non più freschissima età, non ha nessuna voglia di arrendersi.

Non che la storia sia particolarmente innovativa, e bisogna pure dire che Marc Lawrence avrebbe potuto anche fare meglio, però il film funziona. Forse grazie al cast in ottima forma.

È stato il figlio

Per il suo primo film senza Franco Maresco, Daniele Ciprì ha scelto di adattare con molta libertà il romanzo omonimo di Roberto Alajmo (*), al punto che quella che era la scena iniziale su carta diventa il finale a sorpresa nella pellicola.

Al centro della storia, narrata in flashback da Busu, una specie di Forrest Gump che però non ha avuto alcun successo, ci sono le vicende della famiglia Ciraulo nei favolosi anni ottanta. Favolosi mica tanto, a dire il vero, visto che il capofamiglia Nicola (Toni Servillo) campa spogliando i rottami navali per riutilizzare quanto c'è di riutilizzabile. I suoi magri guadagni sono l'unica entrata sua, di sua moglie Loredana (Giselda Volodi), i suoi genitori, Fozio e Rosa (Aurora Quattrocchi), e i suoi figli Tancredi e Serenella.

L'esistenza miserevole di costoro viene trasformata dalla morte della piccola Serenella, uccisa da killer di mafia incapaci. Ma il peggio viene dopo, Nicola scopre che i parenti delle vittime di mafia hanno diritto a un cospicuo risarcimento dallo Stato, che i Ciraulo otterranno dopo aver fatto conoscenza della burocrazia, di uno spregevole avvocato, e di uno strano strozzino. Non sapendo bene che fare di tutti quei soldi, finiranno per usarli nel modo più scemo, comprandosi una lussuosa Mercedes. Sarà questa vettura, diventata una ossessione per Nicola, a portare alla catastrofe finale.

(*) A sua volta, Alajmo si è basato su un fatto di cronaca realmente accaduto.

Jack Ryan - L'iniziazione

Viene comunemente indicato come reboot della serie dedicata al personaggio creato da Tom Clancy, trascurando il fatto che, a ben vedere, non c'è alcun precedente boot, nel senso che i precedenti film, a partire da Caccia ad Ottobre rosso, non sono stati sviluppati organicamente come una serie.

Il problema principale degli sceneggiatori deve essere stato quello di svecchiare il contorno, che era quella tipica della guerra fredda, con la contrapposizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti, senza tradire l'anima del racconto. E direi che tutto sommato ci sono riusciti, grazie anche alla regia di Kenneth Branagh, che ha puntato su una impostazione solida, evitando quasi completamente il confronto con prodotti più moderni dello stesso genere, vedasi la serie di Bourne. Di conseguenza, il film risulterà più appetibile a chi abbia una certa età, mentre i giovinastri correranno il rischio di appisolarsi a metà pellicola.

La storia non segue nessun romanzo originale, sembra piuttosto l'episodio pilota di una serie televisiva in cui si presentano i personaggi principali, i loro caratteri, e li si mette al lavoro in un canovaccio che sarà replicato nelle puntate successive.

Ci viene così spiegato chi è Jack Ryan (Chris Pine), la sua fidanzata Cathy Muller (Keira Knightley), e Thomas Harper (Kevin Costner) che sarebbe poi quello che recluta Jack per la CIA. Il cattivo di questo episodio è il russo Viktor Cherevin (lo stesso Branagh). Parte piccola ma interessante per Nonso Anozie nei panni di una guardia del corpo con idee particolari sul come fare il suo lavoro.

Nel product placement fa la sua bella figura una Ducati Diavel, anche se viene usata poco (e male).

Le regole del caos

Luigi XIV (Alan Rickman) ha deciso di spostare la corte a Versailles. Il che sarebbe una scelta piuttosto balorda, ma vai tu a spiegarglielo senza rimetterci la testa. La realizzazione dei giardini è affidata André Le Nôtre (Matthias Schoenaerts), che però non può fare tutto da solo, e deve decidere a chi subappaltare cosa. Tra i vari concorrenti in lizza ci sarebbe anche Sabine De Barra (Kate Winslet) che però gli sembra troppo poco classica per gli assolutisti gusti regali.

Il buon André però sa bene che il Re Sole ha gusti molto difficili da accontentare, e che occorre osare qualcosa in più per evitare di cadere in disgrazia. E dunque decide di correre il rischio, prende un progetto di Sabine, lo adatta, e la ingaggia per realizzarlo.

Riuscirà Sabine a combinare classicità e caoticità in un risultato che soddisfi il re? E, nel contempo, riuscirà anche a trovare l'amore in André? Lo scopriremo nel finale. Posso però dire che lungo la strada troverà preziosi alleati, come Filippo d'Orleans (Stanley Tucci), fratello del re, e la sua gentil consorte, e anche qualche pericoloso nemico, tra cui la moglie di André (Helen McCrory).

Il film è certamente qualificabile come opera Alan Rickman, che lo ha diretto e co-scritto, oltre che interpretato. Ne ho apprezzato il coraggio, che si vede ad esempio nella colonna sonora affidata a Peter Gregson, valido violoncellista, ma al suo primo lavoro di questo tipo - ben riuscito, tra l'altro. Anche la storia che, da come l'ho raccontata, sembra piuttosto leggera, ha invece un fondo molto amaro. Ogni personaggio ha un dolore che lo perseguita, e riuscirà ad uscir bene dal racconto chi sarà capace di affrontare i suoi fantasmi e tenerli a bada.

L'affidabilità storica del racconto è molto questionabile, ma il tutto viene dichiarato sin dall'inizio, con una buona dose di humor britannico.

Ti va di pagare? - Priceless

La sfiducia nostrana nella cinematografia francese, che pure è calata negli ultimi anni, fa capolino dal titolo italiano, a cui è stato affiancato quello internazionale inglese, come a voler alludere ad un inesistente riferimento americano, o almeno britannico. Trattasi invece di una commedia romantica molto francese di Pierre Salvadori che, pur non eccellendo, porta a casa il risultato promesso. Dovessi citare un difetto, direi che è scarsamente memorabile. Almeno nel mio caso, visto che ho realizzato di essere alla seconda visione solo dopo svariati minuti.

In realtà, se non fosse per il tono, alcuni sketch, e il finale, la storia sarebbe più da catalogare come dramma che commedia. Si narra infatti di un pover uomo, Jean (Gad Elmaleh), che si innamora a prima vista di bel tocco di fanciulla, Irène (Audrey Tautou), con la quale riesce a passare una bella serata, con conseguente nottata bollente, grazie ad un bizzarro equivoco di lei.

Ella è infatti una, come dire, cacciatrice di dote. Ormai non più giovinetta (la vediamo strapparsi con dispiacere un capello bianco), Irène posa come donna di gran classe per accalappiare facoltosi anzianotti. Ha già preso all'amo la sua preda, Jacques (Vernon Dobtcheff), e Jean sarebbe solo un diversivo di una triste notte a Biarritz. Lui è invece un dipendente di un hotel per ricchi (l'Hôtel du Palais) di quella nota località turistica che non sembra avere alcuna prospettiva degna di nota. L'incontro fortuito accende in lui una scintilla, che però sembra destinata a non portare a niente. Se non fosse che, un anno dopo, Jacques e Irène tornano a Biarritz.

Jean decide di giocare il tutto per tutto, e riesce a fare il bis. Jacques però sgama Irène e la molla. Questa, che pensava Jean fosse pieno di soldi, cerca rifugio in lui, scappandone inorridita quando scopre la verità. Fallito il piano A, sposare Jacques, scartato il piano B, spennare Jean, Irène ricorre al piano C. Si trasferisce in costa azzurra per cercar lì un nuovo pollo.

Ma non ha fatto i conti con Jean, che la raggiunge e cerca di convincerla della bontà dei suoi sentimenti. Inutilmente. Ella cerca il vil denaro. La disperazione di Jean è tale che decide comunque di stare al gioco che, essendo molto bello, dura estremamente poco. Infatti Irène riesce a bruciare tutti i risparmi di Jean in poche ore. A Jean resta ora un solo euro. Che fare? Lo usa per chiedere a Irène ancora dieci secondi, per guardarla ancora un po' negli occhi. Lei accetta, incassa e se ne va.

Seguirebbe la rovina completa di Jean, se non fosse che la stagionata Madeleine (Marie-Christine Adam) lo trova interessante, e fa di lui l'omologo maschile di Irène. Un po' per disperazione, un po' per sfida, un po' per restare vicino a Irène, Jean decide di dare alla sua vita questa brusca svolta, e scopre sorprendentemente di essere portato a questo ruolo. Riuscirà in questo modo a conquistare la sua bella? Fino a pochi minuti dal finale, no. Irène lo prende in simpatia, gli rivela persino di non essere quella implacabile macchina per consumare beni di lusso che sembrerebbe, ma di avere, molto in fondo, una passione per cose semplici e reali, ma finisce per considerare Jean più un collega, un amico, che un possibile amore. E nel controfinale chiede a Jean un favore di quelli che ammazzano. E, fosse stato un dramma, la storia sarebbe finita qui.

Mad Max: Fury Road

Dopo una trentina d'anni abbondante, George Miller rimette mano alla saga di Mad Max, reinterpretando il secondo episodio, da noi noto come Interceptor - Il guerriero della strada, aggiungendo elementi dal terzo, Mad Max oltre la sfera del tuono, lasciando solo un disturbato ricordo a Max (Tom Hardy) di cosa era successo nel primo, Interceptor.

Grazie anche al budget non indifferente, il risultato è esplosivo. Le due ore di durata mi sono sembrate eccessive, il finale stiracchiato, ma sarebbe bastata la sola prima mezz'ora a giustificare il prezzo del biglietto. Sempre ammesso che lo spettatore sapesse a cosa andava incontro. Ovvero una catastrofica distopia in cui i pochi sopravvissuti ad una immane sciagura cercano di condurre una vita miserevole nel deserto australiano, in cui manca tutto, e ci si ammazza senza farsi troppe domande.

Il solitario Mad Max finisce malvolentieri a fare da sacca di sangue per i guerrieri di un signore della guerra con manie da Darth Vader (o Dart Fener). Costoro, che si fanno chiamare figli della guerra (war boys), ricordano molto l'immaginario dei wild boys dei Duran Duran (*). Per sua fortuna, proprio in quel momento una figlia della guerra, Imperatrice Furiosa (Charlize Theron) decide che ne ha abbastanza di quel folle regno del terrore e con un astuto stratagemma fugge, portandosi via un bel po' di carburante e l'intero harem del signorotto.

Il che da il la ad una impressionante serie di ammazzamenti di tutti i tipi che coinvolgono svariate comunità alleate o in lotta tra loro, ognuna con il proprio look, tutti motorizzati, spesso in modi piuttosto assurdi.

(*) Che però era evidentemente ispirato dalla stessa serie di Mad Max.

Suite francese

Lucile (Michelle Williams) ha sposato un tal Gaston, un personaggio così poco interessante che non lo vedremo mai sullo schermo. Poi è arrivata la seconda guerra mondiale, e lui è partito per il fronte. Poco male per entrambi, visto che si tratta di un matrimonio di interesse che poco piace sia a lui (*) sia a lei, che si è adattata ai voleri paterni. Più che l'assenza di Gaston, a Lucile pesa la presenza della suocera, Madame Angellier (Kristin Scott Thomas), una burbera possidente che ha un sottile piacere perverso ad angariare i mezzadri, e che le rende difficili anche gli svaghi più innocenti, quali suonare il pianoforte.

La guerra va come doveva andare, e una compagnia di tedeschi si accampa proprio nel paesino di Lucile, in attesa di essere spediti su di un altro fronte. Un aitante sottotenente, Bruno von Falk (Matthias Schoenaerts), prende possesso di una stanza della magione degli Angellier, e ci vuole ben poco perché i due piccioncini si mettano a tubare assieme, nonostante tutte le avversità. Che però si fanno sentire in vario modo, impedendo il romantico lieto fine.

La prima parte dello sviluppo m'è parsa troppo lenta, ma lo spettatore paziente avrà modo di rifarsi più avanti. Sempre che apprezzi il genere.

Il film è basato sull'omonimo ciclo di Irène Némirovsky, che avrebbe dovuto comprendere cinque titoli. Purtroppo la Némirovsky, di origine ebraica, finì i suoi giorni Auschwitz, avendo completato solo i primi due romanzi. L'idea era quella di mimare lo sviluppo di una sinfonia, e quello trattato qui è il secondo movimento, il cui titolo è Dolce. Solo pochi anni fa l'opera è stata pubblicata, ottenendo un buon successo, e spingendo a farne una versione per il grande schermo. La regia è stata data a Saul Dibb, che ha anche partecipato alla riduzione del romanzo in sceneggiatura.

(*) Scopriremo che ha una amante e relativo figlio illegittimo.

Poirot 2.9: Il caso della stella d'occidente

Hercule Poirot (David Suchet) è stranamente in apprensione. Il mistero è presto svelato, la famosa attrice belga Marie Marvelle (Rosalind Bennett) gli ha chiesto udienza. Nemmeno il fatto che ella, da bizzosa stella del cinema, cambi idea all'ultimo momento e gli chieda di andare lui da lei, nell'albergo in cui alloggia a Londra, lo inquieta più di tanto.

Le sue perplessità aumentano quando la Marvelle spiega che suo marito ha fatto l'incauto acquisto di uno splendido diamante, la stella d'occidente del titolo, quando i due erano in America, e ora riceve lettere anonime da un cinese che vuole siano restituite le due stelle, d'oriente e occidente, che erano in origine gli occhi di un misterioso idolo cinese.

La stella d'oriente è legittima proprietà della famiglia Yardly, il cui corrente visconte (Alister Cameron) non pare per niente preoccupato dalla faccenda, che bolla come un evidente scherzo privo di senso, mentre lady Yardly (Caroline Goodall), sembra essere molto più sulle spine, non gradendo nemmeno che il Yardly voglia vendere la sua stella, per ripianare le difficoltà del casato.

Questo curioso curioso parallelismo sembra intersecarsi con un caso che l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) ha per le mani. Un brutto ceffo molto danaroso, tale Henrik Van Braks (Struan Rodger), è noto a Scotland Yard per il suo hobby di comprare pietre preziose che scottano, e proprio in quei giorni è giunto a Londra.

I dettagli verranno chiariti dallo sviluppo, ma la direzione della storia è ben chiara. Il Van Braks non è l'unico malfattore della storia, ma comunque questa volta nessuno finirà in gattabuia.

8 donne e un mistero

Al centro della storia c'è Marcel, un industriale di successo nella Francia post seconda guerra mondiale che sta affrontando un momentaccio, sia perché i nodi della sua esistenza stanno venendo tutti contemporaneamente al pettine, sia perché ha scelto malamente il suo nuovo socio in affari, che pare abbia come interesse principale la sua distruzione. Tutto questo lo scopriremo per via indiretta dalla folla di donne che lo circondano. Marcel non dirà parola in tutta la pellicola, e noi non lo vedremo nemmeno in faccia.

La storia è stata pensata negli anni 50 come pièce teatrale da Robert Thomas, e François Ozon ne ha mantenuto il periodo e l'impostazione, aggiungendo però molteplici riferimenti cinematografici, rendendola un opera più complessa, e credo anche più sul tono della commedia, pur non tralasciando l'amarezza di fondo, che comunque rimane. Alla base c'è un anima di indagine criminale, infatti subito all'inizio Marcel è trovato morto, e sappiamo che nessun estraneo può avere commesso il fattaccio (*), che però prende la piega di un gioco al massacro tra le otto indiziate, e finisce per rivelare tutte le nefandezze, ma anche quello che c'è di più positivo, in ognuno di loro. Il tutto viene narrato in modo scanzonato, lasciando largo spazio all'improbabilità tipica di una screwball comedy del periodo in oggetto, aggiungendoci persino un tocco di musical, con otto numeri musicali, ognuno dei quali ha per protagonista una delle otto donne.

Gaby (Catherine Deneuve) è la moglie, molto upper class e molto presa dal suo ruolo, al punto da sembrare algida. Ha due figlie, una, Catherine (Ludivine Sagnier), ancora minorenne, passa le notti sveglia a leggere romanzi di consumo, sembra una bambina capricciosa che non sa ancora cosa fare della sua vita, l'altra, Suzon (Virginie Ledoyen), più grandicella, è già una piccola donna, studia lontano da casa, e parrebbe aver già abbandonato il nido. In casa c'è anche Madame Chanel (Firmine Richard), che si occupa della cucina e delle piccole, e Louise (Emmanuelle Béart), la cameriera, che sembra prendere il suo ruolo con gran formalismo. Marcel e Gaby ospitano anche la di lei madre, Mamy (Danielle Darrieux) e sorella, Augustine (Isabelle Huppert), molto complessata, perennemente sull'orlo di una crisi di nervi. In più si aggiungerà a sorpresa Pierrette (Fanny Ardant), sorella di Marcel, che da qualche tempo vive nei dintorni ma che, per opposizione di Gaby in ragione di una esistenza non propriamente specchiata, non ha mai messo piede nella casa. Almeno ufficialmente.

Nel corso dell'azione si scoprirà che tutte e otto sono molto diverse dalla descrizione iniziale, aggiungendo sorprendenti variazioni che rendono ogni personaggio molto più complesso, e umano, sia nel bene sia nel male.

Certamente bravo Ozon a riuscire ad approfondire tutti e otto i personaggi senza sforare i tempi della pellicola, che si mantiene largamente sotto le due ore, ma altrettanto brave le attrici, che riescono a veicolare la complessità dei loro personaggi a volte anche con un semplice sguardo. Menzione di merito per la Huppert che rende benissimo Augustine, con tutti i suoi tic nervosi, restando in bilico tra la comicità e la simpatia per quella povera donna.

(*) Usando quello che è ormai diventato un topos da racconto investigativo che rimanda a Sherlock Holmes: i cani da guardia non hanno abbaiato.

Joker - Wild card

Nick Wild (Jason Statham) è caduto in basso, molto in basso. Stando a quel che dice la sua ex Holly (Dominik García-Lorido), è stato anche peggio di così, anche se risulta difficile crederle. Nonostante abbia un passato poco chiaro ma dal quale gli deriva una certa notorietà, per quanto presso soggetti poco raccomandabili, ora si è ridotto a fare il guardaspalle ai giocatori d'azzardo che bazzicano a Las Vegas. Il cliente corrente lo demoralizza ancor di più, se fosse necessario. Si tratta infatti di poco più di un ragazzino (Michael Angarano) che sembra cercare in lui più un sostituto della figura paterna che un gorilla per serate rischiose.

A peggiorare le cose ci pensa Holly, che finisce per lavorare (*) per il cliente sbagliato, un tal Danny DeMarco (Milo Ventimiglia) che ha notevoli problemi con la sessualità. Ridotta molto male, chiede a Nick un aiutino per vendicarsi. Nick è restio, perché annusa aria di cosa nostra americana, e lui, a tempo debito, a fatto un patto di reciproca non aggressione con Baby (Stanley Tucci), che a quanto pare è il responsabile di zona.

Tanto fa Holly, che alla fine Nick cede e, con l'aiuto di una tessera di plastica (**), mette fuori combattimento Danny e i suoi scagnozzi, lasciando a Holly modo di consumare la sua vendetta. Una buona quantità di bigliettoni piovono inoltre sui due, così da aiutarli ad allontanarsi da Las Vegas prima della prevedibile risposta dei picciotti.

Purtroppo per Nick, qui si fa valere la sua dipendenza da gioco d'azzardo. E invece di scappare, si ficca in un casinò a sfidare la sorte a black jack.

La sceneggiatura è vecchiotta, al punto che è un remake, ma è firmata da William Goldman, che non è mica il primo che passa. Forse una regia meno sonnolenta di quella di Simon West avrebbe giovato.

(*) Il lavoro più vecchio del mondo.
(**) La patente di guida, credo.

Poirot 2.8: Il rapimento del primo ministro

Anche qui il racconto di Agatha Christie è fin troppo snello per le necessità della serie. Però si è deciso di mantenere l'impianto originale, anche se si è spostata l'ambientazione a metà degli anni trenta (*), come per gli altri episodi, e i "cattivi" da tedeschi sono diventati, chissà perché, da tedeschi a indipendentisti irlandesi. Il risultato è che la parte in cui Hastings (Hugh Fraser) si dedica ad un inseguimento automobilistico viene tirata per il lungo con l'unico possibile scopo di consumare i minuti che la storia non è riuscita ad utilizzare.

Succede dunque che il primo ministro inglese subisce un attentato mentre in macchina si stava recando da un incontro con il re a Charing Cross, dove lo aspettava un treno, tappa intermedia per un viaggio in Francia, ad una importante conferenza. Se la cava tutto sommato a buon mercato, con una ferita al volto che viene abbondantemente bendato.

Purtroppo è solo la prima parte del piano malefico infatti, giunto sul continente, c'è un nuovo attacco, e questa volta il primo ministro viene rapito.

Il governo inglese è in subbuglio e, su suggerimento di Japp (Philip Jackson), viene chiesto aiuto a Poirot (David Suchet). I metodi flemmatici dell'investigatore, che preferisce ragionare sui fatti piuttosto che dedicarsi all'azione, lasciano perplessi i committenti. Il risultato vendicherà il panciuto belga. Che, sia detto tra parentesi, ha messo su qualche chiletto dall'anno precedente, come mostra il siparietto comico di alleggerimento, in cui lo vediamo bisticciare con il suo sarto a proposito della sua taglia.

(*) La storia originale avveniva sul finire della prima guerra mondiale.

Poirot 2.7: L'appartamento a buon mercato

Il racconto di Agatha Christie era davvero troppo esilino per tirarci fuori un episodio. Così lo sceneggiatore (Russell Murray) ha avuto la direttiva di rimpolpare la storia aggiungendo un improbabile intrigo internazionale che avrebbe fatto sì che la mafia italo-americana complottasse con il governo italiano del tempo (*) per rubare i piani di un sommergibile americano, e il conseguente arrivo a Londra di un agente dell'FBI. In originale il complotto era di marca giapponese, la mafia veniva tirata in ballo solo per sbadataggine dalla spia, e il caso veniva risolto senza interventi da oltreoceano. Altri cambiamenti minori hanno lo scopo principale di dare più spazio agli attori principali, rendendo più visuale l'azione.

Simpatico l'inizio di episodio in cui si immagina che Poirot (David Suchet), Hastings (Hugh Fraser) e Japp (Philip Jackson) vadano al cinema per vedere La pattuglia dei senza paura (**), con Poirot che resta traumatizzato dal tasso di violenza della pellicola. Succede poi che una coppia (***), lontani amici di un amico del capitano, raccontino di essere riusciti a trovare uno strepitoso appartamento ad un prezzo ridicolmente basso. Poirot, che non ha casi interessanti per le mani, si appassiona al mistero e cerca di scoprire cosa ci sia sotto.

Nel frattempo, un agente dell'FBI (William Hootkins) giunge a portar scompiglio a Scotland Yard inseguendo Carla Romero (Jenifer Landor) una chanteuse (o magari sciantosa, vista la probabile origine italica) che arrotonda facendo la spia. Ovviamente i due casi finiscono per fondersi in un unica trama, in cui confluiscono pure un viscido, ma dopotutto nemmeno troppo antipatico, proprietario di night club, e un killer della mafia che sembra far di tutto per risultare sospetto.

(*) In questa versione televisiva siamo a metà degli anni trenta. E dunque l'Italia è quella fascista.
(**) Il titolo originale era G Men, film del 1935 con James Cagney nel ruolo principale.
(***) Lei è Samantha Bond, prima che diventasse nota come Miss Moneypenny nella versione dell'universo di James Bond con Pierce Brosnan.

Poirot 2.6: Doppia colpa

Hercule Poirot (David Suchet) è depresso. Al punto che la vacanza fuori programma, in cui ha trascinato il capitano Hastings (Hugh Fraser), non sembra avere alcun effetto positivo su di lui. Peggio, gli passa sotto il naso lo strano caso di una mezza dozzina di miniature napoleoniche che sembrano essere sparite nel nulla, e lui non se ne mostra per niente interessato. Anzi, dice all'allibito Hastings che lui è ormai un ex-investigatore.

Ma non lo si compianga troppo, che scopriremo presto che il suo umor nero è dovuto ad una pestifera combinazione di vanità ferita e malfidenza nei confronti dei suoi amici. Risolta la crisi, tornerà ad essere il solito Poirot, riprenderà in mano le indagini, che inizialmente erano state seguite dal capitano, con esiti disastrosi, e li porterà a felice conclusione.

In questo caso le differenze con il racconto originale di Agatha Christie sono sostanziali. In particolare alla trama gialla, che non è invero molto interessante, la sceneggiatura di Clive Exton aggiunge il tentativo di indagine di Hastings, una conferenza sul mondo del crimine dell'ispettore Japp (Philip Jackson), e persino il mistero delle chiavi di casa scomparse che si trova a dover affrontare Miss Lemon (Pauline Moran).

Poirot 2.5: La sparizione del signor Davenheim

Uno speculatore londinese, Matthew Davenheim (Kenneth Colley), ha dato appuntamento a casa sua a un suo degno pari, tal Gerald Lowen (Tony Mathews). La moglie (Mel Martin) è piuttosto contrariata, anche perché il suo consorte ha sempre detto tutto il male possibile di Lowen, ma prende la notizia con la flemma che si addice alla sua classe sociale.

Il Davenheim, però, dopo essersi preparato all'incontro leggendo documenti nel suo studio, lasciando in sottofondo l'Ouverture 1812 di Tchaikovsky, esce per andare in contro al suo ospite, e sparisce nella nebbia.

Hercule Poirot (David Suchet) e il capitano Hastings (Hugh Fraser) vengono a sapere del caso dall'ispettore Japp (Philip Jackson), dopo che i tre hanno passato un'allegra serata a teatro, dove un prestigiatore attacca all'investigatore belga la mania per la magia spicciola.

Il povero Japp si fa attirare nella trappola di sfidare Poirot a risolvere il caso, aggiungendo la clausola che questi dovrà arrivare alla soluzione senza uscire di casa. Il che cambia poco al succo dell'indagine, se non che Hastings dovrà correre a destra e a manca per raccogliere indizi per conto del suo sodale.

Lo stratagemma che Agatha Christie ha pensato per il malfattore di questo episodio non è particolarmente sorprendente, però è simpatico che usi lo stesso sistema del prestigiatore mostrato all'inizio del racconto per distogliere l'attenzione dal trucco.

Bella, come al solito, l'ambientazione d'epoca. In questo caso, visto che Lowen è un appassionato di auto da corsa, abbiamo anche modo di vedere vetture sportive anni trenta e il regista (Andrew Grieve) ha la possibilità di giocare con il passaggio tra filmati d'epoca in bianco e nero, e il colore del resto dell'azione.