Il grinta

Ho un ricordo molto lontano dell'originale in cui a far da protagonista era John Wayne, così lontano che mi ricordavo male il titolo, spagnolizzato in El grinta. Però leggo che al seguito è stato dato il titolo italiano di Torna el Grinta, e dunque chissà. Se qualcuno ne sa di più e capita su questa pagina è pregato di vuotare il sacco.

La versione che ho appena visto è quella dei fratelli Ethan/Joel Coen che è, come dire, il solito loro film. A me i Coen piacciono, i loro film sono (solitamente) girati con una cura non comune. Luci, colori, sonoro, scelta delle musiche, inquadature che uno ci farebbe un quadro. Per non parlare poi di tutto il resto.

Problema è che dopo un po' ci si accorge che la storia è sempre quella. Il caso domina le nostre vite, gli umani sono esseri molto peculiari, succedono cose bizzarre, il giusto non si aspetti altra ricompensa dal gusto che gli dà comportarsi giustamente. Tutte cose che mi vanno anche bene, ma apprezzerei più varietà.

Dire che mi aspettavo che l'approccio ad un western classico avrebbe portato i Coen a cambiare il loro registro è eccessivo. Infatti, per dirla tutta, non me l'aspettavo affatto. Sarà stata questa disillusione preventiva che mi ha privato dell'entusiasmo che altri hanno provato per questo film? O avrà contribuito anche il mio poco interesse per il genere?

La storia è narrata in un lungo flashback dalla protagonista, ormai donna di mezza età, che ricorda il periodo fondamentale della sua vita quando, ragazzina (Hailee Steinfeld), riuscì a far giustizia dell'omicidio del padre.

Come spesso accade, anche questa volta il titolo italiano è sbagliato. In primo luogo non è vero che Marshall Cogburn (Jeff Bridges) sia soprannominato Grinta (che dopotutto non è una cattiva traduzione di true grit - che direi significa qualcosa come vero carattere). Viene chiamato così dalla ragazzina, e una sola volta (se non mi sono assopito durante la visione), quando gli spiega perché vorrebbe che fosse lui ad inseguire l'assassino. Il vero soprannome di Cogburn è Rooster, ovvero galletto. La grinta è quella che viene mostrata soprattutto dalla ragazzina, ma un po' da tutti i "buoni", nel corso dello svolgimento dell'azione. Ad esempio anche LeBoeuf (Matt Demon), ranger del Texas che partecipa alla missione, scambiato inizialmente come una sorta di damerino che gioca a fare il duro, mostrerà di avere grit da vendere, oltre che una mano molto ferma.

Vanilla sky

E' uno di quei film che mirano a spiazzare lo spettatore e, almeno nel mio caso, ci è riuscito bene, al punto che dovrei rivederlo per scriverci qualcosa su senza correre il pericolo di scrivere sciocchezze. Ma il tempo è tiranno, il film è lunghetto, e il pericolo è il mio mestiere.

Se l'avessi saputo prima, forse mi sarei visto prima Apri gli occhi di Alejandro Amenábar, che sarebbe poi l'originale holliwoodizzato da Cameron Crowe (regia, sceneggiatura, produzione). A vantaggio della versione spagnola l'assenza di Tom Cruise (si capisce che non è tra i miei attori preferiti?) che qui è protagonista e produttore.

Il film inizia con un vorticoso e spezzettato giro della macchina da presa su New York, che da Midtown Manhattan risale per Central Park e si fionda in un palazzo sulla West Park di quelli che solo per la mancia natalizia al portiere una persona normale dovrebbe aprire un mutuo trentennale. Arriviamo nella stanza da letto del protagonista che si sveglia alla voce di Penélope Cruz che gli dice di aprire gli occhi (una mezza idea di cambiare la mia suoneria me l'ha fatta venire). Cruise ne approfitta per girare mezzo nudo per la stanza e il regista per rimarcare come non solo sia una casa per ricchi in una zona per ricchi, ma che si tratta di ricco estremamente ricco. Così ricco che esce di casa su una Ferrari d'epoca. E va verso Times Square in una New York assolutamente vuota. Possibile? No. Infatti è un sogno. Si risveglia e replica molti particolari della scena che abbiamo visto (Ferrari compresa, ma New York mediamente trafficata, questa volta). Solo che a svegliarlo è la voce di Cameron Diaz, e ci viene spiegato che i due si conoscono da tempo e hanno passato una simpatica nottata assieme, come spesso accade.

Segue una mezz'oretta che ho trovato di una noia pazzesca in cui seguiamo la vita di uno straricco, bello, a cui tutte le donne cadono ai piedi. C'è poi una seconda mezz'oretta più interlocutoria. La seconda ora è decisamente meglio. Difficile dire molto di più senza rovinare l'effetto della sceneggiatura.

Interessante il fatto che Cruise reciti buona parte del tempo con il volto deturpato da un pesante trucco o con una maschera che ne copre integralmente il viso. Circostanze che trovo ne abbiano migliorato la recitazione.

Al solito, la colonna sonora di Crowe è una collezione di musica estremamente valida. Un po' troppo ingombrante, forse, ma anche per questo dettaglio c'è una giustificazione che arriverà nel finale.

Ruoli minori per Kurt Russell e Tilda Swinton.

Interessante il parallelo con il film precedente, Rabbit hole, lì protagonista e produttrice è Nicole Kidman, che non capisco come possa aver sposato il bietolone qui presente, ma apprezzo il fatto che ne abbia divorziato. A prescindere, la storia è in un certo senso simile, perché anche qui c'è una tana del bianconiglio in cui il protagonista si nasconde.

Rabbit hole

La tana del coniglio, riferimento al bianconiglio e alla sua tana in cui Alice casca dentro per finire dritta dritta (ma neanche tanto) nel Paese delle Meraviglie. In senso lato, va inteso come non-luogo che uno raggiunge (a volte con l'uso di sostanze più o meno legali) al fine di allontanarsi da una realtà che non gli aggrada.

Nel caso del film la realtà da cui fuggono i personaggi principali è decisamente drammatica, la morte di un bambino. E a fuggire sono i suoi genitori (Aaron Eckhart e una splendida Nicole Kidman) e il ragazzetto che lo ha investito. Lei cerca di sfuggire al dolore chiudendosi in sé, dedicandosi al giardinaggio, cercando di cancellare le tracce del figlio. Lui, al contrario, guardando ossessivamente i filmati salvati sul suo cellulare e cercando di mantenerne viva una sorta di presenza (ad esempio, non toglie il seggiolino dall'auto). Ad avere un comportamento più adulto è invece il ragazzetto, che scarica il suo disagio in maniera creativa, scrivendo un fumetto basato sulla teoria degli universi paralleli, intitolato proprio Rabbit hole, ipotizzando che in qualche altro universo ci sia un altro "lui" a cui le cose non sono andate così male, e ha una esistenza più felice.

Come si può intuire, la coppia segue un percorso distruttivo. E sarà l'incontro con il ragazzetto (prima di lei, poi di lui) a far saltare il fragile equilibrio, cosa che permette alla coppia di trovarne nel finale uno nuovo.

Storia non semplice da raccontare, ma la buona sceneggiatura di origine teatrale (David Lindsay-Abaire) e la regia dal tocco lieve (John Cameron Mitchell) aiutata anche da una bella colonna sonora, riescono nell'impresa.

Da notare che la Kidman ha apprezzato a tal punto il progetto da parteciparvi anche come produttrice.

Go - una notte da dimenticare

Sesso, droga e musica tecno per una commedia adolescenziale incrociata con Pulp Fiction. Il primo lungometraggio scritto da John August (vedi Tim Burton) che qui mi sembra più interessato a giocare con gli intrecci della trama che a raccontare una storia vera e propria. Ci sono spunti e qualche scena divertente (un paio di allucinazioni di un ragazzetto impasticcato, in una delle quali si immagina uno scatenata Macarena nel supermercato con la cassiera della fila accanto) ma non è che sia memorabile. Stesso dicasi per la regia di Doug Liman, che pure mostra una buona attitudine per le scene movimentate, che gli tornerà utile in seguito (Bourne identity, Mr & Mrs Smith).

Unknown - Senza identità

Un tale (Liam Neeson) arriva in una freddolosa Berlino invernale in compagnia della splendida moglie (January Jones) per partecipare ad un convegno. Nel prendere il taxi dimentica la ventiquattrore, arrivato all'albergo se ne accorge, prende un altro taxi per tornare in aeroporto. Sfortunatamente, finisce invece nella gelida Spree e ne viene ripescato più morto che vivo dalla altrettanto splendida tassista abusiva (Diane Kruger).

Si risveglia dopo qualche giorno per scoprire di aver perso tutto. Non ricorda molto del suo passato e quel poco che ricorda cozza violentemente con la realtà dei fatti. Al convegno, al posto suo, c'è un tizio che manco gli somiglia, ma che la moglie è convinta sia lui. Roba da diventar matti.

Difficile andare avanti a raccontar la storia senza rovinare la prima visione altrui e allora, con grande fatica, mi trattengo, ma non prima di accennare che si tratta di un thriller, il tizio non ha perso il ben della ragione (tutt'altro, verrebbe da dire) e che verrà aiutato a venir fuori dal ginepraio in cui è finito dalla tassista e da un simpatico anziano investigatore che prima lavorava per la Stasi (niente meno che Bruno Ganz).

Buona la regia (del catalano Jaume Collet-Serra) di cui ho apprezzato anche l'immancabile scena di inseguimento automobilistico, che mi ha ricordato a tratti il buon vecchio Frankenheimer. La sceneggiatura mostra qualche debolezza, ad esempio quando fa ricorso a cellulari che troppo spesso non prendono la linea (a Berlino?), e costringe una possente organizzazione ad essere troppo disorganizzata. Innumerevoli i riferimenti ad altri film, come è quasi necessario quando si fa un film di genere come questo. L'individuo che finisce in un meccanismo che non comprende non può che far pensare ad Hitchcock. Altri film che gli stanno bene vicino sono Frantic e la serie di Bourne. Lo spettatore più fantascientifico potrebbe avvicinare questa storia a Total recall.

Ottimo il summenzionato cast (soprattutto i ruoli maschili), a cui vanno aggiunti anche Sebastian Koch e Frank Langella, qui in particine, che però hanno qualche buon momento.

Kick-ass

Paga il pegno dovuto dalla sua origine fumettistica con una certa bidimensionalità e implausibilità dei personaggi e delle situazioni. D'altro canto i riferimenti cinematografici sono molteplici, a partire dal misconosciuto Contro il sistema - Il giustiziere senza legge (forse meglio noto con il titolo originale di Gardener of Eden) che mette in scena una storia tutto sommato simile, persino più realistica. Solo che quello era ambientato nel New Jersey e questo a New York (e un budget decisamente più significativo). Poi é difficile non fare il parallelo con Léon, che va tutto a vantaggio del film di Besson. Basti solo considerare il fatto che qui la bambina è esageratamente giovane e letale, e soprattutto non è Natalie Portman ma solo Chloe Moretz. Svariate le citazioni da film superoministici, in particolare Spiderman. Ma anche Matrix, e i film western - apprezzata la citazione esplicita degli spaghetti-western con un brano di Ennio Morricone a impreziosire una buona e variegata colonna sonora.

Il regista-sceneggiatore Matthew Vaughn (a Jane Goldman il grosso del lavoro di scrittura, il fumetto è di Mark Millar e John Romita Jr.) sembra indeciso tra prendere sul serio l'ascendenza fumettosa-superominica o farsene beffe. Direi che cerca di mantenere aperte entrambe le strade, e questa mi sembra un po' una debolezza del film. Un po' tirata per il lungo anche il regolamento dei conti finale, che avrebbe guadagnato qualcosa da un suo alleggerimento.

Tra gli aspetti positivi, invece, ci metterei la terribile morte che viene fatta fare a Nicolas Cage, un senso dell'umorismo un po' deviato ma piacevole, e una storia tutto sommato interessante.

Dogville

Lars Von Trier è uno tra i pochi uomini di cinema viventi che hanno realmente qualcosa da dire. Affermato questo mio personalissimo dogma, passo a blaterare di questo suo film (scritto, diretto, ripreso) di quasi un decennio fa.

Trattasi, come spesso accade con questo autore, di malloppazzo che richiede di giungere alla sua visione ben preparati. Nel mio caso, ad esempio, dopo una mezz'oretta ho dovuto sospendere la visione per abbiocco improvviso. Però una volta passata la crisi, le due ore e mezza successive sono scorse vie leggere senza altri intoppi.

Quella che penso sia la parola chiave arriva solo nel finale: arroganza. E' una storia di arroganti. Ognuno pensa di sapere cosa sia giusto, e tutti sbagliano. Un giovane intellettuale in erba (Paul Bettany) si arroga il diritto di spiegare agli abitanti del suo depresso paesino (Dogville, da qualche parte negli USA, tra le montagne, in fondo ad una strada che non porta in nessun posto) cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Una giovane donna di città (Nicole Kidman), evidentemente cresciuta nella ricchezza e ora in fuga non sappiamo bene fino al finale rivelatore da cosa e perché, finisce in questo posto letteralmente dimenticato da Dio (c'è una chiesetta, ma il prete non passa da tempo immemorabile). Il giovane, continuando nella sua arroganza, decide di usarla per mostrare ai suoi compaesani una diversa via nella vita. A sua volta la giovane decide che costoro sono dei "buoni selvaggi", e finisce per accettare tutto da loro, venendo vessata, violentata, maltrattata in un crescendo che sembra senza fine.

La fine invece arriva, e non è delle più consolatorie. Nel microcosmo di Dogville, che rappresenta un po' tutta l'umanità, non c'è nessuno che si salvi, almeno a livello morale. Se non il cane - che teleologicamente dà nome al paese stesso.

Cast di una bravura abbacinante. Oltre ai protagonisti ricordo Lauren Bacall (gli anni passano, ma lo sguardo è sempre quello), Ben Gazzarra, Stellan Skarsgård (decisamente a suo agio nei ruoli da tipaccio), e James Caan a cui, come al solito, gli tocca di fare il boss mafioso - e lo fa egregiamente.

Tecnicamente il film è a dir poco sorprendente. Un curioso tentativo di conciliare il radiodramma, con una voce in sottofondo (in originale l'ammaliante John Hurt) che racconta l'azione, il teatro e l'avanguardia cinematografica - giocando tra un minimalismo scenico, che costringe gli attori a fingere si aprire porte che non ci sono, e effetti speciali, così speciali che ci danno emozioni senza quasi farsi notare. Mi verrebbe quasi da dire che anche Von Trier pecchi di arroganza, mescolando così pretenziosamente le carte, se non fosse che mi pare di vedere nella figura del protagonista una sorta di alter-ego dell'autore, e bisogna dire che non gli fa nessuno sconto.

L'amore è una cosa meravigliosa

Polpettone sentimentale blandamente razzista che però ha alcuni momenti memorabili che lo riscattano.

Il racconto visuale di Hong Kong anni cinquanta, ad esempio. La focosa scena di sesso tra i due protagonisti (un William Holden poco in parte e una piacevole Jennifer Jones che ha alcuni momenti, un paio di espressioni, che da sole valgono la visione del film). Uhm, forse è meglio se spiego che nella scena in questione in realtà non si vede niente, va tutto immaginato, e l'azione viene resa con due sigarette. Un modo geniale di aggirare la tremenda censura americana di quei tempi. E poi c'è anche un finale che è esattamente l'opposto del lieto fine hollywoodiano che, perdinci, mica tutte le storie devono per forza finire bene.

Tra i numerosi aspetti negativi ci metterei: l'incolpevole Jones, che tutti gli altri personaggi prendono per cinese (il personaggio lo sarebbe per metà, invero) mentre lei evidentemente di cinese non ha assolutamente nulla; un paio di tirate anticomunista (in versione cinese) che fanno appisolare; la colonna sonora che consta principalmente della ben nota canzonetta ripetuta sino alla nausea in svariate salse; la recitazione di Holden che non mi pare in uno dei suoi ruoli più riusciti.

Non un capolavoro, dunque, ma per chi abbia voglia di tormentarsi su una triste storia di amore tra una dottoressa (nell'accezione medica del termine) cinese (anche se non sembra) e un giornalista americano, potrebbe anche andare.

Hot fuzz

Diretto da Edgar Wright, scritto da Wright e Simon Pegg, interpretato nei ruoli principali da Pegg e Nick Frost, con un piccolo ruolo per Bill Nighy. Non sto parlando de L'alba dei morti dementi ma di Hot fuzz che, come si può immaginare, risulta per certi aspetti molto simile al precedente, soprattutto nella regia, nell'approccio umoristico alla sceneggiatura, e in una certa compiacenza nella truculenza di alcune scene piuttosto splatter.

Cambia completamente il genere che viene saccheggiato e riadattato all'impostazione molto britannica della squadra. Infatti Pegg interpreta un superpoliziotto londinese, così dedicato al suo lavoro che finisce per perdere la fidanzata e venir promosso e trasferito in un paesino dal tasso di delinquenza minimo. Lì viene costretto a lavorare in coppia con il figlio del capo locale, ricostituendo quindi la coppia con Frost. Buddy movie alla Arma letale, dunque. Ma ambientato nella placida provincia inglese. Placidità che dura ben poco, perché iniziano ad accadere strani omicidi, che vengono maldestramente camuffati da incidenti. Il superpoliziotto sospetta il proprietario del supermercato (Timothy Dalton), si costruisce una storia verosimile che però non regge alla prova dei fatti. Ha sbagliato ad applicare la mentalità londinese alla provincia. Non che in provincia non accadano fatti disdicevoli, ma hanno motivazioni diverse.

Nel finale si passa al genere western, con una gran sparatoria, anche se lo spargimento di sangue è più contenuto di quanto si potrebbe temere.

L'alba dei morti dementi

Questa volta, pur non condividendolo, capisco il senso del titolo italiano. In effetti non era semplice rendere il titolo originale Shaun of the dead che vuole essere un chiaro riferimento a Dawn of the dead di Romero, giocando sul nome del protagonista, Shaun, per l'appunto. Problema reso ancor più complicato dal fatto che in italiano il film di Romero ha preso il nome molto più sintetico di Zombi. Fortuna vuole che il remake omonimo di Zack Snyder è stato graziato da una traduzione meno squilibrata, L'alba dei morti viventi.

A dire il vero questo genere non mi appassiona per niente, sono arrivato a questo titolo cercando di capire chi fossero mai i due curiosi personaggi dietro a Paul. Simon Pegg e Nick Frost sono per l'appunto i protagonisti di entrambi i film, il primo nei panni di Shaun, il secondo in quelli dell'amico, installatosi permanentemente sul suo divano.

Pegg è anche lo sceneggiatore, assieme a Edgar Wright, che è alla regia. La piacevole colonna sonora include, tra l'altro, Don't stop me now dei Queen, che viene fatta suonare da un Juke Box nel momento meno appropriato (e naturalmente non si riesce a fermarlo). L'idea è quella di riscrivere una tipica di storia zombie per farla diventare una commedia romantica, il che potrebbe sembrare una scommessa ardita, eppure mi sembra che sia vinta. L'umorismo della vicenda è molto inglese, del tipo Monty Python - Guida galattica per autostoppisti. Si ride ma con il sospetto che ci sia ben poco da ridere. Al buon risultato del lavoro contribuisce anche il buon livello del cast al contorno - una piccola parte anche per Bill Nighy, nei panni del padre adottivo di Shaun.

Transformers 3

Di Michael Bay ho visto già due film, The island e Armageddon, e persino qualche minuto di Pearl Harbour. Ho anche una memoria confusa di un Bad boy (probilmente il primo), e quindi farebbero addirittura tre. Non riesco a darmi motivazioni per vedermi altra sue cose, almeno al momento, per cui ho felicemente deciso di fare a meno di tutta la serie di Transformers, incluso quest'ultimo capitolo che, a quanto sento dire, dovrebbe essere persino peggio dei precedenti.

Mi spiace di restare con il dubbio di cosa mai ci facciano in un film del genere gente come Frances McDormand, John Turturro, John Malkovich. Ma ci dormirò.

Per quel poco che ne ho sentito, la molto percussiva colonna sonora non è male.

Sky high - Scuola di superpoteri

Strano rimescolamento di Harry Potter, X-men e la famiglia Incredible normalizzato dalla produzione Walt Disney per ottenere un film che mira essenzialmente alla famigliola con ragazzini ormai cresciutelli. Tutto sommato il risultato non è disprezzabile, anche se si ricorre troppo spesso all'uso di luoghi comuni che rendono l'azione prevedibile e scontata. Il vantaggio è che si può guardare tranquillamente la pellicola mangiando popcorn senza temere di perdersi battute fondamentali.

La storia è quella di un ragazzetto che ha per genitori i due supereroi più famosi al mondo, un po' come gli Incredibles, e comincia con il suo primo giorno di scuola al liceo specializzato per gente con poteri più o meno bizzarri. Hogwarts viene riadattata al sistema scolastico americano, tenendo conto del esperienza didattica del professor X, e vi si svolgono le solite vicende da scuola superiore americana - il che mi ha fatto pensare anche al primo Spiderman. A rendere più interessante la vicenda il fatto che, nonostante l'ascendenza, il giovane Stronghold sembra non aver alcun potere, e per questo viene assegnato alla classe degli aiutanti (massima ambizione, diventare come Robin, se si viene scelti da un Batman).

Crescita del ragazzetto, che scopre l'amore, l'inganno, l'amicizia, e persino i suoi superpoteri.

Simpatica partecipazione di Kurt Russell come padre superforzuto e, nel ruolo minore del capo dell'istituto, anche di Lynda Carter, la Wonder Woman di una trentina di anni fa.

Tra le nuvole

Se non fosse completamente diverso, mi verrebbe da dire che è molto simile al precedente film di Jason Reitman, che qui, oltre alla regia, ha messo lo zampino anche nella sceneggiatura e nella produzione (quest'ultima assieme anche al babbo Ivan). Il cast è decisamente più lussuoso, con George Clooney protagonista assoluto e Vera Farmiga che riesce a conquistarsi uno spazio non disprezzabile. Particine anche per Jason Bateman e J.K. Simmons, già visti in Juno.

Anche in questo caso Reitman coniuga temi decisamente spinosi ad una cornice decisamente più leggera di una (amarognola) commedia sentimentale. Funziona benissimo a livello di puro intrattenimento, anche qui grazie ad una buona colonna sonora - questa volta più sul tipo greatest hits, ma lascia molto spazio per chi voglia meditare su temi più profondi.

Clooney interpreta un tale che per lavoro licenzia la gente. La sua azienda in pratica lo affitta a chi deve fare tagli di personale ma non ha il coraggio di esporsi in prima persona. Lavoro terribile, ma che lui affronta con distacco olimpico e godendosi appieno una vita da olandese volante (è proprio il caso di dirlo) di lusso. A rompere le uova nel paniere arriva una giovane neocollega (Anna Kendrick) che propone di cambiare modello aziendale e usare internet per licenziare a distanza. Ma il vero problema del protagonista è la crisi di mezza età. Ha impostato tutta la sua vita su un modello folle (pensare a solo a sé stesso) e adesso la vita gli presenta il conto. La sua strategia, a questo punto, è quella di combattere per continuare come tutto era prima. Instaura una relazione con un'altra viaggiatrice perenne (Farmiga), e cerca di dimostrare di essere necessario alla sua azienda.

D'altro canto si dà spazio al fenomeno tutto americano (ma ormai non solo) dei licenziamenti facili.

Non vengono offerte ricette o vie di uscita, anzi, dietro l'apparenza di commedia leggera si nascondono una serie di tragedie. Umanamente sembra che non vada bene a nessuno - chissà, forse alla sorellina del protagonista, che si sposa con un tipo che non sembra una cima ma forse poi non è così male.

Juno

Volendo, lo si può guardare come se fosse solo una commedia sentimentale adolescenziale e reggerebbe già così, grazie alla robusta sceneggiatura di Diablo Cody e all'ottimo lavoro alla regia di Jason Reitman. Tra l'altro, i due sono tornati a lavorare assieme per e dovremmo vedere presto il loro nuovo film.

Il primo lungometraggio di Reitman, Thank you for smoking, era un'agra commedia sul mondo delle multinazionali del tabacco, e in genere sulle grandi aziende e il loro potere di pressione sulla società civile. Qui invece vengono usati toni più sfumati, direi quasi pastello, e penso alla scena in cui la madre adottiva (Jennifer Garner) medita sui colori da usare per la stanza del pargolo in arrivo. Tonalità leggere, quasi indistinguibili ad occhi maschili (come viene reso bene dallo sguardo perplesso del marito - Jason Bateman), che vengono supportate anche da una bella colonna sonora folkeggiante (quasi naive) interamente composta da canzoni scritte e interpretate (voce e chitarra) da Kimya Dawson (vedi anche The Moldy Peaches).

E in questo modo vengono contrabbandati temi di una pesantezza non indifferente, per chi li voglia cogliere e pensarci sopra. Si narra infatti di Juno (Ellen Page), ragazzina terribile che a sedici anni resta incinta alla prima esperienza con il compagno di classe del suo cuore (Michael Cera). Ne segue un lungo percorso che la porterà a mollare il ragazzo di cui pure è visibilmente innamorata, pensare di abortire, ripiegare sul non riconoscimento del figlio e concessione in adozione ad una coppia predeterminata (una follia, a mio parere, ma lì evidentemente possibile), discuterne con la sua famiglia, discuterne con gli adottandi, prendersi una mezza cotta per l'adottando, aver modo di riflettere su tutta la vicenda e prendere un paio di decisioni che la faranno veramente (e anche dolorosamente) crescere.

Tra gli argomenti buttati lì senza pensarci troppo, perché normali nel nord America, c'è anche il fatto che per una famiglia non particolarmente benestante, come quella di Juno, una gravidanza inattesa è una specie di botta che può causare un mezzo tracollo economico. I genitori adottivi (economicamente ben messi) infatti si offrono di pagare tutte le spese sanitarie, cosa che a noi europei sembra quasi priva di senso.

Shelter - Identità paranormali

Dietro a questo film si cela una domanda a cui m'è difficile dare una risposta: ma come hanno fatto a convincere Julianne Moore a partecipare ad una stupidata di questo livello? L'hanno pagata una cifra esorbitante, o l'hanno subdolamente ricattata?

Il film è centrato sul suo personaggio, una psichiatra criminale (nel senso di una psichiatra che si occupa di casi criminali - non vorrei creare false aspettative), con qualche spazio lasciato all'antagonista interpretato da Jonathan Rhys Meyers che, dato l'improbo compito che si è ritrovato - un povero disgraziato afflitto da personalità più che multiple innumerevoli - devo dire che non se la cava neanche male. Tra i personaggi minori spicca per la inconsistenza Jeffrey DeMunn, nei panni del padre della protagonista, anche lui uno strizza.

La regia, un duo svedese formato da tali Måns Mårlind e Björn Stein, non è neanche male, almeno nei primi minuti, ma poi cede volentieri ad un manierismo di genere che finisce rapidamente per stufare, anche perché il grosso problema di questo film è che non si capisce bene di che genere sia. Verrebbe da dire che la pellicola ha lo stesso problema del suo "cattivo".

Stenderei un pietoso velo sul colpo di scena tecnologico, ma non ce la faccio a trattenermi: il fratello della strizza ha, per motivi ignoti, nel suo computer un programma tale che cattura una immagine in movimento, la elabora e ne estrae l'onda sonora (tridimensionale) associata. Non è facile spiegare la cosa, anche perché è completamente priva di senso. Ma anche il resto della vicenda brilla per fatti privi di senso che cozzano violentemente tra di loro rendendo la visione una tempestosa assurdità.

Cosa avranno mai voluto dire i registi e lo sceneggiatore (Michael Cooney) raccontando questa oscura vicenda? Questa domanda mi pare più semplice di quella iniziale: a mio parere, nulla.

La storia, che fra l'altro si svolge a Pittsburgh, che sembra essere diventata una piccola Hollywood vista la mole di film che vi vengono girati, per fare un titolo The next three days, inizia mostrandoci la strizza che dichiara, con una assolutezza che dovrebbe lasciar perplesso ogni buon conoscitore del metodo scientifico, che il disturbo di personalità multipla non esiste. Subito dopo il padre, anche lui strizza, le mette sotto gli occhi un caso che, al netto della sua spettacolarizzazione cinematografica (un po' da baraccone), dovrebbe per lo meno portarla a usare un linguaggio meno tranchant. E in effetti, almeno inizialmente, la Moore spiega sommariamente che il disturbo di personalità multipla esiste, ma non è così comune come viene divulgato, e soprattutto non è che più persone coesistano nello stesso corpo (cosa fisicamente oltre che evidentemente impossibile) ma che un singolo individuo può attivare questo meccanismo di difesa in seguito a grossi traumi.

Tenendo questa linea, il film ci sarebbe già tutto - un povero disgraziato con i suoi traumi, un comportamento incomprensibile e bizzarro, la coraggiosa strizza che riesce a dargli un briciolo di serenità. Ma niente da fare. Si preferisce buttare tutto alle ortiche per sviare verso thriller con serial-killer, dove il cattivo sarebbe un super-astuto che finge di avere un problema di personalità multiple, mentre in realtà ammazza a tutto spiano. Già, ma perché? Come sottotesto ci mettiamo poi il rapporto padre-figlia: lui chiede troppo a lei, lei fa il suo stesso lavoro solo per antagonismo. Mannò, buttiamo di nuovo tutto in pattumiera e introduciamo la pista satanica o, a scelta, la fondamentalista cristiana. Oppure una qualche sorta di animismo sincretico che combatte contro una presenza demoniaca. E aggiungiamoci pure il rapporto fede-scienza, tanto per rendere più fumosa la vicenda.

Ricapitolando, un po' Il silenzio degli innocenti, un po' Shining, un po' film demoniaci vari (che non cito perché non frequento il genere), un po' Seven, un po' di tutto. E non ci rimane in mano praticamente niente.

Serenity

Sconsigliata la visione a chi non apprezza la fantascienza. Inoltre credo che sia meglio vedersi prima la serie televisiva da cui il film è stato derivato (Firefly), altrimenti si corre il rischio di non capire un tubazzo di buona parte dell'azione.

Nel caso particolare, non avendo visto la serie, ho seguito con espressione perplessa l'apparizione e sparizione di personaggi secondari.

In realtà, anche considerando le attenuanti di cui sopra, non ho particolarmente apprezzato la visione.

La recitazione è a livello televisivo, il protagonista (Nathan Fillion) mi sembra tenti di emulare l'Harrison Ford di Guerre stellari. Sopra media m'è parso Chiwetel Ejiofor - ma non è che sia poi un gran complimento.

Considerando le cifre stratosferiche che sono in ballo per i film di fantascienza moderni questo, costato "solo" poche decine di milioni, viene considerato a basso costo. E in effetti gli effetti speciali fanno un po' ridere, ma non mi pare un problema, anzi, aggiunge un certo fascino retrò alla pellicola. Quello che non mi convince è la sceneggiatura (Joss Whedon, anche alla regia), che mi sembra inspirata dalle avventure di Capitan Harlock (Harlock, Harlock!), i personaggi stereotipati, le situazioni poco chiare (ma per questo, vedi le prime righe).

A salvare il tutto ci pensa un finale non banale, e una buona dose di autoironia.

Rango

Peccato che Duccio Tessari e Sergio Leone siano morti. Ennio Morricone da solo è di carattere troppo riservato per agire, e probabilmente non ci avrà fatto nemmeno caso. Però mi piace pensare ai tre che si riuniscono per tramare una qualche buffa vendetta nei confronti di Gore Verbinski, regista scopiazzatore impunito, coinvolgendo Giuliano Gemma e chissà chi altro.

Rango è un remake del cinema spaghetti-western (la citazione a Ringo è più che esplicita), con tutti i vari personaggi e situazioni di quel mondo stipati in un film di animazione che fa rimpiangere i bei tempi quando i soldi bastavano a malapena per arrivare agli ottanta minuti. Nel caso particolare, una bella sfoltita a metà pellicola non farebbe che del bene al film.

Vero è che un po' tutta l'animazione moderna punta molto sulle citazioni, ma secondo me John Logan (sceneggiatura) e associati hanno esagerato, mettendoci dentro un po' di tutto, compreso Apocalypse now e Star wars, finendo per diluire quello che sarebbe potuta essere una storia interessante con una serie di trovate che mi paiono fini a sé stesse.

Perché dopo tutto, a ben vedere, la storia non è malaccio, con il protagonista, una sorta di lucertola interpretata da Johnny Depp, che segue un suo percorso - abbandona (non intenzionalmente) una vita comoda ma vuota per affrontare un esistenza rischiosa ma reale; impara poi a non nascondersi dietro ad un personaggio ma ad agire per quello che è, scoprendo che il suo vero essere è forse anche meglio della sua maschera.

Nessuna verità

Vincenda simile a quella narrata in Syriana, e un po' anche a quella di The kingdom ma più ingentilita e dotata di un improbabile lieto fine.

Lo metterei in posizione mediana, nel terzetto suddetto. Meglio di The kingdom (che punta più sull'aspetto muscolare/militare) ma inferiore a Syriana (meno consolatorio).

Il titolo italiano questa volta mi pare accettabile, anche se stravolge l'intraducibile titolo originale, Body of lies, che gioca sugli aspetti principali della vicenda: le menzogne e il lato umano. Sceneggiatura non originale di William Monahan e regia di Ridley Scott, entrambe non particolarmente convincenti.

Partita a tre tra Leonardo Di Caprio, operativo CIA in medio oriente, Russell Crowe, il suo responsabile strategico che opera prevalentemente da casa, e Mark Strong, capo dei servizi segreti giordani. Il vincitore mi pare sia proprio Strong che, pure non essendo esattamente credibile in quel ruolo (è inglese di origine italo/austriaca), mi sembra il più in palla tra i tre.

In pratica si racconta quanto sia ingarbugliata la situazione in medio oriente. I due americani fanno una serie di errori e il giordano ne approfitta per portare a casa il risultato.

Piacevole la colonna sonora arabeggiante.

La strana coppia

Secondo episodio della lunga e felice collaborazione tra Jack Lemmon e Walter Matthau (Non per soldi ... ma per denaro è di due anni prima), qui alle prese con la trasposizione cinematografica di una tra le più fortunate commedie di Niel Simon. Purtroppo la regia (Gene Saks) non è eccezionale, e anche la sceneggiatura (sempre di Simon), a ben vedere, si limita a riproporre quasi alla lettera l'impostazione teatrale. In ogni caso si tratta di un ottima storia, ben raccontata e magistralmente interpretata sia da i due strepitosi interpreti principali, sia dal buon cast al contorno.

Si narra la storia del fallimento di due amici, Oscar (Matthau) ha divorziato da poco perché la moglie non riusciva a reggere più il suo carattere ruvido, lunatico, inaffidabile, scostante. Felix (Lemmon) viene mollato dalla moglie perché preciso all'impossibile, pieno di fissazioni, estremamente controllato e incapace di affrontare una qualunque circostanza senza vagliarla razionalmente. Oscar accoglie l'amico nel suo enorme appartamento nell'Upper West Side, dando vita così ad una breve ed impossibile convivenza tra due caratteri diametralmente opposti.

Il bello è che i due riescono ad imparare ognuno qualcosa dall'altro e nel finale intuiamo che probabilmente vivranno meglio.

In viaggio con una rock start

Get him to the Greek, in originale. Dove il Greek theater è un arena che si trova a Los Angeles e ricalca per l'appunto la struttura di un teatro greco.

Commedia pop-rock che avrebbe delle potenzialità che mi paiono però stroncate dal mirare troppo in basso del regista-sceneggiatore (Nicholas Stoller).

Un ragazzotto imbranato (Jonah Hill) affascinato dal mondo della musica e che lavora per una label californiana concepisce l'idea di recuperare una star inglese in declino, tale Aldous Snow (un divertente Russell Brand), portandolo a fare un concerto al Greek, una sorta di bis dieci anni dopo. Ma costui è un tipo molto turbolento e Hill lo deve praticamente portare di peso da Londra a Los Angeles (via New York e Las Vegas).

Il personaggio di Snow era stato creato per Non mi scaricare, e decisamente meritava di essere sviluppato meglio. E, tutto sommato, qui fila. Ha uno spessore, è ben interpretato, ha una sua storia (che mi pare ricalcata su quella di Liam Gallagher, qui ancor più che nel film originario), diverte ed è pure interessante.

Il problema è nel personaggio che è toccato a Hill (era anche lui nel film precedente, ma lì era un cameriere alle Hawaii, mantenuta però la passione per Snow), che mi pare caratterizzato malamente. Il suo tratto caratteristico, per andare subito al punto, è quello di vomitare - e solitamente si vomita addosso.

Particina per Colm Meaney, nel ruolo del padre di Snow, e numerose apparizioni per personaggi come Christina Aguilera e Pink.

La demenzialità di alcune situazioni mi ricorda quella di This is Spinal tap che narrava con stile che diventerà noto in tempi recenti come mockumentary le vicende di una inesistente rock band inglese in tour negli USA.

Non mi scaricare

Commedia sentimentale di ambiente vacanziero (Hawaii) non particolarmente memorabile, se non fosse per la presenza di Mila Kunis (anche se la ricordo più volentieri ne Il cigno nero) e per il bislacco personaggio di Aldous Snow, un cantante inglese vagamente riconducibile a Liam Gallagher degli ohimè disciolti Oasis (ben interpretato da Russell Brand).

Il protagonista, scialbo ragazzotto (Jason Segel - ha scritto anche la sceneggiatura) che campa scrivendo colonne sonore per telefilm, viene mollato dalla fidanzata, nota attrice televisiva. Va alle Hawaii per dimenticarla, ma finisce proprio nello stesso albergo dove lei alloggia con il suo nuovo uomo, una super-cool pop star. Il titolo originale, come spesso accade, spiega meglio la vicenda, Forgetting Sarah Marshall.

Da notare, tra i comprimari, la presenza di Jonah Hill perché, cambiando di ruolo, verrà recuperato nella sorta di sequel - o forse meglio chiamarlo spin-off - In viaggio con una rock star.

Crank: High Voltage

Dopo approfondita riflessione, seguita alla visione del primo episodio della serie (si vocifera di una terza puntata), ho deciso di evitare questo titolo. Mi accontento del trailer:

Che, come riassunto, mi pare bastante. Stessi registi/sceneggiatori (Mark Neveldine / Brian Taylor), stessi personaggi principali (con Jason Statham sempre protagonista), stesso andazzo generale - solo che adesso invece dell'adrenalina la "benzina" che fa andare avanti il protagonista è energia elettrica. Da cui il titolo.
Sembra anche che sia persino divertente, in quel modo scombinato e vacuo del primo episodio, ma direi che uno basta.

Crank

In pratica, un videogame. Del tipo scappa e spara, per intenderci. Non che i registi/sceneggiatori (la coppia Mark Neveldine - Brian Taylor) faccia mistero della cosa, le citazioni sono esplicite e numerose, includendo pure il fatto che il protagonista (un Jason Statham che si trova decisamente a suo agio nel ruolo) si spaccia per programmatore di videogiochi alla fidanzata (Amy Smart), che se la beve tranquillamente, non essendo esattamente una cima.

Statham è un pericoloso killer a cui hanno fatto lo scherzo idiota di iniettare una misteriosa droga cinese che lo ammazzarà in un battibaleno. Unico modo per rallentare la fine, comunque inevitabile, è quello di tenere alto il livello dell'adrenalina nel corpo (e questo non può che far pensare a Speed). Scopo del giocatore (pardon, del protagonista) è quello di vendicarsi prima che il tempo a sua disposizione si esaurisca.

Ritmo molto alto, come è necessario che sia, sia per rispettare le premesse sia perché il rallentamento dell'azione (qua e là per qualche secondo succede, soprattutto nella seconda parte) lascia vedere che dietro non c'è nulla.

Benvenuti a Cedar Rapids

La prima mezz'oretta m'è sembrata desolante. Nonostante l'apparizione di Sigourney Weaver, che pur non essendo tra le mie attrici preferite mi fa sempre piacere vedere in azione (e la si vede spesso, era anche in Paul, piccolo ruolo ma ben giocato). Un tale (Ed Helms), non particolarmente sveglio, fa l'assicuratore da qualche parte nel nulla americano (Wisconsin!?). Per una improvvisa catastrofe viene mandato ad un convegno di assicuratori a Cedar Rapids, che per lui sembra essere una metropoli aldilà delle più folli immaginazioni.
Un po' come Renato Pozzetto ne Il ragazzo di campagna: il sempliciotto e il mondo moderno. Il problema credo sia che Helms non mi ha dato l'impressione di essere credibile e nemmeno particolarmente divertente.
Il seguito è decisamente meglio, anche perché il peso dell'azione viene distribuito su di un buon cast, tra cui spicca un eccellente John C.Reilly nella parte di un assicuratore dedito a donne, alcolici e volgarità assortite.

La storia (Phil Johnston), dopotutto, non è malaccio, anche se non è estremamente originale. Il campagnolo viene messo di fronte ad una scelta difficile, fa una scelta che gli sembra quella giusta, nonostante che gli costi parecchio, ma scopre di aver fatto un errore. Con l'aiuto di una bizzarra combriccola di assicuratori, appena conosciuti ma che diventeranno i suoi veri amici aiutandolo a crescere, riesce a cambiare il risultato e uscirne in modo onorevole.

Purtroppo questo canovaccio non è sviluppato benissimo, e il colpo di scena finale è troppo fiacco.

Anche la regia (Miguel Arteta), non mi è parsa particolarmente brillante, anche se capace di gestire i personaggi (a parte il protagonista - mi figuravo come avrebbe sfruttato la parte un attore come il Martin Short dei bei tempi) e le situazioni con naturalezza.

Vincere

Peccato per la prima parte (un buon tre quarti d'ora, ohimè), fosse stata sforbiciata a dovere, e le fosse stato dato lo stesso ritmo del seguito, avremmo avuto un ottimo film.

Purtroppo Marco Bellocchio è un Autore, e difficilmente qualcuno si sogna di dire ad un Autore quando c'è qualcosa che non va. In un quarto d'ora si poteva condensare benissimo quello che c'era da dire, evitando un andamento rapsodico e noiosetto che sembra fatto apposta per allontanare (o far assopire) lo spettatore.

Superato il duro scoglio, la seconda parte merita di essere vista, sia per la superba interpretazione di Giovanna Mezzogiorno (e anche Filippo Timi non se la cava poi male) sia per la storia narrata.

Ottima la colonna sonora (qualcosa di Philip Glass, I suppose, e altro che non sono riuscito ad identificare).

Si narra la vicenda di un imbecille, al secolo Benito Mussolini, che sacrifica tutto e tutti per ottenere non si sa bene cosa. L'autodistruzione, probabilmente. Il punto di vista è quello della moglie segreta e relativo figlio che, per evidenti ragioni politiche, vengono fatti sparire dalla scena. Da notare che i fatti narrati, pur essendo ampiamente romanzati, hanno una base reale.

La prima parte ci fa vedere il giovane Mussolini, attivista socialista, contrario alla guerra, e gran affascinatore di donne, che cambia idea, diventa antitedesco, interventista, esce dal partito socialista e fonda un suo giornale. La Dalser lo segue ciecamente, semplicemente rimuovendo tutto quello che non le va di vedere, finché non viene scaricata.

Nella seconda parte Mussolini sparisce, o meglio è dappertutto, nei cinegiornali, alla radio, su manifesti, e anche in forma di statua - ma non è più un personaggio attivo, è il rumore di fondo sopra cui si svolge l'azione della moglie ripudiata, dichiarata folle, in quanto portatrice di una verità inaccettabile e del figlio finirà per diventare, lui sì, veramente folle, schiacciato da una figura paterna contemporaneamente lontanissima e replicata ovunque.

Da notare che Timi interpreta entrambi i Mussolini, come a rendere ancora più mostruoso l'abbandono paterno.

Quando la moglie è in vacanza

Rivisto in seguito alla lettura di un post de il bibliofilo che mi ha messo di fronte alla dura evidenza di essermi dimenticato di buona parte dell'azione.

Il titolo italiano rende bene il senso del prologo, burlescamente accademico, in cui si spiega che a Manhattan da sempre in estate c'è la fuga estiva dalla città da parte di mogli e figli, con i mariti che restano al lavoro, e si dedicano ad attività extraconiugali. Perde però il senso del resto dell'azione, meglio reso dal titolo originale, The seven year itch, il prurito del settimo anno, più centrato sul caso particolare del protagonista, per l'appunto sposato da sette anni e che incappa in un calo di desiderio nei confronti della moglie.

Il film, co-scritto, diretto e coprodotto da Billy Wilder, narra la vicenda di un tale (Tom Ewell, mi chiedevo come mai non avessero preso Jack Lemmon per la parte, sarebbe stato perfetto, ma poi ho realizzato che ai tempi non era ancora noto) che si trova temporaneamente da solo nella sua casetta nell'Upper East Side giusto quando Marilyn Monroe prende in subaffitto l'appartamento al piano superiore.

I due si piacciono, c'è una sorta di tradimento più immaginato che realizzato (la censura anni 50 americana era terribile), ma alla fine il protagonista piglia il treno per il Maine e raggiunge la moglie.

Qualche pensiero sparso.

Lui è appena tornato a casa, suona il campanello, apre, e scopre che è la sua nuova vicina. Bang: Colazione da Tiffany. Quasi lo stesso indirizzo, quasi la stessa situazione, quasi lo stesso tipo di personaggio femminile.

La genialità di Wilder si vede (anche) nell'uso dei personaggi secondari. Uno psicanalista folle, una anziana cameriera militante nudista, un portinaio impiccione, attraversano rapidamente la vicenda dandole uno spessore che altrimenti non avrebbe.

Come spesso accade nelle migliori commedie, sotto sotto è nascosta una tragedia. I due potrebbero mandare a quel paese le loro vite precedenti e mettersi assieme. Ma lui non osa, ha paura delle convenzioni, ha paura di essere vecchio, forse ha paura di essere amato. Meno chiaro quel che pensa lei, inizialmente dice che è contenta che lui sia sposato, così non le chiederà di sposarsi, perché vuole divertirsi. Però non è che faccia poi una gran vita divertente, a quanto si vede. Finisco per pensare che sia un personaggio come Holly Golightly, e che dica che le piace la vita che fa per farsela piacere.

Henry's crime

Un tizio (Keanu Reeves), tendenzialmente sul depresso, vive una noiosa vita a Buffalo (upstate New York, vicino alla cascate del Niagara, una fugace apparizione per loro) che non gli piace, sposato ad una donna che non ama più. In un eccesso di idiozia (in pratica, per evitare di parlare con la moglie) si lascia trascinare da un amico a fare da inconsapevole autista per una rapina in banca. Naturalmente è l'unico della banda ad essere beccato. La polizia capisce immediatamente che non c'entra nulla, troppo bietolone per fare il criminale, ma lui afferra l'occasione per farsi mandare in galera e spingere così la moglie a mollarlo.

Come compagno di cella si trova ad avere nientemeno che James Caan, delinquente alla mano, felice di aver trovato un posto tranquillo dove invecchiare placidamente.

Uscito di cella, si fa investire da Vera Farmiga, nei panni di una attrice sul punto di spiccare il balzo verso Hollywood (che può fare un attore a Buffalo? Lo spot per Buffalotto - finta lotteria locale - e teatro). Scopre per caso che tra il teatro dove Farmiga sta facendo le prove per Il giardino dei ciliegi e la banca della sua inconsapevole rapina c'è un vecchio tunnel risalente ai tempi del proibizionismo, e pensa di utilizzarlo per fare un colpaccio. D'altronde, medita, avendo già pagato col carcere in un certo senso gli spetta una compensazione.

In pratica il protagonista a metà film decide che è tempo di cambiare. Abbandona la sua passività, convince Caan che è tempo di uscire di galera, conquista Farmiga, recluta come manovalanza il nuovo marito della ex-moglie. Prenderà persino una parte nel dramma di Cechov in modo da avere accesso al tunnel.

Il problema è che Reeves è perfetto nella prima parte, ma terribile nella seconda. Recita esattamente allo stesso modo, con l'unica variazione che sul palco teatrale porta una fluente barba, il che lo dota di una seconda espressione.

Verrebbe da chiedersi perché mai Malcolm Venville, giovane regista di belle speranze, abbia preso proprio Reeves per un ruolo al di là delle sue capacità. Ma forse la risposta sta nel fatto che Reeves è tra i produttori.

La sceneggiatura ha le sue pecche, la regia non è certo perfetta, ma penso che sarebbe bastato cambiare il protagonista per ottenere un risultato decisamente migliore.

Alice in Wonderland

Riscrittura in bilico tra l'immaginario disneyano (produzione Disney e sceneggiatura di Linda Woolverton) e il burtoniano (nel senso di Tim Burton, alla regia) delle ben note avventure di Alice nel paese delle meraviglie.

Non è più una bimba Alice, ma una ragazzetta sul punto di diventare donna (Mia Wasikowska). Il prologo ce la mostra mentre va ad una festa che lei non sa essere per il suo fidanzamento (con un tipo insopportabile a prima vista). Nel contempo, curiosamente, sembriamo essere scivolati indietro nel tempo, dato che l'ambiente mi è sembrato più settecentesco che tardo ottocentesco, come sarebbe dovuto essere. L'unica cosa positiva di questa parte mi pare la sua brevità, in un quarto d'ora ce la sbolognamo e passiamo all'azione vera e propria.

Inizialmente si ricalca la vicenda originaria (Alice segue il bianconiglio, precipita nel buco, si rimpicciolisce, ingigantisce, ri-rimpicciolisce e riesce infine a entrare nel paese delle meraviglie. Che, in effetti, è meraviglioso - ma anche mostruoso, come ci si può aspettare da Burton. Ma in breve la vicenda viene indirizzata verso altri binari. Siamo dalle parti del solito conflitto tra bene e male, rappresentato qui da due sorelle, la regina bianca (Anne Hathaway, che non mi è piaciuta per niente, ma la direi incolpevole, dato che nel contemporaneo Amori e altri rimedi ha dato una prova decisamente superiore) e la regina rossa (Helena Bonham Carter - distorta tra il ridicolo e il ripugnante) che combattono per mezzo dei loro alfieri, il cappellaio matto (Johnny Depp) e il fante di cuori (Crispin Glover, ha una particina anche in Un tuffo nel passato - un film disdicevole, ma la sua parte non era male, butterei via tutto il resto e ripartirei da lui per un remake).

La vicenda originale del buon Lewis Carrol si trasforma in una sorta di Signore degli anelli in scala minore, con intervento finale di una sorta di drago (voce originale di Christopher Lee, giusto per sottolineare la citazione) contro cui Alice dovrà combattere (!) per poter tornare a casa (!!). A proposito, questo ultimo aspetto mi fa venire in mente che si tratta di un'ulteriore riferimento, il Mago di Oz. In effetti poi, nel triste epilogo, quando Alice torna nel nostro mondo, farà un discorsetto molto simile a quello di Dorothy, prima di dire che ormai non è più una ragazzina, ma una donna.

Film eterogeneo, a tratti tipicamente Disney (alla Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi), con Burton che gioca con l'orrore da favola (Alice che passa il fossato saltando di testa in testa) e con il talento istrionico di Depp. A proposito, ecco cosa non mi è piaciuto della Hathaway, sembra che cerchi di imitare Depp. Forse Burton ha cercato di duplicare in lei il ruolo del suo attore preferito.

Il buongiorno del mattino

Questa volta il titolo italiano è meglio dell'originale, (What's the story) Morning glory, che strizza l'occhio alla canzone degli Oasis senza che ci sia praticamente alcun reale riferimento nel film.

Fra l'altro "morning glory" è un modo di dire inglese che si riferisce a caratteristiche sessuali leggermente imbarazzanti. Chissà, magari negli Stati Uniti si dice in altro modo e non hanno capito l'allusione.

Ricordo vagamente che qualche anno fa un tal Wood, che lavorava alla BBC in un programma del mattino per bambini (una cosa tipo i muppet o teletubbies) un bel giorno è andato in onda con una maglietta con su scritto "morning wood", che vuol dire poi la stessa cosa, e ne è venuto fuori un mezzo putiferio.

In questo caso si tratta di una commedia romantica non eccezionale ma simpatica, grazie anche al buon cast. La pubblicità punta sul fatto che il regista (Roger Michell) è quello di Notting Hill e la sceneggiatrice (Aline Brosh McKenna) è quella di Il diavolo veste Prada. Ma nessuno dei due è qui particolarmente in forma.

La protagonista (Rachel McAdams) è una provinciale (New Jersey) che licenziata a sorpresa dal suo lavoro in una tv locale trova, ancor più a sorpresa, lavoro in città (naturalmente New York) nel più piccolo dei grandi network. Il tema del passaggio da provincia e città, ritmi più tranquilli vs. vita frenetica ma alla moda, ambiente familiare vs. maggiori possibilità lavorative, viene appena sfiorato - per maggior dettagli vedi ad esempio Jersey Girl.
La giovane provinciale deve mostrare, prima al capo supremo (Jeff Goldblum, piccolo ruolo ma ben interpretato), poi ai colleghi, di non essere una sprovveduta, e qui torniamo dalle parti del diavolo con Prada. Il programma che le viene affidato è sull'orlo della chiusura, e lei dovrà cercare di fare il miracolo, dare stimoli ad una squadra demoralizzata, e portare gli ascolti ad un livello decente. Punterà sul trash per ottenere il risultato, ma scoprirà che non basta.

Oltre al lavoro si parla anche di amore. La giovinetta è decisamente imbranata su questo lato (un po' alla Bridget Jones), ma recupererà velocemente.

Aggiungono interesse al film Harrison Ford, nei panni di un anziano giornalista costretto dal suo contratto a partecipare al programma - e figuriamoci con quanto entusiasmo, e Diane Keaton, la conduttrice del programma stesso, con un passato da miss. I due ovviamente entrano immediatamente in conflitto.

Tutti bravi gli attori principali (anche tra i personaggi secondari le cose vanno mediamente bene, cito ad esempio John Pankow) ma, dato un tale cast, io avrei sacrificato volentieri la pur brava McAdams e puntato tutto sul trio Goldblum, Keaton, Ford. Insomma, della storia della giovane paesana che viene in città e fa successo ne avrei fatto anche a meno (o almeno l'avrei ridotto a tema secondario) e avrei preferito espandere il finale di partita di tre personaggi che il successo l'hanno già avuto.