In attesa della prossima puntata della saga dei Minion (*), la Illumination Entertainment (**) ci prova con qualcosa di diverso, mantenendo lo stile della casa. Alla regia Chris Renaud è affiancato da Yarrow Cheney, che è di famiglia sin dagli inizi, e vanta anche una partecipazione come semplice disegnatore a Il gigante di ferro (1999). Sembra che il successo sia stato sufficiente da permettere di pensare già al sequel, che dovrebbe arrivare nel 2018.
Come si usa nelle animazioni moderne, la storia può essere letta a più livelli, in modo da soddisfare le esigenze del pubblico di un po' tutte le età. Al livello di base, possiamo leggerla come un buddy movie classico, in cui i due protagonisti, diversissimi, vengono costretti a unire le loro forze per uscire da una situazione molto complicata.
Facciamo così una rapida conoscenza di Katie, una giovane newyorkese che vive a Manhattan con la sola compagnia di Max, cagnetto di cui seguiamo prevalentemente il punto di vista nella narrazione. Un bel giorno, Katie torna a casa con un gigantesco cane, Duke. I due non vanno per niente d'accordo, e tentano di farsi le scarpe a vicenda. L'incontro con una banda di animali abbandonati dai proprietari, che vivono nei sotterranei della città, movimenta ancor di più l'azione.
(*) Tecnicamente, sarebbe la saga di Gru, protagonista di Cattivissimo me (2010), e del sequel (2013), ma i Minion, che sono stati protagonisti assoluti nel prequel Minions (2015) gli hanno rubato la scena. Despicable me 3 al momento risulta in pre-produzione.
(**) Con dietro la Universal Pictures a garantire gli immani costi di produzione e il necessario peso nella distribuzione.
Child 44 - Il bambino n. 44
Un po' come Gorky Park (1983), anche in questo caso si tratta di un romanzo (*) poi diventato film poliziesco di ambientazione russo-sovietica ma narrato da un punto di vista occidentale (**). Forse l'intreccio originale era troppo complesso per essere reso in tempi cinematografici, ho letto da qualche parte che il grosso problema del montaggio (***) è stato quello di ridurre l'enorme quantità di girato ad una dimensione non irragionevole. Il dubbio che mi viene è che Daniel Espinosa (regia) si sia fatto prendere la mano e non sia riuscito a decidere cosa tagliare e cosa tenere di una storia così complessa. Nel qual caso Richard Price (sceneggiatura) si dovrebbe prendere la sua parte di responsabilità.
Negli anni trenta un bimbo ucraino scappa dall'orfanotrofio e viene informalmente adottato da una unità dell'armata rossa di stanza da quelle parti. Nel decennio successivo il bimbo è diventato sergente, ha preso il nome di Leo Demidov e le sembianze di Tom Hardy. Per puro caso diventa un'icona della vittoria contro il nazismo con tutti i vantaggi che ne conseguono. Passa un'altro decennio e lo ritroviamo capitano dell'MGB, quella simpatica struttura che poi diventarà il KGB, sposato alla bella Raisa (Noomi Rapace), di cui sembra così innamorato da non rendersi conto quanto lei poco ricambi.
Leo è un po' meno brutale dei suoi colleghi, in particolare non gli piace che si ammazzino bambini, e questo gli causa uno scontro con un suo sottoposto, Vasili Nikitin (Joel Kinnaman), che capiamo subito diventerà il suo nemico giurato. A parte questi dettagli a Leo non sembra dispiacere per niente il suo lavoro, ed è disposto a chiudere un occhio, o anche tutti e due, quando è il caso, sugli ordini che deve eseguire. E per questo motivo il suo capo, il maggiore Kuzmin (Vincent Cassel), gli affida l'ingrato compito di spiegare all'amico fraterno di Leo, Alexei Andreyev (Fares Fares), che il di lui figlioletto non è stato ucciso da un maniaco, ma da un incidente ferroviario.
E qui mi occorre aprire una parentesi. Per quello che ne posso capire io, l'ambientazione stalinista della storia non è resa male, vedasi magari The way back (2010) di Peter Weir per un confronto, Tom Rob Smith fa però uno scatto in avanti che mi pare eccessivo. Prende la storia di quello che credo sia il più famoso serial killer sovietico, Andrei Chikatilo, la sposta indietro nel tempo di qualche decennio, e imputa il suo averla fatta franca così a lungo all'assenza di investigazione sul suo conto giustificata dall'assioma, più volte ripetuto nel corso della narrazione, secondo cui non possono esistere omicidi in paradiso - dove per paradiso si intende il Paese in cui si è realizzato il comunismo. Questo mi pare eccessivo. Nemmeno ai tempi dello stalinismo si negava che esistessero assassini, mentre è vero che si faceva molta fatica ad accettare che ci fossero fenomeni, come pedofilia, omosessualità, omicidi seriali, che venivano indicati come perversioni dei nemici ideologici. Non riesco dunque a capacitarmi di come un pezzo grosso dell'MGB saboti le indagini per quello che a tutti pare un evidente caso di omicidio quando questo, poi, colpisce il figlio di un suo uomo. Dal punto di vista narrativo ha un senso, perché crea un grosso problema a Leo, che è quello che ci vuole per scardinare la sua fedeltà al sistema, dal punto di vista storico mi pare troppo debole. Forse meglio sarebbe stato se Smith avesse spostato l'ambientazione in un mondo distopico, alla 1984 di George Orwell. Ma si vede che non era nelle sue corde.
Leo riesce a superare questa prova, convince Alexei a credere alla incredibile verità ufficiale, e passa alla seconda prova. Sua moglie Raisa è stata indicata come spia, suo dovere è indagare e arrestarla. Leo invece indaga, si convince dell'innocenza di Raisa e non l'arresta. In questo modo le salva ma la rovina ad entrambi, spediti a vivere in un paesino nel mezzo del nulla con mansioni molto ridimensionate. Succede però che anche in quel paesino colpisca il serial killer, e Leo si trovi a scortare il suo nuovo superiore, il generale Mikhail Nesterov (Gary Oldman), sulla scena del crimine, non tenendosi per sé tutto quello che gli pare ovvio sul caso. Il povero Nesterov ha motivi di temere un trappolone tesogli da chissachi nei suoi confronti. Non è che Leo sia stato spedito lì da Mosca per beccarlo alla prima mancanza?
Riassumendo. Da una parte abbiamo un superpoliziotto che non riesce ad indagare perché tutta la polizia è contro di lui, dall'altra abbiamo un travagliatissimo serial killer (Paddy Considine) che sembra sarebbe felicissimo di essere fermato. Leo, che aborrisce i crimini contro l'infanzia, potrebbe beccarlo in un momento, ma per far questo deve riuscire a trovare qualcuno che l'aiuti. Ci sono alcuni candidati, tutti per un motivo o per l'altro, improbabili. Alexei, suo grande amico, non è più tale; sua moglie Raisa, di cui lui è così innamorato da aver rischiato tutto per lei, sembra essere solo impaurita da lui; il suo capo Nesterov è estremamente diffidente nei suoi confronti. Come andrà a finire?
Una bizzarria che credo non abbia giovato al film, almeno dove è stato distribuito in lingua originale. Alcuni tra i protagonisti, in particolare Tom Hardy, parlano in inglese con un fortissimo accento slavo. Cosa che ovviamente non ha senso. Leo parla in inglese solo perché il film è pensato in primo luogo per un pubblico di quella lingua, Hardy parla un bell'inglese quanto possiamo immaginare sia buono il russo di Leo. Perché mai renderlo buffo facendolo parlare così? Fosse un film comico, a suo modo la cosa potrebbe funzionare. Ma qui di comicità, almeno volontaria, non ce n'è nemmeno traccia.
(*) Bambino 44, opera prima di Tom Rob Smith.
(**) Gorky Park puramente americano, Child 44 più internazionale, con la Scott Free di Ridley Scott in primo piano.
(***) Firmato da nientemeno che Pietro Scalia e Dylan Tichenor.
Negli anni trenta un bimbo ucraino scappa dall'orfanotrofio e viene informalmente adottato da una unità dell'armata rossa di stanza da quelle parti. Nel decennio successivo il bimbo è diventato sergente, ha preso il nome di Leo Demidov e le sembianze di Tom Hardy. Per puro caso diventa un'icona della vittoria contro il nazismo con tutti i vantaggi che ne conseguono. Passa un'altro decennio e lo ritroviamo capitano dell'MGB, quella simpatica struttura che poi diventarà il KGB, sposato alla bella Raisa (Noomi Rapace), di cui sembra così innamorato da non rendersi conto quanto lei poco ricambi.
Leo è un po' meno brutale dei suoi colleghi, in particolare non gli piace che si ammazzino bambini, e questo gli causa uno scontro con un suo sottoposto, Vasili Nikitin (Joel Kinnaman), che capiamo subito diventerà il suo nemico giurato. A parte questi dettagli a Leo non sembra dispiacere per niente il suo lavoro, ed è disposto a chiudere un occhio, o anche tutti e due, quando è il caso, sugli ordini che deve eseguire. E per questo motivo il suo capo, il maggiore Kuzmin (Vincent Cassel), gli affida l'ingrato compito di spiegare all'amico fraterno di Leo, Alexei Andreyev (Fares Fares), che il di lui figlioletto non è stato ucciso da un maniaco, ma da un incidente ferroviario.
E qui mi occorre aprire una parentesi. Per quello che ne posso capire io, l'ambientazione stalinista della storia non è resa male, vedasi magari The way back (2010) di Peter Weir per un confronto, Tom Rob Smith fa però uno scatto in avanti che mi pare eccessivo. Prende la storia di quello che credo sia il più famoso serial killer sovietico, Andrei Chikatilo, la sposta indietro nel tempo di qualche decennio, e imputa il suo averla fatta franca così a lungo all'assenza di investigazione sul suo conto giustificata dall'assioma, più volte ripetuto nel corso della narrazione, secondo cui non possono esistere omicidi in paradiso - dove per paradiso si intende il Paese in cui si è realizzato il comunismo. Questo mi pare eccessivo. Nemmeno ai tempi dello stalinismo si negava che esistessero assassini, mentre è vero che si faceva molta fatica ad accettare che ci fossero fenomeni, come pedofilia, omosessualità, omicidi seriali, che venivano indicati come perversioni dei nemici ideologici. Non riesco dunque a capacitarmi di come un pezzo grosso dell'MGB saboti le indagini per quello che a tutti pare un evidente caso di omicidio quando questo, poi, colpisce il figlio di un suo uomo. Dal punto di vista narrativo ha un senso, perché crea un grosso problema a Leo, che è quello che ci vuole per scardinare la sua fedeltà al sistema, dal punto di vista storico mi pare troppo debole. Forse meglio sarebbe stato se Smith avesse spostato l'ambientazione in un mondo distopico, alla 1984 di George Orwell. Ma si vede che non era nelle sue corde.
Leo riesce a superare questa prova, convince Alexei a credere alla incredibile verità ufficiale, e passa alla seconda prova. Sua moglie Raisa è stata indicata come spia, suo dovere è indagare e arrestarla. Leo invece indaga, si convince dell'innocenza di Raisa e non l'arresta. In questo modo le salva ma la rovina ad entrambi, spediti a vivere in un paesino nel mezzo del nulla con mansioni molto ridimensionate. Succede però che anche in quel paesino colpisca il serial killer, e Leo si trovi a scortare il suo nuovo superiore, il generale Mikhail Nesterov (Gary Oldman), sulla scena del crimine, non tenendosi per sé tutto quello che gli pare ovvio sul caso. Il povero Nesterov ha motivi di temere un trappolone tesogli da chissachi nei suoi confronti. Non è che Leo sia stato spedito lì da Mosca per beccarlo alla prima mancanza?
Riassumendo. Da una parte abbiamo un superpoliziotto che non riesce ad indagare perché tutta la polizia è contro di lui, dall'altra abbiamo un travagliatissimo serial killer (Paddy Considine) che sembra sarebbe felicissimo di essere fermato. Leo, che aborrisce i crimini contro l'infanzia, potrebbe beccarlo in un momento, ma per far questo deve riuscire a trovare qualcuno che l'aiuti. Ci sono alcuni candidati, tutti per un motivo o per l'altro, improbabili. Alexei, suo grande amico, non è più tale; sua moglie Raisa, di cui lui è così innamorato da aver rischiato tutto per lei, sembra essere solo impaurita da lui; il suo capo Nesterov è estremamente diffidente nei suoi confronti. Come andrà a finire?
Una bizzarria che credo non abbia giovato al film, almeno dove è stato distribuito in lingua originale. Alcuni tra i protagonisti, in particolare Tom Hardy, parlano in inglese con un fortissimo accento slavo. Cosa che ovviamente non ha senso. Leo parla in inglese solo perché il film è pensato in primo luogo per un pubblico di quella lingua, Hardy parla un bell'inglese quanto possiamo immaginare sia buono il russo di Leo. Perché mai renderlo buffo facendolo parlare così? Fosse un film comico, a suo modo la cosa potrebbe funzionare. Ma qui di comicità, almeno volontaria, non ce n'è nemmeno traccia.
(*) Bambino 44, opera prima di Tom Rob Smith.
(**) Gorky Park puramente americano, Child 44 più internazionale, con la Scott Free di Ridley Scott in primo piano.
(***) Firmato da nientemeno che Pietro Scalia e Dylan Tichenor.
Qualcosa di nuovo
Luca (Eduardo Valdarnini) sta per compiere vent'anni e sembra che la sua vita stia prendendo una brutta direzione. Una madre contemporaneamente soffocante e distratta, una fidanzatina decisa ma sa nemmeno bene lei a cosa, un padre assente e forse altri problemi che non ci sono ben presentati, lo stanno spingendo verso un probabile disdegno del genere femminile e una incapacità relazionale con ogni essere vivente. Non fosse che per sua (opinabile) fortuna incontra due amiche sulla quarantina, pazze scatenate, Lucia (Paola Cortellesi) e Maria (Micaela Ramazzotti).
Maria è una burina "un po' mignotta (*)", Lucia è una sofisticata "spadona" (**), le due si completano in un sistema abbastanza stabile. Entrambe divorziate, Maria eternamente in caccia, Lucia sdegnosa, per un curioso equivoco finiscono per inglobare Luca, circuito da Maria in discoteca, che però scambia per Lucia. Il triangolo porta ad una evoluzione di ognuno degli elementi, con Maria che si sgrezza, Lucia lima i suoi spigoli, Luca guadagna un poco di maturità. Finale a mio avviso poco credibile e poco risolto in cui sembra che il terzetto trovi un nuovo equilibrio stabile.
La commedia è divertente e ben scritta (***), anche se mi sembra sbilanciata sul lato femminile della storia. Il personaggio di Luca mi pare presente per necessità dell'intreccio che per reale interesse dell'autrice. Ad esempio, la sua improvvisa maturazione nel finale non mi pare per niente realistica ma direi che serve solo per mostrare l'evoluzione del rapporto tra Maria e Lucia.
Difficile eludere il confronto con 20 anni di meno (°), che direi si conclude con un pareggio, anche se il francese mi pare realizzato meglio anche se paga una scrittura di qualità inferiore.
Altro confronto immediato è quello con La pazza gioia, grazie anche alla presenza della Ramazzotti in entrambe le pellicole, sempre in coppia con un'altra donna, sempre nel ruolo della greve proletaria. In questo caso a perdere è la Cortellesi, grazie alla superlativa prova di Valeria Bruni Tedeschi nel film di Virzì.
A proposito della Cortellesi, brava nel suo ruolo che però non ho potuto evitare di pensare a quanto sarebbe stato meglio se fosse stato adattato per e interpretato da Laura Morante (°°). Le sue capacità canore avrebbero potuto essere la chiave del suo uso, ma non mi sembrano siano state sfuttate a fondo. Se è vero che il suo personaggio è una cantante jazz, e la vediamo all'opera, i suoi numeri mi sono sembrati freddi, forse cantati in playback per semplificare le riprese.
(*) Secondo la definizione di Lucia.
(**) Che, nel gergo di Maria, mi sembra indichi una donna frigida.
(***) Basata su una pièce di Cristina Comencini, che lei stessa tradotto in sceneggiatura con l'apporto di sua figlia, Giulia Calenda, e di Paola Cortellesi.
(°) Lo stesso tema, relazione coguar-toyboy, elaborato in entrambi i casi secondo una prospettiva anomala. Stesso approccio alle complessità della psicologia femminile, qui esplicitata più direttamente con i due personaggi polarizzati in direzioni diverse, là con la protagonista che compie la transizione per conto suo.
(°°) Ad esempio in Ciliegine la Morante ha lo stesso problema di rigidità caratteriale della Lucia di questo film.
Maria è una burina "un po' mignotta (*)", Lucia è una sofisticata "spadona" (**), le due si completano in un sistema abbastanza stabile. Entrambe divorziate, Maria eternamente in caccia, Lucia sdegnosa, per un curioso equivoco finiscono per inglobare Luca, circuito da Maria in discoteca, che però scambia per Lucia. Il triangolo porta ad una evoluzione di ognuno degli elementi, con Maria che si sgrezza, Lucia lima i suoi spigoli, Luca guadagna un poco di maturità. Finale a mio avviso poco credibile e poco risolto in cui sembra che il terzetto trovi un nuovo equilibrio stabile.
La commedia è divertente e ben scritta (***), anche se mi sembra sbilanciata sul lato femminile della storia. Il personaggio di Luca mi pare presente per necessità dell'intreccio che per reale interesse dell'autrice. Ad esempio, la sua improvvisa maturazione nel finale non mi pare per niente realistica ma direi che serve solo per mostrare l'evoluzione del rapporto tra Maria e Lucia.
Difficile eludere il confronto con 20 anni di meno (°), che direi si conclude con un pareggio, anche se il francese mi pare realizzato meglio anche se paga una scrittura di qualità inferiore.
Altro confronto immediato è quello con La pazza gioia, grazie anche alla presenza della Ramazzotti in entrambe le pellicole, sempre in coppia con un'altra donna, sempre nel ruolo della greve proletaria. In questo caso a perdere è la Cortellesi, grazie alla superlativa prova di Valeria Bruni Tedeschi nel film di Virzì.
A proposito della Cortellesi, brava nel suo ruolo che però non ho potuto evitare di pensare a quanto sarebbe stato meglio se fosse stato adattato per e interpretato da Laura Morante (°°). Le sue capacità canore avrebbero potuto essere la chiave del suo uso, ma non mi sembrano siano state sfuttate a fondo. Se è vero che il suo personaggio è una cantante jazz, e la vediamo all'opera, i suoi numeri mi sono sembrati freddi, forse cantati in playback per semplificare le riprese.
(*) Secondo la definizione di Lucia.
(**) Che, nel gergo di Maria, mi sembra indichi una donna frigida.
(***) Basata su una pièce di Cristina Comencini, che lei stessa tradotto in sceneggiatura con l'apporto di sua figlia, Giulia Calenda, e di Paola Cortellesi.
(°) Lo stesso tema, relazione coguar-toyboy, elaborato in entrambi i casi secondo una prospettiva anomala. Stesso approccio alle complessità della psicologia femminile, qui esplicitata più direttamente con i due personaggi polarizzati in direzioni diverse, là con la protagonista che compie la transizione per conto suo.
(°°) Ad esempio in Ciliegine la Morante ha lo stesso problema di rigidità caratteriale della Lucia di questo film.
Rancho Notorious
Western a dir poco anomalo diretto con la consueta maestria da Fritz Lang e che è stato certamente tra le fonti di ispirazione per il Mel Brooks (*) di
Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) e forse anche tra quelle di Steve Martin + John Landis (**) per I tre amigos! (1986).
Un vaccaro del Wyoming, Vern Haskell (Arthur Kennedy), sta per sposare la sua bella. Un delinquente, Kinch (Lloyd Gough ***) la stupra e uccide. Vern la prende male e dedica il resto della sua vita a rintracciare il malfattore per vendicarsi. Dopo varie tribolazioni scopre che tale Altar Keane (Marlene Dietrich) potrebbe in qualche modo metterlo sulla strada giusta. Costei è una prostituta nota in tutto il West che ha abbandonato il lavoro per sopraggiunti limiti di età ed è sparita nel nulla. Vern riesce comunque a rintracciare Frenchy Fairmont (Mel Ferrer), accreditato per essere il suo ultimo amante, a sua volta sparito nel nulla, con un espediente, invero piuttosto rischioso, riesce a diventarne amico e in questo modo raggiungere il ranch del titolo (°).
Qui si scopre che Altar gestisce il rach come porto franco per delinquenti, dietro compenso del dieci percento dei loro bottini. Vern nota che ella sa, sia pure a sua insaputa, chi sia il delinquente che ha ucciso la sua bella, e quindi decide di circuirla al solo scopo di farsi dire il nome. Per far ciò deve però sconfiggere la concorrenza di Frenchy, che è noto per essere il più veloce pistolero del west, e la diffidenza dei vari brutti ceffi che girano da quelle parti. Ci riuscirà, ma la fine sarà tragica per tutti.
Interessante notare come, contrariamente allo stereotipo del genere, i rappresentanti della legge siano incapaci, pigri, o corrotti. A volte anche tutte e tre le cose assieme. L'unico che si mostra sufficientemente astuto da capire che c'è qualcosa di strano nel ranch di Altar non viene creduto dal suo capo.
Molto in parte la Dietrich, con fascino e decadenza che si alternano, un grande amore indeciso, e un inesplicabile accento tedesco del quale nessuno chiede nulla. Buona prova di Ferrer, pistolero apparentemente tagliato col falcetto ma pieno di dubbi e capace di rischiare la vita per prendere un profumo per la sua bella. Scarso Kennedy, poco credibile in un ruolo che dovrebbe essere reso con una sottigliezza di cui qui non sembra capace. Da notare che il suo personaggio dovrebbe essere molto più giovane di Ferrer, essendo invece di tre anni più vecchio.
(*) Il personaggio interpretato da Madeline Kahn viene certamente da qui.
(**) Non è certo l'unico western in cui alcuni esterni sono stati girati in teatro per risparmiare, ma in genere si tratta di prodotti di livello considerabilmente inferiore.
(***) Non appare nei credits ufficiali del film in quanto nel frattempo era stato inserito nella blacklist di attori sgraditi al governo. Due film usciti recentemente che narrano di quell'oscura epoca sono Trumbo e Ave, Cesare!.
(°) Che però nel film non si chiama Notorious bensì Chuck-a-Luck. Il titolo è infatti stato cambiato all'ultimo momento dalla distribuzione - si dice per diretto interessamento di Howard Hughes.
Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) e forse anche tra quelle di Steve Martin + John Landis (**) per I tre amigos! (1986).
Un vaccaro del Wyoming, Vern Haskell (Arthur Kennedy), sta per sposare la sua bella. Un delinquente, Kinch (Lloyd Gough ***) la stupra e uccide. Vern la prende male e dedica il resto della sua vita a rintracciare il malfattore per vendicarsi. Dopo varie tribolazioni scopre che tale Altar Keane (Marlene Dietrich) potrebbe in qualche modo metterlo sulla strada giusta. Costei è una prostituta nota in tutto il West che ha abbandonato il lavoro per sopraggiunti limiti di età ed è sparita nel nulla. Vern riesce comunque a rintracciare Frenchy Fairmont (Mel Ferrer), accreditato per essere il suo ultimo amante, a sua volta sparito nel nulla, con un espediente, invero piuttosto rischioso, riesce a diventarne amico e in questo modo raggiungere il ranch del titolo (°).
Qui si scopre che Altar gestisce il rach come porto franco per delinquenti, dietro compenso del dieci percento dei loro bottini. Vern nota che ella sa, sia pure a sua insaputa, chi sia il delinquente che ha ucciso la sua bella, e quindi decide di circuirla al solo scopo di farsi dire il nome. Per far ciò deve però sconfiggere la concorrenza di Frenchy, che è noto per essere il più veloce pistolero del west, e la diffidenza dei vari brutti ceffi che girano da quelle parti. Ci riuscirà, ma la fine sarà tragica per tutti.
Interessante notare come, contrariamente allo stereotipo del genere, i rappresentanti della legge siano incapaci, pigri, o corrotti. A volte anche tutte e tre le cose assieme. L'unico che si mostra sufficientemente astuto da capire che c'è qualcosa di strano nel ranch di Altar non viene creduto dal suo capo.
Molto in parte la Dietrich, con fascino e decadenza che si alternano, un grande amore indeciso, e un inesplicabile accento tedesco del quale nessuno chiede nulla. Buona prova di Ferrer, pistolero apparentemente tagliato col falcetto ma pieno di dubbi e capace di rischiare la vita per prendere un profumo per la sua bella. Scarso Kennedy, poco credibile in un ruolo che dovrebbe essere reso con una sottigliezza di cui qui non sembra capace. Da notare che il suo personaggio dovrebbe essere molto più giovane di Ferrer, essendo invece di tre anni più vecchio.
(*) Il personaggio interpretato da Madeline Kahn viene certamente da qui.
(**) Non è certo l'unico western in cui alcuni esterni sono stati girati in teatro per risparmiare, ma in genere si tratta di prodotti di livello considerabilmente inferiore.
(***) Non appare nei credits ufficiali del film in quanto nel frattempo era stato inserito nella blacklist di attori sgraditi al governo. Due film usciti recentemente che narrano di quell'oscura epoca sono Trumbo e Ave, Cesare!.
(°) Che però nel film non si chiama Notorious bensì Chuck-a-Luck. Il titolo è infatti stato cambiato all'ultimo momento dalla distribuzione - si dice per diretto interessamento di Howard Hughes.
Poirot 4.3: Poirot non sbaglia
Cattiva idea, a mio modesto avviso, schierare questo adattamento del romanzo di Agatha Christie (*) subito dopo Delitto in cielo, con il quale condivide lo svolgimento a sorpresa, in cui solo nel lunghissimo spiegone finale ci viene presentato un particolare che rende comprensibile l'azione dell'omicida, e la presenza di un personaggio fondamentale che appare per gran parte del tempo sotto mentite spoglie.
La trama è qui molto più complicata, c'è un continuo entrare e uscire di scena di personaggi che agiscono senza che si abbia modo di approfondire il senso della loro presenza. La produzione si deve essere resa conto che se avessero mantenuto l'impostazione originaria, ci sarebbe stata una rivolta tra gli spettatori, e così ha lasciato che la sceneggiatura (Clive Exton) rivoluzionasse la struttura del racconto, aggiungendo un introduzione spuria che fa da gigantesco spoiler rendendo chiaro quello che altrimenti sarebbe impossibile da capire. Ci sono anche alcuni ritocchi, come la scomparsa di un personaggio secondario, il che semplifica la vicenda con gli effetti collaterali di alleggerire il tema politico, togliere spessore al personaggio interpretato da Sara Stewart e rendere meno antipatico quello di Christopher Eccleston.
Tutto sembra ruotare attorno al dentista di Poirot (David Suchet) che inopinatamente si suicida poco dopo aver lavorato sul suo spaventato cliente. O meglio, a Japp (Philip Jackson) sembra che sia un chiaro caso di suicidio, Poirot è meno convinto. Anche Japp inizia a dubitarne quando scopre che l'ultimo cliente (Kevork Malikyan) ad aver visto vivo il dentista muore anch'esso, e poi un'altra cliente scompare misteriosamente senza lasciar tracce.
Un importante banchiere, che ha pure un rilevante peso politico, potrebbe essere il vero bersaglio di questa moria, e questo mette in una luce sinistra un tipaccio (Eccleston) che fa il filo all'impiegata del dentista e che trova incongruamente lavoro come giardiniere del banchiere. Altre cose strane succedono a rendere apparentemente insensato tutto quanto, senonché alla fine si scopre che ...
(*) One, two, buckle my shoe, 1940. Il titolo riprende una filastrocca usata dai bambini per giocare a campana, o meglio ad una sua versione inglese. Simpatica l'idea di reiterarla nella colonna sonora, arrangiandola in svariati modi, alcuni dei quali degni di un film horror.
La trama è qui molto più complicata, c'è un continuo entrare e uscire di scena di personaggi che agiscono senza che si abbia modo di approfondire il senso della loro presenza. La produzione si deve essere resa conto che se avessero mantenuto l'impostazione originaria, ci sarebbe stata una rivolta tra gli spettatori, e così ha lasciato che la sceneggiatura (Clive Exton) rivoluzionasse la struttura del racconto, aggiungendo un introduzione spuria che fa da gigantesco spoiler rendendo chiaro quello che altrimenti sarebbe impossibile da capire. Ci sono anche alcuni ritocchi, come la scomparsa di un personaggio secondario, il che semplifica la vicenda con gli effetti collaterali di alleggerire il tema politico, togliere spessore al personaggio interpretato da Sara Stewart e rendere meno antipatico quello di Christopher Eccleston.
Tutto sembra ruotare attorno al dentista di Poirot (David Suchet) che inopinatamente si suicida poco dopo aver lavorato sul suo spaventato cliente. O meglio, a Japp (Philip Jackson) sembra che sia un chiaro caso di suicidio, Poirot è meno convinto. Anche Japp inizia a dubitarne quando scopre che l'ultimo cliente (Kevork Malikyan) ad aver visto vivo il dentista muore anch'esso, e poi un'altra cliente scompare misteriosamente senza lasciar tracce.
Un importante banchiere, che ha pure un rilevante peso politico, potrebbe essere il vero bersaglio di questa moria, e questo mette in una luce sinistra un tipaccio (Eccleston) che fa il filo all'impiegata del dentista e che trova incongruamente lavoro come giardiniere del banchiere. Altre cose strane succedono a rendere apparentemente insensato tutto quanto, senonché alla fine si scopre che ...
(*) One, two, buckle my shoe, 1940. Il titolo riprende una filastrocca usata dai bambini per giocare a campana, o meglio ad una sua versione inglese. Simpatica l'idea di reiterarla nella colonna sonora, arrangiandola in svariati modi, alcuni dei quali degni di un film horror.
Poirot 4.2: Delitto in cielo
A mio gusto, meno riuscito del primo episodio di quest'annata (*), La serie infernale, e non tanto per colpa della sceneggiatura (**) quanto per la struttura del racconto originale di Agatha Christie (***) che segue il paradigma secondo il quale l'investigatore, che qui è ovviamente Hercule Poirot (David Suchet), scopre a nostra insaputa degli elementi fondamentali che ci verranno rivelati solo nello spiegone finale.
L'essenza della storia è semplice. In un volo tra Parigi e Londra, Madame Giselle (Eve Pearce), che campa facendo prestiti con tassi usurai, viene uccisa con del veleno. Poirot era seduto poco lontano ma, sfortunatamente, si era appisolato e corre pure il rischio di essere incriminato quando viene ritrovata una cerbottana sudamericana in un vano portaoggetti del suo sedile. In molti avrebbero motivi per volere una prematura dipartita della madama, tra cui il vero colpevole, del quale però scopriremo le ragioni solo nel finale.
Tra i punti di interesse c'è l'ambientazione parigina. Non si entra nei dettagli, sembra che Poirot si sia preso una vacanza, forse stufo di sentir parlare inglese. La produzione ne approfitta per far incontrare l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) con un suo omologo francese della Sûreté, con qualche momento di comicità non disprezzabile.
(*) Composta da sole tre puntate, anche se tutte e tre sono doppie, per una durata di poco superiore ai cento minuti ognuna.
(**) William Humble è qui meno brillante di Clive Exton là, ma tutto sommato non fa un cattivo lavoro.
(***) Death in the clouds, 1935.
L'essenza della storia è semplice. In un volo tra Parigi e Londra, Madame Giselle (Eve Pearce), che campa facendo prestiti con tassi usurai, viene uccisa con del veleno. Poirot era seduto poco lontano ma, sfortunatamente, si era appisolato e corre pure il rischio di essere incriminato quando viene ritrovata una cerbottana sudamericana in un vano portaoggetti del suo sedile. In molti avrebbero motivi per volere una prematura dipartita della madama, tra cui il vero colpevole, del quale però scopriremo le ragioni solo nel finale.
Tra i punti di interesse c'è l'ambientazione parigina. Non si entra nei dettagli, sembra che Poirot si sia preso una vacanza, forse stufo di sentir parlare inglese. La produzione ne approfitta per far incontrare l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) con un suo omologo francese della Sûreté, con qualche momento di comicità non disprezzabile.
(*) Composta da sole tre puntate, anche se tutte e tre sono doppie, per una durata di poco superiore ai cento minuti ognuna.
(**) William Humble è qui meno brillante di Clive Exton là, ma tutto sommato non fa un cattivo lavoro.
(***) Death in the clouds, 1935.
Poirot 4.1: La serie infernale
A mia parziale discolpa potrei dare la colpa alla mia recente fruizione della prima stagione di Elementary, dove fin troppo spesso (*) si ricorre alla scorciatoia di definire il "cattivo" come malato di mente, il che permette di fargli fare cose assurde con il solo scopo apparente di mettere alla prova l'astuto investigatore di turno. Ma la verità è che questa volta Agatha Christie mi ha beccato, e per lungo tempo sono rimasto convinto che anche qui si usava il consunto stratagemma sopra indicato, nonostante un buon numero di indizi che mi avrebbero dovuto far alzare le orecchie.
Il capitano Hastings (Hugh Fraser) torna da un suo viaggio in Sudamerica e trova Hercule Poirot (David Suchet) che scalpita per lavorare ad un nuovo caso, il quale viene annunciato da una misteriosa lettere anonima che sfida il nostro a prevenire un reato. Impossibile anche per Poirot capire di che si tratta, e così una dolce vecchina ci lascia le penne. Passa qualche giorno e lo sfidante agisce di nuovo, eliminando una giovine donna di belle speranze. Prima che ci si possa raccapezzare, terza vittima, un facoltoso nobiluomo di campagna.
Hastings, Poirot, l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) brancolano nel buio, ma noi sappiamo che un omarino, tal Alexander Bonaparte Cust (Donald Sumpter) si comporta in modo molto strano e ha tutte le caratteristiche per risultare un buon colpevole. Al punto che al quarto omicidio lo stesso Cust decide di costituirsi per interrompere la serie mortale.
Ci sono però molte incongruenze, che non sono attribuibili però alla scrittura bensì a debolezze del diabolico piano del vero colpevole. Che, a dire il vero, mi è sembrato troppo diabolico per essere plausibile. Da notare che la soluzione del caso è tutta basata su indizi e, con tutta probabilità, il colpevole, se si mette nelle mani di un buon avvocato, finirà per evitare il capestro.
Ottima come al solito la produzione, le scenografie e la recitazione un po' di tutti quanti, nota di merito per la guest star Sumpter. Simpatico l'adattamento di Clive Exton che aggiunge alla trama gialla (**), come spesso accade, numerose sottotrame di una felpata comicità britannica che aggiungono valore e godibilità alla visione.
Il brutto titolo italiano mantiene il riferimento a quello usato per la versione cartacea risalente al tempo che fu, in originale era The A.B.C. murders.
(*) Vedasi ad esempio il terzo episodio, L'uomo dei palloncini.
(**) Che del resto è rispettata quasi completamente, come mi sono accertato in seguito.
Il capitano Hastings (Hugh Fraser) torna da un suo viaggio in Sudamerica e trova Hercule Poirot (David Suchet) che scalpita per lavorare ad un nuovo caso, il quale viene annunciato da una misteriosa lettere anonima che sfida il nostro a prevenire un reato. Impossibile anche per Poirot capire di che si tratta, e così una dolce vecchina ci lascia le penne. Passa qualche giorno e lo sfidante agisce di nuovo, eliminando una giovine donna di belle speranze. Prima che ci si possa raccapezzare, terza vittima, un facoltoso nobiluomo di campagna.
Hastings, Poirot, l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) brancolano nel buio, ma noi sappiamo che un omarino, tal Alexander Bonaparte Cust (Donald Sumpter) si comporta in modo molto strano e ha tutte le caratteristiche per risultare un buon colpevole. Al punto che al quarto omicidio lo stesso Cust decide di costituirsi per interrompere la serie mortale.
Ci sono però molte incongruenze, che non sono attribuibili però alla scrittura bensì a debolezze del diabolico piano del vero colpevole. Che, a dire il vero, mi è sembrato troppo diabolico per essere plausibile. Da notare che la soluzione del caso è tutta basata su indizi e, con tutta probabilità, il colpevole, se si mette nelle mani di un buon avvocato, finirà per evitare il capestro.
Ottima come al solito la produzione, le scenografie e la recitazione un po' di tutti quanti, nota di merito per la guest star Sumpter. Simpatico l'adattamento di Clive Exton che aggiunge alla trama gialla (**), come spesso accade, numerose sottotrame di una felpata comicità britannica che aggiungono valore e godibilità alla visione.
Il brutto titolo italiano mantiene il riferimento a quello usato per la versione cartacea risalente al tempo che fu, in originale era The A.B.C. murders.
(*) Vedasi ad esempio il terzo episodio, L'uomo dei palloncini.
(**) Che del resto è rispettata quasi completamente, come mi sono accertato in seguito.
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