Contagious - Epidemia mortale

A volte viene da chiedersi cosa diamine sia passato per la mente dei distributori italiani quando hanno deciso di cambiare il titolo ad un film straniero. Questa volta, invece, direi che è tutto molto chiaro. Abbiamo infatti uno strano animale, nelle sembianze di un film intimista sugli zombie, che però ha come protagonista (*) Arnold Schwarzenegger. Il titolo originale metteva sull'avviso lo spettatore, puntando su un semplice Maggie, che poi è il nome della protagonista, interpretata da Abigail Breslin (**). I nostri devono aver pensato di fare uno scherzo al pubblico pagante, suggerendo un clone di Contagion, o magari qualcosa come World war Z.

Niente di tutto ciò, ribadisco. Il film è costato una manciatina di milioni, una miseria per il mercato americano, e ha tutto l'aspetto di un prodotto indipendente. La storia ha un taglio sul depresso andante, sin dall'inizio si mette ben in chiaro che non c'è alcuna via d'uscita positiva all'orizzonte, il punto è tutto su quale sarà il prescelto tra i possibili tristi finali.

Ne avessi la possibilità, farei al buon Schwarzy i miei complimenti per il coraggio in cui si è buttato in un progetto lontanissimo da quello che è l'immaginario legato al suo personaggio, anche se come attore anche qui mostra i suoi soliti limiti, e riesce meglio nelle scene in cui deve restare quanto più possibile inespressivo. Come produttore, forse avrebbe dovuto avere un po' più di coraggio, e magari puntare su di un regista più esperto di Henry Hobson, che è alla sua prima vera regia, e si vede.

C'è dunque la solita epidemia che trasforma uomini in zombie antropofagi, con la variazione che lo sviluppo della malattia è molto lento e dunque le autorità non hanno grossi problemi a identificare gli infetti e toglierli di circolazione. Il problema è che non è chiaro come arginare il contagio, e i danni sono molto gravi. Seguiamo la tragedia dal punto di vista di una comunità agricola del midwest, credo nel Missouri, e in particolare di Wade (Schwarzenegger), contadinotto tagliato col falcetto che deve avere avuto un passato molto in bianco e nero.

Wade ha una figlia, Maggie (la Breslin), avuta da un primo matrimonio, e altri due bimbi dalla seconda moglie. Capita che Maggie venga infettata, e al momento non c'è cura.

Wade è bravo a spaccare legna e tirar di fucile, ma di fronte ad un virus non sa proprio che fare. Temporeggia. Spera in un miracolo, probabilmente. E in un certo senso, un piccolo miracolo alla fine arriverà.

(*) Arnie ha creduto a tal punto in questo film da partecipare anche come produttore.
(**) Che nel mio cuore sarà sempre la piccola Miss Sunshine.

La particella di dio

Non è che il bosone di Higgs sia proprio al centro di questo documentario di Mark Levinson, quanto l'ambiente di quei pazzi scatenati che stanno spendendo gran parte della loro vita studiando le particelle elementari. E infatti il titolo originale è Particle fever.

Da notare poi che il soprannome italiano di questo bosone è una storpiatura di quello inglese, god particle, che potrebbe essere più correttamente tradotto come particella divina, ma che è a sua volta una storpiatura del soprannome originale, goddamn particle, scelto da Leon Lederman come titolo di un suo libro sulla particella, volendone sottolineare l'elusività. Successe poi che l'editore non volesse mettere in copertina quella che ad alcuni sembra una bestemmia, e tagliò il "damn". Ottenendo un effetto ancor più blasfemo, a voler ben vedere. Higgs si è sempre dissociato da questo nome, ma ormai il danno è fatto.

Gli aspetti matematico-fisici sono lasciati sullo sfondo. Non è film per chi voglia approfondire la materia. Il suo senso è piuttosto quello di farci vedere il Large Hadron Collider, LHC per gli amici, e la gente che ci lavora. Per chi non lo sapesse, l'LHC è al momento la macchina più grossa e complicata costruita dall'uomo. Ed è stata fatta in Europa, con un importante contributo italiano.

La narrazione parte dal primo cenno di vita dell'LHC, e arriva fino all'identificazione del bosone di Higgs, mostrandoci batoste, successi, dubbi, speranze, intuizioni, scoraggiamenti, commozioni, sbagli, festeggiamenti, di alcune tra le innumerevoli persone che hanno contribuito all'opera.

Pur sapendo già come andava a finire, mi sono preoccupato ai singhiozzi dell'LHC, ho esultato per i successi, e alla fine mi sono commosso con Higgs alla conferma dell'esistenza della particella.

Picnic ad Hanging Rock

E' il film che ha fatto conoscere Peter Weir (*) al resto del mondo, anche se in realtà qui il suo ruolo si è strettamente limitato a quello della regia, visto che il progetto è saldamente rimasto tutto il tempo nelle mani di Patricia Lovell, che s'era innamorata del romanzo omonimo di Joan Lindsay, al punto di decidere di far valere le sue conoscenze per raccogliere i fondi necessari e produrre il film.

La storia è molto australiana, con influenze che mi sembrano riconducibili al filone inglese in bilico tra gotico e sovrannaturale. Al centro della quale c'è un collegio femminile, diretto con fiero cipiglio da Mrs. Appleyard (Rachel Roberts). Il giorno di San Valentino viene organizzato per la scolaresca un picnic presso una bizzarra conformazione rocciosa poco distante, detta per l'appunto Hanging Rock. Alcuni fatterelli strani vengono ignorati dalla comitiva (**), dalla quale si stacca un gruppetto di quattro ragazzine che decidono di avventurarsi nella inquietante collinetta. Più tardi, la tetragona insegnante di matematica prenderà in solitaria la medesima direzione. Solo due studentesse, in tempi e modi diversi, faranno ritorno.

(*) Ottimo lavoro, in effetti, nonostante il cast artistico dal livello medio non particolarmente eccelso. Bello l'uso della colonna sonora che, per quanto minimale, raggiunge l'effetto voluto.
(**) In particolare, i pochi orologi disponibili si fermano tutti a mezzogiorno circa.

La regola del gioco

Non mi stupisce che abbia ottenuto un risultato disastroso al botteghino americano e temo che otterrà lo stesso risultato qui da noi. Dopotutto narra di un perdente, e "loser" è uno dei peggiori insulti che un americano riesca a immaginare. Difficile immaginare torme di spettatori che vogliano vedere la storia di una clamorosa sconfitta.

Trattasi di una storia vera di giornalismo investigativo, e dunque è praticamente impossibile esimersi dal confronto con Tutti gli uomini del presidente, anche se la distanza nel tempo e negli sviluppi deve essere stata tale da non creare troppi patemi d'animo a Michael Cuesta (regia) e Jeremy Renner (protagonista).

Fine anni novanta, Gary Webb (Renner) è un pesce piccolo del giornalismo investigativo che lavora per il semisconosciuto San Jose Mercury News. Per puro caso, invero pilotato da uno spacciatore di alto livello per il proprio tornaconto, si trova tra le mani qualcosa di grosso, che diventa rapidamente enorme, e molto, molto delicato. Viene infatti a scoprire quella che chiamerà "Dark alliance", ovvero quella strana commistione tra CIA e commercianti in cocaina avvenuta negli anni ottanta, sotto la presidenza Reagan, su cui evidentemente nessuno aveva avuto voglia di indagare. E c'è da dire che la riottosità a trattare lo spinoso argomento è continuata fino ad oggi, anche perché è un argomento imbarazzante un po' per tutti.

La posizione ufficiale dei governi americani in genere, e di quello Reagan in particolare, era quella di una strenua lotta contro i narcotrafficanti, indicati come uno dei problemi principali della società. Peccato che la necessità di procurarsi ingenti capitali per combattere il governo sandinista del Nicaragua ha spinto la stessa amministrazione a lasciare che la CIA chiudesse un occhio sul traffico gestito da personaggi vicini ai Contras. O meglio, tenesse gli occhi bene aperti, ma nella direzione opposta, mettendo a disposizione la logistica necessaria.

Insomma, Webb e il suo giornale si trovano tra le mani una patata troppo grossa e bollente per le loro mani. La soluzione del giornale è scaricare il suo dipendente che, di conseguenza, perde automaticamente ogni residuo di credibilità. Anche perché la tattica della CIA per limitare il danno è stata quella di negare tutto, e montare una campagna di discredito nei confronti di Webb. Sommiamoci pure che i grossi giornali americani, sia per una sorta di ripicca per essere stati bruciati da un piccolo giornale californiano, sia probabilmente per quieto vivere nei confronti dell'Agenzia, hanno speso poca o nessuna energia nello scavare nella direzione indicata da Webb.

Cast di buon livello, anche se non particolarmente luminoso, data l'esigenza di tenere basso il budget, che è una necessità, quando si fa un film che si sa già che ben pochi si prenderanno la briga di vedere. L'eccezione, oltre a Renner, è Ray Liotta. Poco più di un cameo per lui, anche se la sua parte è interessante, e mi ha fatto pensare quanto sarebbe stato interessante vedere la stessa storia seguendo il suo punto di vista.

Il titolo italiano deve essere stato preso a caso, il possibile riferimento all'omonimo capolavoro di Jean Renoir è destituito di ogni fondamento. L'originale, Kill the messenger, è un riferimento a quel modo di dire che da noi fa "Ambasciator non porta pena".

Kingsman - Secret Service

Un tantinello eccessivo, però mi ha divertito. D'altronde al centro dell'operazione c'è Matthew Vaughn, e uno non è che ci si possa aspettare moderazione da lui. Vedasi Kick-ass, ad esempio. Non che io stia a fare tanto il sofista sul conteggio degli ammazzamenti, però c'è modo e modo. E, a mio gusto, vedere tutte quelle teste esplodere non mi è parso aggiungesse un gran valore all'azione.

In teoria la sceneggiatura è basata sul quasi omonimo fumetto di successo, The secret service, di Mark Millar e Dave Gibbons. Però è stato rivisto e modificato da Vaughn (*) a tal punto che abbiamo in pratica due storie parallele simili, piuttosto che una versione cinematografica dell'originale.

Siamo dalle parti di James Bond e film simili di cui mantiene la struttura classica. L'impostazione è pericolosamente in bilico tra l'esagerazione come mezzo per generare spettacolarità propria dei primi Bond e lo spoof alla Austin Power o Johnny English. Probabilmente l'idea era quella di ritagliarsi una immagine sua propria, che non andasse a sovrapporsi a quella di prodotti simili. In quest'ottica va vista anche la scelta di mettere al centro dell'azione un ragazzetto interpretato da un attore praticamente sconosciuto, Taron Egerton, che deve reggere il confronto con una serie di attoroni da far tremare le vene ai polsi. Fortuna per Egerton l'enfasi è più sull'azione e gli effetti speciali, che riescono a far sì che la differenza di stile non sia poi così importante.

Abbiamo dunque una improbabile quanto snella struttura spionistica parallela britannica, che opera senza alcun legame con la corona, alla quale però è fedele. "Artù" (Michael Caine) è il capo supremo, "Galahad" (Colin Firth) è uno tra gli operativi più letali, "Merlino" (Mark Strong) preferisce il lavoro di base. Occhio e croce l'idea è che questa associazione di burloni mimi la tavola rotonda di Re Artù. Pochi sono dunque i "cavalieri", che vengono rimpiazzati mantenendo il nome in codice quando un vecchio elemento esce di scena, per un motivo o per l'altro. Diciassette anni prima, un possibile nuovo Kingsman ci ha lasciato le penne in una rischiosa missione, non prima però di aver salvato la vita al resto della sua squadra. Galahad si sente in colpa, e dunque regala al figlioletto del deceduto, Eggsy (Egerton), un modo per contattare l'organizzazione. Tra l'altro la scena mi ha ricordato quella dell'orologio in Pulp Fiction. Ma per fortuna la storia della medaglia che fa da chiave non è così tormentata.

A tempo debito Eggsy chiede aiuto, Galahad arriva e, visto che un Kingsman è appena defunto, lo propone come sostituto. Mentre Eggsy segue il percorso di selezione, Galahad affronta una terribile minaccia per il mondo, nei panni di uno scienziato pazzo miliardario che parla con la zeppola, Valentine (Samuel L. Jackson), e che ha una letale spalla, Gazelle (Sofia Boutella).

Segue serie di mirabolanti fatti che vertono sul tentativo di Valentine di mettere in atto un folle piano su scala planetaria con Kingsman unica organizzazione che potrebbe riuscire ad impedire la catastrofe. Visto che il sequel è quasi una certezza, possiamo stare tranquilli che tutto andrà a finire bene. Anche se non sarà facile.

(*) Con il supporto alla sceneggiatura della solita Jane Goldman.
(**) Ad esempio ad un certo punto mi è venuta in mente la serie dei film su Harry Palmer, interpretati a suo tempo da Michael Caine.

Jupiter - Il destino dell'universo

Fantascienza imperiale, una specie di incrocio tra Dune di Frank Herbert e Star wars di George Lucas, speziato con riferimenti a Il quinto elemento di Luc Besson, Brazil di Terry Gilliam (*), e chissà quanta altra roba. Si vede che l'operazione è farina del sacco dei fratelli Wachowski, perché si annusa Matrix sia per l'uso della macchina da presa sia nella trama paranoica della storia.

Jupiter Jones (Mila Kunis) è una clandestina russa che vive miserrimamente a Chicago con la sua famiglia allargata. Il nome che si porta dietro è tutto quello che le resta del padre, morto prima della sua nascita. La sua vita viene sconvolta dall'arrivo di numerosi alieni che piombano sulla Terra, alcuni per ucciderla, altri per difenderla (**). Tra i difensori c'è tal Caine Wise (Channing Tatum), un esperimento militare stile Wolverine, che chiederà aiuto al suo vecchio capo, Stinger Apini (Sean Bean), ritiratosi sulla Terra a far l'apicultore (***).

Il fatto è che la ricombinazione genetica di Jupiter è così vicina a quella di una defunta capitana di impresa da fare pensare che lei sia la reincarnazione di costei. E questo implica che lei diventi erede della sua immensa ricchezza. Un po' come in Dune, dove ci sono tre casate che si scontrano, qui abbiamo i tre fratelli Abrasax che cercano di entrare in rapporto con la Jones, un po' per farsela amica, un po' per ammazzarla, forse un po' tutte e due le cose assieme. Il più potente dei tre fratelli è Balem (Eddie Redmayne), che sembra essere completamente matto.

Il film è stata una catastrofe al botteghino, e questa è stata una fortuna per Redmayne, visto che in questo modo la sua performance è passata praticamente inosservata. Altrimenti temo che avrebbe potuto essere uno sgambetto nel suo percorso verso l'Oscar, che invece ha vinto per La teoria del tutto.

(*) Per il quale viene ritagliato un apposito spazio, una piccola deviazione comica in cui si fa vedere come la burocrazia finisca per inquinare anche un impero galattico.
(**) Verrebbe da pensare al Terminator di James Cameron, se non fosse che là si seguiva un protocollo molto più ragionevole, per quanto brutale, per eliminare Sarah Connor. Qui i killer perdono un sacco di tempo per fare test genetici prima di agire.
(***) Ma è tutt'altro che uno Sherlock Holmes.

Mississippi burning - Le radici dell'odio

Fa un po' spavento pensare che solo cinquant'anni fa ci fossero Stati negli USA in cui vigesse ancora l'apartheid. La scena iniziale, sui titoli di testa, ci mostra silenziosamente l'assurdità di due fontanelle per l'acqua, una per i bianchi, l'altra per i "colored". Più avanti nel film vediamo anche un ristorante diviso in due, e quando un bianco viola il tabù e entra nell'area riservata ai neri, nel locale cala un silenzio tra l'imbarazzato e l'orripilato.

A sottolineare quanto l'argomento fosse ancora un nervo scoperto per i locali, il film, uscito più di vent'anni dopo i fatti, non incassò molto in patria, e la produzione venne salvata solo dal mercato internazionale. La critica trattò questo lavoro di Alan Parker con molta prudenza, con alcune stroncature che si aggrapparono ad una eccessiva rielaborazione della storia originale. Anche la notte degli Oscar premio il film con una sola statuetta, per il montaggio (*). Anche se bisogna ammettere che si trattava di un anno ricco, con Rain man che spadroneggiò (**) e l'agguerrita concorrenza di titoli come Turista per caso, Le relazione pericolose, Un pesce di nome Wanda, eccetera.

Due agenti dell'FBI, Ward (Willem Dafoe) e Anderson (Gene Hackman), vengono mandati nel Mississipi per indagare sulla scomparsa di tre attivisti antisegregazionisti. Noi sappiamo già che i tre sono stati uccisi, e quindi l'enfasi della storia non è sulla scoperta di quello che è successo, ma su come i due investigatori, che hanno caratteri diametralmente opposti, riusciranno a usare le loro differenze come un vantaggio, e non un ostacolo.

Ward, infatti, è più istruito, più politicizzato, più razionale. Anderson, che nonostante la maggior anzianità sia di servizio sia anagrafica ha dovuto accettare di essere in posizione subalterna nella squadra, è più sanguigno e informale.

Il caso è di una chiarezza lapalissiana. Evidentemente i tre sono stati uccisi dal Ku Klux Klan, che deve necessariamente avere i suoi uomini nelle istituzioni, ma altrettanto evidentemente nessuno ha intenzione di aiutare le indagini. Ci sono quelli a cui sta bene così, e si rifiutano di credere che i tre siano stati uccisi o che, in subordine, ammettono che potrebbero essere morti, ma che comunque è colpa loro, che si sono immischiati di problemi che non li riguardavano. E ci sono quelli che tacciono perché pensano che sia l'unico modo per evitare problemi peggiori.

L'approccio di Ward, che si basa su uno scontro diretto di poteri, ottiene alcuni risultati, che però non sono risolutivi, e finiscono per essere pagati pesantemente. Anderson, dal canto suo, svolge una sua indagine parallela usando metodi poco ortodossi, al punto che il centro della sua strategia si risolve nel cercare di circuire la moglie (Frances McDormand) di un indiziato.

Alla fine, coalizzandosi, riusciranno a venire a capo del problema, anche se, a ben vedere, nessuno potrà dirsi completamente soddisfatto del risultato.

(*) Che non mi è sembrato tra gli aspetti più interessanti della pellicola.
(**) Quattro Oscar, tutti tra i principali. Forse un po' troppo.

Cuore selvaggio

Il titolo originale, Wild at heart, suonerebbe in italiano qualcosa come selvaggio, nel senso di violento, barbaro, di natura. E questo spingerebbe ancor più ad un confronto con Assassini nati (ovvero Natural born killer), film di quattro anni dopo, che a me pare riuscito meglio. La regia di David Lynch, pur essendo come suo consueto ottima, a mio gusto eccede qui in barocchismi e stereotipi che vogliono evidentemente satirizzare il cinema, e forse ancor più le serie televisive, anni ottanta. Hanno dunque un loro senso, ma restano comunque indigeribili. Una maggior levità, o un ritmo più alto, come quello del sopra citato NBK, avrebbero aiutato a far passare più facilmente in messaggio.

Qui succede che due giovinetti, Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern), vedono il loro amore contrastato dalla madre di lei, Marietta (Diane Ladd), la quale cerca prima di far sesso con lui, e non si capisce se più per libidine o per crearsi uno schermo difensivo rispetto a qualcosa che Sailor potrebbe aver visto e che per lei è fonte di grosso imbarazzo. Poi, al diniego di lui, non si fa problemi a mandargli contro un gorilla animato di cattive intenzioni, che fa una brutta fine, mostrata in modalità splatter.

La giovane età di Sailor, sommata a numerosi attenuanti, tra cui quella di essere orfano di genitori alcolizzati, fanno sì che il nostro se la cavi con un paio di anni di galera, prima di uscire in libertà vigilata. Come esce, Lula gli corre in contro, e i due se ne fuggono verso ovest.

Marietta contatta separatamente un paio di suoi amanti, e li mette sulla pista dei fuggitivi. Il più normale dei due (Harry Dean Stanton) nulla può contro il suo rivale, Marcello Santos (J.E. Freeman) che saggiamente lascia il lavoro sporco ad un impresario di sicari liberi professionisti, che a sua volta scatena una masnada di psicopatici. Tra questi spiccano i due che arriveranno molto vicini a fermare Sailor, ovvero Bobby Peru (Willem Dafoe) e Perdita Durango (Isabella Rossellini). Questi però, nel momento topico, perdono la testa (*) e Sailor la scampa, anche se si becca un'altra condanna, questa volta per rapina.

Altri anni in galera, e la coppia si ricompone. Questa volta però il tempo, un figlio, e una serie di legnate che risvegliano il buon senso in Sailor, fa sì che i due siano più maturi. E chissà, forse ci sarà una specie di lieto fine.

(*) Non sto a specificare se in senso figurato o letterale.

Il libro della vita

Produzione messicana (*) ma con un occhio di riguardo al mercato americano, come si evince anche dal fatto che alla storia viene messa una cornice attorno, in modo da dare delle coordinate di riferimento più digeribili anche a chi non è addentro alla cultura di quel Paese.

In una atmosfera alla I magnifici sette, o alla I tre amigos!, abbiamo un triangolo costituito da Manolo, Joaquin e Maria. I tre si conoscono da quando son piccini, sono molto amici, ma col passar del tempo natura vuole che i due maschi competano per la femmina. Maria è la figlia del notabile locale, Joaquin di un defunto eroe, Manolo è l'ultimo discendente di una famiglia di toreri, che però vorrebbe dedicarsi alla nobile arte del mariachi.

A complicare le cose ci si mette il pantheon religioso del posto. La Muerte ha infatti una discussione con Xibalba su chi debba amministrare il mondo dei morti più piacevole. Già, perché lei impera sui morti felici, quelli che sono ancora ricordati dai viventi, mentre lui domina nel lugubre mondo dei morti che stanno per essere completamente dimenticati. Sarebbe una disputa senza speranza, se non fosse che La Muerte, un po' perché ha un debole per Xibalba, un po' perché ha una passionaccia per le scommesse, accetta che sia la scelta di Maria tra Joaquin e Manolo a determinare l'equilibrio dell'universo.

Si vede lontano un miglio che la coppia predestinata è quella tra Maria e Manolo, però Xibalba è subdolo e baro, e quindi non sarà facile arrivare al lieto fine.

L'animazione è di ottima qualità, la sceneggiatura però m'è sembrata discontinua. Ci sono momenti molto potenti, altri piuttosto deboli. Il risultato complessivo è comunque rimarchevole.

Ho trovato interessante andarmi a vedere chi sono i doppiatori originali dei personaggi, scoprendo così che la coppia Manolo - Maria è interpretata da Diego Luna e Zoe Saldana, che già avevano fatto scintille in The terminal di Spielberg. Joaquin ha la voce di Channing Tatum, mentre il viscido Xibalba è Ron Perlman. La Muerte è Kate del Castillo, molto popolare in Messico, meno nel resto del mondo. Ruolo minore per Ice Cube.

Nella colonna sonora molto composita, si sente anche per pochi secondi un tema di Ennio Morricone da Il buono, il brutto, il cattivo.

(*) Con Guillermo del Toro a far da padre nobile al progetto.

Flight

Dal trailer sembrerebbe un film alla Airport. E questo a me, che non interessa molto il genere catastrofista, ha avuto l'effetto di farmelo snobbare al momento della sua uscita. Errore clamoroso, perché solo la prima mezz'oretta prevede un volo e relativa catastrofe, per il resto del tempo, che non è poco visto che la pellicola supera le due ore, si seguono altre strade.

Ottima come sempre la regia di Robert Zemeckis (*), ottimo pure il protagonista, un Denzel Washington in momentanea vacanza dai ruoli di action hero che gli offrono correntemente. Un po' troppo sopra le righe la sceneggiatura di John Gatins che ha una certa tendenza all'improbabilità, vedasi ad esempio Real steel.

Capitan Whip (Washington) è un pilota civile con una lunga storia di dipendenza da alcol, che bilancia con una dipendenza da cocaina, affianca ad una dipendenza da sesso e condisce con una dipendenza da tabacco. Come diamine faccia a volare ancora alla sua età (**) è un mistero. E in particolare a volare come fa lui, visto che gli vediamo fare un decollo che non vorrei mai sperimentare di persona, e soprattutto un atterraggio da far rizzare i capelli.

Nonostante le avversità, che includono un copilota, Ken (Brian Geraghty), a cui non affiderei la mia bicicletta, l'atterraggio di emergenza riesce decentemente. Purtroppo muoiono alcuni passeggeri e un paio di hostess, una che si è fatta prendere dal panico e l'altra che si è messa nei guai per salvare il solito bambinetto piantagrane. Tra l'altro quest'ultima, Katerina (Nadine Velazquez), condivideva col capitano la passione per alcol e sesso.

Dal punto di vista legale, la morte del personale di bordo non è un grosso problema, quella dei passeggeri sì. Tutti quanti cercano un capro espiatorio, e Whip, nonostante il suo comportamento sia considerato eroico, è un ottimo candidato per il ruolo. Per questo il suo avvocato cerca di far spostare l'indagine nella direzione della fatalità, che gli americani chiamano act of god, da cui una battuta incomprensibile nella traduzione italiana, dove ci si chiede che senso abbia pensare che una tale tragedia sia un atto di dio.

Fine del preambolo, inizia il film vero e proprio. Whip conosce Nicole (Kelly Reilly), bizzarramente introdotta da Fran (Adam Tomei, il fratellino di Marisa), un degente più di là che di qua nell'ospedale dove i tre si incontrano. I due scoprono di aver qualcosa in comune, la dipendenza da sostanze stupefacenti, e si mettono assieme. L'introduzione di Nicole nella storia sembra forzata, e la sua vicenda viene seguita poco e male dalla sceneggiatura. Al punto che lo spettatore dovrebbe chiedersi qual'è il suo senso di esistere, e quindi dovrebbe essere guidato a ragionare più sul tema delle dipendenze e di come affrontarle. Vediamo infatti che Nicole, dopo aver rischiato di tirare le cuoia, intraprende un serio percorso riabilitativo. Whip, invece, è ancora nella fase di negazione. E' convinto di poter smettere quando vuole, e se si ubriaca senza speranza è perché gli piace.

Oltre a mentire a se stesso, Whip è abituato a creare castelli di menzogne per proteggere il suo vizio, sul lavoro e nella vita privata. Menzogne che hanno le gambe corte, ma che lo hanno tenuto in pista per tutta la sua vita. Ora però deve scansare un indagine federale che contesta la sua sobrietà quando era al comando dell'aereo. Usando la sua solita strategia, che include anche l'uso di cocaina per mascherare l'ubriachezza, riesce ad arrivare fino alla prova finale, quando gli verrà chiesto di rendere accettabile la sua posizione scaricando un ultimo problema sulla memoria della defunta Katerina. Vedremo fino a che punto a comandare è Whip o l'alcol.

Zemeckis è abile a far vedere gli aspetti apparentemente positivi della dipendenza di Whip, che dopotutto gli permettono di tenere un regime di vita che è precluso ai comuni mortali, anche grazie al personaggio dello spacciatore di fiducia di Whip, Harling Mays (John Goodman), un fricchettone che sembra essere rimasto incollato agli anni settanta. Forse anche troppo.

(*) Sta per uscire il nuovo film di Zemeckis, un curioso progetto biografico su Philippe Petit e la sua camminata sospesa tra le torri del World Trade Center.
(**) Il buon Denzel è ormai sulla sessantina, portati splendidamente ma quelli sono e si vedono.

Prime

Questo secondo film di Ben Younger (*) non è venuto benissimo, e su questo mi pare ci sia un'accordo diffuso. Lo stesso Younger s'è preso una lunga vacanza dal cinema, al punto che il suo terzo lavoro, Bleed for this, dovrebbe uscire solo quest'anno. Mi viene però il dubbio che l'impatto che ha avuto su di me sia eccessivamente negativo. Forse io e Prime abbiamo avuto la sventura di incontrarci nel momento sbagliato, che è poi quello che direi sia successo ai due protagonisti.

Succede infatti che Rafi (Uma Thurman), neo-divorziata, con il morale sotto i tacchi, nonostante il principesco appartamento a Manhattan e relativa (**) situazione economica e sociale, incontri casualmente David (Bryan Greenberg), i due si piacciano al volo, e inizino una turbinosa storia d'amore. Il problema è che tra loro c'è una quindicina d'anni di differenza e David, pur essendo ufficialmente adulto, è ancora mentalmente un ragazzino, dipende dalla famiglia, non sa ancora bene cosa farà della sua vita.

A complicare la situazione c'è il fatto che Lisa, Meryl Streep, si trova nella scomoda situazione di essere contemporaneamente la strizza di Rafi e la madre di David. A causa di una serie di inghippi, inizialmente nessuno sa della pericolosa congiunzione che si è formata. La prima a scoprirla è Lisa che, malconsigliata dalla sua analista, mantiene il silenzio su questo dettaglio per alcune settimane, con grande imbarazzo, inizialmente solo per lei poi per tutti quanti, quando la bomba esplode.

Se teniamo conto del fatto che la famiglia di Lisa è ebrea osservante, viene difficile evitare il confronto con Woody Allen, il che è distruttivo, perché Younger non ha la stessa agilità di scrittura e nemmeno la stessa mano alla regia. Younger però vede la storia dal punto di vista di David, un ragazzotto che vive la realtà di New York dei primi anni duemila, con tutte le differenze del caso. Purtroppo anche questa parte non mi è sembrata particolarmente originale o interessante. Ci sarebbe Morris (Jon Abrahams), amico fonte di problemi, che mi è sembrato ispirato, e svolto meglio, dalla relazione di amicizia che è alla base di Clerks, Clerks II, e probabilmente anche Clerks III di Kevin Smith.

La morale della storia, poi, mi vede dubbioso. Contrariamente al credo alleniano, Basta che funzioni, mi sembra che qui Younger sostenga una posizione più tradizionalista, secondo la quale conviene dare ascolto alla mamma, che ne sa di più.

Ho perplessità anche sul titolo, che è così misterioso che persino la distribuzione italiana non ha osato cambiarlo. Potrebbe essere un oscuro riferimento all'età dei due protagonisti, che viene ripetuta più volte. Lei 37, lui 23. Entrambi numeri primi. Ma perché al singolare, allora? A meno che non sia inteso come aggettivo. In ogni caso, se l'interpretazione fosse giusta, la chiave di lettura sarebbe che i due non hanno niente in comune, nessun divisore che non sia un banale uno. E allora la loro storia sarebbe una cosa di puro sesso, lei attratta dall'esuberanza della gioventù di lui, lui dalla classe di lei.

Ma non ci credo. Secondo me la loro coppia avrebbe potuto funzionare benissimo, se non fosse stato per gli sciocchi errori di lui, la rigidità di lei, la folle intromissione di Lisa, i "buoni consigli" degli amici di lei e di lui. Se solo entrambi ci avessero creduto di più.

Nota di demerito finale, la canzone che segue le ultime battute del film e si svolge sui titoli di coda è una insipida versione inglese del classico Que reste-t-il de nos amours? di Charles Trenet.

(*) Il primo è Boiler room, da noi noto col titolo di 1 km da Wall Street. Una storia che ricorda molto The wolf of Wall Street.
(**) Non ho capito bene che lavoro faccia Rafi, qualcosa legato al mondo della moda, potrebbe essere una nota fotografa specializzata nel campo.

Survivor

Un po' come ne I tre giorni del Condor, qui abbiamo una operativa dei servizi di sicurezza americani, Kate Abbott (Milla Jovovich), che dovrebbe morire con tutta la sua squadra. Per un banale contrattempo si salva, e viene inseguita da (quasi) tutti quanti, sia i cattivi che vogliono terminare il lavoro, sia i buoni che non hanno capito un tubo e pensano sia lei la responsabile della carneficina. In più, il superkiller che la deve far fuori, si fa chiamare l'orologiaio (Pierce Brosnan), deve anche mettere a segno uno spettacolare attentato alla mezzanotte dell'ultimo dell'anno a Times Square, Manhattan, New York.

Sarebbe dunque un film di impostazione classica, anni settanta, Il giorno dello sciacallo potrebbe essere un altro buon riferimento, aggiornato però alla luce delle minacce terroriste post undici settembre. Il problema è che gran parte dell'azione è scontata, almeno per chi come il sottoscritto conosca i riferimenti presi dallo sceneggiatore (Philip Shelby) e dal regista (James McTeigue). L'unica scena che ricorderei è quella in cui Brosnan si getta dalle scale sparando alla Jovovich. Anche qui roba già vista, certamente irrealistica, ma almeno divertente.

In un ruolo minore c'è spazio anche per Frances de la Tour.

Vita privata di Sherlock Holmes

Sherlock Holmes (Robert Stephens) e il dottor Watson (Colin Blakely) rientrano al 221B di Backer Street dopo aver brillantemente risolto il caso della famiglia Abernetty (*), gettando nello scompiglio Mrs Hudson (Irene Handl), che vorrebbe essere tenuta maggiormente in considerazione dai suoi affittuari. Holmes contesta a Watson l'eccessivo imbellimento da lui operato nel rielaborare le sue storie che vengono pubblicate sullo Strand.

E non ha tutti i torti, in quanto Holmes, così idealizzato, ha finito tra l'altro per far colpo su Madame Petrova (Tamara Toumanova), stella dei balletti russi, che vorrebbe concepire con lui un figlio, bello come la madre, intelligente come il padre. Impossibilitato dalle buone maniere a dirle un no reciso, Holmes dichiara di essere già impegnato, con Watson.

Ma tutto questo ha ben poco a che fare con il vero caso che viene trattato nel film. Qualche tempo dopo una bella dama (Geneviève Page) viene portata al loro alloggio. Costei è stata ripescata dal Tamigi in stato di shock, e con fatica si scopre che si tratterebbe di tal Gabrielle Valladon, belga, in cerca di suo marito, misteriosamente scomparso. Il nostro scopre rapidamente che qualcosa di losco sta avvenendo in Scozia, ma viene avvertito dal fratello Mycroft (Christopher Lee) di stare alla larga da questo caso, che non è cosa per lui.

Sappiamo bene che ordinare a Sherlock di non far qualcosa è il modo migliore per spingerlo a farla. strano che Mycroft non se ne sia ricordato, e così i tre partono, sotto le mentite spoglie di una coppia in luna di miele con il domestico al seguito, per Inverness, dove dovranno affrontare un mistero che implica nani, frati trappisti, il mostro di Loch Ness, servizi segreti, e persino la regina Vittoria in persona (Mollie Maureen). Ci sarà persino spazio per un personaggio a nome von Hofmannsthal, anche se non sembra possibile abbia qualcosa a che fare con Hugo.

La storia è farina del sacco di Billy Wilder (**) ma i riferimenti al canone ufficiale di Doyle sono stringenti, e si capisce che l'intento era quello di una dichiarazione di amore nei confronti della saga, anche se rivista sotto l'angolazione umoristica che è quella che più si confaceva all'autore. Il risultato è buono, ma avrebbe potuto essere migliore. Una serie di circostanze ne hanno in un qualche modo limitato la portata.

Pare che la sceneggiatura fosse stata scritta tenendo in mente Peter O'Toole per Holmes e Peter Sellers per Watson, si è scelto poi di dare la parte ad attori meno di spicco. Stephens e Blakely se la cavano comunque egregiamente, ma non è la stessa cosa.

E' successo poi che, per motivi di semplicità di distribuzione, la produzione abbia tagliato un terzo della pellicola, facendo perdere il senso complessivo della storia.

Evidente l'influenza che questo film ha avuto su Sherlock, la serie televisiva di Steven Moffat e Mark Gatiss con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman protagonisti.

(*) Citato en passant da Sir Arthur Conan Doyle ne L'avventura dei sei napoleoni. L'unica cosa che sappiamo è che Holmes è arrivato alla soluzione osservando la velocità con cui il prezzemolo affonda nel burro in una giornata calda.
(**) Affiancato dal fido I.A.L. Diamond.

Fury

Tutto sommato la regia di David Ayer mi ha convinto. Meno la sceneggiatura, sempre di Ayer, che mi è sembrata indecisa su che taglio dare al film. Il risultato è un solido film di fantasia sulla seconda guerra mondiale, anche se non saprei dire bene se pro o anti militarista, che però ho l'impressione che si lascerà dimenticare con molta facilità.

L'indecisione di Ayer riguarda anche il punto di vista prevalente rispetto al quale è narrata la storia. Si oscilla tra quello di Don Collier (Brad Pitt) detto Wardaddy, che comanda l'equipaggio di un carro armato Sherman a cui è stato dato il nomignolo Fury, e quello di Norman Ellison (Logan Lerman) un ragazzetto mandato al fronte sul finire della guerra (*). Norman è un valente dattilografo, e dunque viene assegnato alla mitragliatrice di Fury.

Il racconto segue gli stereotipi del genere. Wardaddy, come da soprannome, fa da papà al suo equipaggio, che comprende anche Shia LaBeouf e Michael Peña. La recluta è inizialmente disgustato da quello che succede ed è mal visto dal gruppo, ma col passar del tempo impara a bere, ammazzare tedeschi, fare sesso con le tedesche, e alla fine si guadagna pure il soprannome di guerra. La differenza sostanziale con film simili di mezzo secolo fa è che qui sono tutti brutti, sporchi e cattivi. Per quanto si riesca a far diventar così Brad Pitt.

Difficile reggere il ritmo per le due ore abbondanti della pellicola, e infatti c'è un intermezzo poco riuscito, quello dove Wardaddy procura a Norman compagnia femminile, e un imbarazzante finale alla Rambo, dove il singolo carro armato immobilizzato tiene testa ad un plotone di SS armato di tutto punto. Scena che mi ha fatto pensare a Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah. Solo che qua i nostri decidono di combattere senza un vero motivo (**) e gli avversari sono inspiegabilmente incapaci di sparare e senza una strategia degna di questo nome. Almeno i messicani del mucchio avevano la scusante di essere attaccati a sorpresa dopo una notte di bagordi.

Il finale ha anche una serie di problemi nella scansione dei tempi, che si dilatano o riducono a seconda delle necessità dei protagonisti. Insomma, se lo si fosse tagliato del tutto sarebbe stato molto meglio.

La spiacevolezza di quello che si vede è credibile, meno i dettagli tecnici. La luminosità dei traccianti mi è sembrata più ispirata dalla fantascienza che da un intento realistico e fa specie vedere carri armati del secolo scorso sparare in movimento con gran rapidità e precisione di tiro.

(*) L'azione si svolge tutta in Germania, primavera 1945.
(**) Sembra che Wardaddy si sia affezionato a Fury e non lo voglia abbandonare.