Strana animazione Dreamworks di cui non ho capito lo scopo. La prima impressione che ho avuto è che si volesse de-disneyzzare il concetto di animale, rendendolo, per quanto possibile (*), meno umano di quanto siamo abituati. Questo implica che i cavalli, che sono i protagonisti della storia, non parlano ma, sorprendentemente, si esprimono solo a nitriti.
Per quanto mi riguarda sarebbe stata una buona idea. Anzi, avrei preferito che si estremizzasse il gioco, togliendo la voce della coscenza, ovvero del cavallo protagonista, a cui nel finale verrà dato il nome di Spirit, e le canzonette che di tanto in tanto ribadiscono l'azione in musica (**). Il problema è che le azioni antropomorfe di Spirit vanno ben oltre ad ogni possibile plausibilità per un cavallo. Credo che la sceneggiatura (John Fusco) sia stata pensata come buddy movie fra umani e poi brutalmente adattata sostituendo uno dei due poli con un cavallo.
Abbiamo dunque che Spirit è un possente giovane cavallo col difetto della troppa curiosità. A causa di ciò finisce per essere catturato e ridotto in schiavitù (***). Il spirito ribelle, però, lo spinge a far comunella con un giovane Lakota. I due riusciranno a scappare, ma il secondo vorrebbe tenere il cavallo con se, ma quando si rende conto che ciò non è possibile, lo lascia andare. Succedono altre peripezie, ma alla fine tutto va per il meglio.
Buona l'animazione, in particolare se consideriamo che è roba di quindici anni fa, un eternità in questo mondo. Buona la colonna sonora, del solito Hans Zimmer. Indigesta la caratterizzazione di Spirit e dei comprimari, troppo scontata e in bianco e nero.
(*) Dopotutto è un film di fantasia destinato principalmente ad un pubblico molto giovane, non un documentario.
(**) In originale scritte e interpretate da Bryan Adams, in italiano sono state rielaborate e cantate da Zucchero.
(***) Un po' mi ha fatto pensare alla prima parte della miniserie Radici (1977), dove sono narrate le peripezie di Kunta Kinte.
Sherlock 4.0: L'abominevole sposa
Quando mancano pochi giorni al primo episodio della quarta stagione, finisco di rinfrescarmi le idee rivedendo lo speciale che tira le fila della terza stagione e dà alcune indicazioni che dovrebbero prepararci all'azione.
Ricapitolando, Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) è sul punto di essere esiliato, destinato ad una missione quasi-suicida, in seguito al suo poco convenzionale modo di risovere il caso che gli si era parato davanti ne L'ultimo giuramento. Il suo aereo si è appena levato in volo, quando Jim Moriarty (Andrew Scott) appare sugli schermi di tutto il regno. La cosa fa scalpore, sia perché craccare così platealmente le telecomunicazioni britanniche non è da tutti, sia perché Jim è molto morto dai tempi de Le cascate di Reichenbach, due anni prima nella sequenza temporale sherlockiana.
Lo sconcerto nel governo britannico è tale che si decide nel giro di pochi secondi di accorciare ai minimi termini l'esilio del più turbolento Holmes. Ma anche Sherlock è sconcertato, al punto da usare estremi rimedi per trovare una spiegazione che lo convinca al mistero del ritorno di Moriarty dall'oltretomba. Per far ciò sente che è necessario che lui riesca a risolvere l'antico caso di Emilia Ricoletti (Natasha O'Keeffe) che scosse la vita londinese di fine ottocento.
Emilia era infelicemente sposata ad un bruto, così si sparò in bocca facendosi saltare le cervella, e poi uccise il marito a schioppettate. Proprio così, prima si è suicidata, poi ha ucciso il di lei vedovo. C'è un evidente parallelismo tra il caso della Ricoletti e quello di Moriarty, ma non si capisce bene perché sia così importante per Sherlock sviscerare i dettagli del primo. Credo che ne sapremo di più nel finale di stagione.
Nel finale si accenna per (almeno) la terza volta a Barbarossa (Redbeard) che sappiamo essere considerato sia da Milverton sia da Mycroft (Mark Gatiss) come un punto debole di Sherlock. Forse il punto debole per eccellenza. Sappiamo che era il suo cane quando lui era un bambino, e che è stato abbattuto. Nulla di più.
Nel subconscio di Sherlock succedono molte strane cose. Vediamo un gran senso di colpa per come ha trattato alcune donne, Molly Hooper (Louise Brealey) e Janine (Yasmine Akram), e vediamo che si sente pressato dal dottor Watson (Martin Freeman) a dargli una spiegazione sulla sua incapacità nel gestire relazioni romantiche. Vediamo anche quanto sia forte la competizione con Mycroft, il fratello più intelligente, e l'attrazione-repulsione nei confronti di Moriarty.
Di sicuro non resteremo a corto di sorprendenti sviluppi.
Ricapitolando, Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) è sul punto di essere esiliato, destinato ad una missione quasi-suicida, in seguito al suo poco convenzionale modo di risovere il caso che gli si era parato davanti ne L'ultimo giuramento. Il suo aereo si è appena levato in volo, quando Jim Moriarty (Andrew Scott) appare sugli schermi di tutto il regno. La cosa fa scalpore, sia perché craccare così platealmente le telecomunicazioni britanniche non è da tutti, sia perché Jim è molto morto dai tempi de Le cascate di Reichenbach, due anni prima nella sequenza temporale sherlockiana.
Lo sconcerto nel governo britannico è tale che si decide nel giro di pochi secondi di accorciare ai minimi termini l'esilio del più turbolento Holmes. Ma anche Sherlock è sconcertato, al punto da usare estremi rimedi per trovare una spiegazione che lo convinca al mistero del ritorno di Moriarty dall'oltretomba. Per far ciò sente che è necessario che lui riesca a risolvere l'antico caso di Emilia Ricoletti (Natasha O'Keeffe) che scosse la vita londinese di fine ottocento.
Emilia era infelicemente sposata ad un bruto, così si sparò in bocca facendosi saltare le cervella, e poi uccise il marito a schioppettate. Proprio così, prima si è suicidata, poi ha ucciso il di lei vedovo. C'è un evidente parallelismo tra il caso della Ricoletti e quello di Moriarty, ma non si capisce bene perché sia così importante per Sherlock sviscerare i dettagli del primo. Credo che ne sapremo di più nel finale di stagione.
Nel finale si accenna per (almeno) la terza volta a Barbarossa (Redbeard) che sappiamo essere considerato sia da Milverton sia da Mycroft (Mark Gatiss) come un punto debole di Sherlock. Forse il punto debole per eccellenza. Sappiamo che era il suo cane quando lui era un bambino, e che è stato abbattuto. Nulla di più.
Nel subconscio di Sherlock succedono molte strane cose. Vediamo un gran senso di colpa per come ha trattato alcune donne, Molly Hooper (Louise Brealey) e Janine (Yasmine Akram), e vediamo che si sente pressato dal dottor Watson (Martin Freeman) a dargli una spiegazione sulla sua incapacità nel gestire relazioni romantiche. Vediamo anche quanto sia forte la competizione con Mycroft, il fratello più intelligente, e l'attrazione-repulsione nei confronti di Moriarty.
Di sicuro non resteremo a corto di sorprendenti sviluppi.
Il club di Jane Austen
Film che in qualche modo fanno riferimento a Jane Austen ne escono di continuo. Vedasi l'ortodosso Orgoglio e pregiudizio (2005)di Joe Wright o la riscrittura sbarazzina di From Prada to nada (2011). Qui invece si parte da un romanzo (Karen Joy Fowler) che usa l'opera omnia della Austen come base di un racconto corale con lo scopo di mostrare quanto di austeniano ci sia un po' in tutte le coppie romantiche (*).
Credo che il problema principale sia da addebitarsi a Robin Swicord, la quale, pur avendo una buona esperienza di sceneggiature, era qui alla sua prima regia. Magari avrebbe dovuto affrontare un compito meno complicato. I troppi personaggi hanno poco tempo a disposizione, e non riuscono ad emergere nella complessità che, immagino, avevano su carta.
Jocelyn (Maria Bello) è in un momento difficile della sua vita, il suo compagno di vita del momento è morto, e il fatto che sia un cane non rende il suo lutto meno drammatico. Le sue amiche, la pluridivorziata Bernadette (Kathy Baker) e la strenuamente monogamica Sylvia (Amy Brenneman), stanno cercando di inventarsi qualcosa per starle più vicino quando una nuova tegola si abbatte su di loro. Daniel (Jimmy Smits), dopo vent'anni di matrimonio, pensa che sia una buona idea separarsi da Sylvia per esplorare una alternativa.
L'incontro fortuito tra la petulante Bernadette e Prudie (Emily Blunt), scatena l'idea di creare un gruppo di lettura dedicato ai Jane Austen. I libri da leggere sono sei, i lettori al momento sono quattro, vengono reclutati a forza altri due elementi che sembrano molto stonati. Allegra (Maggie Grace), che ha il solo torto di essere figlia di Sylvia, e Grigg (Hugh Dancy) che si è preso una cotta a prima vista per Jocelyn.
Il resto del film procede tra letture, paralleli tra l'opera della Austen e l'attualità dei personaggi, incomprensioni tra i sei, fino ad un immancabile lieto fine di gruppo.
(*) O almeno, così credo di aver capito.
Credo che il problema principale sia da addebitarsi a Robin Swicord, la quale, pur avendo una buona esperienza di sceneggiature, era qui alla sua prima regia. Magari avrebbe dovuto affrontare un compito meno complicato. I troppi personaggi hanno poco tempo a disposizione, e non riuscono ad emergere nella complessità che, immagino, avevano su carta.
Jocelyn (Maria Bello) è in un momento difficile della sua vita, il suo compagno di vita del momento è morto, e il fatto che sia un cane non rende il suo lutto meno drammatico. Le sue amiche, la pluridivorziata Bernadette (Kathy Baker) e la strenuamente monogamica Sylvia (Amy Brenneman), stanno cercando di inventarsi qualcosa per starle più vicino quando una nuova tegola si abbatte su di loro. Daniel (Jimmy Smits), dopo vent'anni di matrimonio, pensa che sia una buona idea separarsi da Sylvia per esplorare una alternativa.
L'incontro fortuito tra la petulante Bernadette e Prudie (Emily Blunt), scatena l'idea di creare un gruppo di lettura dedicato ai Jane Austen. I libri da leggere sono sei, i lettori al momento sono quattro, vengono reclutati a forza altri due elementi che sembrano molto stonati. Allegra (Maggie Grace), che ha il solo torto di essere figlia di Sylvia, e Grigg (Hugh Dancy) che si è preso una cotta a prima vista per Jocelyn.
Il resto del film procede tra letture, paralleli tra l'opera della Austen e l'attualità dei personaggi, incomprensioni tra i sei, fino ad un immancabile lieto fine di gruppo.
(*) O almeno, così credo di aver capito.
Doctor Who 10.0 Speciale di Natale: The return of Doctor Mysterio
Puntata anomala della serie, anche considerando che si tratta dello speciale natalizio di una serie che fa delle anomalie uno dei suoi tratti distintivi. Più che essere una storia del Dottore (Peter Capaldi), è quella di Grant Gordon (Justin Chatwin), un giovanotto newyorkese cresciuto a pane e fumetti di supereroi che ha avuto la (s)fortuna di incontrare, quand'era ancora un bimbo, il Dottore.
Lo strano incontro, avvenuto una notte di Natale, lo ha trasformato in un supereroe, The Ghost, una specie di incrocio tra Superman e Spider-man, ma addirittura più timido e imbranato di Clark Kent e Peter Parker quando non veste gli abiti da lavoro.
Sono passati più di due dozzine di anni da quella fatidica notte, che per il Dottore è stata contemporaneamente una sola notte e ventiquattro anni, come spiegato nello speciale natalizio dell'anno scorso, e chi ne abbia seguito lo svolgimento, capirà che il suo umore non sia dei migliori. A fargli da companion è l'improbabile Nardole (Matt Lucas), nell'attesa che spunti un sostituto (*) della insostituibile "impossible girl" Clara. La parte principale femminile nella puntata è affidata a Charity Wakefield che interpreta Lucy Fletcher, giornalista investigativa ambita da Grant.
La minaccia alla Terra è piuttosto fiacca, i cattivi sono una new entry, che hanno forma di cervello e che amano sostituirsi ad altre specie per conquistare i loro pianeti.
(*) Basta vedere qualche trailer della stagione per sapere che si tratta di una sostituta, e che arriverà presto.
Lo strano incontro, avvenuto una notte di Natale, lo ha trasformato in un supereroe, The Ghost, una specie di incrocio tra Superman e Spider-man, ma addirittura più timido e imbranato di Clark Kent e Peter Parker quando non veste gli abiti da lavoro.
Sono passati più di due dozzine di anni da quella fatidica notte, che per il Dottore è stata contemporaneamente una sola notte e ventiquattro anni, come spiegato nello speciale natalizio dell'anno scorso, e chi ne abbia seguito lo svolgimento, capirà che il suo umore non sia dei migliori. A fargli da companion è l'improbabile Nardole (Matt Lucas), nell'attesa che spunti un sostituto (*) della insostituibile "impossible girl" Clara. La parte principale femminile nella puntata è affidata a Charity Wakefield che interpreta Lucy Fletcher, giornalista investigativa ambita da Grant.
La minaccia alla Terra è piuttosto fiacca, i cattivi sono una new entry, che hanno forma di cervello e che amano sostituirsi ad altre specie per conquistare i loro pianeti.
(*) Basta vedere qualche trailer della stagione per sapere che si tratta di una sostituta, e che arriverà presto.
Sherlock 3.3: L'ultimo giuramento
Come da manuale, la puntata è dedicata al confronto tra Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e il cattivo di stagione, Charles Augustus Magnussen (Lars Mikkelsen), di fino ad ora sapevamo solo che era dietro al rapimento di John Watson (Martin Freeman) e fatti successivi narrati ne La cassa vuota.
Per maggiori dettagli vedasi quello che avevo scritto in occasione della mia prima visione, qui aggiungo che è sorprendente quanti errori faccia Holmes in questa puntata. Inatteso nello schema di una serie di questo tipo, ma realistico e interessante. Lavorando di induzione, è naturale che Sherlock non ci azzecchi sempre. Spesso due o più diverse opzioni possono giustificare le sue osservazioni, e non sarebbe umano se operasse sempre la scelta corretta. Anche se nei momenti essenziali riesce sempre a calcolare almeno un passo in più degli altri.
Il difetto fondamentale di Sherlock è quello di maltrattare indegnamente chi gli sta vicino. Watson ha avuto modo di spiegargli che così non si fa, in maniera brutale ma efficace all'inizio di stagione. Qui si premurano di dargli un supplemento di spiegazioni Molly Hooper (Louise Brealey), anche se, tecnicamente, lo prende a schiaffoni forse quando avrebbe meno motivi per farlo, e Janine (Yasmine Akram). Ha anche modo di venir maltrattato da Mary Watson née Morstan (Amanda Abbington), con toni un po' sopra le righe, a dire il vero, al punto che non si capisce bene quanto è precisa lei e osso duro lui, in un gioco di responsabilità a cui è difficile dare un senso definito.
Come nella precedente puntata, vediamo Sherlock, in un momento fondamentale, fare i conti con le persone che per lui sono davvero importanti, che scopriamo essere, oltre a John, Molly, Lestrade (Rupert Graves), Mycroft (Mark Gatiss) ma soprattutto Jim Moriarty (Andrew Scott).
Bello il finale, che sembra chiudere la serie brutalmente, ma che la riprende per i capelli e ci offre un cliffhanger per la prossima stagione.
Per maggiori dettagli vedasi quello che avevo scritto in occasione della mia prima visione, qui aggiungo che è sorprendente quanti errori faccia Holmes in questa puntata. Inatteso nello schema di una serie di questo tipo, ma realistico e interessante. Lavorando di induzione, è naturale che Sherlock non ci azzecchi sempre. Spesso due o più diverse opzioni possono giustificare le sue osservazioni, e non sarebbe umano se operasse sempre la scelta corretta. Anche se nei momenti essenziali riesce sempre a calcolare almeno un passo in più degli altri.
Il difetto fondamentale di Sherlock è quello di maltrattare indegnamente chi gli sta vicino. Watson ha avuto modo di spiegargli che così non si fa, in maniera brutale ma efficace all'inizio di stagione. Qui si premurano di dargli un supplemento di spiegazioni Molly Hooper (Louise Brealey), anche se, tecnicamente, lo prende a schiaffoni forse quando avrebbe meno motivi per farlo, e Janine (Yasmine Akram). Ha anche modo di venir maltrattato da Mary Watson née Morstan (Amanda Abbington), con toni un po' sopra le righe, a dire il vero, al punto che non si capisce bene quanto è precisa lei e osso duro lui, in un gioco di responsabilità a cui è difficile dare un senso definito.
Come nella precedente puntata, vediamo Sherlock, in un momento fondamentale, fare i conti con le persone che per lui sono davvero importanti, che scopriamo essere, oltre a John, Molly, Lestrade (Rupert Graves), Mycroft (Mark Gatiss) ma soprattutto Jim Moriarty (Andrew Scott).
Bello il finale, che sembra chiudere la serie brutalmente, ma che la riprende per i capelli e ci offre un cliffhanger per la prossima stagione.
Sherlock 3.2: Il segno dei tre
Nella terza stagione non vale la regola dell'episodio centrale meno forte. Ho avuto qualche limitata perplessità su Il banchiere cieco (prima stagione) e su I mastini di Baskerville (seconda stagione), ma non qui.
In questo caso la parte del leone la fa il matrimonio tra John Hamish (*) Watson (Martin Freeman) e Mary Elizabeth Morstan (Amanda Abbington). Delle rare somiglianze con Il segno dei quattro di Conan Doyle ho parlato quando ho commentato la mia prima visione di questa puntata, ora mi limito a sottolineare come anche questa volta si sia mantenuto lo schema di accennare al supercattivo del momento nel primo episodio dell'annata, e dedicare allo scontro tra questi (**) e Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) il finale di stagione.
Succede così che in questa puntata Sherlock non ha un avversario al suo livello con cui combattere, ma passa il tempo a combattere con i suoi demoni, che sono poi il suo complesso di inferiorità nei confronti del fratello Mycroft (Mark Gatiss), l'attrazione irrisolta per Irene Adler (Lara Pulver), l'invidia per l'umanità del dottor Watson, la sua quasi totale incapacità di relazionarsi con gli umani.
(*) Il middle name del buon dottore ha un ruolo importante nello sviluppo.
(**) Jim Moriarty (Andrew Scott) nelle due precedenti stagioni.
In questo caso la parte del leone la fa il matrimonio tra John Hamish (*) Watson (Martin Freeman) e Mary Elizabeth Morstan (Amanda Abbington). Delle rare somiglianze con Il segno dei quattro di Conan Doyle ho parlato quando ho commentato la mia prima visione di questa puntata, ora mi limito a sottolineare come anche questa volta si sia mantenuto lo schema di accennare al supercattivo del momento nel primo episodio dell'annata, e dedicare allo scontro tra questi (**) e Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) il finale di stagione.
Succede così che in questa puntata Sherlock non ha un avversario al suo livello con cui combattere, ma passa il tempo a combattere con i suoi demoni, che sono poi il suo complesso di inferiorità nei confronti del fratello Mycroft (Mark Gatiss), l'attrazione irrisolta per Irene Adler (Lara Pulver), l'invidia per l'umanità del dottor Watson, la sua quasi totale incapacità di relazionarsi con gli umani.
(*) Il middle name del buon dottore ha un ruolo importante nello sviluppo.
(**) Jim Moriarty (Andrew Scott) nelle due precedenti stagioni.
Sherlock 3.1: La cassa vuota
Poco da aggiungere a quanto avevo scritto dopo la mia prima visione di questo episodio. Come vuole il canone (*), Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) ritorna a Londra, pescato dal fratello Mycroft (Mark Gatiss) da qualche parte nell'Europa orientale mentre si dilettava a distruggere elementi della rete di Moriarty. Mycroft si dedica di persona all'impresa, per lui enormemente spiacevole, diventando un operativo e mischiandosi con umani, perché gli è giunto un allarme molto preoccupante. Un attentato di enormi proporzioni sta per avvenire nella capitale, e Sherlock sembra essere l'unico che possa impedire la catastrofe. O forse, più semplicemente, Mycroft s'è stufato di sapere il fratellino in "vacanza" e lo vuole di nuovo tenere sotto più stretta sorveglianza.
Si bisticcia molto in questa puntata. I due fratelli Holmes, si beccano a più non posso, rinfacciandosi di tutto. Ma soprattutto Sherlock e il dottor John Watson (Martin Freeman) hanno molto da dirsi, con John che non ha mandato giù di essere lasciato all'oscuro della finta morte del consulting detective per due lunghi anni.
Rapida introduzione di Mary Morstan (Amanda Abbington), che sarà tra breve la signora Watson. La simpatia immediata e reciproca tra Mary e Sherlock dovrebbe farci sollevare un sopracciglio. Anche la povera Molly Hooper (Louise Brealey) sembrerebbe aver trovato un compagno che non sia un sociopatico, ma la silenziosa reazione di Sherlock alla sua vista potrebbe farci temere in qualche risvolto negativo.
(*) Ma non avrebbe voluto Conan Doyle, che avrebbe volentieri lasciato il suo eroe a mollo nel Reichenbach.
Si bisticcia molto in questa puntata. I due fratelli Holmes, si beccano a più non posso, rinfacciandosi di tutto. Ma soprattutto Sherlock e il dottor John Watson (Martin Freeman) hanno molto da dirsi, con John che non ha mandato giù di essere lasciato all'oscuro della finta morte del consulting detective per due lunghi anni.
Rapida introduzione di Mary Morstan (Amanda Abbington), che sarà tra breve la signora Watson. La simpatia immediata e reciproca tra Mary e Sherlock dovrebbe farci sollevare un sopracciglio. Anche la povera Molly Hooper (Louise Brealey) sembrerebbe aver trovato un compagno che non sia un sociopatico, ma la silenziosa reazione di Sherlock alla sua vista potrebbe farci temere in qualche risvolto negativo.
(*) Ma non avrebbe voluto Conan Doyle, che avrebbe volentieri lasciato il suo eroe a mollo nel Reichenbach.
Sherlock 3.0: Many happy returns
Come regalo di Natale ai pazienti fan della serie, la BBC ha prodotto questo breve episodio per il web (*) che ha immediatamente preceduto l'arrivo della terza stagione sugli schermi televisivi. L'ispettore Lestrade (Rupert Graves) beve una birra assieme ad Anderson (Jonathan Aris) che dopo la presunta morte di Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) ha sbarellato, perso il suo lavoro, e adesso vive cercando di convincere il mondo che il consulting detective è vivo e risolve astrusi casi. Lestrade è spiaciuto per il precario equilibrio mentale dell'ex collega ma non può far molto. Passa poi da John Watson (Martin Freeman), con cui scambia quattro chiacchiere.
(*) Ora incluso tra i contenuti speciali della terza stagione in DVD è comunque ancora visibile sul canale BBC di YouTube:
(*) Ora incluso tra i contenuti speciali della terza stagione in DVD è comunque ancora visibile sul canale BBC di YouTube:
Sherlock 2.3: Le cascate di Reichenbach
Lo spettatore più attento avrà notato come nella precedente puntata Jim Moriarty (Andrew Scott) appaia in due brevi sequenze. In una come idea fissa di Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), nell'altra come antagonista del suo fratellone Mycroft (Mark Gatiss). Qui si tirano le conclusioni di questa partita a tre.
Sherlock e Jim sono il ritratto speculare della stessa personalità. Il consulting detective tiene a bada la sua noia nei confronti di un mondo per lui risulta troppo spesso scontato lavorando per gli "angeli", il consulting criminal lavora sul campo avverso. L'incontro li ha fatti sbarellare, Sherlock vede Jim anche dove non c'è, Jim ha trasformato Sherlock nella sua ossessione. Si può capire quando Jim abbia fatto bene i suoi compiti notando come riesca ad identificare correttamente chi siano tre amici del suo arcinemico. Se a Watson (Martin Freeman) ci arriverebbe chiunque, la signora Hudson (Una Stubbs) è un bersaglio più complicato, come pure l'ispettore Lestrade (Rupert Graves), così spesso maltrattato dal nostro. Sherlock, ovviamente, va anche oltre, riuscendo a calcolare le decisioni di Jim fino all'ultima.
Tra Sherlock e Jim c'è in mezzo Mycroft, che ha scelto di mettere la sua intelligenza al servizio dello Stato, e non capisce perché il suo dotato fratellino non voglia fare lo stesso. Il lavoro che si è scelto Mycroft ha il vantaggio di tenere impegnata costantemente la sua mente, ma ha lo svantaggio di fargli perdere il senso della misura, ancor peggio di come lo perde solitamente Sherlock.
Il titolo può risultare criptico ai meno assidui lettori di Conan Doyle, ma ne ho già parlato abbastanza nel post dedicato alla mia prima visione di questo episodio.
Sherlock e Jim sono il ritratto speculare della stessa personalità. Il consulting detective tiene a bada la sua noia nei confronti di un mondo per lui risulta troppo spesso scontato lavorando per gli "angeli", il consulting criminal lavora sul campo avverso. L'incontro li ha fatti sbarellare, Sherlock vede Jim anche dove non c'è, Jim ha trasformato Sherlock nella sua ossessione. Si può capire quando Jim abbia fatto bene i suoi compiti notando come riesca ad identificare correttamente chi siano tre amici del suo arcinemico. Se a Watson (Martin Freeman) ci arriverebbe chiunque, la signora Hudson (Una Stubbs) è un bersaglio più complicato, come pure l'ispettore Lestrade (Rupert Graves), così spesso maltrattato dal nostro. Sherlock, ovviamente, va anche oltre, riuscendo a calcolare le decisioni di Jim fino all'ultima.
Tra Sherlock e Jim c'è in mezzo Mycroft, che ha scelto di mettere la sua intelligenza al servizio dello Stato, e non capisce perché il suo dotato fratellino non voglia fare lo stesso. Il lavoro che si è scelto Mycroft ha il vantaggio di tenere impegnata costantemente la sua mente, ma ha lo svantaggio di fargli perdere il senso della misura, ancor peggio di come lo perde solitamente Sherlock.
Il titolo può risultare criptico ai meno assidui lettori di Conan Doyle, ma ne ho già parlato abbastanza nel post dedicato alla mia prima visione di questo episodio.
Sherlock 2.2: I mastini di Baskerville
Anche per la seconda stagione vale la maledizione dell'episodio di mezzo, che mi soddisfa meno degli altri. Ho controllato, e non si tratta di uno sghiribizzo del momento, pure alla prima visione ho avuto la stessa sensazione.
Come è facile intuire, questa volta l'avventura è basata su Il mastino dei Baskerville, con gli opportuni stravolgimenti che, incredibilmente, mantengono la sostanza della storia di Conan Doyle.
Come vuole il canone, gran parte dello svolgimento avviene nella campagna, lontano da Londra. Ma qui il dottor Watson (Martin Freeman) non opera, se non brevemente, disgiuntamente da Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch). Baskerville, al centro della narrativa, diventa un segretissimo centro di ricerca militare. E il cattivo, invece di affondare nelle paludi farà una diversa tragica fine, seppur in un certo senso paragonabile a quella originale.
Nell'episodio precedente si evidenziava come la focalizzazione di Sherlock sul lato intellettuale a scapito di quello affettivo avesse i suoi aspetti negativi. Qui, oltre a reiterare il punto, si ha modo di vedere quanto il consulting detective possa essere sorpreso dallo scoprire che non sempre ci si può fidare dei propri sensi.
Come è facile intuire, questa volta l'avventura è basata su Il mastino dei Baskerville, con gli opportuni stravolgimenti che, incredibilmente, mantengono la sostanza della storia di Conan Doyle.
Come vuole il canone, gran parte dello svolgimento avviene nella campagna, lontano da Londra. Ma qui il dottor Watson (Martin Freeman) non opera, se non brevemente, disgiuntamente da Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch). Baskerville, al centro della narrativa, diventa un segretissimo centro di ricerca militare. E il cattivo, invece di affondare nelle paludi farà una diversa tragica fine, seppur in un certo senso paragonabile a quella originale.
Nell'episodio precedente si evidenziava come la focalizzazione di Sherlock sul lato intellettuale a scapito di quello affettivo avesse i suoi aspetti negativi. Qui, oltre a reiterare il punto, si ha modo di vedere quanto il consulting detective possa essere sorpreso dallo scoprire che non sempre ci si può fidare dei propri sensi.
Sherlock 2.1: Scandalo a Belgravia
Belgravia è quel quartiere londinese che confina con Buckingham Palace. In Uno scandalo in Boemia, Conan Doyle presentava Irene Adler, bella e estremamente intelligente avventuriera che minacciava un regnante mitteleuropeo riuscendo a farla franca, nonostante questi fosse ricorso ai servigi di Sherlock Holmes.
In questa versione riveduta e aggiornata dei fatti, Irene Adler (Lara Pulver) usa il sesso come arma letale, e in particolare si presenta come dominatrice in rapporti sadomaso, ottenendo un gran successo nell'alta società inglese. La Adler è in qualche modo legata a Jim Moriarty (Andrew Scott) ed è sua la telefonata al "consulting criminal" (*) proprio nel momento topico del termine della puntata precedente a risolvere uno stallo che avrebbe potuto portare ad un efferato termine anticipato della serie.
Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e il dottor Watson (Martin Freeman), che non sanno chi fosse dall'altra parte dell'apparecchio, scopriranno l'esistenza della bella e letale Irene solo più avanti. Nel frattempo si dedicano ad un gran numero di casi, con lo scopo principale di alleviare la noia che pervade la vita holmesiana, al quale tutto appare così triviale.
Scopriamo infine che il diabolico piano di Moriarty è quello di usare foto che ritraggono una giovane donna molto vicina alla regina per attrarre Sherlock verso Irene. L'idea di Jim sarebbe quella di rovinare Mycroft Holmes (Mark Gatiss), facendo in modo che sia proprio il suo fratellino ribelle a causarne la catastrofe. Il problema è che Jim, Sherlock, Irene, Mycroft, hanno tutti menti affilatissime, ma hanno scarsissime capacità nel gestire i loro lati affettivi. Succederanno quindi cose che nessuno di loro sarebbe stato capace di immaginare.
Sconsigliata la visione in italiano. Ho sentito i primi secondi per sbaglio e ho rabbrividito. Sherlock nella nostra bella lingua ha la voce di un ragazzino saccente, Jim Moriarty quella di un imbecille. In inglese, Scott fa rizzare i capelli, in italiano fa venir voglia di prenderlo a scappellotti. La mia prima visione è stata direttamente in inglese e ai tempi mi ero risparmiato ai tempi questo shock.
(*) Tradotto malamente in italiano, perdendo il parallelo con lo sherlockiano ruolo di consulting detective.
In questa versione riveduta e aggiornata dei fatti, Irene Adler (Lara Pulver) usa il sesso come arma letale, e in particolare si presenta come dominatrice in rapporti sadomaso, ottenendo un gran successo nell'alta società inglese. La Adler è in qualche modo legata a Jim Moriarty (Andrew Scott) ed è sua la telefonata al "consulting criminal" (*) proprio nel momento topico del termine della puntata precedente a risolvere uno stallo che avrebbe potuto portare ad un efferato termine anticipato della serie.
Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e il dottor Watson (Martin Freeman), che non sanno chi fosse dall'altra parte dell'apparecchio, scopriranno l'esistenza della bella e letale Irene solo più avanti. Nel frattempo si dedicano ad un gran numero di casi, con lo scopo principale di alleviare la noia che pervade la vita holmesiana, al quale tutto appare così triviale.
Scopriamo infine che il diabolico piano di Moriarty è quello di usare foto che ritraggono una giovane donna molto vicina alla regina per attrarre Sherlock verso Irene. L'idea di Jim sarebbe quella di rovinare Mycroft Holmes (Mark Gatiss), facendo in modo che sia proprio il suo fratellino ribelle a causarne la catastrofe. Il problema è che Jim, Sherlock, Irene, Mycroft, hanno tutti menti affilatissime, ma hanno scarsissime capacità nel gestire i loro lati affettivi. Succederanno quindi cose che nessuno di loro sarebbe stato capace di immaginare.
Sconsigliata la visione in italiano. Ho sentito i primi secondi per sbaglio e ho rabbrividito. Sherlock nella nostra bella lingua ha la voce di un ragazzino saccente, Jim Moriarty quella di un imbecille. In inglese, Scott fa rizzare i capelli, in italiano fa venir voglia di prenderlo a scappellotti. La mia prima visione è stata direttamente in inglese e ai tempi mi ero risparmiato ai tempi questo shock.
(*) Tradotto malamente in italiano, perdendo il parallelo con lo sherlockiano ruolo di consulting detective.
Sherlock 1.0: Uno studio in rosa
Il pilota di una serie televisiva in genere ha un doppio scopo, convincere la produzione della validità del prodotto, e quindi far sganciare il capitale necessario per produrre un'intera stagione, e poi convincere gli spettatori che valga la pena seguire la stagione stessa. A volte la produzione non resta particolarmente convinta dal pilota, e questo viene mandato in onda per valutare la risposta del pubblico prima di impegnarsi nell'intera stagione.
Qui siamo di fronte ad un caso molto peculiare. La BBC aveva sganciato il necessario (*) per la produzione di questo pilota, chiedendo che durasse un ora. Visto il risultato, hanno deciso che non era necessario attendere il responso del pubblico e hanno dato l'ok per la produzione dell'intera stagione, chiedendo però che le puntate durassero mezz'ora di più.
Difficile modificare questo episodio per gonfiarlo a novanta minuti senza rischiare di fare una mezza porcheria. E allora si è deciso di aggiustare la sceneggiatura e di rigirare tutto quanto cambiando quel che c'era da cambiare.
Il pilota originale così non è mai stato trasmesso, e lo si può vedere adesso come bonus allegato alla prima stagione in DVD. Vale la pena di guardarselo? Sì, ma solo per i fan della serie, direi.
Gran parte dell'azione è contenuta, con cambiamenti minimi (**), nel primo episodio come è conosciuto al mondo. Le aggiunte riguardano la partecipazione di Mycroft Holmes e gli accenni a Moriarty. La seconda circostanza concorre anche a rendere il caso del serial killer slegato da quanto avverrà nei successivi episodi.
Un difetto di questa prima versione è nello spiegone che illustra i punti oscuri del caso. Nella versione lunga, sparisce e i particolari vengono portati alla nostra conoscenza nel corso dello svolgimento dei fatti. In compenso, ci sono anche alcuni particolari, poi rimossi, che sono simpatici da vedere. Come nel finale, quando si esplicita sia che l'ispettore Lestrade (Rupert Graves) ha capito come sono andate le cose, anche se evita di dirlo per non creare inutili problemi, sia che Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) ha, tra i suoi innumerevoli difetti, anche la gran vanità di volere un pubblico a cui mostrare le sue capacità, e la difficoltà di sottrarsi ad una sfida che metta alla prova le sue capacità intellettive.
(*) Una cosetta come un milioncino, facendo i conti in Euro.
(**) Scopriamo ad esempio che il ristorantino take-away sotto all'appartamento della signora Hudson (Una Stubbs) aveva in questa versione il suo nome.
Qui siamo di fronte ad un caso molto peculiare. La BBC aveva sganciato il necessario (*) per la produzione di questo pilota, chiedendo che durasse un ora. Visto il risultato, hanno deciso che non era necessario attendere il responso del pubblico e hanno dato l'ok per la produzione dell'intera stagione, chiedendo però che le puntate durassero mezz'ora di più.
Difficile modificare questo episodio per gonfiarlo a novanta minuti senza rischiare di fare una mezza porcheria. E allora si è deciso di aggiustare la sceneggiatura e di rigirare tutto quanto cambiando quel che c'era da cambiare.
Il pilota originale così non è mai stato trasmesso, e lo si può vedere adesso come bonus allegato alla prima stagione in DVD. Vale la pena di guardarselo? Sì, ma solo per i fan della serie, direi.
Gran parte dell'azione è contenuta, con cambiamenti minimi (**), nel primo episodio come è conosciuto al mondo. Le aggiunte riguardano la partecipazione di Mycroft Holmes e gli accenni a Moriarty. La seconda circostanza concorre anche a rendere il caso del serial killer slegato da quanto avverrà nei successivi episodi.
Un difetto di questa prima versione è nello spiegone che illustra i punti oscuri del caso. Nella versione lunga, sparisce e i particolari vengono portati alla nostra conoscenza nel corso dello svolgimento dei fatti. In compenso, ci sono anche alcuni particolari, poi rimossi, che sono simpatici da vedere. Come nel finale, quando si esplicita sia che l'ispettore Lestrade (Rupert Graves) ha capito come sono andate le cose, anche se evita di dirlo per non creare inutili problemi, sia che Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) ha, tra i suoi innumerevoli difetti, anche la gran vanità di volere un pubblico a cui mostrare le sue capacità, e la difficoltà di sottrarsi ad una sfida che metta alla prova le sue capacità intellettive.
(*) Una cosetta come un milioncino, facendo i conti in Euro.
(**) Scopriamo ad esempio che il ristorantino take-away sotto all'appartamento della signora Hudson (Una Stubbs) aveva in questa versione il suo nome.
Sherlock 1.3: Il grande gioco
Misteriosamente da me sottovalutato alla prima visione, è cresciuto per conto suo nella mia considerazione col passare del tempo, e adesso, rivedendolo, me lo sono goduto appieno.
Pur avendo a disposizione anche il doppiaggio italiano, ho preferito passare immediatamente a quello originale. La voce italiana di Holmes, almeno a mio gusto, non si può proprio sentire.
Interessante il prologo, che poco o nulla ha a che fare con lo sviluppo della puntata, ma riesce a trasformare in commedia una chiacchierata tra Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e un delinquente bielorusso.
La sceneggiatura (Mark Gatiss) è un diligente collage di elementi provenienti da numerosi racconti di Conan Doyle, con l'aggiunta di particolari spuri, come il gigantesco killer slavo (John Lebar) noto con il nome d'arte di Golem, fra tutti emerge L'avventura dei progetti Bruce-Partington incrociata però ad un pericoloso gioco al massacro condotto da Jim Moriarty, che mostra di essere una specie di alter ego di Sherlock, però dedito al male.
Holmes, sotto lo sguardo sbigottito del buon Lestrade (Rupert Graves) e quello preoccupato del dottor Watson (Martin Freeman), risolve un numero impressionante di casi, per giungere ad un finale esplosivo in una piscina. Luogo topico per Moriarty, che, come abbiamo scoperto un'ora prima, ha forse fatto la sua irrevocabile scelta di campo proprio lì, venti anni prima.
Pur avendo a disposizione anche il doppiaggio italiano, ho preferito passare immediatamente a quello originale. La voce italiana di Holmes, almeno a mio gusto, non si può proprio sentire.
Interessante il prologo, che poco o nulla ha a che fare con lo sviluppo della puntata, ma riesce a trasformare in commedia una chiacchierata tra Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e un delinquente bielorusso.
La sceneggiatura (Mark Gatiss) è un diligente collage di elementi provenienti da numerosi racconti di Conan Doyle, con l'aggiunta di particolari spuri, come il gigantesco killer slavo (John Lebar) noto con il nome d'arte di Golem, fra tutti emerge L'avventura dei progetti Bruce-Partington incrociata però ad un pericoloso gioco al massacro condotto da Jim Moriarty, che mostra di essere una specie di alter ego di Sherlock, però dedito al male.
Holmes, sotto lo sguardo sbigottito del buon Lestrade (Rupert Graves) e quello preoccupato del dottor Watson (Martin Freeman), risolve un numero impressionante di casi, per giungere ad un finale esplosivo in una piscina. Luogo topico per Moriarty, che, come abbiamo scoperto un'ora prima, ha forse fatto la sua irrevocabile scelta di campo proprio lì, venti anni prima.
Sherlock 1.2: Il banchiere cieco
Il dottor Watson (Martin Freeman) ha qualche problema ad adattarsi all'amicizia con Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), così disinteressato alle piccolezze della vita di tutti i giorni, e con una vita parallela che include assassini mascherati della quale non sembra voler rendere edotto, se proprio non sia necessario, il suo companion.
Il caso di questa puntata verte su una banda cinese dedita al traffico di opere d'arte. Qualcuno ha tradito, e loro, che non vanno per il sottile, ammazzano prima di chiedere.
Brillano per la loro assenza Lestrade, qui sostituito da un insipido Dimmock, e il fratellone di Sherlock. Watson, dopo aver fallito miserabilmente l'approccio con una bella fanciulla nell'episodio precedente, sembra aver maggior successo con Sarah (Zoe Telford), che sarebbe poi la sua capa in un lavoro temporaneo che ha trovato.
Confermo le mie perplessità che avevo avuto alla prima visione, sembra un episodio scritto con la mano sinistra. Anche se il risultato è comunque superiore a quello di serie simili, anche al loro meglio.
Il caso di questa puntata verte su una banda cinese dedita al traffico di opere d'arte. Qualcuno ha tradito, e loro, che non vanno per il sottile, ammazzano prima di chiedere.
Brillano per la loro assenza Lestrade, qui sostituito da un insipido Dimmock, e il fratellone di Sherlock. Watson, dopo aver fallito miserabilmente l'approccio con una bella fanciulla nell'episodio precedente, sembra aver maggior successo con Sarah (Zoe Telford), che sarebbe poi la sua capa in un lavoro temporaneo che ha trovato.
Confermo le mie perplessità che avevo avuto alla prima visione, sembra un episodio scritto con la mano sinistra. Anche se il risultato è comunque superiore a quello di serie simili, anche al loro meglio.
Sherlock 1.1: Uno studio in rosa
Come ogni buon pilota di una serie, ha lo scopo di mostrare chi sono i personaggi principali, in che ambiente si muovono, e cosa ci si può aspettare dagli altri episodi. Il titolo stesso è un indizio non trascurabile, essendo una evidente reinterpretazione del primo romanzo di sir Arthur Conan Doyle (*) dedicato alle avventure di Sherlock Holmes.
Si parte spiegandoci che John Watson (Martin Freeman) è, come vuole la tradizione, un medico militare che è appena tornato in patria dopo aver combattuto in Afghanistan. La differenza sostanziale è che siamo ai nostri giorni. Il dottore sembra soffrire di un disturbo post-traumatico da stress in seguito all'esperienza, e non sembra che il supporto psicologico che ha gli possa giovare molto. Per sua fortuna incontra un vecchio amico, che lo introduce ad un pazzo scatenato (**), Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), cosa che cambierà radicalmente la vita di entrambi.
I due vanno a vivere al 221/B di Baker Street, come affittuari della dolcemente svitata signora Hudson (Una Stubbs), il che, essendo cambiati i tempi, crea spesso l'equivoco che i due siano una coppia romantica, cosa che non fa nè caldo nè freddo a Sherlock ma che crea qualche dispiacere al buon dottore.
Facciamo la conoscenza dell'investigatore Lestrade (Rupert Graves) di Scotland Yard che, contrariamente all'originale, tiene in gran considerazione Holmes, e non vuole semplicemente sfruttare le sue capacità induttive come faceva l'originale. Entrano subito nell'intrigo anche il fratello maggiore di Sherlock, Mycroft, e il supercattivo Moriarty.
Il caso ha una certa somiglianza con quello originale, ma è stato frullato e adattato al punto tale che lo spoiler risulta limitato e l'episodio mantiene comunque un'alta godibilità anche dal punto dello sviluppo giallo.
Rispetto alla mia prima visione, questa volta mi sono goduto di più gli sviluppi sul versante umoristico, perché conosco meglio i personaggi, e perché questa volta l'ho visto in italiano. In negativo, la voce originale di Cumberbatch è estremamente più interessante di quella del doppiatore italiano, profonda e con un non so che di minaccioso che meglio si addice al personaggio. In italiano sembra più di avere a che fare con un teenager petulante.
(*) Uno studio in rosso. In originale A study in scarlet diventa A study in pink.
(**) Che più avanti nella narrazione ci terrà a specificare di non essere uno psicopatico bensì un sociopatico altamente funzionale.
Si parte spiegandoci che John Watson (Martin Freeman) è, come vuole la tradizione, un medico militare che è appena tornato in patria dopo aver combattuto in Afghanistan. La differenza sostanziale è che siamo ai nostri giorni. Il dottore sembra soffrire di un disturbo post-traumatico da stress in seguito all'esperienza, e non sembra che il supporto psicologico che ha gli possa giovare molto. Per sua fortuna incontra un vecchio amico, che lo introduce ad un pazzo scatenato (**), Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), cosa che cambierà radicalmente la vita di entrambi.
I due vanno a vivere al 221/B di Baker Street, come affittuari della dolcemente svitata signora Hudson (Una Stubbs), il che, essendo cambiati i tempi, crea spesso l'equivoco che i due siano una coppia romantica, cosa che non fa nè caldo nè freddo a Sherlock ma che crea qualche dispiacere al buon dottore.
Facciamo la conoscenza dell'investigatore Lestrade (Rupert Graves) di Scotland Yard che, contrariamente all'originale, tiene in gran considerazione Holmes, e non vuole semplicemente sfruttare le sue capacità induttive come faceva l'originale. Entrano subito nell'intrigo anche il fratello maggiore di Sherlock, Mycroft, e il supercattivo Moriarty.
Il caso ha una certa somiglianza con quello originale, ma è stato frullato e adattato al punto tale che lo spoiler risulta limitato e l'episodio mantiene comunque un'alta godibilità anche dal punto dello sviluppo giallo.
Rispetto alla mia prima visione, questa volta mi sono goduto di più gli sviluppi sul versante umoristico, perché conosco meglio i personaggi, e perché questa volta l'ho visto in italiano. In negativo, la voce originale di Cumberbatch è estremamente più interessante di quella del doppiatore italiano, profonda e con un non so che di minaccioso che meglio si addice al personaggio. In italiano sembra più di avere a che fare con un teenager petulante.
(*) Uno studio in rosso. In originale A study in scarlet diventa A study in pink.
(**) Che più avanti nella narrazione ci terrà a specificare di non essere uno psicopatico bensì un sociopatico altamente funzionale.
Rapunzel - L'intreccio della torre
Nel mondo della grafica computerizzata gli anni passano rapidi e impietosi. In un lustro la percezione dell'animazione di questo classico Disney (*) mi è passata da un buon livello di soddisfazione ad un odierno velato malcontento in certi passaggi in cui non ho potuto fare a meno di sollevare un sopracciglio, notando una non ben riuscita integrazione tra diversi elementi presentati sullo schermo.
La storia è basata sulla favola raccolta dai fratelli Grimm, da noi nota come Raperonzolo o Prezzemolina, che però è stata pesantemente adattata anche per farla rientrare nei canoni disneyani del tempo andato, con una netta contrapposizione tra i buoni e i cattivi, anche se questo vale solo per i personaggi principali, mentre al contorno si agitano parecchi personaggi che passano dalle schiere del male a quelle del bene.
La super cattiva della storia è Madre Gothel, una strega che assomiglia stranamente a Susan Sarandon (**), non sembra avere grandi capacità magiche ma conosce il modo di sfruttare la magia di un certo raro fiore. Per motivi che non sto a raccontare, questi poteri passano ad una bimbetta, Rapunzel, per l'appunto, che diventa perciò necessaria alla Gothel.
Segue intricata storia (***) in cui Rapunzel cerca di tornare dai suoi veri genitori, anche se per quasi tutto il tempo lei è convinta di essere figlia di Gothel, l'avventuriero Flynn Rider cerca di riprendersi una corona rubata ai genitori di Rapunzel, ma per far questo deve aiutare la stessa Rapunzel a fare un viaggio, un cavallo sapiente, Maximus, cerca di assicurare Flynn Rider alla giustizia, eccetera.
(*) Cinquantesimo della lista. Un periodo di fiacca, preceduto com'è da La principessa e il ranocchio (2009) e seguito da Winnie the Pooh (2011).
(**) Forse l'idea era farla doppiare da lei? Forse è un omaggio a qualche suo ruolo del passato? Forse stava antipatica a qualche disegnatore?
(***) Tangled è per l'appunto il titolo originale.
La storia è basata sulla favola raccolta dai fratelli Grimm, da noi nota come Raperonzolo o Prezzemolina, che però è stata pesantemente adattata anche per farla rientrare nei canoni disneyani del tempo andato, con una netta contrapposizione tra i buoni e i cattivi, anche se questo vale solo per i personaggi principali, mentre al contorno si agitano parecchi personaggi che passano dalle schiere del male a quelle del bene.
La super cattiva della storia è Madre Gothel, una strega che assomiglia stranamente a Susan Sarandon (**), non sembra avere grandi capacità magiche ma conosce il modo di sfruttare la magia di un certo raro fiore. Per motivi che non sto a raccontare, questi poteri passano ad una bimbetta, Rapunzel, per l'appunto, che diventa perciò necessaria alla Gothel.
Segue intricata storia (***) in cui Rapunzel cerca di tornare dai suoi veri genitori, anche se per quasi tutto il tempo lei è convinta di essere figlia di Gothel, l'avventuriero Flynn Rider cerca di riprendersi una corona rubata ai genitori di Rapunzel, ma per far questo deve aiutare la stessa Rapunzel a fare un viaggio, un cavallo sapiente, Maximus, cerca di assicurare Flynn Rider alla giustizia, eccetera.
(*) Cinquantesimo della lista. Un periodo di fiacca, preceduto com'è da La principessa e il ranocchio (2009) e seguito da Winnie the Pooh (2011).
(**) Forse l'idea era farla doppiare da lei? Forse è un omaggio a qualche suo ruolo del passato? Forse stava antipatica a qualche disegnatore?
(***) Tangled è per l'appunto il titolo originale.
L'era glaciale
Ventimila anni fa, in un bizzarro universo alternativo al nostro, si forma una ancor più bizzarra comitiva di animali che finiranno, contro tutte le loro aspettative, per diventare amiconi. Uno stonatissimo bradipo, Sid, cerca disperatamente di convincere un mammut solitario, Manny, a sopportare la sua presenza, in modo da evitare la giusta rappresaglia di due bestioni (*) a cui ha rovinato la colazione.
Nel frattempo, una gang di tigri dai denti a sciabola attacca un accampamento di umani come episodio della guerra tra le due specie per il predominio sul territorio. Curiosamente, invece della distruzione del nemico, le tigri vogliono "solo" rapire il figlio del capo tribù (**) per poi ucciderlo in un secondo tempo. Il convoluto piano fallisce per il sacrificio della madre del piccolo, e così Diego, il secondo in comando tra le tigri, deve sbattersi per recuperarlo, al fine di mantenere il suo grado nel gruppo.
Il bimbo però finisce nelle poco affidabili mani di Sid, e Manny, forse per antipatia nei confronti delle tigri, decide alla fine di supportarlo nella missione di riportarlo alla sua tribù. Diego cerca di agire di astuzia, imbastendo un doppio gioco che lo porta ad avvicinarsi sempre più agli altri due, così che alla fine ripudierà i suoi simili.
Intermezzo slapstick fornito da Scrat, un proto scoiattolo con una attrazione fatale per le ghiande.
Il grande successo della pellicola ha causato una lunga serie di sequel. Non ho avuto il coraggio di vedere l'ultimo dei quali, In rotta di collisione (2016), anche perché il quarto capitolo, Continenti alla deriva (2012), mi sembrava aver già fatto il salto dello squalo.
(*) Qualcosa di simile a dei rinoceronti.
(**) Che sembra essere l'unico ad avere una donna e un figlio.
Nel frattempo, una gang di tigri dai denti a sciabola attacca un accampamento di umani come episodio della guerra tra le due specie per il predominio sul territorio. Curiosamente, invece della distruzione del nemico, le tigri vogliono "solo" rapire il figlio del capo tribù (**) per poi ucciderlo in un secondo tempo. Il convoluto piano fallisce per il sacrificio della madre del piccolo, e così Diego, il secondo in comando tra le tigri, deve sbattersi per recuperarlo, al fine di mantenere il suo grado nel gruppo.
Il bimbo però finisce nelle poco affidabili mani di Sid, e Manny, forse per antipatia nei confronti delle tigri, decide alla fine di supportarlo nella missione di riportarlo alla sua tribù. Diego cerca di agire di astuzia, imbastendo un doppio gioco che lo porta ad avvicinarsi sempre più agli altri due, così che alla fine ripudierà i suoi simili.
Intermezzo slapstick fornito da Scrat, un proto scoiattolo con una attrazione fatale per le ghiande.
Il grande successo della pellicola ha causato una lunga serie di sequel. Non ho avuto il coraggio di vedere l'ultimo dei quali, In rotta di collisione (2016), anche perché il quarto capitolo, Continenti alla deriva (2012), mi sembrava aver già fatto il salto dello squalo.
(*) Qualcosa di simile a dei rinoceronti.
(**) Che sembra essere l'unico ad avere una donna e un figlio.
Ritorno alla vita
Inesplicabile titolo italiano che adatta un curioso Every thing will be fine (*) che forse ha lo scopo di rassicurare lo spettatore, che per gran parte del tempo si deve misurare con una storia (Bjørn Olaf Johannessen) che non si è ben sicuri dove stia andando a parare.
Si narra di uno scrittore, tal Tomas Eldan (James Franco), che sembra essere sin dall'inizio piuttosto depresso e con notevoli difficoltà nell'interagire con altre persone. Risolverà (forse) i suoi problemi proprio nelle ultime battute, e quindi noi ci dobbiamo preparare a sorbire le peripezie di una persona che usa come mezzo espressivo principale la scrittura. La regia (Wim Wenders) è molto intensa, e l'uso del 3D, in particolare nel finale, dove viene usato per darci un idea di quello che può essere il cambiamento del modo di vedere di chi riesce a liberarsi di un qualcosa che lo divora da dentro, è di una maestria che pochi possono vantare.
La meccanica dello svolgimento dei fatti mi ha inizialmente creato un collegamento a Rabbit hole (2010) ma le somiglianze sono superficiali. Più avanti nella visione ho pensato a
Molto forte, incredibilmente vicino (2011) di di Stephen Daldry, e qui direi che il double bill ci starebbe meglio. Anche se non so chi se la sentirebbe di affrontarlo.
Inizialmente Tomas sta con Sara (Rachel McAdams), lui è estremamente chiuso, lei, probabilmente per reazione, estremamente petulante, al punto da essere la inconsapevole scintilla che causerà una catastrofe. Questa porterà al definitivo allontanamento, ma dopo uno snervante tira e molla, della coppia, e un irrisolto avvicinamento di Tomas a Kate (Charlotte Gainsbourg) e al di lei figlio, Christopher. Passano gli anni, Tomas mantiene il suo difficile carattere, forse causato da una pesante situazione familiare, ne abbiamo qualche cenno per mezzo di quello che sentiamo dire dal padre di Tomas (Patrick Bauchau), nonostante questo riesce a costruirsi un nuovo rapporto con la bella Ann (Marie-Josée Croze) che porta in dote una simpatica figlia (Julia Sarah Stone).
Ma anche con questa nuova famiglia, le cose per Tomas non sembrano andare bene. Ann resta molto perplessa nel vedere come Tomas non riesca ad empatizzare con gli altri in una situazione drammatica, e Tomas non capisce il suo sconcerto, anche perché lui si è comportato in modo esemplare, forse anche salvando una vita. Vediamo ancora come Tomas non riesca proprio a capire quanto male abbia fatto a Sara, che reincontra molti anni dopo la loro rottura, e gli schiaffi (**) che lei gli appioppa lo colgono così di sorpresa da risultare quasi un siparietto comico.
Fortuna vuole che nel frattempo Christopher è cresciuto, e ha una scontrosa e difficile interazione con Tomas. Sembrerebbe quasi che questo episodio spinga la storia nella direzione della tragedia ma, poi, chissà come mai, va tutto bene.
(*) Andrà tutto bene. Ma Every thing dovrebbe essere Everything. Perché diamine spezzarlo in due?
(**) Invero meritati.
Si narra di uno scrittore, tal Tomas Eldan (James Franco), che sembra essere sin dall'inizio piuttosto depresso e con notevoli difficoltà nell'interagire con altre persone. Risolverà (forse) i suoi problemi proprio nelle ultime battute, e quindi noi ci dobbiamo preparare a sorbire le peripezie di una persona che usa come mezzo espressivo principale la scrittura. La regia (Wim Wenders) è molto intensa, e l'uso del 3D, in particolare nel finale, dove viene usato per darci un idea di quello che può essere il cambiamento del modo di vedere di chi riesce a liberarsi di un qualcosa che lo divora da dentro, è di una maestria che pochi possono vantare.
La meccanica dello svolgimento dei fatti mi ha inizialmente creato un collegamento a Rabbit hole (2010) ma le somiglianze sono superficiali. Più avanti nella visione ho pensato a
Molto forte, incredibilmente vicino (2011) di di Stephen Daldry, e qui direi che il double bill ci starebbe meglio. Anche se non so chi se la sentirebbe di affrontarlo.
Inizialmente Tomas sta con Sara (Rachel McAdams), lui è estremamente chiuso, lei, probabilmente per reazione, estremamente petulante, al punto da essere la inconsapevole scintilla che causerà una catastrofe. Questa porterà al definitivo allontanamento, ma dopo uno snervante tira e molla, della coppia, e un irrisolto avvicinamento di Tomas a Kate (Charlotte Gainsbourg) e al di lei figlio, Christopher. Passano gli anni, Tomas mantiene il suo difficile carattere, forse causato da una pesante situazione familiare, ne abbiamo qualche cenno per mezzo di quello che sentiamo dire dal padre di Tomas (Patrick Bauchau), nonostante questo riesce a costruirsi un nuovo rapporto con la bella Ann (Marie-Josée Croze) che porta in dote una simpatica figlia (Julia Sarah Stone).
Ma anche con questa nuova famiglia, le cose per Tomas non sembrano andare bene. Ann resta molto perplessa nel vedere come Tomas non riesca ad empatizzare con gli altri in una situazione drammatica, e Tomas non capisce il suo sconcerto, anche perché lui si è comportato in modo esemplare, forse anche salvando una vita. Vediamo ancora come Tomas non riesca proprio a capire quanto male abbia fatto a Sara, che reincontra molti anni dopo la loro rottura, e gli schiaffi (**) che lei gli appioppa lo colgono così di sorpresa da risultare quasi un siparietto comico.
Fortuna vuole che nel frattempo Christopher è cresciuto, e ha una scontrosa e difficile interazione con Tomas. Sembrerebbe quasi che questo episodio spinga la storia nella direzione della tragedia ma, poi, chissà come mai, va tutto bene.
(*) Andrà tutto bene. Ma Every thing dovrebbe essere Everything. Perché diamine spezzarlo in due?
(**) Invero meritati.
Kubo e la spada magica
Quarto lungometraggio (*) della Laika, dopo Coraline e la porta magica (2009), ParaNorman (2012) e Boxtrolls - Le scatole magiche (2014).
Questa volta si è scelto di ambientare la storia in un Giappone medioevale fantastico, forse per omaggiare lo Studio Ghibli, in cui i normali cittadini non si inquietano se accadono fenomeni inspiegabili, anzi, li accettano come se facessero parte della loro quotidianità. Numerosi i riferimenti ad altre narrazioni fantasy, tra cui m'è sembrata spiccare quelli alla saga di Harry Potter (**), che comunque sono al servizio di una storia originale ben delineata, con una propria forte identità e un messaggio ben chiaro.
Il protagonista è Kubo, un ragazzino che è figlio di una specie di strega pentita (***) e di un potente samurai (°). I due, nel concepirlo, hanno fatto arrabbiare così tanto il padre di lei, Raiden (°°), che ha scatenato contro la coppia le sue due altre figlie (°°°) con lo scopo di accecare Kubo, in modo da staccarlo dal nostro mondo per avvicinarlo al suo. Il piano riesce solo a metà, e Kubo è portato in salvo dalla madre in una località recondita.
Il piccolo Kubo diventa un valente cantastorie, grazie anche al fatto che la forza dentro di lui è grande (#) e quindi riesce a creare origami che prendono vita al suono della sua chitarra (##). Un caso particolare fa sì che lui trasgredisca a un comandamento materno, e causi quindi l'arrivo delle sue terribili zie, col che parte per davvero la vicenda, in cui lui dovrà recuperare un'armatura magica e scontrarsi con suo nonno.
Colonna sonora giapponesizzante di Dario Marianelli impreziosita da una versione in tema di While my guitar gently weeps, proprio quella di George Harrison, cantata da Regina Spektor sui titoli di coda.
(*) Tutti e quattro realizzati in stop-motion con l'aggiunta di effetti speciali in CGI.
(**) La voce inglese dell'antagonista è quella di Ralph Fiennes, tanto per dirne una.
(***) Disegnata pensando alla voce di Charlize Theron.
(°) Matthew McConaughey, che per noi diventa Neri Marcorè.
(°°) Ralph Fiennes
(°°°) Che parlano nell'originale entrambe con la voce di Rooney Mara.
(#) Un po' Harry Potter un po' Luke Skywalker.
(##) In realtà trattasi di strumento giapponese a tre corde, da cui il titolo originale del film, Kubo and the two strings, che è molto significativo nello svolgimento della trama, mentre la spada magica ha una parte trascurabile.
Questa volta si è scelto di ambientare la storia in un Giappone medioevale fantastico, forse per omaggiare lo Studio Ghibli, in cui i normali cittadini non si inquietano se accadono fenomeni inspiegabili, anzi, li accettano come se facessero parte della loro quotidianità. Numerosi i riferimenti ad altre narrazioni fantasy, tra cui m'è sembrata spiccare quelli alla saga di Harry Potter (**), che comunque sono al servizio di una storia originale ben delineata, con una propria forte identità e un messaggio ben chiaro.
Il protagonista è Kubo, un ragazzino che è figlio di una specie di strega pentita (***) e di un potente samurai (°). I due, nel concepirlo, hanno fatto arrabbiare così tanto il padre di lei, Raiden (°°), che ha scatenato contro la coppia le sue due altre figlie (°°°) con lo scopo di accecare Kubo, in modo da staccarlo dal nostro mondo per avvicinarlo al suo. Il piano riesce solo a metà, e Kubo è portato in salvo dalla madre in una località recondita.
Il piccolo Kubo diventa un valente cantastorie, grazie anche al fatto che la forza dentro di lui è grande (#) e quindi riesce a creare origami che prendono vita al suono della sua chitarra (##). Un caso particolare fa sì che lui trasgredisca a un comandamento materno, e causi quindi l'arrivo delle sue terribili zie, col che parte per davvero la vicenda, in cui lui dovrà recuperare un'armatura magica e scontrarsi con suo nonno.
Colonna sonora giapponesizzante di Dario Marianelli impreziosita da una versione in tema di While my guitar gently weeps, proprio quella di George Harrison, cantata da Regina Spektor sui titoli di coda.
(*) Tutti e quattro realizzati in stop-motion con l'aggiunta di effetti speciali in CGI.
(**) La voce inglese dell'antagonista è quella di Ralph Fiennes, tanto per dirne una.
(***) Disegnata pensando alla voce di Charlize Theron.
(°) Matthew McConaughey, che per noi diventa Neri Marcorè.
(°°) Ralph Fiennes
(°°°) Che parlano nell'originale entrambe con la voce di Rooney Mara.
(#) Un po' Harry Potter un po' Luke Skywalker.
(##) In realtà trattasi di strumento giapponese a tre corde, da cui il titolo originale del film, Kubo and the two strings, che è molto significativo nello svolgimento della trama, mentre la spada magica ha una parte trascurabile.
Genius
Fino all'altro giorno, se pensavo ad un personaggio che di mestiere fa l'editor, mi veniva in mente solo il dottor Cavedagna in Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino. Ancor più difficile, pensavo, mettere un carattere di questo genere, che necessariamente lavora sullo sfondo, al centro di una narrazione, specie se filmica. E invece l'operazione riesce piuttosto bene a Michael Grandage, acclamato regista treatrale inglese qui alla sua prima prova cinematografica.
La sceneggiatura (John Logan) è basata sulla biografia di Thomas Wolfe (*) che però è stata pesantemente editata per evidenziare la relazione tra lo scrittore e Max Perkins. A vedere il film sembrerebbe che Wolfe abbia dato alle stampe solo due romanzi, e tutta la sua vita risulta enormemente semplificata e piegata alle esigenze del racconto. Se interessati a come stanno davvero le cose, conviene leggere il testo di partenza.
Thomas Wolfe (Jude Law) è un genio letterario. Il problema è che il romanzo che ha prodotto è fuori dagli schemi editoriali del tempo, e nessuna casa editrice vuole rischiare di scottarsi con un malloppone da mille pagine. Per fortuna, e perseveranza della sua musa e amante Aline Bernstein (Nicole Kidman **), il faldone arriva nelle mani di Maxwell Perkins (Colin Firth), editor noto agli addetti ai lavori del tempo per curare la redazione di gente del calibro di Scott Fitzgerald (Guy Pearce) e Ernest Hemingway (Dominic West). Max, ha un carattere decisamente introverso, il che, vediamo, lo porta a trascurare moglie (Laura Linney) e nidiata di figlie, ma lo aiuta a focalizzarsi sulla lettura dei testi su cui lavora, che divora e riesce ad assorbire con una facilità sorprendente. La sua difficoltà ad aprirsi viene rappresentata visivamente con quello che era un tratto distintivo del vero Perkins, ovvero la tendenza a non togliersi mai il cappello, che qui viene estremizzata al punto che lo vediamo a capo scoperto solo nel finale, quando finalmente riesce a lasciare che le emozioni fluiscano senza filtri.
Max si rende conto della genialità di Tom, e i due riescono ad integrare i loro caratteri alla perfezione. Aiutati anche dal fatto che Max vede in Tom come il figlio maschio che non ha mai avuto, e Tom nei Perkins la famiglia che gli manca così tanto. I problemi vengono dal fatto che i due tendono a trascurare tutto il resto per il loro lavoro. Max se la cava meno peggio, grazie al buon rapporto con la moglie, Tom si mette in una situazione più delicata, sia per la sua irruenza e scarsezza di empatia, sia per la tempestosità della relazione con Aline.
I casi della vita causeranno una fine inaspettata, e in un certo senso deludente, alla vicenda.
(*) Scritta da A. Scott Berg, che ha anche partecipato alla produzione del film.
(**) Ci vorrebbe un altro film per raccontare la loro relazione. Qui, giustamente, s'è deciso di accennarla molto velocemente. Noto solo che la differenza di età tra i due è stata molto limata. Il primo candidato per il ruolo di Wolfe era Michael Fassbender, di qualche anno più giovane, e forse era stata pensata una Aline più attempata.
La sceneggiatura (John Logan) è basata sulla biografia di Thomas Wolfe (*) che però è stata pesantemente editata per evidenziare la relazione tra lo scrittore e Max Perkins. A vedere il film sembrerebbe che Wolfe abbia dato alle stampe solo due romanzi, e tutta la sua vita risulta enormemente semplificata e piegata alle esigenze del racconto. Se interessati a come stanno davvero le cose, conviene leggere il testo di partenza.
Thomas Wolfe (Jude Law) è un genio letterario. Il problema è che il romanzo che ha prodotto è fuori dagli schemi editoriali del tempo, e nessuna casa editrice vuole rischiare di scottarsi con un malloppone da mille pagine. Per fortuna, e perseveranza della sua musa e amante Aline Bernstein (Nicole Kidman **), il faldone arriva nelle mani di Maxwell Perkins (Colin Firth), editor noto agli addetti ai lavori del tempo per curare la redazione di gente del calibro di Scott Fitzgerald (Guy Pearce) e Ernest Hemingway (Dominic West). Max, ha un carattere decisamente introverso, il che, vediamo, lo porta a trascurare moglie (Laura Linney) e nidiata di figlie, ma lo aiuta a focalizzarsi sulla lettura dei testi su cui lavora, che divora e riesce ad assorbire con una facilità sorprendente. La sua difficoltà ad aprirsi viene rappresentata visivamente con quello che era un tratto distintivo del vero Perkins, ovvero la tendenza a non togliersi mai il cappello, che qui viene estremizzata al punto che lo vediamo a capo scoperto solo nel finale, quando finalmente riesce a lasciare che le emozioni fluiscano senza filtri.
Max si rende conto della genialità di Tom, e i due riescono ad integrare i loro caratteri alla perfezione. Aiutati anche dal fatto che Max vede in Tom come il figlio maschio che non ha mai avuto, e Tom nei Perkins la famiglia che gli manca così tanto. I problemi vengono dal fatto che i due tendono a trascurare tutto il resto per il loro lavoro. Max se la cava meno peggio, grazie al buon rapporto con la moglie, Tom si mette in una situazione più delicata, sia per la sua irruenza e scarsezza di empatia, sia per la tempestosità della relazione con Aline.
I casi della vita causeranno una fine inaspettata, e in un certo senso deludente, alla vicenda.
(*) Scritta da A. Scott Berg, che ha anche partecipato alla produzione del film.
(**) Ci vorrebbe un altro film per raccontare la loro relazione. Qui, giustamente, s'è deciso di accennarla molto velocemente. Noto solo che la differenza di età tra i due è stata molto limata. Il primo candidato per il ruolo di Wolfe era Michael Fassbender, di qualche anno più giovane, e forse era stata pensata una Aline più attempata.
Mulan
Stanno già lavorando alla versione live action che dovrebbe uscire venti anni dopo essere stato il trentaseiesimo classico Disney (*). Considerando i tempi, la storia ha una impostazione quasi sperimentale, con la protagonista che agisce per buona parte del tempo en travesti.
Mulan è una giovinetta cinese a cui mal si attaglia la rigidezza della società in cui vive. Succede però che gli unni passano la Grande Muraglia e puntano decisi verso la capitale. Ogni famiglia è tenuta a partecipare alla difesa del Paese, fornendo una persona all'esercito. Ma Mulan è figlia unica e il padre è messo male, la vita militare gli potrebbe essere fatale. Mulan decide così di fingersi uomo e partire per la guerra. In suo soccorso arriva uno scarsissimo draghetto, Mushu e un grillo che si assume porti fortuna.
Non è chiarissimo nemmeno a Mulan cosa ella ci faccia nell'esercito cinese, difende l'onore di famiglia e la vita del padre o cerca un modo di realizzarsi? Un bizzarro percorso evolutivo la porterà, forse, a capirci qualcosa di più.
Nel finale casa Disney punta comunque su una normalizzazione della vicenda.
(*) Dopo Hercules (1997) e prima di Tarzan (1999).
Mulan è una giovinetta cinese a cui mal si attaglia la rigidezza della società in cui vive. Succede però che gli unni passano la Grande Muraglia e puntano decisi verso la capitale. Ogni famiglia è tenuta a partecipare alla difesa del Paese, fornendo una persona all'esercito. Ma Mulan è figlia unica e il padre è messo male, la vita militare gli potrebbe essere fatale. Mulan decide così di fingersi uomo e partire per la guerra. In suo soccorso arriva uno scarsissimo draghetto, Mushu e un grillo che si assume porti fortuna.
Non è chiarissimo nemmeno a Mulan cosa ella ci faccia nell'esercito cinese, difende l'onore di famiglia e la vita del padre o cerca un modo di realizzarsi? Un bizzarro percorso evolutivo la porterà, forse, a capirci qualcosa di più.
Nel finale casa Disney punta comunque su una normalizzazione della vicenda.
(*) Dopo Hercules (1997) e prima di Tarzan (1999).
Whiskey Tango Foxtrot
Kim Baker (Tina Fey) ha un oscuro lavoretto in una televisione americana a New York, uno sfuggente fidanzato e, quel che è peggio, sembra ormai rassegnata a quella vita. Capita però la guerra in Afghanistan, anche la sua rete deve coprire le notizie con una reporter sul posto e nessuno ci vuole andare. Dopo breve meditazione, decide di prendere l'occasione e vedere cosa le riserva.
L'impatto con la realtà è al limite del catastrofico, con tutto quel che si può immaginare che capiti a dei civili scaraventati in una zona di guerra (*), ma vediamo che Kim, da buon essere umano, si adatta rapidamente alla situazione e finisce per trovare un suo equilibrio. Al punto che l'assegnamento, che doveva essere limitato a tre mesi, sembra estendersi indefinitamente.
Ci sarà però un'altra scena chiave, in cui l'interprete di Kim (Christopher Abbott) le dice, senza girarci troppo attorno, che lei si è evidentemente presa una dipendenza da vita pericolosa (**). Per sua fortuna, lei ci pensa, elabora, comprende e decide di tornare a qualcosa di meno irragionevole.
Pur essendo diretto dal dinamico duo costituito da Glenn Ficarra e John Requa, questo andrebbe considerato a tutti gli effetti un film della Fey, che non solo interpreta la protagonista assoluta (***) ma è anche produttrice. E la sceneggiatura è scritta da un suo fedelissimo, Robert Carlock. E in effetti la distanza da altre cose di Ficarra & Requa (°) è sostanziale. In negativo manca di consistenza, come se la produzione fosse stata indecisa sull'indirizzo da prendere, ci sono momenti in cui sembra di andare verso Animal house (1978) di John Landis, vedasi anche l'indirizzo che non è altro che la sigla WTF (°°) riportata usando lo spelling militare. In positivo c'è una storia interessante, in cui vediamo il punto di vista di una donna in un ambiente che di femminile ha poco. Si impone il confronto con Zero dark thirty (2012) della Bigelow. Là la protagonista arrivava a negare la sua femminilità (°°°) allo scopo di raggiungere l'obiettivo che si era prefissa. Qui Kim non rinnega il suo essere donna, il che la porterà anche a risolvere un piccolo mistero la cui soluzione era preclusa ai maschi.
Tra i comprimari, Margot Robbie è la giornalista di guerra che mostra un lato più mascolino nell'affrontare le situazioni; Martin Freeman il giornalista freelance scozzese (Iain) che parte malissimo, sembra cambiare, poi ricade e infine chissà. Tra Iain e Kim vediamo il prologo di una scena di sesso tra le più divertenti che io mi ricordi. Alfred Molina è un politico afgano in crescita che ha una attrazione per Kim; e Billy Bob Thornton è un memorabile generale dall'eloquio molto fiorito.
(*) Vedasi MASH (1970), modello ineludibile per film di questo genere.
(**) Mi è venuto naturale citare Un anno vissuto pericolosamente (1982) di Peter Weir.
(***) Al resto del cast, che pure funziona molto bene, restano solo le briciole, e praticamente nessun altro ha la possibilità di dare un rilievo al suo personaggio.
(°) Crazy, stupid, love (2011), ad esempio.
(°°) What The Fuck.
(°°°) Definendosi con orgoglio motherfucker.
L'impatto con la realtà è al limite del catastrofico, con tutto quel che si può immaginare che capiti a dei civili scaraventati in una zona di guerra (*), ma vediamo che Kim, da buon essere umano, si adatta rapidamente alla situazione e finisce per trovare un suo equilibrio. Al punto che l'assegnamento, che doveva essere limitato a tre mesi, sembra estendersi indefinitamente.
Ci sarà però un'altra scena chiave, in cui l'interprete di Kim (Christopher Abbott) le dice, senza girarci troppo attorno, che lei si è evidentemente presa una dipendenza da vita pericolosa (**). Per sua fortuna, lei ci pensa, elabora, comprende e decide di tornare a qualcosa di meno irragionevole.
Pur essendo diretto dal dinamico duo costituito da Glenn Ficarra e John Requa, questo andrebbe considerato a tutti gli effetti un film della Fey, che non solo interpreta la protagonista assoluta (***) ma è anche produttrice. E la sceneggiatura è scritta da un suo fedelissimo, Robert Carlock. E in effetti la distanza da altre cose di Ficarra & Requa (°) è sostanziale. In negativo manca di consistenza, come se la produzione fosse stata indecisa sull'indirizzo da prendere, ci sono momenti in cui sembra di andare verso Animal house (1978) di John Landis, vedasi anche l'indirizzo che non è altro che la sigla WTF (°°) riportata usando lo spelling militare. In positivo c'è una storia interessante, in cui vediamo il punto di vista di una donna in un ambiente che di femminile ha poco. Si impone il confronto con Zero dark thirty (2012) della Bigelow. Là la protagonista arrivava a negare la sua femminilità (°°°) allo scopo di raggiungere l'obiettivo che si era prefissa. Qui Kim non rinnega il suo essere donna, il che la porterà anche a risolvere un piccolo mistero la cui soluzione era preclusa ai maschi.
Tra i comprimari, Margot Robbie è la giornalista di guerra che mostra un lato più mascolino nell'affrontare le situazioni; Martin Freeman il giornalista freelance scozzese (Iain) che parte malissimo, sembra cambiare, poi ricade e infine chissà. Tra Iain e Kim vediamo il prologo di una scena di sesso tra le più divertenti che io mi ricordi. Alfred Molina è un politico afgano in crescita che ha una attrazione per Kim; e Billy Bob Thornton è un memorabile generale dall'eloquio molto fiorito.
(*) Vedasi MASH (1970), modello ineludibile per film di questo genere.
(**) Mi è venuto naturale citare Un anno vissuto pericolosamente (1982) di Peter Weir.
(***) Al resto del cast, che pure funziona molto bene, restano solo le briciole, e praticamente nessun altro ha la possibilità di dare un rilievo al suo personaggio.
(°) Crazy, stupid, love (2011), ad esempio.
(°°) What The Fuck.
(°°°) Definendosi con orgoglio motherfucker.
The hours
La prima volta che ho visto questo film non ci ho capito molto. Ne ho apprezzato la qualità ma mi sono fatto distrarre da dettagli secondari, quali il naso posticcio della Kidman, e ho mancato di empatizzare con i personaggi, credo fondamentalmente per i loro problemi sessuali. Per fortuna il tempo non è passato inutilmente e questa seconda visione mi ha trovato più sul pezzo, con il risultato che me la sono goduta di più.
Pur essendo un film molto al femminile, con un eccezionale terzetto di protagoniste (*), lo leggerei come la storia di Richard Brown (Ed Harris) che tiene insieme le storie delle tre donne. Seguiamo infatti in parallelo la vicenda di Virginia Woolf (Nicole Kidman) che sta scrivendo La signora Dalloway preparandosi anche a lasciare la vita; Laura Brown (Julianne Moore) è invece una casalinga americana depressa che sembra avere l'unica consolazione nella lettura proprio di quel libro della Woolf; Clarissa Vaughan (Meryl Streep) è l'agente letterario di Brown, con cui ha convissuto, prima di dare una svolta alla sua vita e mettersi assieme a Sally Lester (Allison Janney).
Richard è il figlio di Laura, ha appena scritto un romanzo che ricalca le struttura de La signora Dalloway, è sul punto di morire causa AIDS, e vede nella devota Clarissa una reincarnazione dell'eroina del romanzo della Woolf.
Ottimo l'adattamento per lo schermo, grazie sia alla sceneggiatura di David Hare sia alla regia di Stephen Daldry (**). Eccellente la colonna sonora di Philip Glass.
(*) Tra gli innumerevoli premi, Kidman, Moore e Streep hanno condiviso l'orso d'argento per la migliore attrice.
(**) I due hanno collaborato anche per The reader - A voce alta.
Pur essendo un film molto al femminile, con un eccezionale terzetto di protagoniste (*), lo leggerei come la storia di Richard Brown (Ed Harris) che tiene insieme le storie delle tre donne. Seguiamo infatti in parallelo la vicenda di Virginia Woolf (Nicole Kidman) che sta scrivendo La signora Dalloway preparandosi anche a lasciare la vita; Laura Brown (Julianne Moore) è invece una casalinga americana depressa che sembra avere l'unica consolazione nella lettura proprio di quel libro della Woolf; Clarissa Vaughan (Meryl Streep) è l'agente letterario di Brown, con cui ha convissuto, prima di dare una svolta alla sua vita e mettersi assieme a Sally Lester (Allison Janney).
Richard è il figlio di Laura, ha appena scritto un romanzo che ricalca le struttura de La signora Dalloway, è sul punto di morire causa AIDS, e vede nella devota Clarissa una reincarnazione dell'eroina del romanzo della Woolf.
Ottimo l'adattamento per lo schermo, grazie sia alla sceneggiatura di David Hare sia alla regia di Stephen Daldry (**). Eccellente la colonna sonora di Philip Glass.
(*) Tra gli innumerevoli premi, Kidman, Moore e Streep hanno condiviso l'orso d'argento per la migliore attrice.
(**) I due hanno collaborato anche per The reader - A voce alta.
Infernet
A Verona, una serie di storie si incrociano lasciando presagire una catastrofe che però, abbastanza inspiegabilmente, viene ammorbidita da un finale relativamente rassicurante.
Don Luciano (Remo Girone) insegna in una classe turbolenta stile Il seme della violenza (1955) ma aggiornato alle nuove tecnologie. Il pugno di ferro con cui tiene a bada i ragazzi è tale da spingerlo a sequestrare il cellulare al più scalmanato della combriccola, anche se solo per pochi secondi. Cosa che però sembra sufficiente per gettare il ragazzotto nel panico. Finita la lezione, Don Luciano se ne guarda bene da intervenire in un atto di bullismo dello stesso teppistello, forse perché gli sembra di aver già fatto la sua parte, o forse perché ha fretta di andare ad un poco chiaro evento in favore di migranti.
Il bullizzato, d'altronde, si fa giustizia da sè, essendo dotato di irrealistiche capacità informatiche, riesce addirittura a incendiare a distanza il pc di chi lo ha vessato, cosa che finisce per farlo apprezzare dai delinquenti in erba, che lo accolgono nel loro gruppo dedito a reati di varia natura.
Nel frattempo un architetto, Giorgio (Ricky Tognazzi) incontra un suo vecchio amico, il tassista Alessio (Massimo Olcese), di cui nota praticamente solo la figlia, Nancy, la quale, all'insaputa del padre, si prostituisce e ricatta pure i clienti per arrotondare le tariffe. Giorgio, nonostante capisca al volo le tendenze della piccola, non dice o fa nulla in proposito, anche perché ha già i suoi problemi a cui pensare, nella veste di una dipendenza da gioco d'azzardo che lo ha riempito di debiti. La moglie, Martina (Daniela Poggi) sa qualcosa, ma pensa di riuscire a tenere sotto controllo la cosa. I due sembrano anche essere genitori molto distratti, essendo loro figlio uno dei bulli di cui sopra.
Ad aiutare come testimonial Don Luciano nelle sue attività c'è un attore di secondo piano, noto per qualche serie televisiva, tale Claudio Ruggeri, interpretato con una certa autoironia da Roberto Farnesi, che però pare partecipare più come modo per promuovere se stesso, e per dar retta alla fidanzata (Elisabetta Pellini), che per un reale interesse personale. Scopriremo più avanti che è attratto da avventure sessuali con ragazzine molto giovani.
Segue una lunga serie di fatti che sembrano presi di peso dalla cronaca nera (*), con l'aggiunta di una crociera sul Mediterraneo di Giorgio e Martina, rapidamente interrotta, e che mi è sembrata avere l'unico scopo di dare spazio ad un munifico sponsor e a un cameo di Katia Ricciarelli.
Giuseppe Ferlito, che ha diretto e co-scritto il tutto, non mi è sembrato essere all'altezza della situazione. La storia m'è risultata indigesta, come pure il livello medio della recitazione, da cui si è relativamente salvato Girone, grazie al mestiere. Gli altri nomi noti se la sono cavicchiata, facendo rimpiangere l'assenza di una regia più presente. Decisamente sottotono Tognazzi, che del resto non direi sia nel suo periodo migliore.
Il riferimento ad internet è poco rilevante. Sarebbe facile spostare l'azione nel passato togliendo ogni accenno a tecnologie moderne. Al punto che il film mi ha ricordato cose che si facevano svariati decenni fa, quando la censura aveva allargato le maglie ma era ancora presente, e allora uscivano film che strizzavano l'occhio nella direzione di Arancia meccanica (1971) ma non avevano nessuna pretesa autoriale, mirando solo a solleticare i bassi istinti. Chiaramente oggi non c'è più questo problema, e dunque mi vien da pensare che l'atteggiamento ambivalente tenuto qui sia dovuto solo ad una confusione creativa.
(*) Violenze, anche sessuali, qualche morto, prostituzione, anche minorile, ricatti, atti di vandalismo, furti, eccetera.
Don Luciano (Remo Girone) insegna in una classe turbolenta stile Il seme della violenza (1955) ma aggiornato alle nuove tecnologie. Il pugno di ferro con cui tiene a bada i ragazzi è tale da spingerlo a sequestrare il cellulare al più scalmanato della combriccola, anche se solo per pochi secondi. Cosa che però sembra sufficiente per gettare il ragazzotto nel panico. Finita la lezione, Don Luciano se ne guarda bene da intervenire in un atto di bullismo dello stesso teppistello, forse perché gli sembra di aver già fatto la sua parte, o forse perché ha fretta di andare ad un poco chiaro evento in favore di migranti.
Il bullizzato, d'altronde, si fa giustizia da sè, essendo dotato di irrealistiche capacità informatiche, riesce addirittura a incendiare a distanza il pc di chi lo ha vessato, cosa che finisce per farlo apprezzare dai delinquenti in erba, che lo accolgono nel loro gruppo dedito a reati di varia natura.
Nel frattempo un architetto, Giorgio (Ricky Tognazzi) incontra un suo vecchio amico, il tassista Alessio (Massimo Olcese), di cui nota praticamente solo la figlia, Nancy, la quale, all'insaputa del padre, si prostituisce e ricatta pure i clienti per arrotondare le tariffe. Giorgio, nonostante capisca al volo le tendenze della piccola, non dice o fa nulla in proposito, anche perché ha già i suoi problemi a cui pensare, nella veste di una dipendenza da gioco d'azzardo che lo ha riempito di debiti. La moglie, Martina (Daniela Poggi) sa qualcosa, ma pensa di riuscire a tenere sotto controllo la cosa. I due sembrano anche essere genitori molto distratti, essendo loro figlio uno dei bulli di cui sopra.
Ad aiutare come testimonial Don Luciano nelle sue attività c'è un attore di secondo piano, noto per qualche serie televisiva, tale Claudio Ruggeri, interpretato con una certa autoironia da Roberto Farnesi, che però pare partecipare più come modo per promuovere se stesso, e per dar retta alla fidanzata (Elisabetta Pellini), che per un reale interesse personale. Scopriremo più avanti che è attratto da avventure sessuali con ragazzine molto giovani.
Segue una lunga serie di fatti che sembrano presi di peso dalla cronaca nera (*), con l'aggiunta di una crociera sul Mediterraneo di Giorgio e Martina, rapidamente interrotta, e che mi è sembrata avere l'unico scopo di dare spazio ad un munifico sponsor e a un cameo di Katia Ricciarelli.
Giuseppe Ferlito, che ha diretto e co-scritto il tutto, non mi è sembrato essere all'altezza della situazione. La storia m'è risultata indigesta, come pure il livello medio della recitazione, da cui si è relativamente salvato Girone, grazie al mestiere. Gli altri nomi noti se la sono cavicchiata, facendo rimpiangere l'assenza di una regia più presente. Decisamente sottotono Tognazzi, che del resto non direi sia nel suo periodo migliore.
Il riferimento ad internet è poco rilevante. Sarebbe facile spostare l'azione nel passato togliendo ogni accenno a tecnologie moderne. Al punto che il film mi ha ricordato cose che si facevano svariati decenni fa, quando la censura aveva allargato le maglie ma era ancora presente, e allora uscivano film che strizzavano l'occhio nella direzione di Arancia meccanica (1971) ma non avevano nessuna pretesa autoriale, mirando solo a solleticare i bassi istinti. Chiaramente oggi non c'è più questo problema, e dunque mi vien da pensare che l'atteggiamento ambivalente tenuto qui sia dovuto solo ad una confusione creativa.
(*) Violenze, anche sessuali, qualche morto, prostituzione, anche minorile, ricatti, atti di vandalismo, furti, eccetera.
Pets - Vita da animali
In attesa della prossima puntata della saga dei Minion (*), la Illumination Entertainment (**) ci prova con qualcosa di diverso, mantenendo lo stile della casa. Alla regia Chris Renaud è affiancato da Yarrow Cheney, che è di famiglia sin dagli inizi, e vanta anche una partecipazione come semplice disegnatore a Il gigante di ferro (1999). Sembra che il successo sia stato sufficiente da permettere di pensare già al sequel, che dovrebbe arrivare nel 2018.
Come si usa nelle animazioni moderne, la storia può essere letta a più livelli, in modo da soddisfare le esigenze del pubblico di un po' tutte le età. Al livello di base, possiamo leggerla come un buddy movie classico, in cui i due protagonisti, diversissimi, vengono costretti a unire le loro forze per uscire da una situazione molto complicata.
Facciamo così una rapida conoscenza di Katie, una giovane newyorkese che vive a Manhattan con la sola compagnia di Max, cagnetto di cui seguiamo prevalentemente il punto di vista nella narrazione. Un bel giorno, Katie torna a casa con un gigantesco cane, Duke. I due non vanno per niente d'accordo, e tentano di farsi le scarpe a vicenda. L'incontro con una banda di animali abbandonati dai proprietari, che vivono nei sotterranei della città, movimenta ancor di più l'azione.
(*) Tecnicamente, sarebbe la saga di Gru, protagonista di Cattivissimo me (2010), e del sequel (2013), ma i Minion, che sono stati protagonisti assoluti nel prequel Minions (2015) gli hanno rubato la scena. Despicable me 3 al momento risulta in pre-produzione.
(**) Con dietro la Universal Pictures a garantire gli immani costi di produzione e il necessario peso nella distribuzione.
Come si usa nelle animazioni moderne, la storia può essere letta a più livelli, in modo da soddisfare le esigenze del pubblico di un po' tutte le età. Al livello di base, possiamo leggerla come un buddy movie classico, in cui i due protagonisti, diversissimi, vengono costretti a unire le loro forze per uscire da una situazione molto complicata.
Facciamo così una rapida conoscenza di Katie, una giovane newyorkese che vive a Manhattan con la sola compagnia di Max, cagnetto di cui seguiamo prevalentemente il punto di vista nella narrazione. Un bel giorno, Katie torna a casa con un gigantesco cane, Duke. I due non vanno per niente d'accordo, e tentano di farsi le scarpe a vicenda. L'incontro con una banda di animali abbandonati dai proprietari, che vivono nei sotterranei della città, movimenta ancor di più l'azione.
(*) Tecnicamente, sarebbe la saga di Gru, protagonista di Cattivissimo me (2010), e del sequel (2013), ma i Minion, che sono stati protagonisti assoluti nel prequel Minions (2015) gli hanno rubato la scena. Despicable me 3 al momento risulta in pre-produzione.
(**) Con dietro la Universal Pictures a garantire gli immani costi di produzione e il necessario peso nella distribuzione.
Child 44 - Il bambino n. 44
Un po' come Gorky Park (1983), anche in questo caso si tratta di un romanzo (*) poi diventato film poliziesco di ambientazione russo-sovietica ma narrato da un punto di vista occidentale (**). Forse l'intreccio originale era troppo complesso per essere reso in tempi cinematografici, ho letto da qualche parte che il grosso problema del montaggio (***) è stato quello di ridurre l'enorme quantità di girato ad una dimensione non irragionevole. Il dubbio che mi viene è che Daniel Espinosa (regia) si sia fatto prendere la mano e non sia riuscito a decidere cosa tagliare e cosa tenere di una storia così complessa. Nel qual caso Richard Price (sceneggiatura) si dovrebbe prendere la sua parte di responsabilità.
Negli anni trenta un bimbo ucraino scappa dall'orfanotrofio e viene informalmente adottato da una unità dell'armata rossa di stanza da quelle parti. Nel decennio successivo il bimbo è diventato sergente, ha preso il nome di Leo Demidov e le sembianze di Tom Hardy. Per puro caso diventa un'icona della vittoria contro il nazismo con tutti i vantaggi che ne conseguono. Passa un'altro decennio e lo ritroviamo capitano dell'MGB, quella simpatica struttura che poi diventarà il KGB, sposato alla bella Raisa (Noomi Rapace), di cui sembra così innamorato da non rendersi conto quanto lei poco ricambi.
Leo è un po' meno brutale dei suoi colleghi, in particolare non gli piace che si ammazzino bambini, e questo gli causa uno scontro con un suo sottoposto, Vasili Nikitin (Joel Kinnaman), che capiamo subito diventerà il suo nemico giurato. A parte questi dettagli a Leo non sembra dispiacere per niente il suo lavoro, ed è disposto a chiudere un occhio, o anche tutti e due, quando è il caso, sugli ordini che deve eseguire. E per questo motivo il suo capo, il maggiore Kuzmin (Vincent Cassel), gli affida l'ingrato compito di spiegare all'amico fraterno di Leo, Alexei Andreyev (Fares Fares), che il di lui figlioletto non è stato ucciso da un maniaco, ma da un incidente ferroviario.
E qui mi occorre aprire una parentesi. Per quello che ne posso capire io, l'ambientazione stalinista della storia non è resa male, vedasi magari The way back (2010) di Peter Weir per un confronto, Tom Rob Smith fa però uno scatto in avanti che mi pare eccessivo. Prende la storia di quello che credo sia il più famoso serial killer sovietico, Andrei Chikatilo, la sposta indietro nel tempo di qualche decennio, e imputa il suo averla fatta franca così a lungo all'assenza di investigazione sul suo conto giustificata dall'assioma, più volte ripetuto nel corso della narrazione, secondo cui non possono esistere omicidi in paradiso - dove per paradiso si intende il Paese in cui si è realizzato il comunismo. Questo mi pare eccessivo. Nemmeno ai tempi dello stalinismo si negava che esistessero assassini, mentre è vero che si faceva molta fatica ad accettare che ci fossero fenomeni, come pedofilia, omosessualità, omicidi seriali, che venivano indicati come perversioni dei nemici ideologici. Non riesco dunque a capacitarmi di come un pezzo grosso dell'MGB saboti le indagini per quello che a tutti pare un evidente caso di omicidio quando questo, poi, colpisce il figlio di un suo uomo. Dal punto di vista narrativo ha un senso, perché crea un grosso problema a Leo, che è quello che ci vuole per scardinare la sua fedeltà al sistema, dal punto di vista storico mi pare troppo debole. Forse meglio sarebbe stato se Smith avesse spostato l'ambientazione in un mondo distopico, alla 1984 di George Orwell. Ma si vede che non era nelle sue corde.
Leo riesce a superare questa prova, convince Alexei a credere alla incredibile verità ufficiale, e passa alla seconda prova. Sua moglie Raisa è stata indicata come spia, suo dovere è indagare e arrestarla. Leo invece indaga, si convince dell'innocenza di Raisa e non l'arresta. In questo modo le salva ma la rovina ad entrambi, spediti a vivere in un paesino nel mezzo del nulla con mansioni molto ridimensionate. Succede però che anche in quel paesino colpisca il serial killer, e Leo si trovi a scortare il suo nuovo superiore, il generale Mikhail Nesterov (Gary Oldman), sulla scena del crimine, non tenendosi per sé tutto quello che gli pare ovvio sul caso. Il povero Nesterov ha motivi di temere un trappolone tesogli da chissachi nei suoi confronti. Non è che Leo sia stato spedito lì da Mosca per beccarlo alla prima mancanza?
Riassumendo. Da una parte abbiamo un superpoliziotto che non riesce ad indagare perché tutta la polizia è contro di lui, dall'altra abbiamo un travagliatissimo serial killer (Paddy Considine) che sembra sarebbe felicissimo di essere fermato. Leo, che aborrisce i crimini contro l'infanzia, potrebbe beccarlo in un momento, ma per far questo deve riuscire a trovare qualcuno che l'aiuti. Ci sono alcuni candidati, tutti per un motivo o per l'altro, improbabili. Alexei, suo grande amico, non è più tale; sua moglie Raisa, di cui lui è così innamorato da aver rischiato tutto per lei, sembra essere solo impaurita da lui; il suo capo Nesterov è estremamente diffidente nei suoi confronti. Come andrà a finire?
Una bizzarria che credo non abbia giovato al film, almeno dove è stato distribuito in lingua originale. Alcuni tra i protagonisti, in particolare Tom Hardy, parlano in inglese con un fortissimo accento slavo. Cosa che ovviamente non ha senso. Leo parla in inglese solo perché il film è pensato in primo luogo per un pubblico di quella lingua, Hardy parla un bell'inglese quanto possiamo immaginare sia buono il russo di Leo. Perché mai renderlo buffo facendolo parlare così? Fosse un film comico, a suo modo la cosa potrebbe funzionare. Ma qui di comicità, almeno volontaria, non ce n'è nemmeno traccia.
(*) Bambino 44, opera prima di Tom Rob Smith.
(**) Gorky Park puramente americano, Child 44 più internazionale, con la Scott Free di Ridley Scott in primo piano.
(***) Firmato da nientemeno che Pietro Scalia e Dylan Tichenor.
Negli anni trenta un bimbo ucraino scappa dall'orfanotrofio e viene informalmente adottato da una unità dell'armata rossa di stanza da quelle parti. Nel decennio successivo il bimbo è diventato sergente, ha preso il nome di Leo Demidov e le sembianze di Tom Hardy. Per puro caso diventa un'icona della vittoria contro il nazismo con tutti i vantaggi che ne conseguono. Passa un'altro decennio e lo ritroviamo capitano dell'MGB, quella simpatica struttura che poi diventarà il KGB, sposato alla bella Raisa (Noomi Rapace), di cui sembra così innamorato da non rendersi conto quanto lei poco ricambi.
Leo è un po' meno brutale dei suoi colleghi, in particolare non gli piace che si ammazzino bambini, e questo gli causa uno scontro con un suo sottoposto, Vasili Nikitin (Joel Kinnaman), che capiamo subito diventerà il suo nemico giurato. A parte questi dettagli a Leo non sembra dispiacere per niente il suo lavoro, ed è disposto a chiudere un occhio, o anche tutti e due, quando è il caso, sugli ordini che deve eseguire. E per questo motivo il suo capo, il maggiore Kuzmin (Vincent Cassel), gli affida l'ingrato compito di spiegare all'amico fraterno di Leo, Alexei Andreyev (Fares Fares), che il di lui figlioletto non è stato ucciso da un maniaco, ma da un incidente ferroviario.
E qui mi occorre aprire una parentesi. Per quello che ne posso capire io, l'ambientazione stalinista della storia non è resa male, vedasi magari The way back (2010) di Peter Weir per un confronto, Tom Rob Smith fa però uno scatto in avanti che mi pare eccessivo. Prende la storia di quello che credo sia il più famoso serial killer sovietico, Andrei Chikatilo, la sposta indietro nel tempo di qualche decennio, e imputa il suo averla fatta franca così a lungo all'assenza di investigazione sul suo conto giustificata dall'assioma, più volte ripetuto nel corso della narrazione, secondo cui non possono esistere omicidi in paradiso - dove per paradiso si intende il Paese in cui si è realizzato il comunismo. Questo mi pare eccessivo. Nemmeno ai tempi dello stalinismo si negava che esistessero assassini, mentre è vero che si faceva molta fatica ad accettare che ci fossero fenomeni, come pedofilia, omosessualità, omicidi seriali, che venivano indicati come perversioni dei nemici ideologici. Non riesco dunque a capacitarmi di come un pezzo grosso dell'MGB saboti le indagini per quello che a tutti pare un evidente caso di omicidio quando questo, poi, colpisce il figlio di un suo uomo. Dal punto di vista narrativo ha un senso, perché crea un grosso problema a Leo, che è quello che ci vuole per scardinare la sua fedeltà al sistema, dal punto di vista storico mi pare troppo debole. Forse meglio sarebbe stato se Smith avesse spostato l'ambientazione in un mondo distopico, alla 1984 di George Orwell. Ma si vede che non era nelle sue corde.
Leo riesce a superare questa prova, convince Alexei a credere alla incredibile verità ufficiale, e passa alla seconda prova. Sua moglie Raisa è stata indicata come spia, suo dovere è indagare e arrestarla. Leo invece indaga, si convince dell'innocenza di Raisa e non l'arresta. In questo modo le salva ma la rovina ad entrambi, spediti a vivere in un paesino nel mezzo del nulla con mansioni molto ridimensionate. Succede però che anche in quel paesino colpisca il serial killer, e Leo si trovi a scortare il suo nuovo superiore, il generale Mikhail Nesterov (Gary Oldman), sulla scena del crimine, non tenendosi per sé tutto quello che gli pare ovvio sul caso. Il povero Nesterov ha motivi di temere un trappolone tesogli da chissachi nei suoi confronti. Non è che Leo sia stato spedito lì da Mosca per beccarlo alla prima mancanza?
Riassumendo. Da una parte abbiamo un superpoliziotto che non riesce ad indagare perché tutta la polizia è contro di lui, dall'altra abbiamo un travagliatissimo serial killer (Paddy Considine) che sembra sarebbe felicissimo di essere fermato. Leo, che aborrisce i crimini contro l'infanzia, potrebbe beccarlo in un momento, ma per far questo deve riuscire a trovare qualcuno che l'aiuti. Ci sono alcuni candidati, tutti per un motivo o per l'altro, improbabili. Alexei, suo grande amico, non è più tale; sua moglie Raisa, di cui lui è così innamorato da aver rischiato tutto per lei, sembra essere solo impaurita da lui; il suo capo Nesterov è estremamente diffidente nei suoi confronti. Come andrà a finire?
Una bizzarria che credo non abbia giovato al film, almeno dove è stato distribuito in lingua originale. Alcuni tra i protagonisti, in particolare Tom Hardy, parlano in inglese con un fortissimo accento slavo. Cosa che ovviamente non ha senso. Leo parla in inglese solo perché il film è pensato in primo luogo per un pubblico di quella lingua, Hardy parla un bell'inglese quanto possiamo immaginare sia buono il russo di Leo. Perché mai renderlo buffo facendolo parlare così? Fosse un film comico, a suo modo la cosa potrebbe funzionare. Ma qui di comicità, almeno volontaria, non ce n'è nemmeno traccia.
(*) Bambino 44, opera prima di Tom Rob Smith.
(**) Gorky Park puramente americano, Child 44 più internazionale, con la Scott Free di Ridley Scott in primo piano.
(***) Firmato da nientemeno che Pietro Scalia e Dylan Tichenor.
Qualcosa di nuovo
Luca (Eduardo Valdarnini) sta per compiere vent'anni e sembra che la sua vita stia prendendo una brutta direzione. Una madre contemporaneamente soffocante e distratta, una fidanzatina decisa ma sa nemmeno bene lei a cosa, un padre assente e forse altri problemi che non ci sono ben presentati, lo stanno spingendo verso un probabile disdegno del genere femminile e una incapacità relazionale con ogni essere vivente. Non fosse che per sua (opinabile) fortuna incontra due amiche sulla quarantina, pazze scatenate, Lucia (Paola Cortellesi) e Maria (Micaela Ramazzotti).
Maria è una burina "un po' mignotta (*)", Lucia è una sofisticata "spadona" (**), le due si completano in un sistema abbastanza stabile. Entrambe divorziate, Maria eternamente in caccia, Lucia sdegnosa, per un curioso equivoco finiscono per inglobare Luca, circuito da Maria in discoteca, che però scambia per Lucia. Il triangolo porta ad una evoluzione di ognuno degli elementi, con Maria che si sgrezza, Lucia lima i suoi spigoli, Luca guadagna un poco di maturità. Finale a mio avviso poco credibile e poco risolto in cui sembra che il terzetto trovi un nuovo equilibrio stabile.
La commedia è divertente e ben scritta (***), anche se mi sembra sbilanciata sul lato femminile della storia. Il personaggio di Luca mi pare presente per necessità dell'intreccio che per reale interesse dell'autrice. Ad esempio, la sua improvvisa maturazione nel finale non mi pare per niente realistica ma direi che serve solo per mostrare l'evoluzione del rapporto tra Maria e Lucia.
Difficile eludere il confronto con 20 anni di meno (°), che direi si conclude con un pareggio, anche se il francese mi pare realizzato meglio anche se paga una scrittura di qualità inferiore.
Altro confronto immediato è quello con La pazza gioia, grazie anche alla presenza della Ramazzotti in entrambe le pellicole, sempre in coppia con un'altra donna, sempre nel ruolo della greve proletaria. In questo caso a perdere è la Cortellesi, grazie alla superlativa prova di Valeria Bruni Tedeschi nel film di Virzì.
A proposito della Cortellesi, brava nel suo ruolo che però non ho potuto evitare di pensare a quanto sarebbe stato meglio se fosse stato adattato per e interpretato da Laura Morante (°°). Le sue capacità canore avrebbero potuto essere la chiave del suo uso, ma non mi sembrano siano state sfuttate a fondo. Se è vero che il suo personaggio è una cantante jazz, e la vediamo all'opera, i suoi numeri mi sono sembrati freddi, forse cantati in playback per semplificare le riprese.
(*) Secondo la definizione di Lucia.
(**) Che, nel gergo di Maria, mi sembra indichi una donna frigida.
(***) Basata su una pièce di Cristina Comencini, che lei stessa tradotto in sceneggiatura con l'apporto di sua figlia, Giulia Calenda, e di Paola Cortellesi.
(°) Lo stesso tema, relazione coguar-toyboy, elaborato in entrambi i casi secondo una prospettiva anomala. Stesso approccio alle complessità della psicologia femminile, qui esplicitata più direttamente con i due personaggi polarizzati in direzioni diverse, là con la protagonista che compie la transizione per conto suo.
(°°) Ad esempio in Ciliegine la Morante ha lo stesso problema di rigidità caratteriale della Lucia di questo film.
Maria è una burina "un po' mignotta (*)", Lucia è una sofisticata "spadona" (**), le due si completano in un sistema abbastanza stabile. Entrambe divorziate, Maria eternamente in caccia, Lucia sdegnosa, per un curioso equivoco finiscono per inglobare Luca, circuito da Maria in discoteca, che però scambia per Lucia. Il triangolo porta ad una evoluzione di ognuno degli elementi, con Maria che si sgrezza, Lucia lima i suoi spigoli, Luca guadagna un poco di maturità. Finale a mio avviso poco credibile e poco risolto in cui sembra che il terzetto trovi un nuovo equilibrio stabile.
La commedia è divertente e ben scritta (***), anche se mi sembra sbilanciata sul lato femminile della storia. Il personaggio di Luca mi pare presente per necessità dell'intreccio che per reale interesse dell'autrice. Ad esempio, la sua improvvisa maturazione nel finale non mi pare per niente realistica ma direi che serve solo per mostrare l'evoluzione del rapporto tra Maria e Lucia.
Difficile eludere il confronto con 20 anni di meno (°), che direi si conclude con un pareggio, anche se il francese mi pare realizzato meglio anche se paga una scrittura di qualità inferiore.
Altro confronto immediato è quello con La pazza gioia, grazie anche alla presenza della Ramazzotti in entrambe le pellicole, sempre in coppia con un'altra donna, sempre nel ruolo della greve proletaria. In questo caso a perdere è la Cortellesi, grazie alla superlativa prova di Valeria Bruni Tedeschi nel film di Virzì.
A proposito della Cortellesi, brava nel suo ruolo che però non ho potuto evitare di pensare a quanto sarebbe stato meglio se fosse stato adattato per e interpretato da Laura Morante (°°). Le sue capacità canore avrebbero potuto essere la chiave del suo uso, ma non mi sembrano siano state sfuttate a fondo. Se è vero che il suo personaggio è una cantante jazz, e la vediamo all'opera, i suoi numeri mi sono sembrati freddi, forse cantati in playback per semplificare le riprese.
(*) Secondo la definizione di Lucia.
(**) Che, nel gergo di Maria, mi sembra indichi una donna frigida.
(***) Basata su una pièce di Cristina Comencini, che lei stessa tradotto in sceneggiatura con l'apporto di sua figlia, Giulia Calenda, e di Paola Cortellesi.
(°) Lo stesso tema, relazione coguar-toyboy, elaborato in entrambi i casi secondo una prospettiva anomala. Stesso approccio alle complessità della psicologia femminile, qui esplicitata più direttamente con i due personaggi polarizzati in direzioni diverse, là con la protagonista che compie la transizione per conto suo.
(°°) Ad esempio in Ciliegine la Morante ha lo stesso problema di rigidità caratteriale della Lucia di questo film.
Rancho Notorious
Western a dir poco anomalo diretto con la consueta maestria da Fritz Lang e che è stato certamente tra le fonti di ispirazione per il Mel Brooks (*) di
Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) e forse anche tra quelle di Steve Martin + John Landis (**) per I tre amigos! (1986).
Un vaccaro del Wyoming, Vern Haskell (Arthur Kennedy), sta per sposare la sua bella. Un delinquente, Kinch (Lloyd Gough ***) la stupra e uccide. Vern la prende male e dedica il resto della sua vita a rintracciare il malfattore per vendicarsi. Dopo varie tribolazioni scopre che tale Altar Keane (Marlene Dietrich) potrebbe in qualche modo metterlo sulla strada giusta. Costei è una prostituta nota in tutto il West che ha abbandonato il lavoro per sopraggiunti limiti di età ed è sparita nel nulla. Vern riesce comunque a rintracciare Frenchy Fairmont (Mel Ferrer), accreditato per essere il suo ultimo amante, a sua volta sparito nel nulla, con un espediente, invero piuttosto rischioso, riesce a diventarne amico e in questo modo raggiungere il ranch del titolo (°).
Qui si scopre che Altar gestisce il rach come porto franco per delinquenti, dietro compenso del dieci percento dei loro bottini. Vern nota che ella sa, sia pure a sua insaputa, chi sia il delinquente che ha ucciso la sua bella, e quindi decide di circuirla al solo scopo di farsi dire il nome. Per far ciò deve però sconfiggere la concorrenza di Frenchy, che è noto per essere il più veloce pistolero del west, e la diffidenza dei vari brutti ceffi che girano da quelle parti. Ci riuscirà, ma la fine sarà tragica per tutti.
Interessante notare come, contrariamente allo stereotipo del genere, i rappresentanti della legge siano incapaci, pigri, o corrotti. A volte anche tutte e tre le cose assieme. L'unico che si mostra sufficientemente astuto da capire che c'è qualcosa di strano nel ranch di Altar non viene creduto dal suo capo.
Molto in parte la Dietrich, con fascino e decadenza che si alternano, un grande amore indeciso, e un inesplicabile accento tedesco del quale nessuno chiede nulla. Buona prova di Ferrer, pistolero apparentemente tagliato col falcetto ma pieno di dubbi e capace di rischiare la vita per prendere un profumo per la sua bella. Scarso Kennedy, poco credibile in un ruolo che dovrebbe essere reso con una sottigliezza di cui qui non sembra capace. Da notare che il suo personaggio dovrebbe essere molto più giovane di Ferrer, essendo invece di tre anni più vecchio.
(*) Il personaggio interpretato da Madeline Kahn viene certamente da qui.
(**) Non è certo l'unico western in cui alcuni esterni sono stati girati in teatro per risparmiare, ma in genere si tratta di prodotti di livello considerabilmente inferiore.
(***) Non appare nei credits ufficiali del film in quanto nel frattempo era stato inserito nella blacklist di attori sgraditi al governo. Due film usciti recentemente che narrano di quell'oscura epoca sono Trumbo e Ave, Cesare!.
(°) Che però nel film non si chiama Notorious bensì Chuck-a-Luck. Il titolo è infatti stato cambiato all'ultimo momento dalla distribuzione - si dice per diretto interessamento di Howard Hughes.
Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) e forse anche tra quelle di Steve Martin + John Landis (**) per I tre amigos! (1986).
Un vaccaro del Wyoming, Vern Haskell (Arthur Kennedy), sta per sposare la sua bella. Un delinquente, Kinch (Lloyd Gough ***) la stupra e uccide. Vern la prende male e dedica il resto della sua vita a rintracciare il malfattore per vendicarsi. Dopo varie tribolazioni scopre che tale Altar Keane (Marlene Dietrich) potrebbe in qualche modo metterlo sulla strada giusta. Costei è una prostituta nota in tutto il West che ha abbandonato il lavoro per sopraggiunti limiti di età ed è sparita nel nulla. Vern riesce comunque a rintracciare Frenchy Fairmont (Mel Ferrer), accreditato per essere il suo ultimo amante, a sua volta sparito nel nulla, con un espediente, invero piuttosto rischioso, riesce a diventarne amico e in questo modo raggiungere il ranch del titolo (°).
Qui si scopre che Altar gestisce il rach come porto franco per delinquenti, dietro compenso del dieci percento dei loro bottini. Vern nota che ella sa, sia pure a sua insaputa, chi sia il delinquente che ha ucciso la sua bella, e quindi decide di circuirla al solo scopo di farsi dire il nome. Per far ciò deve però sconfiggere la concorrenza di Frenchy, che è noto per essere il più veloce pistolero del west, e la diffidenza dei vari brutti ceffi che girano da quelle parti. Ci riuscirà, ma la fine sarà tragica per tutti.
Interessante notare come, contrariamente allo stereotipo del genere, i rappresentanti della legge siano incapaci, pigri, o corrotti. A volte anche tutte e tre le cose assieme. L'unico che si mostra sufficientemente astuto da capire che c'è qualcosa di strano nel ranch di Altar non viene creduto dal suo capo.
Molto in parte la Dietrich, con fascino e decadenza che si alternano, un grande amore indeciso, e un inesplicabile accento tedesco del quale nessuno chiede nulla. Buona prova di Ferrer, pistolero apparentemente tagliato col falcetto ma pieno di dubbi e capace di rischiare la vita per prendere un profumo per la sua bella. Scarso Kennedy, poco credibile in un ruolo che dovrebbe essere reso con una sottigliezza di cui qui non sembra capace. Da notare che il suo personaggio dovrebbe essere molto più giovane di Ferrer, essendo invece di tre anni più vecchio.
(*) Il personaggio interpretato da Madeline Kahn viene certamente da qui.
(**) Non è certo l'unico western in cui alcuni esterni sono stati girati in teatro per risparmiare, ma in genere si tratta di prodotti di livello considerabilmente inferiore.
(***) Non appare nei credits ufficiali del film in quanto nel frattempo era stato inserito nella blacklist di attori sgraditi al governo. Due film usciti recentemente che narrano di quell'oscura epoca sono Trumbo e Ave, Cesare!.
(°) Che però nel film non si chiama Notorious bensì Chuck-a-Luck. Il titolo è infatti stato cambiato all'ultimo momento dalla distribuzione - si dice per diretto interessamento di Howard Hughes.
Poirot 4.3: Poirot non sbaglia
Cattiva idea, a mio modesto avviso, schierare questo adattamento del romanzo di Agatha Christie (*) subito dopo Delitto in cielo, con il quale condivide lo svolgimento a sorpresa, in cui solo nel lunghissimo spiegone finale ci viene presentato un particolare che rende comprensibile l'azione dell'omicida, e la presenza di un personaggio fondamentale che appare per gran parte del tempo sotto mentite spoglie.
La trama è qui molto più complicata, c'è un continuo entrare e uscire di scena di personaggi che agiscono senza che si abbia modo di approfondire il senso della loro presenza. La produzione si deve essere resa conto che se avessero mantenuto l'impostazione originaria, ci sarebbe stata una rivolta tra gli spettatori, e così ha lasciato che la sceneggiatura (Clive Exton) rivoluzionasse la struttura del racconto, aggiungendo un introduzione spuria che fa da gigantesco spoiler rendendo chiaro quello che altrimenti sarebbe impossibile da capire. Ci sono anche alcuni ritocchi, come la scomparsa di un personaggio secondario, il che semplifica la vicenda con gli effetti collaterali di alleggerire il tema politico, togliere spessore al personaggio interpretato da Sara Stewart e rendere meno antipatico quello di Christopher Eccleston.
Tutto sembra ruotare attorno al dentista di Poirot (David Suchet) che inopinatamente si suicida poco dopo aver lavorato sul suo spaventato cliente. O meglio, a Japp (Philip Jackson) sembra che sia un chiaro caso di suicidio, Poirot è meno convinto. Anche Japp inizia a dubitarne quando scopre che l'ultimo cliente (Kevork Malikyan) ad aver visto vivo il dentista muore anch'esso, e poi un'altra cliente scompare misteriosamente senza lasciar tracce.
Un importante banchiere, che ha pure un rilevante peso politico, potrebbe essere il vero bersaglio di questa moria, e questo mette in una luce sinistra un tipaccio (Eccleston) che fa il filo all'impiegata del dentista e che trova incongruamente lavoro come giardiniere del banchiere. Altre cose strane succedono a rendere apparentemente insensato tutto quanto, senonché alla fine si scopre che ...
(*) One, two, buckle my shoe, 1940. Il titolo riprende una filastrocca usata dai bambini per giocare a campana, o meglio ad una sua versione inglese. Simpatica l'idea di reiterarla nella colonna sonora, arrangiandola in svariati modi, alcuni dei quali degni di un film horror.
La trama è qui molto più complicata, c'è un continuo entrare e uscire di scena di personaggi che agiscono senza che si abbia modo di approfondire il senso della loro presenza. La produzione si deve essere resa conto che se avessero mantenuto l'impostazione originaria, ci sarebbe stata una rivolta tra gli spettatori, e così ha lasciato che la sceneggiatura (Clive Exton) rivoluzionasse la struttura del racconto, aggiungendo un introduzione spuria che fa da gigantesco spoiler rendendo chiaro quello che altrimenti sarebbe impossibile da capire. Ci sono anche alcuni ritocchi, come la scomparsa di un personaggio secondario, il che semplifica la vicenda con gli effetti collaterali di alleggerire il tema politico, togliere spessore al personaggio interpretato da Sara Stewart e rendere meno antipatico quello di Christopher Eccleston.
Tutto sembra ruotare attorno al dentista di Poirot (David Suchet) che inopinatamente si suicida poco dopo aver lavorato sul suo spaventato cliente. O meglio, a Japp (Philip Jackson) sembra che sia un chiaro caso di suicidio, Poirot è meno convinto. Anche Japp inizia a dubitarne quando scopre che l'ultimo cliente (Kevork Malikyan) ad aver visto vivo il dentista muore anch'esso, e poi un'altra cliente scompare misteriosamente senza lasciar tracce.
Un importante banchiere, che ha pure un rilevante peso politico, potrebbe essere il vero bersaglio di questa moria, e questo mette in una luce sinistra un tipaccio (Eccleston) che fa il filo all'impiegata del dentista e che trova incongruamente lavoro come giardiniere del banchiere. Altre cose strane succedono a rendere apparentemente insensato tutto quanto, senonché alla fine si scopre che ...
(*) One, two, buckle my shoe, 1940. Il titolo riprende una filastrocca usata dai bambini per giocare a campana, o meglio ad una sua versione inglese. Simpatica l'idea di reiterarla nella colonna sonora, arrangiandola in svariati modi, alcuni dei quali degni di un film horror.
Poirot 4.2: Delitto in cielo
A mio gusto, meno riuscito del primo episodio di quest'annata (*), La serie infernale, e non tanto per colpa della sceneggiatura (**) quanto per la struttura del racconto originale di Agatha Christie (***) che segue il paradigma secondo il quale l'investigatore, che qui è ovviamente Hercule Poirot (David Suchet), scopre a nostra insaputa degli elementi fondamentali che ci verranno rivelati solo nello spiegone finale.
L'essenza della storia è semplice. In un volo tra Parigi e Londra, Madame Giselle (Eve Pearce), che campa facendo prestiti con tassi usurai, viene uccisa con del veleno. Poirot era seduto poco lontano ma, sfortunatamente, si era appisolato e corre pure il rischio di essere incriminato quando viene ritrovata una cerbottana sudamericana in un vano portaoggetti del suo sedile. In molti avrebbero motivi per volere una prematura dipartita della madama, tra cui il vero colpevole, del quale però scopriremo le ragioni solo nel finale.
Tra i punti di interesse c'è l'ambientazione parigina. Non si entra nei dettagli, sembra che Poirot si sia preso una vacanza, forse stufo di sentir parlare inglese. La produzione ne approfitta per far incontrare l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) con un suo omologo francese della Sûreté, con qualche momento di comicità non disprezzabile.
(*) Composta da sole tre puntate, anche se tutte e tre sono doppie, per una durata di poco superiore ai cento minuti ognuna.
(**) William Humble è qui meno brillante di Clive Exton là, ma tutto sommato non fa un cattivo lavoro.
(***) Death in the clouds, 1935.
L'essenza della storia è semplice. In un volo tra Parigi e Londra, Madame Giselle (Eve Pearce), che campa facendo prestiti con tassi usurai, viene uccisa con del veleno. Poirot era seduto poco lontano ma, sfortunatamente, si era appisolato e corre pure il rischio di essere incriminato quando viene ritrovata una cerbottana sudamericana in un vano portaoggetti del suo sedile. In molti avrebbero motivi per volere una prematura dipartita della madama, tra cui il vero colpevole, del quale però scopriremo le ragioni solo nel finale.
Tra i punti di interesse c'è l'ambientazione parigina. Non si entra nei dettagli, sembra che Poirot si sia preso una vacanza, forse stufo di sentir parlare inglese. La produzione ne approfitta per far incontrare l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) con un suo omologo francese della Sûreté, con qualche momento di comicità non disprezzabile.
(*) Composta da sole tre puntate, anche se tutte e tre sono doppie, per una durata di poco superiore ai cento minuti ognuna.
(**) William Humble è qui meno brillante di Clive Exton là, ma tutto sommato non fa un cattivo lavoro.
(***) Death in the clouds, 1935.
Poirot 4.1: La serie infernale
A mia parziale discolpa potrei dare la colpa alla mia recente fruizione della prima stagione di Elementary, dove fin troppo spesso (*) si ricorre alla scorciatoia di definire il "cattivo" come malato di mente, il che permette di fargli fare cose assurde con il solo scopo apparente di mettere alla prova l'astuto investigatore di turno. Ma la verità è che questa volta Agatha Christie mi ha beccato, e per lungo tempo sono rimasto convinto che anche qui si usava il consunto stratagemma sopra indicato, nonostante un buon numero di indizi che mi avrebbero dovuto far alzare le orecchie.
Il capitano Hastings (Hugh Fraser) torna da un suo viaggio in Sudamerica e trova Hercule Poirot (David Suchet) che scalpita per lavorare ad un nuovo caso, il quale viene annunciato da una misteriosa lettere anonima che sfida il nostro a prevenire un reato. Impossibile anche per Poirot capire di che si tratta, e così una dolce vecchina ci lascia le penne. Passa qualche giorno e lo sfidante agisce di nuovo, eliminando una giovine donna di belle speranze. Prima che ci si possa raccapezzare, terza vittima, un facoltoso nobiluomo di campagna.
Hastings, Poirot, l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) brancolano nel buio, ma noi sappiamo che un omarino, tal Alexander Bonaparte Cust (Donald Sumpter) si comporta in modo molto strano e ha tutte le caratteristiche per risultare un buon colpevole. Al punto che al quarto omicidio lo stesso Cust decide di costituirsi per interrompere la serie mortale.
Ci sono però molte incongruenze, che non sono attribuibili però alla scrittura bensì a debolezze del diabolico piano del vero colpevole. Che, a dire il vero, mi è sembrato troppo diabolico per essere plausibile. Da notare che la soluzione del caso è tutta basata su indizi e, con tutta probabilità, il colpevole, se si mette nelle mani di un buon avvocato, finirà per evitare il capestro.
Ottima come al solito la produzione, le scenografie e la recitazione un po' di tutti quanti, nota di merito per la guest star Sumpter. Simpatico l'adattamento di Clive Exton che aggiunge alla trama gialla (**), come spesso accade, numerose sottotrame di una felpata comicità britannica che aggiungono valore e godibilità alla visione.
Il brutto titolo italiano mantiene il riferimento a quello usato per la versione cartacea risalente al tempo che fu, in originale era The A.B.C. murders.
(*) Vedasi ad esempio il terzo episodio, L'uomo dei palloncini.
(**) Che del resto è rispettata quasi completamente, come mi sono accertato in seguito.
Il capitano Hastings (Hugh Fraser) torna da un suo viaggio in Sudamerica e trova Hercule Poirot (David Suchet) che scalpita per lavorare ad un nuovo caso, il quale viene annunciato da una misteriosa lettere anonima che sfida il nostro a prevenire un reato. Impossibile anche per Poirot capire di che si tratta, e così una dolce vecchina ci lascia le penne. Passa qualche giorno e lo sfidante agisce di nuovo, eliminando una giovine donna di belle speranze. Prima che ci si possa raccapezzare, terza vittima, un facoltoso nobiluomo di campagna.
Hastings, Poirot, l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) brancolano nel buio, ma noi sappiamo che un omarino, tal Alexander Bonaparte Cust (Donald Sumpter) si comporta in modo molto strano e ha tutte le caratteristiche per risultare un buon colpevole. Al punto che al quarto omicidio lo stesso Cust decide di costituirsi per interrompere la serie mortale.
Ci sono però molte incongruenze, che non sono attribuibili però alla scrittura bensì a debolezze del diabolico piano del vero colpevole. Che, a dire il vero, mi è sembrato troppo diabolico per essere plausibile. Da notare che la soluzione del caso è tutta basata su indizi e, con tutta probabilità, il colpevole, se si mette nelle mani di un buon avvocato, finirà per evitare il capestro.
Ottima come al solito la produzione, le scenografie e la recitazione un po' di tutti quanti, nota di merito per la guest star Sumpter. Simpatico l'adattamento di Clive Exton che aggiunge alla trama gialla (**), come spesso accade, numerose sottotrame di una felpata comicità britannica che aggiungono valore e godibilità alla visione.
Il brutto titolo italiano mantiene il riferimento a quello usato per la versione cartacea risalente al tempo che fu, in originale era The A.B.C. murders.
(*) Vedasi ad esempio il terzo episodio, L'uomo dei palloncini.
(**) Che del resto è rispettata quasi completamente, come mi sono accertato in seguito.
L'astronave atomica del dottor Quatermass
Nell'estate del '53 una miniserie incollò la Gran Bretagna al piccolo schermo, sei episodi da mezz'ora che narravano il primo volo fuori dall'atmosfera terrestre di uno smilzo equipaggio, con relativo catastrofico incontro con una forma di vita extraterrestre poco identificata. Si trattava di The Quatermass experiment, che ebbe così tanto successo da generare altre due miniserie, romanzi, film per il cinema e, soprattutto, da influenzare buona parte della fantascienza televisiva e cinematografica successiva. In particolare spesso la commistione con il genere horror ha un riferimento, più o meno esplicito, con le avventure del professor (*) Quatermass.
Due anni più tardi, la Hammer produsse e distribuì nelle sale cinematografiche questo film che, in pratica, riassumeva le vicende narrate nella miniserie, introducendo alcune varianti con lo scopo di semplificare la narrazione, per renderla più truculenta (**), e per adattarla al cast, a sua volta scelto per dare un certo appeal alla produzione anche oltreoceano. Il successo fu tale da spingere la Hammer a puntare sempre più decisamente sull'horror, diventando famosa per film di vampiri, mummie omicide, mostri in qualche modo legati a Frankenstein, e facezie del genere.
Il primo volo di un'astronave inglese, e presumibilmente terreste, con equipaggio a bordo finisce con una catastrofe. Il mezzo si infilza nella campagna inglese, quasi uccidendo una coppietta forse semiclandestina e il padre di lei (***). Arriva sulla zona il professor/dottor Quatermass (Brian Donlevy) che, mostrando immediatamente una gran spocchia (°), agisce prendendo decisioni senza badare alle gerarchie e a tratti anche al buon senso.
Solo uno dei tre astronauti, Victor Carroon (Richard Wordsworth) è sopravvissuto ma, noi lo capiamo subito grazie all'esperienza di tutti i film arriveranno dopo, è posseduto da un alieno maligno, che per nostra fortuna non è molto astuto, e quindi ci metterà troppo tempo per concepire un piano per la conquista del mondo, e di conseguenza Quatermass riuscirà ad aver la meglio su di lui.
(*) Per noi, chissà perché, dottore anzichè professore.
(**) Da cui il titolo originale inglese, The Quatermass Xperiment, con la X che indicava la categoria in cui cadeva la pellicola secondo la censura della regina.
(***) Ma niente paura, i tre se la cavano con un semplice spavento.
(°) Pare che il carattere del personaggio, completamente diverso da quello della miniserie, sia stato imposto dall'attore, il quale era stato scelto per la sua rinomanza americana. Sembra pure che il regista/co-sceneggiatore Val Guest ne approvasse la ruvidità, giudicandola più realistica dell'umanità propria del Quatermass originale.
Due anni più tardi, la Hammer produsse e distribuì nelle sale cinematografiche questo film che, in pratica, riassumeva le vicende narrate nella miniserie, introducendo alcune varianti con lo scopo di semplificare la narrazione, per renderla più truculenta (**), e per adattarla al cast, a sua volta scelto per dare un certo appeal alla produzione anche oltreoceano. Il successo fu tale da spingere la Hammer a puntare sempre più decisamente sull'horror, diventando famosa per film di vampiri, mummie omicide, mostri in qualche modo legati a Frankenstein, e facezie del genere.
Il primo volo di un'astronave inglese, e presumibilmente terreste, con equipaggio a bordo finisce con una catastrofe. Il mezzo si infilza nella campagna inglese, quasi uccidendo una coppietta forse semiclandestina e il padre di lei (***). Arriva sulla zona il professor/dottor Quatermass (Brian Donlevy) che, mostrando immediatamente una gran spocchia (°), agisce prendendo decisioni senza badare alle gerarchie e a tratti anche al buon senso.
Solo uno dei tre astronauti, Victor Carroon (Richard Wordsworth) è sopravvissuto ma, noi lo capiamo subito grazie all'esperienza di tutti i film arriveranno dopo, è posseduto da un alieno maligno, che per nostra fortuna non è molto astuto, e quindi ci metterà troppo tempo per concepire un piano per la conquista del mondo, e di conseguenza Quatermass riuscirà ad aver la meglio su di lui.
(*) Per noi, chissà perché, dottore anzichè professore.
(**) Da cui il titolo originale inglese, The Quatermass Xperiment, con la X che indicava la categoria in cui cadeva la pellicola secondo la censura della regina.
(***) Ma niente paura, i tre se la cavano con un semplice spavento.
(°) Pare che il carattere del personaggio, completamente diverso da quello della miniserie, sia stato imposto dall'attore, il quale era stato scelto per la sua rinomanza americana. Sembra pure che il regista/co-sceneggiatore Val Guest ne approvasse la ruvidità, giudicandola più realistica dell'umanità propria del Quatermass originale.
Warcraft - L'inizio
Film pensato per chi conosca e apprezzi l'omonimo universo parallelo, nato nel 1994 con un videogioco (*) e poi espansosi fino a colonizzare buona parte dei media ludico ricreativi. Chi non abbia frequentato quei luoghi (**) dovrebbe riuscire a cavarsela facendo riferimento alle sue conoscenze di giochi ruolo fantasy o alla letteratura dello stesso filone, in particolare Il signore degli anelli di JRR Tolkien. Se sto parlando una lingua sconosciuta, consiglio di lasciar perdere. Si passerebbero due ore di perplessità.
Un mondo fantastico-medioevale viene invaso da bellicosi orchi provenienti da una landa che sta divenendo sempre più desolata, via opportuno portale modello Stargate (1994). Un pianeta è troppo piccolo per queste due civiltà contrapposte, e si scatena dunque una terribile guerra a base di incantesimi, malefici, spadoni, martelli e qualche pistolone archibugesco.
Come da titolo, l'idea dei produttori era quella di dare il via ad un franchise di durata indeterminata. Il risultato al botteghino sembra averli lasciati perplessi, e al momento non v'è certezza nemmeno del secondo episodio. Non mi è chiaro cosa mai si aspettassero, considerando che questo titolo è diventato il maggior successo al box office nel settore dei film derivati da video games. Credo che abbia pesato lo scarso risultato americano, e si sa che i produttori d'oltreoceano sono miopi, guardano più gli incassi di casa che quelli planetari.
Io, che non sono un fan del genere, sono stato attirato dallo scoprire che si tratta di un film di Duncan Jones, il terzo, dopo lo spettacolare debutto di Moon (2009), e Source code (2011). La curiosità che avevo era se e come fosse riuscito a mantenere l'impostazione stilistica che aveva creato con i suoi precedenti lavori. Compito non facile in produzioni ad alto budget e che di solito non lasciano grandi libertà creative. Per fortuna Jones è riuscito a conciliare l'esigenza di mantenere lo spirito dell'opera originaria con quella di dare uno spessore accettabile al racconto filmico. Anche se, ovviamente, lo spettatore tende a identificarsi con gli umani, gli orchi non sono banali cattivi che voglio solo uccidere. La complessità della loro società è presentata in modo da farci vedere quali siano le loro ragioni.
(*) A voler entrare nei dettagli, si trattava di un RTS (Real Time Strategy), vedasi Dune 2 (1992), ispirato sommariamente all'opera di Frank Herbert.
(**) Come il sottoscritto. La mia conoscenza del genere mi ha permesso di non cader dal pero ad ogni scena, senza però afferrare molti dettagli che per me sono misteriosi.
Un mondo fantastico-medioevale viene invaso da bellicosi orchi provenienti da una landa che sta divenendo sempre più desolata, via opportuno portale modello Stargate (1994). Un pianeta è troppo piccolo per queste due civiltà contrapposte, e si scatena dunque una terribile guerra a base di incantesimi, malefici, spadoni, martelli e qualche pistolone archibugesco.
Come da titolo, l'idea dei produttori era quella di dare il via ad un franchise di durata indeterminata. Il risultato al botteghino sembra averli lasciati perplessi, e al momento non v'è certezza nemmeno del secondo episodio. Non mi è chiaro cosa mai si aspettassero, considerando che questo titolo è diventato il maggior successo al box office nel settore dei film derivati da video games. Credo che abbia pesato lo scarso risultato americano, e si sa che i produttori d'oltreoceano sono miopi, guardano più gli incassi di casa che quelli planetari.
Io, che non sono un fan del genere, sono stato attirato dallo scoprire che si tratta di un film di Duncan Jones, il terzo, dopo lo spettacolare debutto di Moon (2009), e Source code (2011). La curiosità che avevo era se e come fosse riuscito a mantenere l'impostazione stilistica che aveva creato con i suoi precedenti lavori. Compito non facile in produzioni ad alto budget e che di solito non lasciano grandi libertà creative. Per fortuna Jones è riuscito a conciliare l'esigenza di mantenere lo spirito dell'opera originaria con quella di dare uno spessore accettabile al racconto filmico. Anche se, ovviamente, lo spettatore tende a identificarsi con gli umani, gli orchi non sono banali cattivi che voglio solo uccidere. La complessità della loro società è presentata in modo da farci vedere quali siano le loro ragioni.
(*) A voler entrare nei dettagli, si trattava di un RTS (Real Time Strategy), vedasi Dune 2 (1992), ispirato sommariamente all'opera di Frank Herbert.
(**) Come il sottoscritto. La mia conoscenza del genere mi ha permesso di non cader dal pero ad ogni scena, senza però afferrare molti dettagli che per me sono misteriosi.
300
Alla base di tutto c'è un fatto reale, la sanguinosa battaglia delle Termopili avvenuta circa due millenni e mezzo fa nel corso della seconda guerra persiana. Quel che sappiamo di quei lontani avvenimenti deriva principalmente da quello che, pochi anni dopo, ne ha scritto Erodoto nelle sue Storie. Si tenga presente che Erodoto era greco e, per quanto storico nell'animo, non lo si può biasimare se non è stato del tutto imparziale nel suo racconto.
Molti anni dopo, la Twentieth Century Fox decide di fare un film sulla vicenda, L'eroe di Sparta (*), girato in Grecia su sceneggiatura dell'improbabile George St. George basata su un lavoro di ricerca storica tutto made in Italy (**). Occhio e croce mi sembra che lo scopo fosse quello di far girare soldi producendo un film vagamente propagandistico. Il risultato non è malaccio, almeno per i cultori del genere, e ha ottenuto un curioso effetto collaterale. Lo vide infatti Frank Miller e ne restò molto impressionato. Al punto che, molti anni dopo, quando ormai era un fumettaro tra i più affermati, andò a riprendersi la storia e ne tirò fuori una serie di cinque albi (1998), che poi vennero fascicolati in un opera completa nel 2000.
Passaggio finale, Zack Snyder legge il fumetto, se ne innamora e fa di tutto per convincere la Warner a scucire il pacco di milioni necessari per farlo diventare un film. Per sua fortuna, era appena stato convertito in film il fumetto (***) Sin city (2005), sempre di Frank Miller, ottenendo una risposta di pubblico positiva quel tanto che bastava per stanziare un bel budget.
Di quanto scrisse Erodoto resta poco, in compenso la traduzione da fumetto a pellicola è fatta con un certo garbo e penso che gli estimatori di Miller potrebbero gradire questa versione. Io, invece, l'ho trovata piuttosto noiosa, rischiarata a tratti da un umorismo che mi è sembrato involontario. In positivo, mi sono trovato a considerare un parallelo con i film di Michael Bay (°). Se Bay deve essere stato uno di quei terribili bimbetti che amano far esplodere tutti i loro giocattoli con petardi (°°), Snyder deve essere stato uno di quelli che passavano il tempo a far combattere i suoi bambolotti (°°°). Mi immagino che scontri deve aver sceneggiato tra Hulk e Big Jim.
La storia è che un gayssimo re Leonida (Gerard Butler) mette assieme 300 guerrieri spartani molto muscolosi e tutti quanti marciano in mutande fino alle Termopili. Lì incontra l'altrettanto gay Serse (Rodrigo Santoro), un androgino gigantesco follemente innamorato del piercing e di se stesso, che per motivi poco chiari vuole invadere la Grecia. Leonida teme che Serse voglia la fine del culturismo greco, e allora si arrabbia. Meglio morti, ma con tutti i muscoletti scolpiti e oliati.
Serse, furibondo, gli manda contro tutto quello che ha a portata di mano. Elefanti, rinoceronti, bersaglieri effeminati, e anche la sua guardia del corpo: dei ninja immortali. Nulla sembra riuscire a scalfire lo scudo umano spartano. Se non che ...
Nonostante il gran spreco di rallenty, questo non sarebbe bastato a coprire la lunghezza standard della pellicola, e allora Snyder ha buttato dentro una trama parallela, con la signora Leonida, la regina Gorgo (Lena Headey), che cerca di convincere i politici spartani ad inviare rinforzi al suo amato sposo e re. C'è però un bieco e corrotto politico (Dominic West) che si intromette.
Per l'angolo delle curiosità, questo è il primo film per il grande schermo di Michael Fassbender, è Stelios, il luogotenente di Leonida che ha una storia alla Eurialo e Niso con il figlio del vice.
(*) The 300 spartans (1962).
(**) Remigio Del Grosso, Giovanni d'Eramo, ma anche Ugo Liberatore e Gian Paolo Callegari.
(***) O graphic novel, come mi sembra sia più politically correct dire di questi tempi.
(°) Se proprio ci si vuole fare del male, si può vedere, come esempio della sua poetica, Transformers 4 - L'era dell'estinzione.
(°°) Chissà se il cattivello di Toy story è ispirato a lui.
(°°°) Action figure?
Molti anni dopo, la Twentieth Century Fox decide di fare un film sulla vicenda, L'eroe di Sparta (*), girato in Grecia su sceneggiatura dell'improbabile George St. George basata su un lavoro di ricerca storica tutto made in Italy (**). Occhio e croce mi sembra che lo scopo fosse quello di far girare soldi producendo un film vagamente propagandistico. Il risultato non è malaccio, almeno per i cultori del genere, e ha ottenuto un curioso effetto collaterale. Lo vide infatti Frank Miller e ne restò molto impressionato. Al punto che, molti anni dopo, quando ormai era un fumettaro tra i più affermati, andò a riprendersi la storia e ne tirò fuori una serie di cinque albi (1998), che poi vennero fascicolati in un opera completa nel 2000.
Passaggio finale, Zack Snyder legge il fumetto, se ne innamora e fa di tutto per convincere la Warner a scucire il pacco di milioni necessari per farlo diventare un film. Per sua fortuna, era appena stato convertito in film il fumetto (***) Sin city (2005), sempre di Frank Miller, ottenendo una risposta di pubblico positiva quel tanto che bastava per stanziare un bel budget.
Di quanto scrisse Erodoto resta poco, in compenso la traduzione da fumetto a pellicola è fatta con un certo garbo e penso che gli estimatori di Miller potrebbero gradire questa versione. Io, invece, l'ho trovata piuttosto noiosa, rischiarata a tratti da un umorismo che mi è sembrato involontario. In positivo, mi sono trovato a considerare un parallelo con i film di Michael Bay (°). Se Bay deve essere stato uno di quei terribili bimbetti che amano far esplodere tutti i loro giocattoli con petardi (°°), Snyder deve essere stato uno di quelli che passavano il tempo a far combattere i suoi bambolotti (°°°). Mi immagino che scontri deve aver sceneggiato tra Hulk e Big Jim.
La storia è che un gayssimo re Leonida (Gerard Butler) mette assieme 300 guerrieri spartani molto muscolosi e tutti quanti marciano in mutande fino alle Termopili. Lì incontra l'altrettanto gay Serse (Rodrigo Santoro), un androgino gigantesco follemente innamorato del piercing e di se stesso, che per motivi poco chiari vuole invadere la Grecia. Leonida teme che Serse voglia la fine del culturismo greco, e allora si arrabbia. Meglio morti, ma con tutti i muscoletti scolpiti e oliati.
Serse, furibondo, gli manda contro tutto quello che ha a portata di mano. Elefanti, rinoceronti, bersaglieri effeminati, e anche la sua guardia del corpo: dei ninja immortali. Nulla sembra riuscire a scalfire lo scudo umano spartano. Se non che ...
Nonostante il gran spreco di rallenty, questo non sarebbe bastato a coprire la lunghezza standard della pellicola, e allora Snyder ha buttato dentro una trama parallela, con la signora Leonida, la regina Gorgo (Lena Headey), che cerca di convincere i politici spartani ad inviare rinforzi al suo amato sposo e re. C'è però un bieco e corrotto politico (Dominic West) che si intromette.
Per l'angolo delle curiosità, questo è il primo film per il grande schermo di Michael Fassbender, è Stelios, il luogotenente di Leonida che ha una storia alla Eurialo e Niso con il figlio del vice.
(*) The 300 spartans (1962).
(**) Remigio Del Grosso, Giovanni d'Eramo, ma anche Ugo Liberatore e Gian Paolo Callegari.
(***) O graphic novel, come mi sembra sia più politically correct dire di questi tempi.
(°) Se proprio ci si vuole fare del male, si può vedere, come esempio della sua poetica, Transformers 4 - L'era dell'estinzione.
(°°) Chissà se il cattivello di Toy story è ispirato a lui.
(°°°) Action figure?
Elementary 1.24: Moriarty
La distribuzione italiana si deve essere trovata in imbarazzo nel gestire il titolo originale, Heroine, che da noi si traduce con Eroina, assumendo il duplice senso di donna eroica e di sostanza stupefacente (*), e hanno preferito inventarselo di sana pianta, puntando sul fatto che qui, finalmente, si scopre chi è Moriarty (Natalie Dormer) e cosa vuole da Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller). Questo è dunque il cuore dell'intera stagione. Che dal mio punto di vista sarebbe anche accettabile se non fosse che ci sono volute due dozzine di puntate per arrivarci.
Si parte ricucendosi alla puntata precedente, che è così strettamente legata a questa da creare un doppio episodio (**) di cui la prima parte m'è sembrata eccessivamente spiegosa, quindi troppo lenta, esclusivamente funzionale a questa seconda parte in cui si sviluppa il caso che, come spesso accade in questa serie, richiede una notevole dose di complicità da parte dello spettatore, chiamato ad accettare svariati dettagli tendenti all'inverosimile.
Scopriamo così che il diabolico piano della Moriarty (***) è robetta da finanza creativa che poteva essere pensata da un qualunque finanziere d'assalto (°). Ella vuole infatti sabotare l'entrata della Macedonia (°°) nell'Unione Europea. Nella finzione di questo universo parallelo, infatti, nel 2013 si è trovato un accordo nominalistico che deve essere ratificato con referendum. Tutti sembrano felici e contenti, e si suppone dunque una sua facile vittoria. Moriarty scommette pesantemente contro (°°°), e punta su di un sanguinoso colpo di scena per far pendere la bilancia dalla sua parte.
Sherlock Holmes intuisce buona parte del piano ma non riesce ad agire in quanto bloccato tutte le cose di cui è meglio non dire qui (§), fortuna vuole che proprio in questa circostanza la dottoressa Joan Watson (Lucy Liu) riesca a dimostrare di che pasta sia fatta e a salvare la giornata.
(*) In inglese sono due parole diverse, la sostanza è heroin, senza la e finale. Credo che Robert Doherty (ideazione e sceneggiatura) volesse giocare sulla forte assonanza, in quanto entrambi i termini hanno il loro peso in questa puntata.
(**) La prima visione CBS prevedeva appunto la visione consecutiva, da noi si è preferito trattarli separatamente.
(***) In questa versione non sembra che abbia un titolo professorale, ma sappiamo davvero poco del personaggio, se non che è un genio del male nel solco tracciato da sir Conan Doyle.
(°) Ma, viste le cifre in ballo, dotato in un consistente portafoglio.
(°°) O meglio, La Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, come viene spesso indicata in seguito alle rimostranze greche sull'uso del nome di quella che è anche una loro regione.
(°°°) I dettagli della scommessa sono campati in aria e vivono nel reame dell'insensatezza. Meglio avrebbero fatto a restare nel generico.
(§) Perché è proprio suoi motivi di questo blocco che verte l'interesse dell'episodio.
Si parte ricucendosi alla puntata precedente, che è così strettamente legata a questa da creare un doppio episodio (**) di cui la prima parte m'è sembrata eccessivamente spiegosa, quindi troppo lenta, esclusivamente funzionale a questa seconda parte in cui si sviluppa il caso che, come spesso accade in questa serie, richiede una notevole dose di complicità da parte dello spettatore, chiamato ad accettare svariati dettagli tendenti all'inverosimile.
Scopriamo così che il diabolico piano della Moriarty (***) è robetta da finanza creativa che poteva essere pensata da un qualunque finanziere d'assalto (°). Ella vuole infatti sabotare l'entrata della Macedonia (°°) nell'Unione Europea. Nella finzione di questo universo parallelo, infatti, nel 2013 si è trovato un accordo nominalistico che deve essere ratificato con referendum. Tutti sembrano felici e contenti, e si suppone dunque una sua facile vittoria. Moriarty scommette pesantemente contro (°°°), e punta su di un sanguinoso colpo di scena per far pendere la bilancia dalla sua parte.
Sherlock Holmes intuisce buona parte del piano ma non riesce ad agire in quanto bloccato tutte le cose di cui è meglio non dire qui (§), fortuna vuole che proprio in questa circostanza la dottoressa Joan Watson (Lucy Liu) riesca a dimostrare di che pasta sia fatta e a salvare la giornata.
(*) In inglese sono due parole diverse, la sostanza è heroin, senza la e finale. Credo che Robert Doherty (ideazione e sceneggiatura) volesse giocare sulla forte assonanza, in quanto entrambi i termini hanno il loro peso in questa puntata.
(**) La prima visione CBS prevedeva appunto la visione consecutiva, da noi si è preferito trattarli separatamente.
(***) In questa versione non sembra che abbia un titolo professorale, ma sappiamo davvero poco del personaggio, se non che è un genio del male nel solco tracciato da sir Conan Doyle.
(°) Ma, viste le cifre in ballo, dotato in un consistente portafoglio.
(°°) O meglio, La Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, come viene spesso indicata in seguito alle rimostranze greche sull'uso del nome di quella che è anche una loro regione.
(°°°) I dettagli della scommessa sono campati in aria e vivono nel reame dell'insensatezza. Meglio avrebbero fatto a restare nel generico.
(§) Perché è proprio suoi motivi di questo blocco che verte l'interesse dell'episodio.
Elementary 1.23: Peonie
Dicesi spiegone quella pausa nell'azione in cui il narratore obbliga i personaggi a innaturali spiegazioni che hanno senso solo dalla prospettiva del pubblico. A volte il senso dello spiegone sta nel dubbio che lo spettatore abbia bisogno di un aiutino per capire cosa sia successo. Vedasi come esempio di questo caso il mitologico monologo dello psichiatra sul finire dello Psycho di Alfred Hitchcock (1960 *). Il Maestro doveva aver seri e legittimi dubbi su cosa potesse pensare uno spettatore medio del caso in questione, e probabilmente quello che oggi sembra completamente inutile ai tempi doveva essere a molti sembrato necessario.
Altre volte lo spiegone serve per mettere al corrente di cose di cui fino al quel momento si era parlato poco o niente. Invito a cena con delitto (1976) illustra molto bene e con notevole verve comica (**) quanto questo spesso indispettisca il fruitore dell'opera.
Nella serialità più smaccata, lo spiegone è un espediente per ricordare ai distratti cosa sta accadendo e perché.
Questa puntata è un raro esempio di mega-spiegone. Praticamente l'intero episodio è dedicato a spiegare il punto chiave di tutta la stagione, che del resto è stata costellata da spiegoni che hanno imperversato in molti episodi.
La puntata precedente era finita con la rivelazione che Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) aveva sprecato un paio di anni della sua vita, oltre ad aver rischiato la morte per abuso di droghe, per la causa sbagliata. La sua amata Irene Adler (Natalie Dormer) è viva, e non morta come lui credeva.
Un noiosissimo flash-back sulla storia londinese di Sherlock e Irene occupa gran parte del tempo, mentre l'azione corrente, a New York, verte sulla storia corrente tra i due piccioncini, con Sherlock che cerca di capire il piano di Moriarty e come può salvare capra (Irene) e cavoli (sconfiggere il suo arcinemico). Colpo di scena finale, scopriamo la vera identità di Moriarty, il che rende il compito di Holmes ancora più impervio.
Nota di demerito alla distribuzione italiana, che ha dato a questo episodio, in originale The woman (***), come anche l'originale Holmes chiamava la Adler, in un titolo di una bruttezza unica.
(*) Riproposto pari pari nel remake di Gus Van Sant (1998), ovviamente meglio vedersi l'originale.
(**) E voglio vedere, con una sceneggiatura firmata da Neil Simon e un cast stellare come se ne sono visti pochi.
(***) La donna, con lo stress sull'articolo, a sottolineare come per Holmes la Adler sia quasi l'unica donna al mondo degna di questo nome.
Altre volte lo spiegone serve per mettere al corrente di cose di cui fino al quel momento si era parlato poco o niente. Invito a cena con delitto (1976) illustra molto bene e con notevole verve comica (**) quanto questo spesso indispettisca il fruitore dell'opera.
Nella serialità più smaccata, lo spiegone è un espediente per ricordare ai distratti cosa sta accadendo e perché.
Questa puntata è un raro esempio di mega-spiegone. Praticamente l'intero episodio è dedicato a spiegare il punto chiave di tutta la stagione, che del resto è stata costellata da spiegoni che hanno imperversato in molti episodi.
La puntata precedente era finita con la rivelazione che Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) aveva sprecato un paio di anni della sua vita, oltre ad aver rischiato la morte per abuso di droghe, per la causa sbagliata. La sua amata Irene Adler (Natalie Dormer) è viva, e non morta come lui credeva.
Un noiosissimo flash-back sulla storia londinese di Sherlock e Irene occupa gran parte del tempo, mentre l'azione corrente, a New York, verte sulla storia corrente tra i due piccioncini, con Sherlock che cerca di capire il piano di Moriarty e come può salvare capra (Irene) e cavoli (sconfiggere il suo arcinemico). Colpo di scena finale, scopriamo la vera identità di Moriarty, il che rende il compito di Holmes ancora più impervio.
Nota di demerito alla distribuzione italiana, che ha dato a questo episodio, in originale The woman (***), come anche l'originale Holmes chiamava la Adler, in un titolo di una bruttezza unica.
(*) Riproposto pari pari nel remake di Gus Van Sant (1998), ovviamente meglio vedersi l'originale.
(**) E voglio vedere, con una sceneggiatura firmata da Neil Simon e un cast stellare come se ne sono visti pochi.
(***) La donna, con lo stress sull'articolo, a sottolineare come per Holmes la Adler sia quasi l'unica donna al mondo degna di questo nome.
Elementary 1.22: Gestione del rischio
Seconda parte del finale di stagione, e io mi sono già stufato. Spero che il doppio episodio terminale riesca in qualche modo a cambiar direzione. Usciti di scena i due comprimari di lusso (*) che, pur non avendo parti significative, hanno reso più interessante il precedente episodio, si ricade nel mesto tran tran dello show.
Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) si trova nella curiosa situazione di dover fare un lavoretto per conto di Moriarty. Indaga dunque su di un omicidio di sei mesi prima che sembra essere opera di piccola delinquenza ma ad occhio più attento rivela una situazione più complessa. Evidentemente, la soluzione di questo caso porterà vantaggi a Moriarty, ma Holmes pensa di riuscire comunque a batterlo. Visto quello che succede, non sembra proprio.
(*) I due psicopatici al soldo di Moriarty, Moran (Vinnie Jones) e Gottlieb (F. Murray Abraham)
Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) si trova nella curiosa situazione di dover fare un lavoretto per conto di Moriarty. Indaga dunque su di un omicidio di sei mesi prima che sembra essere opera di piccola delinquenza ma ad occhio più attento rivela una situazione più complessa. Evidentemente, la soluzione di questo caso porterà vantaggi a Moriarty, ma Holmes pensa di riuscire comunque a batterlo. Visto quello che succede, non sembra proprio.
(*) I due psicopatici al soldo di Moriarty, Moran (Vinnie Jones) e Gottlieb (F. Murray Abraham)
Elementary 1.21: Un fatto storico
Ridendo e scherzando, siamo arrivati alla fine della prima stagione. Abbiamo dunque un finalone diviso in quattro episodi. Un po' eccessivo, invero. Il punto chiave su cui è stata costruita la vicenda è che Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) ha lasciato Londra per Manhattan, New York in seguito ad una sua brutale sconfitta nei confronti di Moriarty, il quale ha ucciso, per motivi ignoti, Irene Adler, unico e insostituibile amore di Sherlock.
Gli interessi delinquenziali di Moriarty, però, fanno sì che le strade dei due si incontrino nuovamente. Sembra quasi che Moriarty sia a caccia di Holmes, cerchi lo scontro, volendo eliminarlo o essere dal consulting detective eliminato. In un episodio a metà serie Sherlock si è scontrato con M., che però non è Moriarty ma un suo scagnozzo, Sebastian Moran (Vinnie Jones), lo ha sconfitto, ma il brandello di verità che ne ha ricavato è stato ben poco consolante.
Dopo quell'episodio, mi sarei aspettato un fiero scontro tra i due avversari. Invece niente. Sembra che entrambi abbiano deciso di prendersi una lunga pausa di riflessione. Si riprende adesso, e solo perché Moran, dalla fondo della sua galera, intuisce che un tale, apparentemente morto per cause naturali, è stato eliminato da Moriarty. Avverte Holmes, e questi verifica (*) che si tratta effettivamente di un omicidio astutamente dissimulato usando tecniche fantascientifiche alla James Bond. Avendo capito il motivo che era dietro a questo assassinio, gli è facile capire chi sia la prossima vittima in lista, e riesce altrettanto facilmente a far cadere in una trappola quest'altro sodale di Moriarty, tal Daniel Gottlieb (F. Murray Abraham **), ennesimo psicopatico. Questo è un serial killer che, al contrario di Moran, ama uccidere la gente facendo pensare che si tratti di cause naturali o incidenti casuali.
Moriarty non sembra particolarmente addolorato dalla sconfitta. Anzi, usa il telefono di Gottlieb, ora in possesso di Holmes, per contattarlo e chiedergli di fare un lavoretto per conto suo. Di cui si parlerà nella prossima puntata.
(*) Grazie alle conoscenze chirurgiche di Watson (Lucy Liu), che ha perciò una certa necessità di essere in questo episodio.
(**) Nientemeno.
Gli interessi delinquenziali di Moriarty, però, fanno sì che le strade dei due si incontrino nuovamente. Sembra quasi che Moriarty sia a caccia di Holmes, cerchi lo scontro, volendo eliminarlo o essere dal consulting detective eliminato. In un episodio a metà serie Sherlock si è scontrato con M., che però non è Moriarty ma un suo scagnozzo, Sebastian Moran (Vinnie Jones), lo ha sconfitto, ma il brandello di verità che ne ha ricavato è stato ben poco consolante.
Dopo quell'episodio, mi sarei aspettato un fiero scontro tra i due avversari. Invece niente. Sembra che entrambi abbiano deciso di prendersi una lunga pausa di riflessione. Si riprende adesso, e solo perché Moran, dalla fondo della sua galera, intuisce che un tale, apparentemente morto per cause naturali, è stato eliminato da Moriarty. Avverte Holmes, e questi verifica (*) che si tratta effettivamente di un omicidio astutamente dissimulato usando tecniche fantascientifiche alla James Bond. Avendo capito il motivo che era dietro a questo assassinio, gli è facile capire chi sia la prossima vittima in lista, e riesce altrettanto facilmente a far cadere in una trappola quest'altro sodale di Moriarty, tal Daniel Gottlieb (F. Murray Abraham **), ennesimo psicopatico. Questo è un serial killer che, al contrario di Moran, ama uccidere la gente facendo pensare che si tratti di cause naturali o incidenti casuali.
Moriarty non sembra particolarmente addolorato dalla sconfitta. Anzi, usa il telefono di Gottlieb, ora in possesso di Holmes, per contattarlo e chiedergli di fare un lavoretto per conto suo. Di cui si parlerà nella prossima puntata.
(*) Grazie alle conoscenze chirurgiche di Watson (Lucy Liu), che ha perciò una certa necessità di essere in questo episodio.
(**) Nientemeno.
Elementary 1.20: Ricatto col morto
Come da tradizione (*), Charles Augustus Milverton (David Mogentale), è una persona così brutta che Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) non ha alcuna voglia di intervenire contro chi riesca ad interrompere le sue deprecabili attività, qualunque sia il modo. Il twist in questa versione (**) è che Milverton, prima di uscire ai giochi, aveva creato una complicata rete che avrebbe dovuto cautelarlo da possibi accidenti, che però funziona malissimo. Anzi, per niente. Però riesce a rendere l'investigazione di Holmes e Watson (Lucy Liu) abbastanza intricata da occupare la mezz'oretta canonica. A proposito, il ruolo di Watson è terribilmente appiattito, avendo ben poco da fare se non imparare il lavoro di consulting detective. Spero che Robert Doherty (***) abbia in mente come risolvere l'impasse che lui stesso ha creato.
Il confronto con altre versioni televisive dello stesso racconto è desolante. Nella serie Granada si è riusciti addirittura ad espandere il breve racconto in un episodio doppio (1992) da cento minuti dove si trova il modo di creare una digressione che allarghi la visuale sul rapporto che quello Sherlock Holmes (Jeremy Brett) ha con le donne. La serie BBC corrente rende Milverton (Lars Mikkelsen), sia pur cambiandogli il nome per esigenze di sceneggiatura (°), personaggio di rifimento della terza stagione (2014), di cui il terzo e ultimo episodio, L'ultimo giuramento riporta i temi del racconto originale, ma aggiungendo tanta di quella roba, e con un finale da brividi, da farlo diventare un must see per tutti gli interessati al genere (°°).
Qui, purtroppo, l'intrico che crea Milverton al massimo mi ha fatto pensare "meh". Ma il peggio è la parte extra-indagine, che è dominata dai capricci di Holmes che non vuole essere premiato per un anno di sobrietà (°°°), il che non fa felice né Watson né Alfredo Llamosa (Ato Essandoh), che poi sarebbe l'ex tossico, ex delinquente che lo segue nel precorso riabilitativo. Dopo lunghi e noiosi tira e molla, Holmes spiega il vero motivo per cui non vuole essere premiato, e tutti ritornano amici come e più di prima.
(*) Arthur Conan Doyle, L'avventura di Charles Augustus Milverton (1904), raccolta in Il ritorno di Sherlock Holmes (1905).
(**) Soggetto di Christopher Silber, che ha sceneggiato assieme a Liz Friedman.
(***) Creatore della serie.
(°) Charles Augustus Magnussen. Volendo sottolineare la sua non inglesicità, lo si è fatto diventare scandinavo.
(°°) Però conviene vedersi tutti gli episodi precedenti, per goderselo appieno.
(°°°) Cose da americani, che si inventano premi per tutto. Io solidarizzavo con Sherlock, il premio nel restare sobri per un anno sta nell'esserci riuscito, non nel prendere una medaglietta.
Il confronto con altre versioni televisive dello stesso racconto è desolante. Nella serie Granada si è riusciti addirittura ad espandere il breve racconto in un episodio doppio (1992) da cento minuti dove si trova il modo di creare una digressione che allarghi la visuale sul rapporto che quello Sherlock Holmes (Jeremy Brett) ha con le donne. La serie BBC corrente rende Milverton (Lars Mikkelsen), sia pur cambiandogli il nome per esigenze di sceneggiatura (°), personaggio di rifimento della terza stagione (2014), di cui il terzo e ultimo episodio, L'ultimo giuramento riporta i temi del racconto originale, ma aggiungendo tanta di quella roba, e con un finale da brividi, da farlo diventare un must see per tutti gli interessati al genere (°°).
Qui, purtroppo, l'intrico che crea Milverton al massimo mi ha fatto pensare "meh". Ma il peggio è la parte extra-indagine, che è dominata dai capricci di Holmes che non vuole essere premiato per un anno di sobrietà (°°°), il che non fa felice né Watson né Alfredo Llamosa (Ato Essandoh), che poi sarebbe l'ex tossico, ex delinquente che lo segue nel precorso riabilitativo. Dopo lunghi e noiosi tira e molla, Holmes spiega il vero motivo per cui non vuole essere premiato, e tutti ritornano amici come e più di prima.
(*) Arthur Conan Doyle, L'avventura di Charles Augustus Milverton (1904), raccolta in Il ritorno di Sherlock Holmes (1905).
(**) Soggetto di Christopher Silber, che ha sceneggiato assieme a Liz Friedman.
(***) Creatore della serie.
(°) Charles Augustus Magnussen. Volendo sottolineare la sua non inglesicità, lo si è fatto diventare scandinavo.
(°°) Però conviene vedersi tutti gli episodi precedenti, per goderselo appieno.
(°°°) Cose da americani, che si inventano premi per tutto. Io solidarizzavo con Sherlock, il premio nel restare sobri per un anno sta nell'esserci riuscito, non nel prendere una medaglietta.
Elementary 1.19: Angeli nella neve
Cosa che mi piace poco in molte delle sceneggiature di Elementary (*) è che i cattivi siano solitamente psicopatici o comunque gente con grossi problemi mentali. Non sembrerebbe questo il caso, visto che si parla di una rapina, ma con lo svolgersi del caso scopriamo che la banda è composta da svitati. Hanno infatti messo in opera un piano folle che nessun delinquente sano di mente si sognerebbe di utilizzare.
Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) e Joan Watson (Lucy Liu) lavorano in coppia al caso, e si potrebbe far a meno di lei, meno utilizzata del solito, che ha come peculiarità di essere ambientato mentre una tempesta di neve si abbatte su New York. L'idea "geniale" della banda è proprio quella di usare le avverse condizioni atmosferiche come copertura, grazie anche ad una talpa piazzata al posto giusto. La complicazione è che hanno bisogno di informazioni riservate, che accedono grazie alla falsa rapina di cui sopra. Un punto molto debole è appunto questa copertura, che è legato ad una tempistica tutta sua, e che difficilmente si abbina ai capricci meteorologici del momento.
A ravvivare la puntata fiacca c'è, oltre alla neve, l'introduzione di Miss (**) Hudson (Candis Cayne). Costei è una transessuale amica di Holmes dalla vita privata piuttosto tormentata. Nel finire di puntata scopriamo che diventerà una specie di donna delle pulizie, e quindi ci possiamo aspettare che diventi un personaggio ricorrente.
(*) Robert Doherty è il nume tutelare della serie, questo episodio è stato scritto da Jason Tracey, sua seconda partecipazione in questo ruolo, dopo Dettagli. Più attivo come produttore.
(**) Altra piccola variazione rispetto al canone di Conan Doyle.
Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) e Joan Watson (Lucy Liu) lavorano in coppia al caso, e si potrebbe far a meno di lei, meno utilizzata del solito, che ha come peculiarità di essere ambientato mentre una tempesta di neve si abbatte su New York. L'idea "geniale" della banda è proprio quella di usare le avverse condizioni atmosferiche come copertura, grazie anche ad una talpa piazzata al posto giusto. La complicazione è che hanno bisogno di informazioni riservate, che accedono grazie alla falsa rapina di cui sopra. Un punto molto debole è appunto questa copertura, che è legato ad una tempistica tutta sua, e che difficilmente si abbina ai capricci meteorologici del momento.
A ravvivare la puntata fiacca c'è, oltre alla neve, l'introduzione di Miss (**) Hudson (Candis Cayne). Costei è una transessuale amica di Holmes dalla vita privata piuttosto tormentata. Nel finire di puntata scopriamo che diventerà una specie di donna delle pulizie, e quindi ci possiamo aspettare che diventi un personaggio ricorrente.
(*) Robert Doherty è il nume tutelare della serie, questo episodio è stato scritto da Jason Tracey, sua seconda partecipazione in questo ruolo, dopo Dettagli. Più attivo come produttore.
(**) Altra piccola variazione rispetto al canone di Conan Doyle.
Elementary 1.18: Deja vu
Nonostante alcune mie perplessità, Elementary non è una brutta serie. Interpreti di buon profilo, budget che per noi basterebbe a farci un film di medio livello, buchi di sceneggiatura e svarioni limitati e accettabili. Cos'è dunque che mi rende difficile schiodare il mio giudizio dalla sufficienza, mi chiedevo alla fine della visione di questo episodio, che non è malaccio, a tratti anche divertente.
Il punto chiave che mi ha infastidito è che si insiste ancora sul cambio di ruolo di Watson (Lucy Liu). Dopo lunghe titubanze, in Dettagli ha finalmente deciso di diventare junior consulting detective sotto l'ala di Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller), in Seconda possibilità vediamo i due gestire la mutata relazione, ma è solo alla fine di questa puntata che Watson, dopo aver litigato con i suoi amici, preoccupati per la sua instabilità occupazionale (*), che la Watson cambia la sua scheda personale online (**) per divulgare al mondo quale sia la sua nuova occupazione. Questa lentezza nell'evolvere i personaggi è normale nelle produzioni televisive, in cui si assume un pubblico che guarda distrattamente un episodio, o magari lo salta completamente, e comunque ha bisogno continui spiegoni per non naufragare nella visione. O almeno lo era fino a qualche anno fa. Adesso, tra repliche e accesso su internet degli episodi precedenti, le serie più moderne assumono uno spettatore più focalizzato, o almeno capace di andarsi a rivedere quello che si era perso.
Sherlock aveva chiesto un favore a suo padre in Caricata a droga, e gli era stato concesso, a patto di dover ricambiare il piacere. Il momento è arrivato, e ora Sherlock deve risolvere un caso per un amico di senior. Dati i rapporti molto tesi tra i due, Sherlock maltratta il cliente e affida il caso a Watson, che fatica, fallisce, ma alla fine riesce ad apportare un contributo sostanziale alla soluzione. Il caso in sé è improbabile. Una donna sparisce, il marito sembra molto sospetto, Watson è convinto della sua colpevolezza ma non riesce a trovare prove. Una intuizione al momento giusto si rivela fondamentale.
(*) Ricordo che la serie è ambientata a Manhattan, New York. Posto in cui non si riesce a vivere decentemente in assenza di entrate continue e sostanziose. A meno che non si sia di famiglia ricca, si intende.
(**) Non ho capito bene di che sito, forse una specie di Facebook farlocco.
Il punto chiave che mi ha infastidito è che si insiste ancora sul cambio di ruolo di Watson (Lucy Liu). Dopo lunghe titubanze, in Dettagli ha finalmente deciso di diventare junior consulting detective sotto l'ala di Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller), in Seconda possibilità vediamo i due gestire la mutata relazione, ma è solo alla fine di questa puntata che Watson, dopo aver litigato con i suoi amici, preoccupati per la sua instabilità occupazionale (*), che la Watson cambia la sua scheda personale online (**) per divulgare al mondo quale sia la sua nuova occupazione. Questa lentezza nell'evolvere i personaggi è normale nelle produzioni televisive, in cui si assume un pubblico che guarda distrattamente un episodio, o magari lo salta completamente, e comunque ha bisogno continui spiegoni per non naufragare nella visione. O almeno lo era fino a qualche anno fa. Adesso, tra repliche e accesso su internet degli episodi precedenti, le serie più moderne assumono uno spettatore più focalizzato, o almeno capace di andarsi a rivedere quello che si era perso.
Sherlock aveva chiesto un favore a suo padre in Caricata a droga, e gli era stato concesso, a patto di dover ricambiare il piacere. Il momento è arrivato, e ora Sherlock deve risolvere un caso per un amico di senior. Dati i rapporti molto tesi tra i due, Sherlock maltratta il cliente e affida il caso a Watson, che fatica, fallisce, ma alla fine riesce ad apportare un contributo sostanziale alla soluzione. Il caso in sé è improbabile. Una donna sparisce, il marito sembra molto sospetto, Watson è convinto della sua colpevolezza ma non riesce a trovare prove. Una intuizione al momento giusto si rivela fondamentale.
(*) Ricordo che la serie è ambientata a Manhattan, New York. Posto in cui non si riesce a vivere decentemente in assenza di entrate continue e sostanziose. A meno che non si sia di famiglia ricca, si intende.
(**) Non ho capito bene di che sito, forse una specie di Facebook farlocco.
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