The way back

Sono piene le cineteche di film che non riescono a sviluppare appieno l'idea originale. Partono da uno spunto interessante, ma poi si perdono per strada. Questo mi pare il caso opposto.

Alla base della sceneggiatura c'è un romanzo che narra l'avventura di un militare polacco catturato dai sovietici, spedito in un gulag siberiano, da cui fugge a capo di una eterogenea compagnia di disperati che, dopo una incredibile marcia da seimila chilometri e più, porterà i sopravvissuti in India.

Il problema della storia originale è che è falsa. Il romanzo ha avuto un buon successo, almeno nel mondo anglofono, ma anni dopo la sua pubblicazione sono emerse documentazioni che sostanzialmente smentiscono i fatti.

Processata e trasformata dalla sceneggiatura e regia di Peter Weir, la vicenda narrata assume un interesse completamente diverso da quello originale, di cui però mantiene inalterata la struttura. Insomma, avendo visto il film senza sapere cosa c'era dietro, sono rimasto perplesso. Non è credibile che una mezza dozzina di uomini, stremati da terribili condizioni di vita, riescano a mettere in atto un tale piano di fuga. Non si spiega come abbiano potuto sopravvivere al freddo estremo, poi al deserto, e infine all'Himalaya.

Dopo la visione, scoperta la falsità della storia raccontata, la prospettiva di lettura mi si è rivoluzionata in un batter d'occhio. La purezza del protagonista (Jim Sturgess), che mi suonava molto falsa, trova una sua spiegazione, e un personaggio apparentemente secondario, la giovane polacca che il gruppo incontra lungo il percorso (Saoirse Ronan), diventa fondamentale. Infatti inizialmente lei dice un sacco di menzogne, con lo scopo di risultare più "simpatica" al gruppo. E in effetti il suo stratagemma funziona, solo che non supera la diffidenza dei più accorti. Solo quando cederà e racconterà la sua vera storia diventerà davvero parte della comitiva. Allo stesso modo, ho apprezzato al meglio il film solo quando sono riuscito a scoprire quale sia la verità che voleva raccontare.

Prima di ribaltare il punto di vista, avevo apprezzato la pellicola solo dal punto di vista tecnico, grazie anche alla bella fotografia, che a tratti verrebbe da definire da National Geographic (che curiosamente è tra i produttori), e alla colonna sonora di Burkhard Dallwitz, in bilico tra minimalismo e accenni etnici.

Impressionante il cast, dove quasi ogni personaggio ha una storia da raccontare, e che varrebbe la pena di ascoltare. Oltre ai succitati Sturgess e Ronan, spiccano Mark Strong, un attore condannato per aver interpretato troppo bene un nobile, che trova la forza emotiva che gli permette di sopravvivere al gulag assorbendola dagli altri prigionieri; Colin Farrell, delinquente comune, ignorante, animalesco, incapace di fidarsi, ma con una eccezionale scintilla vitale e capacità di leggere nell'animo degli altri; Ed Harris, chiuso nel suo dolore, incapace di perdonare un suo grande errore di valutazione, ma ha la capacità di prendere la giusta decisione nei momenti decisivi, e riuscirà alla fine a sconfiggere i suoi demoni.

Scrivendo il post mi è venuto da pensare ad un altro film di Weir, The Truman show, che penso abbia molto in comune con questo. Lì era tutto dichiaratamente finto, ma il protagonista riusciva lo stesso a imporre la sua verità. Qui è teoricamente tutto vero, e solo con informazioni extra-contestuali possiamo riuscire a scoprire la falsità della narrazione, ma se riusciamo a fare questo salto scopriamo quante verità ci possono dire i vari personaggi.

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