Cellular

Credo che lo scopo principale di questo film fosse meramente commerciale. Impiegare un certo numero di milioni per produrre un buon prodotto medio che li ripagasse adeguatamente abbastanza velocemente. Risultato che è stato agevolmente ottenuto, tra l'altro.

L'unica componente eccellente del film direi che è la storia originale (Larry Cohen), che riesce a raccontare pianamente un intreccio piuttosto complicato che include svariate prospettive che riescono ad essere sviluppate senza pestarsi i piedi a vicenda. La sceneggiatura (Chris Morgan) e la regia (David R. Ellis) hanno il merito di veicolare le idee originali senza ingarbugliare inutilmente i vari fili del racconto.

Il cast manca di stelle brillanti ma include gente del calibro di Kim Basinger (che ha già salutato da anni il suo periodo migliore), William H. Macy (comprimario di lusso sempre pronto a dare peso a film di ogni tipo), Jason Statham (in un ruolo meno pungente del suo solito, era ancora in attesa di venir scoperto oltre oceano), e gli ancor poco noti Chris Evans e Jessica Biel.

La storia è piuttosto hitchcockiana, con un protagonista mediocre costretto dagli eventi a dare il meglio di sé, un meglio che nemmeno lui era probabilmente a conoscenza di avere, con una meccanica alla Lola corre (primo grosso successo di Tom Tykwer con Franka Potente costretta a correre per tutto il tempo dell'azione).

I cattivi, capitanati da Ethan (Statham), rapiscono Jessica (la Basinger) per motivi che sono inizialmente poco chiari. Capiamo però che lei è spacciata, uno di quei casi in cui si può decidere solo quando e come verrà eliminata. Riesce a stabilire un contatto telefonico con Ryan (Chris Evans), un ragazzotto così poco affidabile che la fidanzatina (Jessica Biel) è tentata di mandarlo a quel paese. Per motivi che non sto a spiegare, se cade la linea, Jessica potrebbe non avere una seconda possibilità.

Ryan contatta un poliziotto, Bob Mooney (Macy), piuttosto sfigatello, con una moglie che lo tartassa, e maltrattato dai colleghi (ha solo un amico, Noah Emmerich), che è sul punto di mollare il servizio per fare qualcosa di completamente differente. Purtroppo Mooney viene distratto da accadimenti vari e non riesce ad intervenire rapidamente.

Così tocca a Ryan correre (ma in macchina, siamo in California) per la città per cercare di evitare che i cattivi mettano le mani sul figlio di Jessica, che si chiama Ricky Martin (al solo scopo di fare una battuta sull'omonimia col cantante), e sul marito. Tutto sembra andare di male in peggio, ma alla fine gli improbabili eroi Mooney e Ryan dimostreranno di valere di più di quello che un po' tutti si aspettavano.

Tra i siparietti comici, da notare l'intermezzo in cui appare un antipaticissimo avvocato che viene derubato dal protagonista per due volte di fila della sua macchina, una bella Porsche targata "Faccio causa anche a te".

Balle spaziali - Spaceballs

Spoof di Star Wars autorizzato da George Lucas a patto che non si creasse una linea di merchandising da questo film. Il che deve aver dato a Mel Brooks (che lo ha scritto, prodotto, diretto, interpetato in un paio di ruoli) l'idea di far pubblicizzare ai personaggi una bizzarra oggettistica che include anche la carta igenica ufficiale di Spaceballs.

La storia somiglia solo vagamente all'originale, è come se i personaggi di Guerre stellari subissero una demente variazione autodistruttiva. La viziatissima principessina Vespa (Daphne Zuniga) scappa per evitare il matrimonio combinato con il soporifero principe Valium. Nel frattempo il presidente Scrocco (in originale Skroob, anagramma di Brooks) del pianeta Spaceballs ha dato mandato alla sua (in)fida anima nera Lord Casco (Dark Helmet - Rick Moranis) di rapire Vespa per ricattare suo padre, così da poter rubare tutto l'aria del loro pianeta. Si mettono in mezzo un paio di avventurieri galattici, Stella Solitaria (Lone Starr - Bill Pullman) e il suo fido (mezzo uomo e mezzo cane) Rutto (Barf - John Candy), che hanno un grosso debito con un mafioso spaziale, Pizza Margherita (Pizza the Hutt in originale).

Questo universo è pervaso non dalla Forza, ma dallo Sforzo (in originale Schwartz, ma che nella scena del duello tra Casco e Stella rende esplicita la sua somiglianza con Schwanz, parola che in tedesco e yiddish sta gergalmente ad indicare il membro maschile) il cui massimo esponente vivente è Yogurt (ancora Brooks, ma in ginocchio e tutto pitturato).

Tra i ruoli minori, da notare Michael Winslow, ai tempi popolare per la sua capacità di imitare rumori (vedasi le varie Scuola di polizia). E John Hurt che nel finale subisce lo stesso trattamento che gli era capitato in Alien, solo che qui la contaminazione è causata dal piatto del giorno di un fast food poco raccomandabile.

Solo gli amanti sopravvivono

Adamo (Tom Hiddleston) si annoia. Vive a Detroit, Motown senza quasi più motori, colleziona chitarre, compone musica, si diletta di tecnologia, e ha pure una moglie, Eva (Tilda Swinton), di cui è teneramente innamorato. Ma tutto questo non basta a riempire il suo tempo, anche perché, essendo Adamo un vampiro, di tempo ne ha a disposizione in quantità spropositate. Dunque decide di suicidarsi.

Uccidere un vampiro non è una cosa semplice nel mondo di Adamo. Sembra che non basti esporsi alla luce del sole per essere ridotto immediatamente in cenere. Così pensa di attuare una versione modernizzata del classico metodo che consiste nel piazzare un paletto di frassino nel cuore del soggetto in questione. La variazione di Jim Jarmush (storia e regia) è che si usa un proiettile di pistola e un legno dal peso specifico molto elevato.

Eva vive invece a Tangeri (i due si amano, ma è difficile convivere con lo stesso vampiro per decenni di fila) e ha come amico niente meno che Marlowe (John Hurt), l'autore inglese che di tanto in tanto viene indicato come il vero Shakespeare. Qualcosa la mette sull'allerta, e decide di raggiungere al volo il marito. Arriva appena prima di sua sorella Ava (Mia Wasikowska) che, avendo solo qualche secolo di vita, è ancora una giovane teppista capace solo di far disastri (come ad esempio dissanguare a morte un tale che faceva da galoppino per Adamo). Riesce dunque ad evitare il suicidio di Adamo ma non l'uragano Ava, per cui la coppia deve lasciare la fatiscente Detroit per Tangeri. Dove però scarseggia sangue di buona qualità, e questo crea ai due il dubbio su come fare a procurarselo.

Peccato che Jarmusch non abbia utilizzato le potenzialità comiche della storia (solo il finale è da commedia, e in un certo modo ribalta anche il titolo del film) e abbia puntato invece sulla rappresentazione del tedio mortale che finisce per diventare una vita innaturalmente prolungata. Ci riesce bene, niente da dire, ma sequenze lunghissime in cui praticamente nulla accade sono forse un mezzo troppo facile e, diamine, troppo noioso. Ottima la regia, bravi gli attori, con la Swinton che mi è sembrata a tratti una versione femminile di David Bowie, ne L'uomo che cadde sulla Terra, umana e extraterrestre insieme, e Hiddleston eroe romantico quasi da animazione giapponese, bella la colonna sonora. Ah, se solo fosse durato mezz'ora in meno e se ci fosse stata maggiore levità nella scrittura!

Non dico altro

Eva (Julia Louis-Dreyfus) è una massaggiatrice cinquantenne divorziata, con una figlia (Tracey Fairaway) che sta per spiccare il volo da casa. Sembra essere rassegnata ad una vita piuttosto deprimente e solitaria, quando ad una festa, a cui viene trascinata dalla sorella (Toni Collette), incontra Albert, un corpulento coetaneo (James Gandolfini) verso il quale ha emozioni contrastanti. Si lascia convincere a dargli una possibilità, i due escono, si piacciono, ma lei resta sulla difensiva.

Caso vuole che Eva negli stessi giorni faccia amicizia anche con Marianne (Catherine Keener), poetessa molto posh che, sorpresa, è la ex moglie di Albert. Buon senso vorrebbe che Eva scoprisse subito le sue carte ma la curiosità ha il sopravvento, e cerca invece di usare la sua amicizia con Marianne per raccogliere informazioni su Albert. Mal gliene incoglie.

Storia interessante e ben raccontata da Nicole Holofcener, che media la spigolosità del tema principale (gestione degli affetti quando non si è più giovanissimi) con una buona dose di leggerezza. La vicenda è narrata tutta dal punto di vista di Eva, ed è il suo l'unico personaggio che abbia un significativo sviluppo che, come dire, impari qualcosa da quello che accade. Non ci si lasci distrarre dall'affetto per Gandolfini (il film è uscito postumo), il suo personaggio è secondario e del tutto funzionale a raccontare l'evoluzione di Eva.

Il diario di Jack

Abbastanza simile a Jerry Maguire, cosa che non deve essere sfuggita a nessuno, a partire da Mike Binder, che l'ha scritto, diretto e pure interpretato in un ruolo secondario, al punto che il protagonista (Ben Affleck) cita espressamente Tom Cruise quando uno spiacevole contrattempo lo rende simile a (testuale) un fratello scemo del collega.

Jack (Affleck) è un agente di creativi losangelini arrivato al successo senza badare troppo agli scrupoli che scopre di aver sbagliato vita. Ha un bel lavoro di cui gli importa poco e una bella moglie (Rebecca Romijn) con cui quasi non parla. Refrattario alla psicologia, decide di affrontare il cambiamento iscrivendosi ad un corso per imparare a tenere un diario. Il corso si rivela gestito peculiarmente da un anomalo docente inglese (John Cleese), ma alla fine darà i suoi frutti.

Nel frattempo, Jack dovrà affrontare una serie di problemi, causati da bizzarri clienti e dalla fidanzata (Bai Ling) di un suo compagno di scuola che si aspettava, in virtù della lontana conoscenza, un trattamento di favore.

Il nucleo della storia non mi dispiace, la realizzazione non è però un granché.

Philomena

All'origine del film c'è il libro-inchiesta del giornalista britannico Martin Sixsmith sulla vicenda di Philomena Lee. Deve essere capitato tra le mani di Steve Coogan, che ne ha tratto una sceneggiatura (scritta assieme a Jeff Pope) ritagliandosi per sé il ruolo di Sixsmith. Non contento, Coogan mette la sua firma anche come produttore. La regia è invece dell'ottimo Stephen Frears.

Storia vera, dunque, ma rielaborata per restare nei tempi cinematografici (i canonici 100 minuti) e offrire ulteriore materiale di riflessione. Non ci si aspetti una aderenza assoluta ai personaggi reali e nemmeno agli accadimenti specifici narrati. Non è un documentario. Vedasi piuttosto il libro (che sull'onda del successo del film è stato pubblicato anche in Italia) se si vuole approfondire la materia.

Philomena ebbe la disgrazia di essere una adolescente nell'Irlanda rurale degli anni cinquanta. Nulla le era stato detto sul sesso, e si trovò ad essere incinta senza sapere nemmeno bene come mai. Il padre di lei risolse il problema abbandonandola in una abbazia. La poveretta venne costretta a lavorare per ripagare il favore ottenuto, ottenendo in cambio la possibilità di vedere il figlio per un'ora al giorno. Almeno fino al giorno in cui, dietro una cospicua donazione, una coppia di ricchi americani se lo pigliò per farlo diventare figlio loro.

Cinquant'anni dopo, Philomena non è più una ragazzina (Judi Dench) ma continua a pensare a quel suo figlio di cui non sa più nulla. Ogni sua richiesta di informazioni viene cortesemente ma recisamente respinta. Caso vuole che incontri un buon giornalista che, per un inghippo politico, è caduto in disgrazia e non ha molto da fare. Quid pro quo (o, come diremmo noi, do ut des), i due trovano un accordo. Martin userà le sue capacità e conoscenze per scoprire cosa sia successo, e in cambio avrà una storia da raccontare.

I due sono diametralmente opposti. E la contrapposizione viene brillantemente usata per alleggerire lo sviluppo dell'azione, grazie anche alla colonna sonora di Alexandre Desplat. Philomena è una anziana campagnola irlandese, bassa cultura, nonostante tutto estremamente religiosa, e, soprattutto, con un gran cuore. Martin è un raffinato britannico che ha studiato nelle migliori università del mondo, nato cattolico ma in bilico tra agnosticismo e ateismo, che punta tutto sulla ragione.

Come ci si può aspettare, alla fine della storia entrambi impareranno qualcosa dall'altro, migliorando entrambi il loro approccio alla vita.

Visione sconsigliata agli estremisti cattolici, a cui potrebbe non far piacere vedere cose che non vogliono nemmeno considerare, e anti-cattolici, che potrebbero non apprezzare la non-demonizzazione della chiesa.

L'amante in città

Niente moglie in vacanza, e dunque nemmeno Edwige Fenech. Si tratta invece di un film indipendente americano, il primo lungometraggio di Greg Mottola, che farà più avanti cose come Superbad e Paul.

Il titolo originale è, come spesso accade, completamente diverso, The daytrippers, e dà un'idea molto migliore di cosa racconta il film. Un po' come Kevin Smith, Mottola mette al centro del racconto la gente del posto dove è nato (nel suo caso Long Island) e il loro rapporto con l'ingombrante vicino che è la città di New York. Il confronto con Clerks (di tre anni prima) va a vantaggio di Smith, grazie ad una sceneggiatura meglio bilanciata.

Al centro dell'impiccio c'è una famiglia suburbana, centrata sull'insopportabilmente soffocante madre italo-americana (Anne Meara) che spadroneggia sul marito (Pat McNamara) e sulle figlie, Jo (Parker Posey) ed Eliza (Hope Davis). La piccola, Jo, ha un pomposo fidanzato, Carl (Liev Schreiber), e una prorompente passione per farne di tutti i colori. Eliza è invece più posata, e sposata con Louis (un ancora poco noto Stanley Tucci). Eliza trova un ambiguo bigliettino che potrebbe indicare che Luis non sia poi quel marito modello che sembrava. Lo mostra alla madre che organizza immediatamente una spedizione in città con tutta la famiglia per scoprire cosa accade.

La storia è così esile che è evidente quanto essa sia un pretesto per qualcos'altro. In primo luogo, come appunto indica il titolo originale, a raccontare alcuni tipici personaggi americani di provincia, e come reagiscono quando vengono catapultati nella grande città. Un viaggio di poche miglia che però cambia completamente il quadro di riferimento.

I primi tre quarti del film sono quadretti comici che permettono ai personaggi principali di mostrare le loro caratteristiche, interagendo tra loro o con altri personaggi secondari. Il finale indaga più sulle relazioni tra le tre coppie, lasciando in disparte i toni da commedia.

Direi che la commedia sia rovinata dall'eccessivo peso lasciato alla madre, che è veramente terribile. Viene da sperare che i parenti uniti la strangolino e si continui senza di lei. Più soddisfacenti gli equilibri del finale.

Lei

Sarà colpa dell'andamento dell'economia, ormai da anni in bilico tra crisi e stagnazione, con solo qualche sprazzo di ripresa qua e là, ma così fiacco e limitato che ben pochi se ne possono rallegrare. Il fatto è che film in cui si narra di un depressione, quale ne sia il motivo, abbondano, e hanno pure un notevole successo.

In Lei (Her) di Spike Jonze, il depresso è Theodore (Joaquin Phoenix in versione baffuta) che ha sulle spalle un matrimonio fallito con Catherine (Rooney Mara). Ma a ben vedere è depressa tutta la società in cui vive, in un futuro prossimo, in una metropoli poco connotata (si riconosce qualcosa di Los Angeles, altro da Shanghai). La gente non è più capace di esprimere le sue emozioni, e paga altri (tra cui lo stesso Theodore) per scrivere lettere ai propri cari. E non è nemmeno più capace di gestire le relazione con altri umani, da cui un massiccio ricorso alla mediazione della tecnologia (persino superiore a quello che vediamo già in giro adesso).

Un raro sprazzo di commedia si ha quando Theodore contatta una donna insonne in una chat vocale, tale Sexykitten (in originale ha la voce di Kristen Wiig). I due simulano un rapporto sessuale, in cui la pazza chiede di essere strangolata con un gatto morto (!).

Per risolvere il problema di incomunicabilità Theodore compra un sistema operativo disegnato appositamente per interagire con l'utente per mezzo di una personalità che risulti credibile ed amichevole. Gli capita in sorte Samantha (Scarlett Johansson in originale, Micaela Ramazzotti per noi). I due si innamorano. La relazione è evidentemente sbilanciata, inizialmente a "favore" di Theodore ma, visto che Samantha è disegnata per autoapprendere, il "vantaggio" passa rapidamente alla seconda. Finché questa non prende atto che non c'è più niente da fare.

Il finale lascia un briciolo di speranza, in quanto forse Theodore riuscirà a stabilire una relazione tra pari con una sua amica, Amy (Amy Adams).

Il materiale trattato non è particolarmente nuovo, anche se viene trattato con un taglio molto personale. Tra i molti possibili riferimenti, a me ha fatto pensare ad I love you di Marco Ferreri, dove Christopher Lambert si innamorava di un portachiavi (il film risale agli anni ottanta, la tecnologia era quello che era) e agli incubi tecnologici di Stanley Kubrick, dal HAL di 2001 al David di AI.

Mister Morgan

In principio era il romanzo di Françoise Dorner, La douceur assassine, che è stato adattato in sceneggiatura che poi ha diretto la stessa Sandra Nettelbeck. Credo che il problema principale del film stia proprio nella difficoltà nel tradurre una storia pensata per la letteratura nel limitato tempo che lascia la pellicola cinematografica.

Per un certo verso, è molto simile ad Amour di Michael Haneke, infatti il signor Morgan eponimo (Michael Caine) vive lo stesso stesso dramma e arriverà alla stessa conclusione, ma con alcune differenze sostanziali.

Dopo un paio di anni di depressione, infatti, Morgan incontra fortuitamente Pauline (Clémence Poésy), una bella giovane donna che, per il gentile modo di fare, gli ricorda sua moglie. I due imbastiscono una amicizia che ha l'effetto di rompere il loop in cui lui era finito.

La situazione si complica con l'entrata in scena dei figli di Morgan, in particolare Miles (Justin Kirk), visto che sua sorella (Gillian Anderson) è praticamente una meteora che passa, approfitta della location (Parigi sarà sempre Parigi) per fare acquisti e poi se ne torna a casa.

Abbiamo quindi una sorta di triangolo, con in due Morgan e Pauline che cercano di chiarire quali siano i rapporti tra loro.

A differenza di Amour, qui i toni sono meno tragici, avvicinandosi più volte a quelli della commedia, miracolo che riesce anche grazie alla buona colonna sonora di Hans Zimmer che integra, tra l'altro, anche Not too late di Norah Jones, sui titoli di coda.

E, a proposito di musica, è da notare che un ruolo importante nell'azione è assegnato ad Anthem di Leonard Cohen.

Gravity

La storia è tipica da B-movie, ma gli sceneggiatori, Alfonso Cuarón e figlio, con un supporto da parte di George Clooney per la caratterizzazione del suo personaggio, riescono comunque a darle uno spessore proprio. La regia ha la brillantezza a cui Cuarón ci ha abituato (I figli degli uomini e quello che forse è l'episodio della saga di Potter che mi ha convinto di più, il prigioniero di Azkaban) a cui aggiunge una gestione degli effetti speciali da lasciare senza fiato.

I riferimenti che mi sono nati spontanei dalla visione sono a Moon di Duncan Jones e Tutto è perduto di Chandor. Astenersi chi preferisce i film con movimenti di masse, robot con raggi laser e amenità del genere. L'ambientazione spaziale fornisce solo il contorno e l'occasione di lasciarsi affascinare da immagini che tolgono il respiro.

Il racconto è retto quasi solo da Ryan (Sandra Bullock), un medico che si è fatta sparare nello spazio in una missione dello Shuttle per fare un qualche esperimento in situazione di microgravità. Il resto dell'equipaggio è subito spazzato via da una catastrofe, resta solo il capitano Matt Kowalski (Clooney) che però fa poca roba.

In pratica si racconta dell'evoluzione Ryan, che all'inizio è così depressa da fare il suo lavoro bene, ma senza badarci nemmeno tanto (se facciamo attenzione al dialogo, prima del film lei aveva suggerito una soluzione, ne era stata preferita un'altra che si dimostra fallimentare, ma lei non batte nemmeno ciglio, nemmeno un umanissimo "ah-ha, lo sapevo io!"), ma alla fine riuscirà, sia pur pesta, malconcia, zuppa e infangata, a rialzarsi con le sue sole forze.

Hitchcock

Il film è basato sul libro di Stephen Rebello, più correttamente titolato Alfred Hitchcock and the making of Psycho, sceneggiato da John J. McLaughlin (che ha partecipato alla scrittura del Cigno nero di Darren Aronofsky), e diretto Sacha Gervasi (che ha sua volta ha co-sceneggiato The terminal e Henry's crime ed è qui alla sua seconda regia dopo il rockumentary sugli Anvil).

L'idea è quella di usare il dietro le scene della creazione di Psycho per cercare di spiegare il mistero del carattere del Maestro del cinema. Risultato raggiunto solo in parte, sia per la difficoltà del compito, sia per alcune debolezze in fase di realizzazione. In particolare, ho trovato fastidiosa la protesi facciale imposta ad Anthony Hopkins per rendere più simile il suo profilo a quello di Hitch; mi è sembrata del tutto inutile la sottotrama dedicata al "tradimento" di Alma Reville (Helen Mirren); deludente il poco spazio dedicato a Psycho.

A parziale discolpa del team creativo, ho letto che i detentori dei diritti di Psycho non hanno concesso l'uso dell'immagine del film originale, e questo deve essere stato un duro colpo (anche in termini di ego, considerando cosa ha potuto fare Gus Van Sant) che ha evidentemente condizionato la scrittura e la realizzazione del lavoro.

La storia comincia con Hitch, considerato come un limone spremuto dai produttori, voglia tornare a fare qualcosa di sorprendente, qualcosa che lo riporti agli inizi della sua carriera. Prende dunque un pessimo libraccio e lo usa come base per tirarci fuori qualcosa che lasci gli spettatori senza fiato. Solo a lui sembra una buona idea, persino Alma, compagna di tutta la vita, si mostra piuttosto fredda, anche se gli dà il suggerimento di anticipare ancor più di quanto pensasse lui la morte della protagonista.

Testone com'era, Hitch prosegue imperterrito, producendo di tasca propria il film e lasciando allo studio il solo onere della distribuzione. Questo spiega il taglio a basso costo della pellicola, con una qualità quasi-televisiva del risultato. La tensione, quei seccatori della censura, i dubbi, i demoni interni che si agitavano in lui, e mettiamoci pure la salute non proprio eccellente, contribuiscono rendere ancor più tormentata la realizzazione del film. Ma grazie al cielo alla fine si riesce ad arrivare al prodotto finito. Ultimo problema, lo studio continua a non fidarsi, e solo due sale vengono concesse per il lancio. Vedremo cosa riuscirà a fare Hitch e, cosa più importante, se riuscirà a trovare le parole giuste da dire alla sua amata Alma.

Nonostante le mie perplessità sul trucco, sir Hopkins supera tranquillamente l'impegnativa prova (anche se vorrei aver sentito la sua voce originale e non il doppiaggio italiano, per potermi esprimere meglio sul risultato), come pure la sempre brava (e regale) Mirren. Buono anche il cast al contorno, con Scarlett Johansson negli scomodi panni di Janet Leigh, Jessica Biel come Vera Miles, Michael Stuhlbarg per Lew Wasserman, e soprattutto James D'Arcy che rende ottimamente Anthony Perkins.

Sirene

La prematura dipartita di Bob Hoskins ha riportato in auge film che, pur non essendo capolavori, hanno il loro perché. Sirene (Mermaids) è uno di questi. Commedia ambientata a cavallo tra il 1963 e il 1964 che ha come protagonista Charlotte (Winona Riders, nello stesso anno di Edward mani di forbice) una ragazzetta che si appresta a diventare giovine donna. Da notarsi che viene data enfasi all'omicidio di JFK, avvenuto proprio in quel periodo, e mi pare lecito leggere in questo accostamento che il regista (Richard Benjamin) interpreti la sceneggiatura (di June Roberts) basata sul romanzo di Patty Dann come se la perdita dell'innocenza di Charlotte si specchi in quella dell'intero Paese.

La famiglia di Charlotte è tutta al femminile, la madre, chiamata sempre Mrs. Flax (Cher), ha avuto i suoi trascorsi. Il padre di Charlotte l'ha mollata (fregandosi pure la macchina), e da allora ha iniziato una peregrinazione per tutti gli USA passando da una storia sbagliata ad una catastrofica. Una di queste le ha lasciato il regalo di un'altra bella bimba, Kate (Christina Ricci, primo ruolo cinematografico), che, come il padre, ha una passione sfrenata per il nuoto.

Giunti nel Massachusetts, un simpatico negoziante (Hoskins) si innamora di quella folle famigliola così diversa e fa di tutto per farne parte. Per riuscirci dovrà vincere la riottosità di Cher, abituata ad applicare una tecnica piuttosto brutale per trovare una via d'uscita ad ogni suo problema: scappare.

La colonna sonora anni sessanta, molto efficace, include anche un pezzo di Django Reinhardt e uno di Marvin Gaye. Sui titoli di coda abbiamo anche modo di sentire la stessa Cher in azione dove canta The shoop shoop song (It's in his kiss), cover di un brano del periodo in questione, che ebbe un buon successo negli anni novanta in questa versione: