Harry Potter e la camera dei segreti

Stessi ingredienti del primo episodio ma mescolati con maggior cura. Risultato meno confuso e più piacevole. La stessa storia originale prende una piega più interessante, con Harry (Daniel Radcliffe già meno bimbaccione) che ha le prime avvisaglie della sua contaminazione con il lato oscuro e inizia a rendersi conto che da grandi poteri derivano anche grandi responsabilità.

Tra i personaggi secondari qui domina Kenneth Branagh nei panni di un mago incapace ma affascinante, particina secondaria per Gemma Jones. Dimenticato di citare David Bradley che appariva già nella Pietra filosofale.

Harry Potter e la pietra filosofale

Ho seguito con una certa distrazione la trasposizione cinematografica della saga di Potter, al punto di non essere certo che questa si tratti della mia prima o seconda visione. Ora mi sembra giunto il momento di mettere le cose a posto ed imbarcarmi nella titanica impresa di (ri)vedersi questa serie.

La storia è quella che è, più o meno a questo punto la dovrebbero conoscere tutti, la formazione del giovane Potter (Daniel Radcliffe) destinato a diventare un mago e a salvare il mondo dal suo arcinemico Voldemort, o a perire nell'impresa. O meglio ... vabbé, non spoilero per quei due o tre che non conoscono i dettagli, vogliono leggersi tutta la storia come l'ha scritta la Rowling, e sono disgraziatamente passati da qui prima.

La lettura del libro prima (o invece) della visione del film è caldamente consigliata. Credo che lo spettatore casuale non ci capirebbe poi molto. Nonostante la lunghezza della pellicola, un paio d'ore e mezza, gran parte dei personaggi finiscono per essere appena abbozzati, anche perché il regista (Chris Columbus, anche produttore esecutivo) ha puntato soprattutto sulla spettacolarizzazione alla Walt Disney, alla Pomi d'ottone e manici di scopa, più che sull'approfondimento dei caratteri.

Colonna sonora di John Williams, che rafforza il parallelo tra Potter e Star Wars (lato oscuro della forza che corrompe, ecc ecc). Ottimo cast molto inglese che riesce mantenersi suppergiù credibile nonostante il bizzarro abbigliamento. Già perché inesplicabilmente i magici mantegono usi, costumi e abbigliamenti medioevali, il che deve complicare loro la vita non poco, visto che vivono mescolati con i comuni mortali. Si potrebbe pensare che il medioevo è stato il loro periodo d'oro e preferiscano tenerselo stretto, ma questo non spiegherebbe l'anacronismo della strepitosa locomotiva ottocentesca.

Tornando al cast, direi che il migliore sia Alan Rickman, che riesce a stare serio nonostante la ridicola pettinatura alla Renato Zero. Complimenti anche a John Hurt (particina come venditore di bacchette magiche), Richard Harris dall'imponente barba bianca e Maggie Smith.

Harold e Maude

Famiglia (alto borghese), religione (cattolica), psicoanalisi (freudiana), polizia, esercito, subiscono una feroce, anche se un poco datata, satira in questa commedia sentimentale dal retrogusto tragico. Scritto e prodotto da Colin Higgins, diretto da Hal Ashby, con la colonna sonora di Cat Steven, è decisamente un film figlio dei suoi tempi, con una forte enfasi sul singolo, visto come contrapposto ad una società che tende a opprimente e uniformante.

Il protagonista è Harold, un ragazzetto (Bud Cort) ricco di famiglia ma che non si trova a suo agio in quei ricchi panni. Non ha amici, passa le giornate ad inscenare con incredibile accuratezza finti suicidi (lo vediamo in azione sin dall'inizio, quando simula un impiccagione sotto lo sguardo della madre che si mostra già usa alle sue rappresentazioni), partecipare a cerimonie funebri, o assistere a demolizioni.

Per sua fortuna incontra Maude (Ruth Gordon, eccellente), anche lei frequentatrice assidua di funerali ma decisamente più sbarazzina (nonostante abbia un dramma nel suo passato, se ne accenna appena e in maniera indiretta, semplicemente mostrando un tatuaggio). Si piacciono, si frequentano, Harold supera la sua crisi e pensa di chiedere a Maude di sposarlo, ma non è cosa, Maude aveva già deciso altrimenti.

Monster House

Il chowder è una sorta di zuppa di pesce preparata dagli anglofoni su entrambe le sponde dell'Atlantico, un piatto tendenzialmente mostruoso che include un po' di tutto, a seconda delle versioni. Chowder è il soprannome di uno dei ragazzetti protagonisti della vicenda (tradotto adeguatamente in italiano con Timballo), e il chowder è una buona analogia per il film, che include temi diversi, portando ad un risultato troppo frammentario, almeno per i miei gusti.

Il cuore della vicenda è una triste e bellissima storia d'amore, in un certo senso simile a quella di Up, dove lui (Steve Buscemi) non riesce a completare il distacco da lei (Kathleen Turner), morta (o, a ben vedere, trasformatasi in una sorta di mostro) molti anni prima. Solo con l'aiuto di nuovi amici riuscirà a ritrovare un senso per la sua vita.

Purtroppo tutt'attorno questo nucleo è stato costruito un'horror da minorenni - non per nulla ambientato ad Halloween - dove tre ragazzini si trovano ad affrontare il mistero di un tremendo vicino e della sua mostruosa casa. Storie del genere a me, in genere, non dispiacciono, ma in questo caso i tre ragazzini non mi stanno per niente simpatici (in particolare Chowder) e non sono riuscito ad empatizzare con loro.

Ah, dimenticavo di dire che si tratta di una animazione, e i personaggi sono disegnati usando la tecnica motion capture (ovvero basando l'animazione sui reali movimenti degli attori, trasformati qui in sorta di caricature di loro stessi). Il risultato non mi ha particolarmente entusiasmato.

La sequenza iniziale è una esplicita citazione di Forrest Gump, anche qui seguiamo la prospettiva di una foglia che danza nel vento. Bella tecnicamente, ma mi è sembrata priva di alcun senso. In Gump c'era il parallelo tra la foglia e la vita del protagonista, qui credo sia semplicemente vuoto citazionismo.

Industrialmente parlando, si tratta di una produzione Sony dove ci hanno messo il becco gente del calibro di Robert Zemeckis e Steven Spielberg.

Mystic river

Il forte legame con Gone baby gone è dovuto a Dennis Lehane, che ha scritto i due romanzi che hanno fatto da base alle sceneggiature. Quasi identica l'ambientazione - Boston, quartieri non propriamente molto raccomandabili - ma molto differente lo sviluppo.

Qui il cardine della storia sono le relazioni tra i tre protagonisti e tra loro e le proprie mogli. La sceneggiatura (Brian Helgeland) e la regia (Clint Eastwood) danno un taglio quasi shakespeariano alla vicenda, che potrebbe essere traslata facilmente in diverso luogo e periodo. Una tale impostazione ad alta intensità richiede capacità attoriali conseguenti, che è garantita da un trio di star di tutto rispetto (Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon) e da comprimari all'altezza.

Allo spettatore disattento, o che non si voglia fare troppi problemi, potrebbe sembrare un semplice (si fa per dire) film investigativo che tratta un caso spinoso dai risvolti drammatici. Il prologo ci mostra tre ragazzetti che giocano finché un paio di tali che si atteggiano a poliziotti intervengono caricando uno dei tre in macchina. Si trattava di pedofili che abuseranno del poveretto per giorni. Salto di una ventina d'anni, i tre non si frequentano più ma un nuovo dramma li rimette in contatto. La figlia del più teppista (Penn) viene ferocemente uccisa; a quello che era il gregario, e nel frattempo è diventato poliziotto (Bacon), viene assegnato il caso (e Laurence Fishburne è il suo socio); il capro espiatorio (Robbins), violentato da piccolo, è tra i maggiori sospettati.

Come investigazioni se ne sono viste di più intriganti, ma qui, come detto, l'interesse è più sulle personalità dei personaggi e sulle loro interazioni. In parallelo c'è anche una sorta di studio sulle relazioni tra moglie e marito, che però risulta appena abbozzato, mostrando un rapporto basato sull'incomprensione (Robbins), uno sulla fuga e la completa assenza di dialogo (Bacon), e il meglio evidenziato, con una scena nel finale in cui Laura Linney si ritaglia di prepotenza uno spazio breve ma intenso, un legame alla Macbeth (Penn).

Gone baby gone

Dopo essermi visto The town m'è venuta la curiosità di vedermi anche il primo lungometraggio diretto (e co-sceneggiato) da Ben Affleck. In breve, questa storia è più convincente (merito del romanzo originale su cui è basata, immagino) e di conseguenza il risultato complessivo mi sembra superiore.

Bruttarello il titolo, sembra quello di una canzonetta pop, ma la responsabilità cade sul romanziere Dennis Lehane. In italiano al romanzo è stato cambiato titolo, probabilmente perché ritenuto non adatto al tono del racconto investigativo-delinquenziale, e questo mi ha causato un bizzarro equivoco. Più il film procedeva e più mi pareva di sapere dove si andasse a parare. Sulle prime pensavo si trattasse di una storia non particolarmente originale, pur narrata con un taglio personale, solo alla fine mi sono accorto che era tratta da un libro che avevo letto. L'effeto deja vù ha trovato così una spiegazione soddisfacente.

Per motivi personali non ho potuto dunque godermi appieno la trama investigativa, che però non è male. Abbiamo un mistero, una indagine che arriva ad una soluzione, per quanto insoddisfacente, una nuova indagine che getta una nuova chiave interpretativa su quello che avevamo visto nella prima ora, e una nuova soluzione, anch'essa non particolarmente soddisfacente ma vera - per quanto ne possiamo capire.

Ho comunque apprezzato il lato emozionale della vicenda, che tocca elementi molto sensibili, su tutti cosa sia "giusto" e cosa "sbagliato" e sull'impossibilità pratica di dividere il bene dal male. Diversamente da The town qui non ci sono personaggi in bianco e nero, abbiamo solo tante variazioni di tonalità sul grigio. Il protagonista sarà alla fine chiamato a fare una scelta tra due mali, e dovrà capire (kantianamente mi verrebbe da dire) dove lo guidi la legge morale che ha dentro di sé.

Narratore della vicenda e protagonista è un investigatore privato (Casey Affleck, fratello giovane del regista) ben lontano dagli stereotipi hard boiled: è un giovinetto acqua e sapone, si occupa di casi di ben poco spessore e ha per partner nel lavoro la stessa che ha nella vita (Michelle Monaghan, parte secondaria ma ben recitata). La scena iniziale, oltre a inquadrare la vicenda, mi è sembrata un atto di amore del regista per Boston, girata con il cuore in mano. Mi ha fatto pensare a Manhattan di Allen, anche se qui Affleck ci fa vedere una parte di città molto meno raccomandabile, ma mantenendo lo stesso grado di affetto. E vien da dire, buoni tutti ad amare Manhattan. Ma come dice il protagonista, ci sono cose che uno non sceglie, la famiglia, il quartiere dove si nasce.

Cast di tutto rispetto, Morgan Freeman è a capo della squadra che si occupa dei reati contro i minori, Ed Harris è tra i suoi sottoposti.

Cose dell'altro mondo

Il legame è veramente molto tenue, però mi ha fatto a pensare a Miracolo a Milano delle premiata coppia Zavattini-De Sica (nel senso di Vittorio). In entrambi i casi si parte da una triste realtà, e poi si sterza bruscamente nel fantastico.

Purtroppo gli autori hanno attinto, più che al suddetto capolavoro del cinema italiano, ad un oscuro filmetto americano, A Day Without a Mexican, rapidamente citato nei titoli di testa. L'essere un adattamento di un film straniero, e la presenza nel cast di Valentina Lodovini fa pensare anche a Benvenuti al sud, paragone meno azzardato, ma che si risolve anche lui a svantaggio del titolo corrente.

Il film inizia con un toro, e così ho pensato pure a Il toro di Mazzacurati, anche lì Diego Abatantuono è protagonista.

L'idea su cui è basata la storia non è malvagia, in un paesotto del Veneto si percepisce un sentimento diffuso anti-immigrati. Una notte questi scompaiono tutti e la popolazione si trova a dover fare i conti con una situazione complicata da gestire. Materiale per un corto, che viene infarcito da un paio di storie, artificiosamente collegate da una parentela che verrà rivelata solo nel finale.

Il cast non è male, ma sfruttato malamente da Francesco Patierno (regista e cosceneggiatore). Abatantuono è un industrialotto che fa pure il polemista leghistoide in una televisione locale, predicando per l'allontanamento degli stranieri su cui pure campa (dipendenti della sua azienda, prostituta che frequenta, servitù nella casa). La parte dovrebbe creare un misto di repulsione e simpatia, nello sperimentato solco della commedia all'italiana, ma non mi pare si possa dire che abbia centrato il bersaglio. C'è da dire anche che Abatantuono che parla in veneto non è molto convincente, forse sarebbe stato opportuno adattare la sceneggiatura alla sua evidente milanesità.

Valerio Mastandrea è un poliziotto romano in visita alla madre (parte piccola, ma ben interpretata da Laura Efrikian) colpita da Alzheimer che incongruamente abita nel Veneto. Oltre a visitare la madre, ne approfitta per cercare di convincere la sua ex (la Lodovini) a tornare con lui. Lei insegna, e ha una relazione con uno straniero, che l'ha messa incinta. Curiosamente la sparizione di lui non la inquieta poi tanto, d'altronde sembrava che non fosse poi nemmeno troppo interessata a sposare il padre di suo figlio.

Una apparizione anche per Sergio Bustric, nella parte di un buffo personaggio in bilico tra magia contadina e imbroglioncello modernizzato.

Una bella riscrittura, una direzione con mano più ferma, e magari una partecipazione più attiva dei protagonisti avrebbe giovato al risultato finale.

Eva contro Eva

Consigliata la visione a ridosso di La diva Julia. Curiosamente simile al Viale del tramonto, che è dello stesso anno; mi ha fatto pensare, per il meccanismo narrativo e alcuni particolari, anche a Il falò delle vanità.

Tutto sommato un filmone, anche se mi pare che la regia (Joseph L. Mankiewicz) lasci correre in alcune scene una recitazione non proprio all'altezza, e che la sceneggiatura (lo stesso Mankiewicz) giunga alla conclusione con una certa difficoltà.

Eccellente protagonista Bette Davis nei panni di una acclamata attrice quarantenne agli inizi di una crisi di mezza età. Una adorante fan (la Eva del titolo, Anne Baxter) la riesce ad avvicinare e, nonostante la sua factotum (parte piccola ma ben disegnata e ben interpretata da Thelma Ritter, ottima caratterista che quattro anni dopo sarà in La finestra sul cortile) le manifesti subito le sue perplessità, diventa una sorta di sua ombra. Si rivelerà essere una tremenda manipolatrice, disposta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi.

Forse è proprio la Baxter il punto debole dell'azione, dovendo interpretare una giovane attrice capace di cancellare sulla scena la Davis, cosa impensabile. E giustamente il regista non la mostra in azione, praticamente chiedendoci di crederci a scatola chiusa.

La vicenda è narrata in un curioso flashback che lascia fuori solo una breve introduzione e l'epilogo, staccando e tornando sul fermo immagine preso al momento della consegna a Eva di un prestigioso (e inesistente) premio teatrale.

Il narratore è un viscido e cinico critico teatrale (George Sanders, una lunga e gloriosa carriera di cui questo film è uno tra i tasselli meglio riuscitogli, ma non da dimenticare anche la sua partecipazione ad Uno sparo nel buio) che inizia a raccontare la vicenda in prima persona, cedendo poi il testimone ad altri, e fornendo un punto di vista a suo modo distaccato dalla vicenda. In teoria potrebbe quasi anche essere considerato lui il vincitore della storia, anche se in realtà ammetterà lui stesso di non meritarsi che il peggio di quello che la vita può offrire.

A vincere direi che è quindi proprio il personaggio della Davis, che finisce per usare quella che sembrerebbe una sconfitta per dare alla sua vita una dimensione più completa.

La regia usa con evidente piacere la parte non originale della colonna sonora, ad esempio facendo suonare al pianista presente nell'azione brani come Stormy weather (dopo la visione sono andato a risentirmelo nella versione di Ella Fitzgerald) e Blue moon. In un altra scena, Bette Davis accende l'autoradio per far sì che un brano (originale, credo) faccia da sottofondo alla scena.

Da notare poi che si tratta di una delle prime apparizione di Marilyn Monroe e direi che qui Mankiewicz ha genialmente costruito il personaggio che le è restato appiccicato per tutta la carriera: bella, svampita, capace di battute fulminanti o assolutamente sciocche.

The town

Eppure c'é qualcosa che non mi convince. Non sono riuscito ad appassionarmi, forse è questo il problema. Direi che è un buon prodotto medio, un buon film da vedere, che lascia pure qualcosa, ma gli manca il guizzo che lo distingue dai molti altri film simili.

E' decisamente un opera di Ben Affleck (regia, co-sceneggiatura, interpretazione come protagonista), che conferma di essere capace non solo come attore. Forse gli manca solo l'esperienza. Come regista mostra di saper gestire sia le scene di azione (spari, inseguimenti col botto, tensione varia) sia quelle che giocano più sui livelli emotivi.

La storia è molto bostoniana, e in particolare tratta di Charlestown, quartiere operaio che vanta il non lusighiero primato in termini di densità di rapinatori di banche per kilometro quadro al mondo. Protagonista, per l'appunto, un rapinatore di banche (Affleck) e la sua squadra (tra cui Jeremy Renner, amico di infanzia). Nel rapinare una banca il nostro si imbatte in una bella bancaria (Rebecca Hall, che non mi convince molto ma credo di essere in minoranza) e se ne innamora. Riusciranno i piccioncini a coronare il loro sogno d'amore? Non è detto, sia perché hanno entrambi problemi personali che si trascinano dietro dall'infanzia (parte del problema è rappresentato dal padre, Chris Cooper, parte piccola ma succosa), sia per la situazione di lui (fare il delinquente non è certo un buon biglietto da visita). Interessante notare come i "cattivi" siano quelli che ostacolano il cambiamento del protagonista, e sono quindi i referenti della malavita che manovrano i rapinatori (un Pete Postlethwaite a fine carriera, ben in parte) e il segugio dell'FBI (Jon Hamm) a cui fa comodo semplificarsi il lavoro.

Forse il punto debole sta nello schematismo con cui viene svolta la vicenda (possibile che un rapinatore di banche, delinquente figlio di delinquente, ex giocatore di hockey, sia tutto sommato una brava persona che, se non fosse per le circostanze, non farebbe male a una mosca?). Forse il personaggio di Affleck avrebbe dovuto mostrare meglio il suo lato oscuro, e non lasciare tutto al suo sodale (Renner) il monopolio della violenza insensata.

Le idi di marzo

Progetto interpretato, diretto, co-sceneggiato, co-prodotto (tra gli altri c'è anche Leonardo DiCaprio) da George Clooney che mi sembra sia riuscito a fare un buon lavoro in tutti i ruoli.

Come attore interpreta un candidato presidenziale molto liberal per gli standard americani ma che nonostante questo sembra che abbia ottime possibilità di vittoria. Non è il protagonista della vicenda e viene tenuto correttamente dal regista nei giusti limiti.

La direzione non è eclatante ma ha alcuni meriti non trascurabili, primo fra tutti quello di non cedere alla tentazione di puntare tutto su Clooney come attore. Inoltre ci sono due o tre scene girate veramente bene, tipo quella in cui non ci viene fatto vedere cosa succede, l'azione si svolge dentro una macchina, la macchina da presa è all'esterno e si avvicina lentamente, ma non vediamo né sentiamo nulla, dobbiamo immaginare tutto vedendo come esce uno dei personaggi dal veicolo.

Buona anche la sceneggiatura (non originale), anche se mi è parsa un po' troppo lenta nella prima fase, quella di costruzione dei personaggi. E niente da dire nemmeno sulla produzione, che deve aver avuto la maggiore uscita in compensi per il cast, decisamente di alto livello.

Protagonista Ryan Gosling, ai vertici del team che organizza la campagna elettorale per un governatore democratico di cui ha una grande stima. Il suo capo è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e hanno come avversario Paul Giamatti che guida la campagna dell'altro democratico in gara. In un ruolo secondario, giornalista politica del New York Times sempre in caccia di notizie, Marisa Tomei. Gosling subisce il fascino di una giovane stagista (Evan Rachel Wood) da cui, come è lecito aspettarsi, deriveranno tutti i problemi.

Da un punto di vista italiano, il racconto della corruzione, falsità, intrighi e mancanza di ideali della politica americana fa ridere. Diamine, il peggiore dei personaggi rappresentato nel film verrebbe divorato in pochi secondi dagli squali che girano dalle nostre parti. Ma questa più che essere una debolezza della sceneggiatura è un nostro problema etico. In ogni caso il racconto delle traversie del giovane Gosling che si deve confrontare con nemici e dubbi amici ha una sua profondità e interesse. Finale amaro giustificato dalle premesse.

The IT crowd - terza serie

In linea con le due precedenti stagioni, non ci sono novità sostanziali, se non il restyling dell'ufficio. Qualche attimo un po' sonnacchioso in un paio di puntate, forse tre.

1 - From hell. Roy crede di riconoscere il muratore che sta facendo lavori a casa di Jen come un partecipante del reality "Builder from hell" (muratore infernale), noto per fare cose terribili sul lavoro. Moss è alle prese con dei ragazzacci che lo deridono.

2 - Are we not men? Roy e Moss cercano di comportarsi come persone "normali", fingendo di seguire il campionato di calcio. Jen scarta l'ennesimo pretendente, questo perché sembra un prestigiatore.

3 - Tramps like us. Si conclude una vicenda iniziata in 2-6, Douglas (nuovo capo azienda dopo il suicidio del padre) paga i tre IT per le molestie sessuali a cui li ha sottoposti. Per una serie di bizzarre circostanze Roy finisce sulla strada senza un soldo.

4 - The speech. Jen viene premiata come impiegata del mese, fa scrivere il discorso ai Roy e Moss (dato che non sa cosa sia il suo lavoro) che le fanno dire un mucchio di sciocchezze. Douglas ha una avventura con una giornalista dall'oscuro passato.

5 - Friendface. Presa in giro di Facebook e degli effetti collaterali dei social network, soprattutto nel caso di individui ben poco sociali.

6 - Calendar geeks. Moss si trova coinvolto nella realizzazione di un calendario sexy che per strane vie diventa una specie di dannazione.

Furore

Adattamento dell'omonimo romanzo di John Steinbeck, che in originale fa The grapes of wrath, suonando qualcosa come I frutti dell'ira. A dire il vero né nel libro né nel film si vedono questi frutti, ma piuttosto le condizioni che potrebbero spiegare prese di posizione piuttosto irate.

Si narrano le vicende di una famiglia del midwest americano, Oklahoma per la precisione, ai tempi della grande depressione. Impressionante notare come le cose non siano cambiate poi di molto, nella sostanza.

Figura principale nel film è quella di Tom (Henry Fonda), tipo piuttosto iracondo che però vuol bene alla mamma (Jane Darwell). Per sua fortuna incontra un prete spretato (John Carradine) a cui sembra gli sia andato un po' di volta il cervello, pur restando un brav'uomo, forse anche meglio di come era prima. Dice infatti di essersi spretato per aver scoperto di non saper più cosa sia giusto e cosa no, ma di volere con umiltà cercare di capirlo. La crisi fa sì che moltissimi piccoli proprietari vengano scacciati dalle proprie terre e costretti a cercare fortuna in California, pubblicizzata come fosse il paradiso in terra. Emozionante la scena in cui Mà distrugge i suoi ricordi di una vita prima di abbandonare per sempre la sua terra. Segue viaggio travagliato, scoperta che in California si stava persino peggio che in Oklahoma, tentativo di ottenere un barlume di speranza nella vita. Il finale è leggermente più ottimista dell'originale di Steinbeck.

Regia asciutta di John Ford che ben si adatta al tema trattato.

The chronicles of Riddick

Il pregio fondamentale del secondo episodio delle avventure di Riddick è quello di avermi fatto rivalutare il precedente Pitch black. Pensavo che lì i problemi venissero dal lato scrittura e pensavo che la regia avesse raddrizzato la situazione, ma vedo che qui alla parte creativa c'è il solo David Twohy e il risultato è nettamente inferiore.

I molti soldi a disposizione della produzione devono aver convinto Twohy a lasciare il filone tra l'horror e il fantascientifico straccione post-atomico per dedicarsi alla fantascienza classica "imperiale", alla Star wars o Dune. D'altro canto le atmosfere usate sono quelle da supereroi cupi alla Batman, complicate da una scenografia tra il futurismo e il gotico, inscatolando tra l'altro i figuranti in armature di gusto rinascimentale del tutto insensate.

Resta Vin Diesel nei panni di Riddick, che subisce alcuni cambiamenti, il principale dei quali è che adesso vede bene anche alla luce normale, e gli occhialetti che gli erano necessari qui diventano un mero accessorio alla moda.

Cast variegato che include Thandie Newton nel ruolo di una dark lady molto cospirativa e Judi Dench molto aerea.

Pitch black

Primo episodio delle cronache di Riddick, penso che sia da considerare inguardabile per chi non abbia una certa passione per la fantascienza. E anche tra potenziali spettatori superstiti i risultati potrebbero essere altalenanti.

Una descrizione sommaria potrebbe catalogarlo come una sorta di Alien ambientato in un deserto alla Mad Max. B movie, quindi, ma diretto con una certa grazia (David Twohy). Piacevole la fotografia, che sfrutta il presupposto del mondo alieno illuminato da ben tre soli per ammannirci bizzarri colori e luminosità.

Le note dolenti vengono dalla storia, responsabilità principale dei fratelli Wheat con zampino del regista che, pur partendo da una idea interessante, resta scomodamente in bilico tra gli stereotipi del genere e le scemenze senza senso.

Per quanto riguarda gli stereotipi: astronave in panne si schianta su pianeta sconosciuto, chi ne sa di più muore ancora prima che l'azione inizi, un drappello di superstiti eterogenei deve superare difficoltà esterne e interne per cavarsela, i personaggi minori e qualche protagonista fanno una fine orrenda.

L'elenco delle sciocchezze è troppo lungo per questa sede. Per dirne una: lo sciame meteorico che porta al disastro fa incomparabilmente meno danni di quelli che dovrebbe fare. Dati i buchi che vengono fatti vedere, l'astronave sarebbe dovuta esplodere subito - un cortometraggio tra i più brevi nella storia della fantascienza. Oppure i buchi dovevano essere molto, ma molto (molto, molto, molto) più piccoli.

Da dire poi che si tratta di un gruppo di sfigatoni. Non solo fanno naufragio, ma finiscono su un pianeta desertico, perennemente sotto i raggi infocati di tre soli, giusto immediatamente prima che, come accade solo una volta ogni 22 anni, ci sia una eclissi totale.

Decisamente improbabile, poi, che su tale pianeta si sia evoluta una curiosa razza di predatori notturni che per 22 anni non ha niente da fare se non aspettare. Ci sarebbe da chiedersi anche che cosa si aspettino questi simpatici mostri tutti zanne e speroni. Mica è così facile che capiti qualcuno in visita.

Ma dicevo che penso ci sia una idea interessante nel film, e sarebbe poi il protagonista, un bruto assassino tutto muscoli e niente cervello, interpretato adeguatamente da Vin Diesel, che si è fatto operare agli occhi in modo da avere una visione notturna spettacolosa. Perché ha fatto mai questa idiozia e non si è comprato uno di quegli aggeggini che fanno vedere tutto verde mi sfugge, ma non è questo il punto. Il punto sarebbe che Riddick, perché di lui si tratta, inizialmente è in catene, e ha una voglia matta di fuggire (fuggire dove, vien da chiedersi) e magari ammazzare un po' tutti (invece di sedersi e aspettare che l'inospitale pianeta faccia il lavoro sporco al posto suo), ma poi viene giocoforza portato ad interagire più garbatamente con i suoi compagni di sventura.

Insomma, si tratta del solito western con cacciatore di teste che sta portando la sua preda dallo sceriffo per intascare la taglia, ma si imbattono in una carovana di pionieri ... però i cattivi qui non sono gli indiani ma mordaci alieni.

Bunraku

Curioso film che mescola fumetti, videogiochi, samurai, western (spaghetti), post-catastrofismo ottenendo un risultato che non mi riesce facilmente di descrivere. Parto travagliato della fantasia (malata) di Guy Moshe che ha diretto sulla base della sceneggiatura che ha tratto da un racconto di Boaz Davidson, che sarebbe poi tra i produttori di film come The Expendables, l'ultimo Conan, Rambo e altre delizie del genere. Il che spiega come, pur essendo lui un illustre sconosciuto, sia riuscito a racimolare un budget non colossale per gli standard americani (ma per i nostri sì) ma comunque notevole per una produzione indipendente, e soprattutto ad attirare noti attori nel progetto.

La storia prende le mosse da una catastrofe planetaria, in seguito alla quale si decide di bandire l'uso di tutte le armi da fuoco nel pianeta, cosicché la gente si ammazza all'arma bianca. Un futuro alla Mad Max, in certi aspetti uguale al nostro presente, in altri regredito ad un passato prossimo o anche remoto.

In una città di cartapesta, ma che più la Dogville di von Trier ricorda la Sin City di Tarantino (che occhiegga pure nell'attenzione strabica all'oriente e allo spaghetti western) e soci, due sconosciuti, Josh Hartnett e tale Gackt (una pop-star giapponese, se ho capito bene), arrivano a cercare ognuno di completare la propria diversa (e abbastanza scema) missione. Un barista da cui nessuna persona provvista di un minimo di buon senso (il natural born killer Woody Harrelson) accetterebbe il più innocuo aperitivo li mette assieme, avendo misteriosamente capito che possono risultare utili anche per la sua di missione. Seguono una impressionante serie di sciabolate, grida e botte, non trascurando pure una sottile traccia romantica, che a suo modo mi ha ricordato Valzer finale per un killer, che permette i due (più uno) di raggiungere il nemico comune, l'elusivo capo della mala locale (Ron Perlman) che tra l'altro si spupazza Demi Moore. Tanto per gradire.

A livello visuale il risultato è divertente, ma tirato troppo per le lunghe (due ore!). La storia però è una barba. Terrei d'occhio Moshe e spererei che gli capitasse per le mani una vicenda più interessante.

Slevin - Patto criminale

Siamo dalle parti de I soliti sospetti, Ocean's eleven, Pulp fiction, tanto per fare un po' di titoli, ma il risultato è meno piacevole. Colpa soprattutto della sceneggiatura, direi.

Cast interessante, con Ben Kingsley e Morgan Freeman nei panni di due boss della mala newyorkese, Bruce Willis in quelli del killer a pagamento, Stanley Tucci lo sbirro, Josh Hartnett lu bello guaglione, e Lucy Liu quella che passava di lì per caso.

La storia narrata è improbabile e sembra che abbia il solo scopo di far divertire il cast. Potrebbe incidentalmente riuscire divertente anche allo spettatore che vuole passare un paio d'ore in compagnia di una sorta di indovinello criminale tra ammazzamenti vari.

Thor

C'è del marcio in Danimarca, e c'è anche del buono in questo fumettone blockbuster, nonostante le apparenze. Merito probabilmente di Kenneth Branagh, magari anche solo della sua ingombrante presenza alla regia, che deve essere riuscito a far sì che la sceneggiatura prendesse (anche) direzioni più complicate di quello che ci si sarebbe legittimamente potuti aspettare.

Seguiamo così Thor (un muscoloso Chris Hemsworth adeguato al ruolo) che da adolescente figlio di papà diventa adulto. E questa è già una notizia, in un mondo dove sembra che tutti cercano di restare allo stadio infantile il più a lungo possibile. Altra notizia è che l'occasione di crescere gli viene dal fallimento il che, soprattutto visto dal punto di vista americano, deve essere praticamente uno shock epocale. Capita così che Thor, privato dei poteri dal padre Odino (Anthony Hopkins) per averne fatta una più grossa delle altre, piombi sulla terra, ma non riesca bene a capire cosa gli sia successo finché non scopre di non essere più capace di usare il suo martello, fonte dei suoi poteri. Naturalmente supererà questa fase ma, anche qui piuttosto sorprendentemente, solo quando riuscirà a crescere emotivamente.

E non è solo il personaggio di Thor ad essere costruito con una certa profondità, ma un po' tutti i protagonisti divini. Odino ha i suoi lati oscuri, il supercattivo Loki (Tom Hiddleston appena visto in Midnight in Paris, tra l'altro, buon lavoro qui direi, nonostante un carattere non disegnato bene) ha, a ben vedere, tutte le ragioni di essere tale.

Il lato umano della vicenda, invece, zoppica visibilmente. Due ottimi attori, Natalie Portman e Stellan Skarsgård, si trovano a dover gestire personaggi poco più che abbozzati e puramente di contorno.

Credo ci siano molti riferimenti alla serie fumettistica della Marvel, che con me sono andati completamente sprecati. Me la sono cavata grazie al fatto che nella Guida galattica per autostoppisti (serie cartacea, non il film) il personaggio di Thor ha un suo spazio significativo.

Nel finale si lascia intravvedere che il sequel è già bello che pronto. Non mi aspetto niente di buono.

Midnight in Paris

Anni venti a Parigi, un tale cerca di spiegare a tre tizi al bar che lui arriva dal 2010, e spende le sue giornate diviso tra queste due diverse epoche. I tre non capiscono cosa ci sia di strano. Bella forza, sono surrealisti. Tipica situazione alla Woody Allen, un po' come in Prendi i soldi e scappa l'ergastolano che non riusciva a scappare veniva messo in isolamento in compagnia di un assicuratore, per rendere la pena ancor più crudele. Si parte praticamente da cliché ben noti e li si stravolge aggiungendo situazioni di per sé normali ma completamente stranianti.

La nostalgia è il forte legame (non cercato) con Radio America di Altman, che ho appena visto, anche se lo sviluppo è decisamente diverso. Qui il vero motore dell'azione è l'insoddisfazione del protagonista (un sorprendente Owen Wilson - non eccezionale a dire il vero, ma ero prevenuto nei suoi confronti, e invece se la cava in maniera più che dignitosa, e la sua espressione di stupefatta incredulità di fronte a situazioni incredibilmente stupefacenti è perfetta, oltre che estremamente comica) che sarebbe sul punto di sposare una odiosa fidanzata (ma decisamente bellina - Rachel McAdams) con cui, quando ci pensa bene, scopre di avere ben poco in comune, se non un certo apprezzamento per la cucina indiana.

Lo troviamo dunque in crisi esistenziale/creativa (vorrebbe essere un autore letterario, ma ha invece intrapreso una carriera di sceneggiatore di successo a Hollywood) acuita dal fatto di trovarsi a Parigi, un ambiente che sprizza cultura da ogni angolo, soprattutto se paragonato alla California. A questo punto c'è un (giustamente) inesplicabile salto temporale, che possiamo vedere a nostra scelta come reale o immaginario, e che ricorda un po' l'espediente usato in Alice per rappresentare la crisi della protagonista, e che permette al protagonista di confrontarsi direttamente con il suo sogno, vivere nella Parigi degli anni 20, incontrando tra gli altri personaggi come Hemingway (Corey Stoll), Scott Fitzgerald (Tom Hiddleston), Picasso, Salvador Dalí (un brillante Adrien Brody, surreale al punto giusto), Gertrude Stein (Kathy Bates in ottima forma), Joséphine Baker, Cole Porter e confrontarsi con una sua sorta di alter ego femminile (Marion Cotillard) per cui si prenderà una mezza cotta.

Alla fine il protagonista dovrà prendere una serie di decisioni non da poco. Rinchiudersi in un paradiso artificiale o affrontare una quotidianità meno affascinante, ma reale? Seguire la comoda strada di un ricco ma infelice matrimonio o tentare la ventura seguendo la propria vocazione?

A ben vedere, si tratta di una ripresa del precedente Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, ma qui i toni sono molto più allegri, ho riso, sorriso, mi sono lasciato coinvolgere dalla sorpresa di eventi irreali ma ben costruiti, dall'emozione ben raccontata dell'incontro con personaggi ormai mitici. Pensa, incontrare Luis Buñuel. E prendersi la soddisfazione di suggerirgli lo spunto per L'angelo sterminatore!

PS: link alle recensioni citate nel commento da il bibliofilo: Curzio Maltese, Alessandra Levantesi Kezich. Rispetto alla Kezich io contesterei il premio al miglior alter ego di Allen, che darei a Larry David (Basta che funzioni), ma in effetti mi sembra che se la sia cavata meglio di Jason Biggs (Anything else) o anche Kenneth Branagh (Celebrity). Mentre Maltese mi pare che abbia percepito più comicità di me, che ci ho visto anche un aspetto più... direi quasi esistenzialista, per restare in tema parigino.

Radio America

A Prairie home companion è, oltre che il titolo originale del film, uno show radiofonico americano di gran successo il cui boss, Garrison Keillor, ha imbastito una sceneggiatura che mantiene lo spirito del programma, pur stravolgendolo, e l'ha sottoposta niente di meno che a Robert Altman, che l'ha fatta diventare il suo ultimo film.

A narrare la vicenda è uno stralunato investigatore privato alla Marlowe (vedi Il lungo addio) ma con una pericolosa tendenza alla Clouseau e trasferito di peso ai nostri giorni (un ottimo Kevin Kline) che si è adattato a fare il servizio di sicurezza per lo show radiofonico che, come spesso accade da quelle parti, è registrato in diretta in teatro. E' l'ultima puntata, alcuni non lo sanno, altri fanno finta di non saperlo, altri ancora pensano che lo spettacolo comunque deve continuare, qualunque cosa accada. Ad interferire con la serata intervengono una misteriosa femme fatale molto noir (pur essendo in bianco - Virginia Madsen) al punto da essere indicata nei titoli di coda come la donna pericolosa e da ricordare Bruno Ganz in Il cielo sopra Berlino, e un texano (Tommy Lee Jones) tutto soldi e niente sentimento che ammette incidentalmente di essere diventato così per autodifesa, avendo fallito come musicista.

Memoria dei bei tempi andati (alla Radio days), meditazione sulla morte, vista comunque come parte della vita, racconto di quel bizzarro Midwest americano che poco appare al cinema ma che in realtà è parte importante (nel bene e nel male) di quella nazione. Vista con uno sguardo affettuoso e scanzonato da un grande regista in forma strepitosa, nonostante fosse in età così avanzata che gli è stato permesso di girare solo con la clausola di avere pronto la riserva (Paul Thomas Anderson), si avvale di un cast eccezionale - oltre ai sopra citati, una strepitosa Meryl Streep su tutti, poi John C. Reilly, Lily Tomlin, Woody Harrelson, lo stesso Garrison Keillor sceneggiatore nei panni di un quasi se stesso. Ma è davvero il caso di dire che anche i ruoli minori rendono al massimo, potenza di una regia (l'ho già detto?) memorabile.

Mean machine

Remake di Quella sporca ultima meta, però in toni da commedia inglese. Cambia di conseguenza anche lo sport giocato dai galeotti contro le guardie, che da football americano diventa europeo.

Regia molto scarsa di Barry Skolnick che segue lo stile del Guy Ritchie (tra i produttori) prima maniera (Lock Stock, The snatch, pre-Madonna, insomma) ma buttandola più sul videoclip.

Protagonista Vinnie Jones, particina per Jason Statham (entrambi già nei succitati titoli di Ritchie).

Innocenti bugie

Una non particolarmente riuscita commedia romantica d'azione, simpatica nella prima parte, più parodistica e commedia degli equivoci, mentre poi si assesta sul solito tran tran noiosetto con botti, esplosioni, sparatorie, tori a San Firmino che travolgono i cattivi e risparmiano i buoni.

Regia anonima (James Mangold) che bada a gestire il cast e gli effetti speciali senza metterci molto di personale, sceneggiatura strampalata che regge solo parzialmente, e grazie ai notevoli mezzi messi a disposizione dalla produzione.

Tom Cruise è un agente segreto americano (tipo Mission Impossible, ma prendendosi esplicitamente poco sul serio) che ha alle calcagna i suoi colleghi (particolarmente inefficaci) e una banda di trafficanti di armi spagnoli (capaci di scatenare il finimondo a Brooklyn sotto il naso di suddetti servizi americani).

Incontra una dama dal bel sorriso (Cameron Diaz) che inizialmente usa per i suoi turpi scopi, ma di cui poi si innamora. La trascina quindi in una improbabile avventura in cui hanno una particina anche Peter Sarsgaard (un suo collega) e una strepitosa rossa che risponde al nome di Ducati Hypermotard.

Antichrist

Non sono un estimatore dell'horror, ma se questo fosse lo standard del genere cambierei volentieri bandiera.

Tecnicamente abbiamo un signor regista (Lars von Trier) che non si fa problemi di alternare scene al rallentatore girate con macchine da presa iperveloci con riprese con la camera a mano, e che usa effetti speciali, o titoli scritti a mano, come meglio gli sembra per rendere nel modo opportuno la storia (scritta da lui medesimo).

Incantevole l'uso della colonna sonora, praticamente un rumore di fondo che accompagna la discesa agli inferi dei protagonisti, delimitata da una bella aria di Georg Friedrich Händel.

Cast artistico ridotto all'osso: lui (Willem Dafoe), lei (Charlotte Gainsbourg) e una fuggevole apparizione del figlio della coppia. Le due star sono da ammirare sia per come sono riusciti a rendere i due non semplici personaggi sia per il coraggio con cui hanno accettato di imbarcarsi in un impresa capitanata da un regista generalmente considerato insopportabile.

La storia è decisamente esile: mentre i genitori si divertono, il piccolo salta dalla finestra e si schianta al suolo. Segue (?) depressione di lei, lui cerca di aiutarla (è uno strizza, e sa bene che non sarebbe possibile, ma è anche scontento di come viene trattata la moglie, troppe pillole e poca comprensione, e probabilmente si sopravvaluta) ma finisce per ingabolarsi in un percorso che li porta alla catastrofe.

Forse Lei non era già del tutto a posto con la testa anche prima della tragedia, ma a dire il vero più procede lo sviluppo e più le cose diventano meno chiare e, per dirla tutta, non ci possiamo fidare di quello che vediamo.

Data l'ambiguità intrinseca della vicenda, le chiavi di lettura sono praticamente infinite. Ognuno può applicare la sua e dedurne quello che preferisce sul film, ottenendone pareri dei più discordi.

Mi verrebbe da dire che la visione del film è sconsigliata ai minori, anzi mi spingerei ben più in là, perché sarebbe opportuna una maturità di carattere che i vent'anni in genere non aiutano ad avere, ma ci ha pensato von Trier da solo a porre una solida barriera di ingresso, per cui gran parte degli spettatori non idonei finiranno per assopirsi o abbandonare ben presto la visione.

Voglio la testa di Garcia

Storia bislacca (scritta e diretta da Sam Peckinpah) a cui manca un tocco di black humor per essere perfetta. Il protagonista della vicenda, l'Alfredo Garcia del titolo, per dirne una, muore prima dell'inizio del film per cause completamente estranee allo sviluppo della storia (ubriaco fradicio si schianta in automobile). Lo vediamo in faccia solo in foto e abbiamo solo qualche fugace apparizione di parti del suo cadavere.

A volere la sua testa è un ricco messicano di cui il nostro ha sedotto e abbandonato la figlia, lasciandola pure incinta. Costui non bada a spese e stanzia un milione di dollari, mica bruscolini, causando una mobilitazione delle forze del male che sembra non aspettassero altro.

Un gringo ridotto a fare il pianista fallito (Warren Oates) fiuta la possibilità di fare qualche dollaro, scopre che il Garcia ha preso il cuore (e altro) anche della sua bella, che di mestiere si prostituisce, che costei sa che lui è morto e dove è seppellito. Inizia dunque un percorso alla ricerca del cadavere, per potergli staccare la testa e intascare il bottino.

Le cose però si complicano in modo assurdo - ad esempio arriva Kris Kristofferson in motocicletta e, per motivi poco chiari, tenta di violentare la prostituta innamorata - così che gran parte del cast artistico viene preso a schioppettate (muore tra l'altro l'intera famiglia Garcia, tranne il nonno), il pianista fa amicizia con la testa del morto e assieme cercano di scoprire cosa c'è sotto, il che porta naturalmente ad una altra strage e poi alla ecatombe finale.

Troppi luoghi comuni (messicani che cantano e suonano la chitarra - cielito lindo inclusa - senza requie), e qualche dettaglio involontariamente ridicolo (il machete usato per tagliare la testa di Garcia è smisurato), mi hanno lasciato perplesso, ma tutto sommato non è male.

Il cattivo tenente

Il fatto più incredibile è che ne è stato fatto recentemente un remake, firmato niente di meno che da Werner Herzog e interpetato da Nicolas Cage. Evidentemente dell'idea originale deve essere rimasto ben poco e, se non mi stupisce che Cage sia nel cast, mi chiedo che sia passato mai nella testa di Herzog quando ha firmato.

L'originale è co-scritto e diretto da Abel Ferrara, è una produzione evidentemente a basso costo, al punto da sembrare a tratti un prodotto amatoriale quasi documentaristico, che rappresenta New York come città brutta sporca e cattiva (utile vederlo in abbinamento a una puntata di Sex and the City).

La storia gira tutta attorno ad un poliziotto (un Harvey Keitel che non si risparmia) sminuito dal titolo che lo definisce semplicemente cattivo. Tossico all'ultimo stadio, alcolizzato, guardone, violento, abusa del suo ruolo per farne di tutti i colori, è in combutta con spacciatori, e trascura la famiglia per una amante tossica (che trascura per andare con prostitute).

Per rendere la sua vita più interessante, si ficca in un idiota schema di scommesse clandestine sull'epico scontro nei playoff del 1988 tra New York Mets e Los Angeles Dodgers.

Per sua (di lui) fortuna, una suorina viene violentata da un paio di balordi, lui partecipa alle indagini e scopre che lei in realtà sa chi sono i colpevoli, ma non li denuncia perché preferisce perdonarli. Pur essendo lui (almeno teoricamente) cattolico non riesce inizialmente a capire il senso di tutto ciò ma, attraverso una allucinata rielaborazione, ottiene una nuova consapevolezza che lo porterà, beh, a morire solo come un cane.

Non male, a patto di non lasciarsi impressionare troppo dall'uso e abuso di una varietà di sostanze stupefacenti, da Keitel nudo e piangente, o che si masturba mentre violenta verbalmente un paio di ragazzotte di campagna in visita alla grande città. Troppo lunga però la fase di costruzione del personaggio, un alleggerimento di una mezz'oretta ci sarebbe stato bene.

Wild target

Piacevole remake inglese di una commedia molto francese con equivoci, furti, omicidi, relazioni familiari e sentimentali.

Non avendo visto l'originale immagino che il contributo di Lucinda Coxon (sceneggiatura) si sia limitato a trasporre la vicenda a Londra, aggiungendo magari un pizzico di umorismo alla Monty Python, che traspare ad esempio nella breve sottotrama dedicata ad un pappagallo, e caratterizzando come tipica famiglia upper class molto british quella del protagonista.

Regia non particolarmente brillante di Jonathan Lynn ma che comunque gestisce in modo accettabile il buon cast che include Bill Nighy (il killer), Emily Blunt (la ladra), Rupert Grint (passava per caso), Rupert Everett (il truffato), Eileen Atkins (la madre del killer).

Il killer ammazza per tradizione di famiglia, spronato da una terribile madre, ma non è particolarmente soddisfatto del suo lavoro. E' il più bravo, ma non ne trae soddisfazione. Gli viene assegnata l'eliminazione della ladra, di cui però si innamora, probabilmente perché vede in lei l'opposto di quello che lui, malvolentieri, è diventato. Così invece di eliminarla, finisce per difenderla da chi la vuole uccidere, nascondendo a lei, e a un ragazzotto di passaggio che si trova invischiato nella vicenda, la sua attività. Dopo svariati accidenti, tra cui l'intervento del killer inglese numero due, cordialmente disprezzato dal numero uno, tutto finisce per il meglio.

Anything else

Ad occhio distratto (e non solo) potrebbe apparire come un film di Woody Allen quasi indistinguibile da svariati suoi altri, precedenti e anche successivi. Il parallelo con Whatever works, ad esempio, funziona molto bene, per esplicitare sia le comunalità sia le differenze.

Il protagonista è un tipico carattere alla Woody Allen (interpretato da Jason Biggs, che non mi ha fatto fare i salti di gioia), scrive battute per standup comedians, ha relazioni tormentate con le donne e con la psicanalisi. Parla molto in camera, come se ci stesse raccontando personalmente un fatto che gli è accaduto. E' in un periodo di stasi. La sua vita non funziona, e rischia di diventare un fallito, non per mancanza di meriti personali, ma per mancanza di fiducia in sé stesso e di persone che gli diano un supporto. Situazione del resto in cui si ficca da solo, mollando la fidanzata per una pazza scatenata, fra l'altro.

La pazza di cui sopra è interpretata da Christina Ricci, ossessionata dal sesso e incapace di avere una relazione stabile. Ha una madre all'altezza della situazione (Stockard Channing - era giovanetta in Grease, per chi se la ricorda), caotica quanto la figlia.

Il vero Woody Allen interpreta un collega del protagonista, invecchiato nella carriera senza arrivare al successo, sia per mancanza di fiducia - ha preferito mantenere il lavoro di insegnante e fare il battutaro solo part time - sia per vicissitudini complicate.

L'aspetto più interessante della vicenda è, a mio avviso, come il vecchio Woody Allen veda nel giovane sé stesso, capisca che sta correndo il rischio di rovinare la sua vita finendo in un vicolo cieco, e riesca a indirizzarlo verso un cambiamento radicale. Quello che probabilmente era mancato a lui, lo riesce a dare a un altro.

Tra i personaggi minori spicca Danny DeVito, nei panni di un esoso agente, un po' alla Broadway Danny Rose. E Diana Krall nel ruolo di sé stessa.

Amici di letto

Come titolo Friends with benefits suona meglio e, avessero chiesto a me, avrei detto di mantenere l'originale. Ma volendo proprio un titolo italiano non ci si può poi lagnare della scelta.

La storia è quella della soliti due che pensano di avere una relazione sessuale "pura" che non implichi la determinazione di una coppia fissa. All'inizio si divertono da pazzi, ma poi scoprono che la faccenda non funziona. Tema che ultimamente sta diventando di prassi comune, vedi anche Amici, amanti e... e Amore a altri rimedi.

Regista, co-sceneggiatore e co-produttore è Will Gluck, che non definirei un genio.

La sua direzione degli attori mi pare che si limiti a lasciar fare a loro. A riprova di ciò si paragoni la recitazione di Mila Kunis qui e non dico ne Il cigno nero ma anche solo in Non mi scaricare. Justin Timberlake ha mostrato di poter far meglio in The social network, e se non bastasse, c'è pure il paragone impietoso che permette Patricia Clarkson, impegnata in un carattere simile in Whatever works.

Sceneggiatura scarsotta. Una New York da cartolina viene contrapposta ad una altrettanto stereotipata Los Angeles. I newyorkesi maleducati, i californiani super-rilassati.

Il film è diviso nettamente in due parti. Un primo tempo più sbarazzino in cui di due piccioncini si divertono allegramente, un secondo tempo in cui si tirano i fili della vicenda. Quale parte sia "migliore" dipende dai gusti, fatto è che i toni sono così diversi che difficilmente a una singola persona finirà per piacere tutto il film. A me, ad esempio, la prima parte m'è sembrata noiosa (OK, i due stanno bene assieme, ho capito) e inutilmente tirata per le lunghe. In compenso la seconda parte, teoricamente più interessante, m'è parsa un po' tirata via.

Invadente la colonna sonora ma che almeno offre il pretesto per l'unica gag del film che mi ha fatto ridere apertamente. Sui titoli di coda, al momento della presentazione del responsabile della sonorizzazione, una mano abbassa (finalmente!) il volume, ma arriva subito un'altra mano per rimettere la musica a palla.

Coraline e la porta magica

In questo caso tecnica realizzativa e immaginario sottostante seguono via parallele.

Il passo uno è affiancato da grafica computerizzata, creando uno strano ibrido che, grazie allo stato dell'arte della CGI, finisce per dare all'autore un grado di libertà fino a pochi anni fa inimmaginabile. Non che sia necessaria questa aggiunta, dato che il passo uno (tecnica in cui in Italia eravamo maestri) basta ancora per realizzare prodotti eccellenti, si veda ad esempio Mary e Max.

Sull'altro lato, la sceneggiatura e regia di Henry Selick si fonde e scontra con la fantasia di Neil Gaiman che ha scritto il libro originale.

Gaiman è un personaggio eclettico, che opera con successo in diversi campi tra cui fumetti, letteratura per l'infanzia e il fantasy. Facile che uno conosca soprattutto una delle svariate vene produttive di questo autore e frequenti poco le altre. Ad esempio a me appassiona il Gaiman scrittore per adulti (nel senso buono del termine) e poco lo conosco negli altri ambiti. Tutto questo per dire che Coraline non l'ho letto, ma ho comunque riconosciuto la sua mano nella storia narrata dal film.

Di Selick, invece, conosco poco (il burtoniano Nightmare before christmas) e, per dirla tutta non è che mi affascini. Curioso comunque vedere come le sue fantasie si mescolino - a volte con qualche inciampo - con quelle di Gaiman.

Presa alla lettera, è la storia di una ragazzina che inciampa in un mondo parallelo dove tutto è come in quello reale, ma in una versione migliorata. Se non fosse per un piccolo dettaglio (niente occhi, ma bottoni per tutti) e per il fatto l'apparente bellezza di questo altro mondo nasconda un abisso di orrore.

Assumendo che il racconto sia fatto seguendo la prospettiva della protagonista, si legge una vicenda ancor più torbida, alla Amabili resti.

Ineludibile anche il riferimento ad Alice, di cui è recente la versione di Tim Burton, visto che Coraline passa da un mondo all'altro per mezzo di un misterioso tunnel e, in un certo senso, anche per il ruolo del gatto.

Nel finale mi è venuto un mente un altro film, un vecchio horror, La mano, in cui un tale perde la sua mano destra in un incidente, ma questa assume una sua vita e diventa una sorta di alter ego senza freni inibitori del suo ex proprietario. Da notare che questo, pur essendo un B-movie, può vantare sceneggiatura e regia di Oliver Stone (non è un omonimo, è che era agli inizi - questo titolo precede di cinque anni l'accoppiata vincente Salvador-Platoon) e ruolo principale affidato a Michael Caine (non uno dei lavori di cui vada più fiero, sospetto).

Hop

Brutto. E così deludente che mi verrebbe voglia di non aggiungere altro.

Eppure, tecnicamente parlando, l'integrazione tra animazioni al computer e riprese dal vivo è così ben fatta da passare inosservata. Il personaggio principale, il giovane coniglio pasquale che è designato suo malgrado a prendere lo scettro paterno è disegnato e animato così bene che sorprende pensare che non sia un pupazzo animato. Il confronto con un altro famoso film con un coniglio protagonista, Chi ha incastrato Roger Rabbit, spiega molto. Ma anche sul lato negativo di questa produzione, la sceneggiatura. Assolutamente insufficente.

Il giovane coniglio vuole cambiare vita, e diventare un famoso batterista, lascia l'isola di Pasqua, dove si trova la sede operativa del coniglio pasquale (una sorta di Fabbrica di cioccolato alla Roald Dahl), per andare a Hoolywood, dove si imbatte in un bamboccione (James Marsden) in cerca del lavoro ideale che fa per lui. Storia molto cucciolosa e sdolicinata che non ha cattivi veri e propri, però è anche (stranamente) blandamente razzista, così che gli pseudo-cattivi sono un pulcino messicano (?) al soldo del coniglio pasquale che sogna di prendere il posto del suo capo, e la sorella adottiva dello scioperato, di evidente origine orientale. Il resto del cast è praticamente tutto WASP. Si vede che il coniglio pasquale ha successo soprattutto in quella fascia di pubblico.

A proposito di produzione, si tratta di un lavoro della Illumination Entertainment, quelli di Despicable me (Cattivissimo me), come si può intuire dal fatto che molti elementi sono dietro alla realizzazione di entrambi i titoli.

L'ho visto in originale, e così ho avuto il piacere di sentirmi le voci del dottor House, meno noto come Hugh Laurie, nei panni del coniglio pasquale senior, e di Russell Brand che parla da dentro il coniglio pasquale junior (e appare in carne e ossa per pochi secondi).

Mio cugino Vincenzo

Commedia d'ambiente giudiziario che rivedo sempre volentieri, grazie soprattutto all'impagabile alchimia che sprigiona la spumeggiante coppia protagonista (Joe Pesci - Marisa Tomei).

Il titolo, My cousin Vinny, lascia intendere che il punto di vista sia quello del personaggio di Ralph Macchio, ma non è vero, se non nella parte iniziale. In realtà la storia è quella di una coppia di italo-americani da Broccolino che vengono scaraventati nel profondo sud perché lui possa difendere il cugino da una accusa di omicidio causata da una serie di bizzarre coincidenze.

C'è l'ostilità tra campagnoli e cittadini, lo spiazzamento di chi si trova ad operare in un contesto completamente diverso dal suo, la paura di non essere all'altezza di una situazione davvero delicata, e molto altro ancora.

Regista e sceneggiatore hanno momenti non particolarmente brillanti, ma hanno ben chiaro che il cuore del film sta nell'incontro-scontro tra i due personaggi principali, al punto che la scena madre (la Tomei viene chiamata come teste della difesa e Pesci chiede al giudice il permesso di poterla trattare come ostile - e lei chiosa, "se pensi che io sia ostile adesso, vedrai stanotte a letto") viene anticipata da una specie di spassosa prova generale giustificata da un rubinetto che perde.

La banda dei babbi natale

La sceneggiatura è poco più di un pretesto per permettere al trio di Aldo, Giovanni e Giacomo di esibirsi nelle loro solite situazioni comiche. Ma qualche risata me l'hanno fatta fare, e direi perciò che l'obiettivo minimo è stato raggiunto. A mio gusto, il linguaggio è a tratti inutilmente volgare, ma pare che per gli standard dei film natalizi italiani quello che si sente qui sia roba da educande. Avrei anche fatto a meno di un paio di maltrattamenti ad animali (evidentemente fasulli, vedi nota successiva sugli effetti speciali).

Che regia sia stata affidata ad altri (in questo caso Paolo Genovese) direi che è un dettaglio secondario. Difficile pensare che i tre protagonisti abbiano lasciato un qualche spazio creativo ad altri. Peccato, perché una mano più ferma in regia, e una sceneggiatura più sostanzosa, permetterebbero di ottenere un risultato migliore. D'altronde c'è da considerare che il risultato al botteghino viene comunque ottenuto e dunque si capisce come mai la produzione non faccia troppe storie.

Però non fa piacere vedere un buon cast al contorno (su tutti Angela Finocchiaro, poi Massimo Popolizio, Giorgio Colangeli e persino Cochi Ponzoni in un microbico cameo) sprecato così.

Lo stesso dicasi per la sceneggiatura, che accumula una serie impressionante di citazioni e temi anche interessanti, che però vengono utilizzati in funzione di gag senza curarsi troppo di svilupparli in modo più approfondito.

Una nota di demerito agli effetti speciali francamente risibili. La finta nevicata e Aldo in versione Neo - Matrix sono pietosi.

Non male la colonna sonora che, oltre a includere canzoni di Mina (questo sì un effetto speciale imbattibile), viene usata per rafforzare una citazione tarantiniana.

Blood Story

O meglio, come suonava in originale, Lasciami entrare / Let me in. Titolo che forse non è stato utilizzato per non creare confusione con l'originale svedese del 2008, Låt den rätte komma in, che è stato per l'appunto distribuito in Italia con quel titolo.

La storia ha un paio di agganci con Wall-e, che ho appena rivisto. Il cubo di Rubik e l'inversione dei ruoli. Anche qui infatti il protagonista maschile (Kodi Smit-McPhee) è più a suo agio con la lettura di Romeo e Giulietta che con la gestione della violenza, in cui invece eccelle la prima ragazzina (Chloë Grace Moretz, apparsa nello stesso anno in Kick-ass e Diario di una schiappa, e che mi sembra destinata ad una rapida crescita nello star system). Differenza fondamentale è che nel primo è lei a smussare i suoi angoli, mentre qui mi pare che sia lui ad adattarsi alle abitudini sanguinarie della compagna.

Dal poco che conosco dell'originale, mi pare che si tratti di un semplice adattamento per il mercato americano, sospenderei perciò qualunque giudizio sulla sceneggiatura e regia di Matt Reeves, se non per dire che gli effetti speciali, che fanno sembrare la Moretz una sorta di Gollum quando entra in modalità vampiresca, a mio parere potevano risparmiarceli. Bella invece la colonna sonora di Michael Giacchino.

Per la sua componente horror, questa storia di sangue mi ha fatto pensare a Orphan. La sua parte romantica, invece, mi ha ricordato Harold and Maude. Entrambi i confronti sono purtroppo a svantaggio di questo film.

Wall-e

Il robottino Wall-e non può non far pensare a quello di Corto circuito di John Badham, i riferimenti a 2001 di Stanley Kubrick sono molteplici ed evidenti. La critica al nostro modello economico è più che esplicita, nonostante ciò si strizza l'occhio a prodotti Apple. Eccetera.

In seconda visione ho avuto modo di fare più caso ad altri contenuti di questa interessante animazione computerizzata di casa Pixar, scritta e diretta da Andrew Stanton.

Non è una novità che i caratteri dei personaggi siano invertiti rispetto al canone classico della commedia romantica, ma fa comunque una certa impressione vedere come lei sia quella che spara ed è capace solo di pensare alla sua "direttiva", e deve imparare a farlo meno, mentre lui sia quello che è capace di elaborare meglio le sue emozioni, e deve insegnare a lei come farlo.

Guida galattica per autostoppisti

C'è poco da dire su questo film. Per chi conosce la trilogia omonima di Douglas Adams (in sei volumi, di cui uno postumo e apocrifo) si tratta di un opera imprescindibile, nonostante che si tratti di una misera briciola rispetto al variegato immaginario dispiegato su carta. Difficilmente gli altri avranno una reazione paragonabile.

Come il titolo lascia capire, The hitchhiker's guide to the galaxy, è roba di fantascienza. Quel tipo di fantascienza inglese autoironica che ha generato film come FAQ about time travel, con una vena di follia riconducibile ai Monty Python.

È per me una seconda visione, e penso che ne seguiranno altre. La prossima volta vorrei che fosse in inglese, dato che come narratore (che in italiano è il pur bravo Nando Gazzolo - o almeno mi pare) vorrei sentirmi Stephen Fry.

Tra le parti minori ricordo Bill Nighy, che interpreta Slartibartfast, e John Malkovich (Humma Kavula).

Payback - La rivincita di Porter

Cosa può spingere un essere senziente a vedere per due volte nella sua vita questo film non particolarmente significativo? Non certo la regia di Brian Helgeland, più a suo agio nei panni di sceneggiatore non originale (come anche qui, del resto, ma meglio in L.A. Confidential), ma nemmeno Mel Gibson nel ruolo principale (un delinquentello tutto muscoli e poco cervello, interpretato abbastanza bene, ma non lo metterei tra i suoi personaggi più significativi) e neanche la pur fascinosa Maria Bello, che fa più da contorno che altro.

Nel mio caso, è stata la scoperta che trattasi di un remake, o meglio, di una nuova riduzione cinematografica di un romanzo già utilizzato come base per Senza un attimo di tregua nei lontani anni sessanta. Approfittando di essermi quasi completamente dimenticato della prima visione, mi sono visto prima la versione di Boorman, poi quella di Helgeland. E devo dire che i due film, che visti singolarmente non sono poi un granché, visti a distanza ravvicinata guadagnano dal confronto.

Non è solo Point Blank a guadagnarci (bella forza, Boorman batte Helgeland anche a occhi chiusi) ma anche Payback. Vedendolo dopo si apprezzano meglio i cambiamenti nella trama, e assume un suo interesse come variazione su di un tema prefissato. Anche se c'é da dire che non è che mi pare particolarmente riuscita. È più intrigante il personaggio interpretato da Lee Marvin, che viene mosso da un presupposto assurdo, così assurdo che alla fine anche lui lo lascia perdere. Quello di Gibson è invece semplicemente un imbecille graziato da una incredibile fortuna e capacità di incassare botte, pallottole e persino martellate.

Piovono polpette

Geniale reinterpetazione del filone catastrofico (alla The day after tomorrow o 2012, tanto per limitarsi a Roland Emmerich) in chiave mangereccia, rappresenta per la Sony Picture Animation il definitivo segnale ai competitori nel campo della produzione di lungometraggi animati che devono fare i conti anche con loro.

Il disegno è lineare, rinunciando alla verosimiglianza puntando invece ad una fumettosità dei personaggi che, a mio gusto, finisce per essere un punto a favore - sarà perché mi ricorda le animazioni del periodo d'oro italiano.

Brillante la storia, basata su un libro illustrato dallo stesso titolo (originale) del film, Cloudy with a chance of meatballs, ben sceneggiata e diretta da Phil Lord e Chris Miller (affiatata coppia che si è fatta le ossa con la televisione), che può essere letta in numerosi diversi modi, trovando il modo di soddisfare il pubblico più giovane e quello più maturo.

Tra le voci originali dei personaggi segnalo Anna Faris, la metereologa coprotagonista, James Caan, padre del protagonista, e persino Mr.T a dar voce ad un bizzarro poliziotto.

Ipotesi di reato

Cast notevole, storia che, a pensarci sopra, è non banale e degna di ragionarci sopra, eppure il risultato non mi ha entusiasmato. Colpa forse della regia (Roger Michell) non particolarmente ispirata?

Titolo italiano inesplicabile e che distoglie l'attenzione dal vero bersaglio del film, che viene reso meglio dal titolo originale, Changing lanes, che oltre a fare riferimento in senso letterale alla causa scatenante dell'azione, un assicuratore (Samuel L. Jackson) e un avvocato (Ben Affleck) cambiando corsia in una trafficata strada newyorkese cozzano tra loro, allude alla necessità per i due protagonisti di dare un deciso cambio alle loro vite.

L'assicuratore è un ex-alcolizzato che segue le riunione degli alcolisti anonimi (il suo referente è un William Hurt che come spesso gli capita ha un ruolo piccolo piccolo) e ha una causa di divorzio in corso da parte della moglie stufa del costante mettersi nei pasticci. L'avvocato è un sempliciotto che non si accorge che il suo studio è una sorta di palestra per squali, pur essendo sposato alla figlia di uno dei titolari (Sydney Pollack).

Le battute fondamentali vengono curiosamente assegnate ai personaggi minori, è dunque Hurt a notare che il problema dell'assicuratore non è l'alcool quanto la tendenza a complicare le situazioni semplici, cosa che gli aveva detto anche la moglie, facendogli capire come sia necessario un suo cambiamento profondo. E un ragazzetto che vorrebbe diventare avvocato, magnificando la professione con parole che forse il personaggio di Affleck avrebbe sottoscritto solo poche ore prima, gli fanno capire quanto in realtà quella visione sia fasulla.

L.A. confidential

Noir in ritardo di cinquant'anni che fa pensare a titoli come Il mistero del falco o Il grande sonno. Diretto, co-scritto (sceneggiatura non originale basata sul romanzo di James Ellroy), e co-prodotto da Curtis Hanson, che brilla sia per l'adattamento cinematografico di una storia decisamente complicata, come si può aspettare chi apprezza il genere, e nella scelta di un cast non banale, considerando anche che i due protagonisti (Russell Crowe e Guy Pearce) erano praticamente ignoti al pubblico americano.

Tutto ruota attorno ad un massacro in un bar, che viene seguito da tre elementi molto diversi del Los Angeles Police Department. Un giovane ambizioso (Pearce) dalle notevoli capacità investigative ma poco abile nel integrarsi con i colleghi; un muscoloso agente poco brillante (Crowe) ma non scemo; e un disilluso Kevin Spacey che usa il suo ruolo per ritagliarsi vantaggi e notorietà.

Nel ruolo della dark lady una Kim Basinger in uno dei suoi migliori ruoli - piccolo, ma che le lascia il modo di piazzare qualche bella scena; e non trascurabile la presenza di Danny DeVito come giornalista scandalistico che finirà per venir travolto dalla macchina che pensava di usare a suo vantaggio.

Vale la pena notare come i personaggi principali, pur tagliati un po' con l'accetta, sempre come richiede il genere, hanno tutti una loro evoluzione nel corso della vicenda che li rende interessanti.

Il petroliere

Scorrerà sangue (There will be blood) è un titolo decisamente più inquietante e dunque più adatto a questa pellicola in cui (quasi) niente e nessuno si salva. È vero che il protagonista assoluto (un ottimo Daniel Day-Lewis) si è calato nel ruolo del petroliere, ma tutto ciò è accidente. Lo vediamo solitario nel lungo prologo silenzioso - in cui domina la perfetta colonna sonora originale di Jonny Greenwood (integrata con classici, tra cui l'intero primo movimento del concerto opera 77 per violino e orchestra di Brahms sui titoli di coda - che invero mi pare fuori luogo ma, potenza di Brahms, va benissimo anche così) - a scavare argento in una miniera, quasi restarci secco, ma trovare il petrolio e la ricchezza.

Diventa dunque petroliere seguendo quella che è la sua stella fissa: il denaro, ottenerne sempre di più. Confesserà poi al (falso) mezzo fratello che incontrerà, che tutti quei soldi gli sarebbero serviti solo per allontanarsi dagli altri uomini, che disprezza. Come dire, una vita sprecata. Una lunga corsa verso l'autodistruzione. Che poi, a ben vedere, sembra una buona descrizione anche del capitalismo di rapina che viene descritto dal testo (dall'emblematico titolo "Oil!") che è stato la base su cui ha lavorato Paul Thomas Anderson (regia, sceneggiatura, coproduzione).

Ma dicevo che Anderson non si limita a costruire un drammatico quadro dell'esistenza del petroliere, bensì introduce alcuni altri personaggi che vengono indagati con un certo dettaglio. In primo luogo il predicatore (Paul Dano) che in teoria sarebbe all'opposto del petroliere, ma in realtà, seguendone lo sviluppo, scopriamo che i due sono molto simili, praticamente sono due gemelli che seguono strade diverse per ottenere lo stesso scopo. Entrambi passano la loro vita fingendo, e solo per pochi secondi mostrano la loro vera natura. Da notare che il predicatore ha un fratello (gemello vien da pensare, visto che è interpretato dallo stesso Dano, ma nessuno nel film fa cenno alla cosa, se trascuriamo una certa perplessità nel petroliere quando vede il predicatore per la prima volta), che però resta appare solo fugacemente all'inizio e torna solo nei discorsi degli altri personaggi. Secondo il petroliere quello era il vero profeta, ma viene da pensare che stia parlando di sé, e alluda al suo (mezzo) fratello che non riuscirà ad incontrare.

Sembra che tutto sia falso in questo film. Il petroliere, oltre ad avere un falso fratello, ha persino un falso figlio, che "adotta" e usa per rendersi più simpatico presso i bifolchi a cui sottrae i terreni. Ma forse costui riuscirà a salvarsi, in cambio dell'udito e di un abbandono da parte di colui che pensava essere il proprio padre.

Creation

Il tema principale di questo film non è tanto la vita e le opere di Charles Darwin quanto l'elaborazione del lutto di una figlia. Più che una biografia siamo dalle parti de La stanza del figlio, Rabbit hole o Amabili resti. Chi si aspettasse un film anticreazionista resterebbe perciò abbastanza deluso o comunque sorpreso di trovarsi di fronte a un prodotto ben diverso. Beninteso, sempre che lo riesca a reperire visto che, per quel che ne so, si tratta di un film che non è disponibile nel mercato italiano, e anche nel resto del mondo è distribuito con una sorprendente parsimonia. Come se il semplice accenno da Darwin mettesse in imbarazzo i distributori.

Un po' di nomi: scritto (sceneggiatura non originale) e diretto da Jon Amiel, solido regista di scuola BBC che ogni tanto gira un qualche titolo holliwoodiano (tipo Sommersby, quella sorta di riadattamento della vicenda dello smemorato di Collegno), interpretato nei ruoli dei coniugi Darwin dai coniugi Paul Bettany e Jennifer Connelly, la figlia morta è la debuttante Martha West. Toby Jones appare come Thomas Huxley (nonno di Aldous, e personaggione che meriterebbe un film solo per lui - qui ha solo pochi secondi ma anche una battuta fondamentale per la trama anticreazionista). Appropriata la colonna sonora di Christopher Young.

Gli amici premono perché Darwin metta su carta le sue osservazioni, ma lui nicchia, prende tempo, afferma che pochi anni di ricerca aggiuntivi sono nulla rispetto ai milioni di anni su cui opera l'evoluzione. Il fatto è che la amata primogenita è morta, e lui se ne sente responsabile. Non avrebbe dovuto lasciarla giocare nelle gelide acque del mare, non avrebbe dovuto parlarle dell'evoluzione, forse non avrebbe nemmeno dovuto sposare la sua amata Emma, cugina di primo grado.

Huxley gli dice che il suo libro ucciderà dio, affermazione che colpisce al cuore Darwin, che si trova ad avere allucinazioni sempre più frequenti, in cui spesso appare la figlia Annie con cui ha discussioni che si fondono con memorie del passato. La soluzione dell'intricata vicenda sarà quella di confidare nella moglie, parlarle apertamente di tutti i suoi dubbi sul suo ruolo paterno (e scoprire che buona parte dei loro problemi erano dovuti a reciproche false assunzioni), e scrivere L'origine delle specie ma lasciare che sia lei la prima a leggerlo e a decidere se pubblicarlo o no.

Il poco spazio lasciato alla diatriba scienza-religione mi pare sia gestito bene. Viene mostrato adeguatamente come le ragioni non stiano tutte da una parte, e che l'imbecillità alligni in entrambi gli schieramenti. L'esigenza di contrapporre i due coniugi Darwin sul tema fede/ragione, al fine di drammatizzare meglio lo scioglimento finale, mi pare abbia portato a calcare troppo la mano su un anticlericalismo di Darwin che, nei fatti, non è reale. E infatti nei titoli di coda si ricorda che è stato seppellito con tutti gli onori nell'abbazia di Westminster.

Innocenza colposa

Produzione per il grande schermo della London Weekend Television che, come si può agevolmente capire dal nome, è più a suo agio nel mondo televisivo. E il risultato potrebbe essere considerato una buona produzione per la TV o una poco convincente per il cinema, a seconda dei punti di vista.

Curioso il rimescolamento di generi. Si parte come film poliziesco, poi diventa un noir da investigatore privato (traslato a Brighton, nella provincia inglese), registro su cui si mantiene fino alla fine, con l'esclusione di una parentesi per lo svolgimento di un processo - che viene sbrigato fin troppo velocemente, lasciandomi l'impressione che forse sarebbe stato meglio eliminare del tutto questa parentesi.

Lavoro tutto sommato passabile di Simon Moore, sceneggiatura originale e regia, un po' sonnacchioso nella parte centrale ma che si riscatta nel finale con una serie di sorprese che ribaltano più volte l'andamento della vicenda. Il punto forte è rappresentato dal protagonista, Liam Neeson, che regge bene la parte di un poliziotto poco affidabile, che diventa investigatore privato ancor meno raccomandabile, viene implicato nel doppio omicidio di moglie e cliente, e si innamora della principale indiziata (Laura San Giacomo).

Notevole la scena finale, in cui troviamo un personaggio che apparentemente ha ottenuto quello che voleva dalla propria vita, ma scopre che ha sbagliato bersaglio.

The IT Crowd - seconda serie

Altre sei puntate da una ventina di minuti, non ci sono differenze sostanziali rispetto all'impostazione della prima serie.

1 - The Work Outing. I tre IT vanno a teatro dopo lavoro, grazie all'invito di uno spasimante di Jen. Scoprono sul posto che si tratta di un musical molto gay dal titolo "Gay!".

2 - Return of the Golden Child. Funerale del boss aziendale, con umorismo molto britannico sull'avvenimento.

3 - Moss and the German. Per vari motivi Roy non riesce a vedere un DVD prodotto da Tarantino (un film sudcoreano di zombi) oltre allo spot iniziale antipirateria - in una spassosa versione ancora più estrema del solito. Jen ha ripreso a fumare, e patisce l'ostracismo nei confronti dei fumatori. Moss decide di incontrare altra gente, e finisce a casa di un cannibale tedesco che se lo vorrebbe cucinare. Nel finale quel young fine cannibal (come lo chiama Moss) esegue la sigla del programma al violoncello.

4 - The Dinner Party. Sembra che Jen abbia trovato l'uomo per lei, Peter File. Nome che pronunciato rapidamente suona in modo molto imbarazzante.

5 - Smoke and Mirrors. Moss inventa un comodo reggiseno che però ha qualche piccolo problema di surriscaldamento.

6 - Men without Women. Il nuovo capo, che ha cercato di agganciare Jen dalla 3 puntata, la promuove a sua assistente personale.

Limitless

Film dopato inneggiante al doping. Primo lavoro solo diretto da Neil Burger (i suoi tre precedenti erano stati anche scritti da lui) mi pare che sia deludente proprio dal punto di vista della sceneggiatura (Leslie Dixon, che ha adattato il romanzo di Alan Glynn cambiandone il senso e il finale).

Spererei che si tratti solo di una sbandata nella carriera di Burger, ma vedo che il suo prossimo progetto dovrebbe essere quello di convertire in film un videogioco, e mi vien da temere che la storia raccontata qui sia una rappresentazione del suo percorso. Con la differenza che a fargli ottenere il successo non sia stata la chimica ma la decisione di accettare di dirigere sceneggiature scelte da altri.

A New York un giovinastro, tale Eddie Morra (Bradley Cooper), vorrebbe far lo scrittore ma proprio non ci riesce, almeno finché non entra in possesso fortunosamente di una scorta di una misteriosa droga che migliora strepitosamente alcune funzionalità del suo cervello. Usa questi superpoteri per conquistare donne, fare soldi, acquisire potere. E per attirarsi addosso una serie di guai persino peggiori. Alla fine i nodi vengono al pettine ma lui riesce (incongruamente e inaspettatamente) a trovare una via d'uscita.

La parte migliore del film è il doping che Burger somministra alla pellicola (usando effetti ed effettacci di tutti i tipi - le impossibili carrellate per le strade di New York mi hanno fatto pensare alla streetview di google) per rendere visivamente gli effetti della droga su chi la assume. Ma come sempre accade, il troppo stroppia. Il protagonista si spara pastigliette una dietro l'altra, e ad un certo punto la soggettiva del film si sposta pure su un altro personaggio che assume questa droga. Lo spettatore viene perciò bombardato dal doping visuale ottenedo, almeno nel mio caso, l'effetto di saturare la capacità di assorbimento e, in fin dei conti, di annoiare.

Deludente Robert De Niro, sottoutilizzato nel ruolo di un magnate che richiede i servigi di Morra.

I difetti più grossi mi pare che siano nella sceneggiatura. Lascio perdere quanto poco plausibile sia l'idea di un tale incremento prestazionale del cervello umano, e trascuro pure di notare che un tale aumento dell'attività richiederebbe necessariamente una fonte di energia aggiuntiva, e dunque Morra dovrebbe consumare cibo (zuccheri, probabilmente) in quantità impressionanti. Faccio finta di accettare che la pastiglietta miracolosa modifichi bizzarramente il metabolismo di chi la ingurgita. Però come è possibile che una persona che si reputa superintelligente finisca per mettersi nelle mani di un mafioso? E che accetti di pagarlo con le medesime superpillolette che, ragione vuole, non dovrebbe dare a nessuno?

Si potrebbe superare le difficoltà indicate introducendo un dubbio: ma la pilloletta, poi, funziona davvero? Non è che chi la assume pensa di essere diventato un genio, mentre invece è il solito imbecille? Questa curiosa interpretazione funziona in almeno una scena, quando Morra parla in italiano al ristorante per impressionare la sua ex (che riconquisterà - potenza del nostro bel linguaggio). Da vedere in originale, ovviamente, per restare basiti da come la cameriera sia riuscita a capire qualcosa da quell'oscuro balbettio. Peccato non sapere che cosa abbia poi portato in tavola ai due piccioncini.

The assassination

Visione consigliata da Seconda serata.

Si tratta di un film anomalo per la cinematografia statunitense, potrebbe essere visto in abbinata a Permette? Rocco Papaleo di Ettore Scola con Marcello Mastroianni, semmai. Nel confronto Scola batte senza fatica Niels Mueller, soprattutto registicamente parlando, e Mastroianni oscura il pur valido Sean Penn. Anche come protagonista femminile Lauren Hutton distanzia Naomi Watts, ma in questo caso valgono più delle capacità personali il fatto che Papaleo è stato girato nei favolosi anni settanta (insomma, si può ammirare della Hutton molto più di quanto viene concesso della Watts).

Onore al merito per Penn, che interpreta un ruolo difficilissimo per un attore americano, quello di un fallito senza speranze, tale Samuel Bicke. Narrato in flash back a partire dal momento in cui sta registrando un nastro dove spiega i suoi motivi per il gesto che sta per cercare di compiere (e che fallirà), ci mostra per la prima ora una serie di suoi fallimenti che alla fine lo fanno definitivamente uscire di testa. Il povero diavolo non avrà nemmeno la soddisfazione postuma di essere uscito col botto. Finirà invece dimenticato e ignorato da tutti.

Oltra al danno la beffa, persino i distributori italiani del film si accaniranno contro di lui cambiando inesplicabilmente il titolo originale che avrebbe potuto essere tranquillamente tradotto e lasciato intero: L'assassinio di Richard Nixon.

Non mi è sembrato un film semplice da vedersi, anche per come viene mostrata la vicenda. Per tutta la prima ora, in pratica, si ribadisce che Bicke è incapace di relazionarsi propriamente con le altre persone, che non riesce ad adattarsi alla realtà, e che ha aspettative irrealistiche dati i suoi talenti piuttosto limitati. D'accordo, è un punto importante, ed è illustrato bene da Penn, ma mi pare lo si tiri troppo per il lungo. Forse sarebbe risultato più intrigante mettere prima la mezz'ora finale, e poi tornare indietro in una sorta di indagine retrospettiva per recuperare i motivi di quel comportamento.

In ogni caso si tratta di un lavoro interessante, anche se prima di ammetterlo ci ho dovuto dormire sopra. Per come la vedo io, lo spettatore dovrebbe essere portato a chiedersi cosa si sarebbe potuto fare per evitare il tragico epilogo della vicenda, e scoprire che in realtà non ci sarebbe voluto poi molto. Una migliore educazione, probabilmente; un servizio sociale decente che si facesse carico di seguire persone che hanno problemi di integrazione, certamente.

Nel corso della visione, mi sono venute in mente altre pellicole che però, ripensandoci bene, ora mi pare che c'entrino come i cavoli a merenda. Giusto per divertimento li elenco a seguire:

La ricerca della felicità: Se Penn qui interpreta un poveraccio che ha qualche problema caratteriale che non riesce a trovare nessuno che lo capisca e lo aiuti, lì Will Smith interpreta un imbecille che confonde la felicità con il denaro. Si potrebbe cadere nell'equivoco di paragonarli perchè qui si cita Dale Carnegie con un accento molto critico, mentre quel (non)senso della vita è molto vicino a quello veicolato dal film di Muccino. In realtà in The assassination questo aspetto è secondario. A Bicke dei soldi importa davvero poco, sarebbero solo un mezzo per ottenere la sua versione di felicità, che sarebbe vivere con la sua famiglia e lavorare con un suo amico.

Taxi driver: il tassista di De Niro non è un perdente. Ha grossi problemi, nessuno se lo fila ma, in un modo o nell'altro, alla fine riesce a ottenere quello che voleva.

Un giorno di ordinaria follia: al personaggio interpretato da Michael Douglas è andata bene per un bel po' di tempo, poi le cose hanno preso una piega balorda. Lui perde il lavoro pur essendo perfettamente inserito nel sistema - è il sistema non ha più bisogno di lui. Bicke il sistema non riesce nemmeno a capirlo.

Benvenuti al Sud

Un paio di risate me le ha strappate, ma non la definirei una commedia riuscita. Sceneggiatura di Massimo Gaudioso (vedi Matteo Garrone) basata sull'originale francese (Giù al nord) scritto, diretto e interpretato da Dany Boon. A dirigere qui è invece Luca Miniero che non è che mi abbia poi convinto. Le star sono Claudio Bisio (che ha fatto di meglio) e Angela Finocchiaro (malamente sprecata).

Alcuni dicono che l'originale francese sia meglio, altri dissentono. Prima o poi verificherò di persona. Fatto è che il successo che ha ottenuto questa commedia mi sembra ingiustificato. Che sia dovuto al traino dato dalla popolarità del protagonista maschile?

L'idea di base non è malaccio. Un tale (qui Bisio) è costretto a trasferirsi lontano da casa, in un posto che i pregiudizi locali danno come terribile. Arrivato sul posto si accorge che gli avevano raccontato storie, si vive bene pure lì. Anzi, a ben vedere scopre di trovarsi meglio nel nuovo posto di quanto stesse a casa. Per aggiungere una vena romantica c'è pure una trama secondaria, in cui un nativo (Alessandro Siani) cerca di riconquistare la sua bella (Valentina Lodovini) che non sopporta il di lui attaccamento alla madre.

Lo sviluppo, però, non mi pare fatto nel migliore dei modi. L'adeguato cast artistico mi sembra che sia stato lasciato troppo solo, come se a tratti si fosse girato mentre il regista non c'era. E la sceneggiatura gioca troppo sugli stereotipi. La cosa funziona nella prima parte, quando si illustra la paura del contatto con lo sconosciuto, e vengono messi in mostra i pregiudizi più sciocchi. Molto meno nella seconda, dove il protagonista dovrebbe verificare la realtà dei fatti.

In pratica qui viene confrontato un spot pubblicitario per la Lega con uno spot pubblicitario per Castellabate (che del resto sembra proprio un delizioso paesino nel salernitano). Avrei gradito una maggiore profondità.

L'ottavo giorno

Mi verrebbe da dire che è un tipico film di Jaco Van Dormael (scritto e diretto), se non fosse che di lungometraggi il buon Jaco ne ha fatti solo tre, (Mr.Nobody e Toto le heros gli altri due titoli) e su numeri così piccoli non è che abbia molto senso di parlare di tipicità.

È una buddy story tra un down (Pascal Duquenne - presente i tutti e tre i lavori di Van Dormael) e un manager bancario esperto di tecniche motivazionali (Daniel Auteuil). Inizialmente i due vengono presentati come se fossero assolutamente antitetici. Il down è pura emozione, il manager insegna a usare la razionalità per fingere empatia con i clienti.

Scopriamo invece, assieme a loro, che sono molto simili. Entrambi sono colmi di amore e nessuno dei due lo riesce ad esprimere adeguatamente, sia per loro limiti sia per problemi contingenti.

Dopo un incontro drammatico, e un accostamento tempestoso in cui vediamo (edulcorato, certo, ma il senso è chiaro) quanto sia difficile gestire un rapporto con un down, abbiamo modo di valutare quanto sia vero anche il contrario. Quando il manager riesce a incontrare la ex moglie (Miou-Miou) va praticamente fuori da matto, e vediamo che è il down qui a prendere in mano la situazione e, trattandolo come sa che vanno trattate le persone in questi frangenti, riesce a riportarlo alla ragione.

Sono dunque due pari, che si aiutano a vicenda in un momento difficile delle loro esistenze.

Molte le scene memorabili, grazie anche ad una regia spericolata che non si fa problemi di far cantare un topo o di seguire il volo di una coccinella. Una, che mi pare una citazione di Oltre il giardino, mi è sembrata divertente. Il manager ha portato a casa sua il down. È sera, il secondo è in giardino, si avvicina alla piscina, supera il bordo e cammina sull'acqua. Fa anche alcune evoluzioni prima di uscire, camminando come niente fosse. Il manager, non visto, lo ha seguito nel suo percorso con lo sguardo stupefatto. Si avvicina anch'egli alla piscina e si accorge che giusto sotto il pelo dell'acqua c'è una sorta di coperchio galleggiante, di cui evidentemente si era dimenticato l'esistenza. Niente miracolo, questa volta.

The IT crowd - prima serie

Dopo aver visto Frequently Asked Questions About Time Travel ho cercato qualche informazione sui protagonisti, che mi erano totalmente ignoti.

Chris O'Dowd è uno dei protagonisti della sit-com di cui parlo qui, che sta riscuotendo relativamente un buon successo sull'inglese channel 4.

Atmosfere vagamente pitoniane, per una ambientazione molto geeky & nerdy. I personaggi ricordano molto Dilbert.

Queste le sei puntate, da una ventina di minuti l'una, della prima serie.

1 - Yesterday's jam. Vengono presentati i personaggi principali. Il capo (tendenzialmente imbecille) di una mega-azienda, una tipetta (Jen) che viene assunta come capo dei servizi informatici senza che sappia praticamente niente della materia, e i due IT, Roy e Moss. Sentiamo i due che, lagnandosi del fatto che i colleghi parlano con loro solo quando hanno bisogno, e come ottengono il servizio tornano a ignorarli. Moss dice che li considerano come la marmellata del giorno precedente (da cui il titolo della puntata) - una pessima analogia, fa notare Roy, in quanto la marmellata si conserva pressoché indefinitivamente. I due inizialmente non accettano Jen, ma poi scoprono (a) che il capo è un maniaco del concetto di team, e licenzia l'intero quarto piano e la sicurezza perché non sono abbastanza solidali (b) Jen è capace di trattare con le persone - caratteristica che la rende utile al dipartimento.

La maglietta di Roy riporta le lettere RTFM - read the fucking manual - tipica risposta scurrile da IT in rotta col resto del mondo. Interpretabile come: invece di fare domande sceme, leggi prima il fottuto manuale.

Da catalogo anche la risposta che viene data a tutti quelli che telefonano al reparto (che si trova nel fatiscente scantinato di un lussuoso grattacielo londinese): "hai provato a spegnere e riaccendere?"

2 - Calamity Jen. Moss guarda uno spot televisivo (decisamente pitonesco) in cui annunciano che il numero da chiamare per le emergenze cambia in 0118 999 881 999 119 7253. Una vecchietta rotola dalle scale e giunta al fondo telefona per chiedere aiuto, seguendo un allegro motivetto che scandisce il lunghissimo numero.

I due temi che animano lo svolgimento sono un corso aziendale per la gestione dello stress e l'acquisto da parte di Jen di un paio di scarpe troppo piccole per il suo piede. Inoltre Jen fa saltare un merge aziendale, e scoppia un incendio nel ufficio IT.

3 - 50-50. Roy esce una sera con una centralinista e non combina nulla, anzi fa una pessima figura. Il giorno dopo Jen lo prende in giro e lui afferma che il problema è che le donne cercano bastardi. Per dimostrare il suo punto mette un annuncio online che sembra fatto da un serial killer, e riesce a rimediare un appuntamento. Nel contempo Jen cerca di far colpo su una guardia della sicurezza (il titolo della puntata deriva dal fatto che il tipo si sta allenando per partecipare a Chi vuole essere milionario, e le fa domande con due possibili risposte). Le due coppie finiranno nello stesso ristorante (consigliato da Moss).

Chi telefona all'IT ora si trova a parlare con un nastro registrato: ("hai provato a spegnere e riaccendere?" "sei sicuro che il cavo è attaccato?")

4 - The red door. Una sala macchine presidiata da un inquietante figuro.

5 - The Haunting of Bill Crouse. Moss alle prese con la necessità di dire menzogne.

6 - Aunt Irma Visits. La sindrome premestruale si abbatte sull'intero reparto IT. Moss ha una relazione con la psichiatra, da cui deve andare in seguito alle conseguenze dell'episodio precedente.

La maglietta di Roy ha la risposta alla domanda fondamentale (per un buon autostoppista galattico).

Black Rain - Pioggia sporca

Una Osaka che ricorda la Los Angeles di Blade Runner è la cosa meglio riuscita del film, che per il resto ha deluso le mie aspettative - che pure non erano altissime. Colpa della sceneggiatura così implausibile da essere indisponente, direi, mentre la regia (Ridley Scott) e il cast tecnico e artistico in generale sarebbero all'altezza di un risultato ben superiore.

In una tipica New York anni '80, un tipico poliziotto americano (Michael Douglas) di quel periodo (divorziato, poco avvezzo a seguire le regole, magari pure un po' corrotto) con un suo collega pseudo italoamericano (Andy Garcia - l'anno dopo sarà nel Padrino 3, dall'altra parte della barricata) si trova ad avere a che fare con un regolamento di conti della Yakuza (mafia giapponese). Il tizio che arrestano per aver ammazzato un paio di suoi colleghi viene però estradato in Giappone (ah ah ah - figuriamoci può succedere mai una cosa del genere) e ad accompagnarlo saranno proprio i due che l'hanno arrestato. Appena arrivati a Osaka, però, se lo fanno scappare, causa di un trucco irrealistico. Seguono altre vicende impensabili, tipo una barista di Chicago (Kate Capshaw) trapiantata in Giappone che ne sa più lei della Yakuza che la polizia locale, o un astuto tranello ai danni di Andy Garcia approfittando di un suo modo di fare e della sua passione per i propri abiti che mi pare impossibile che i mafiosi giapponesi potessero conoscere, che permettono al protagonista di togliere di scena la spalla americana e fare spazio a quella giapponese (Ken Takakura) per dare luogo al solito buddy-movie con due personaggi molto diversi ma che alla fine impareranno ad apprezzarsi.

Volendo, si potrebbe leggere il film anche come una metafora dei rapporti giappo-americani. Ma mi sembra una fatica sprecata.