St. Vincent

Qualche decennio fa il ruolo del protagonista sarebbe andato da Walter Matthau, ora nel ruolo dell'anziano, burbero, trasandato, petulante newyorkese dei sobborghi che domina la pellicola c'è Bill Murray, ma la sostanza non cambia. La regia di Theodore Melfi (sua anche la sceneggiatura) ha qualche debolezza, forse anche perché è il suo primo vero lungometraggio, che non rovina però il risultato complessivo grazie anche all'ottima prova di recitazione di tutto il cast, incluso il giovane Jaeden Lieberher, ennesimo ragazzino che sembra destinato ad una lunga carriera cinematografica.

Si potrebbe raccontare tutta la storia senza temere di rovinare la sorpresa a nessuno, anche perché la sorpresa più grossa è spoilerata già dal titolo. Ma non è certo un difetto in questo tipo di film, che mira più a rassicurarci piuttosto che a stupirci. Vincent (Murray) è una brutta persona, gran consumatore di alcolici, taccheggiatore, frequentatore di posti malfamati, con una relazione a pagamento con Daka (Naomi Watts), una prostituta russa che esercita nonostante sia molto incinta. Ha problemi di soldi, si è completamente lasciato andare, e intuiamo che sia in pieno count down finale.

Succede però che Maggie (Melissa McCarthy) e suo figlio Oliver (Lieberher) si trasferiscono nella casetta accanto, e tra ragazzino e vecchiaccio nasce una strana amicizia che porta ad entrambi, anzi un po' a tutti quanti, alcuni vantaggi. Siamo dalla parti di Babbo Bastardo, tanto per intenderci.

A supporto della vicenda principale ci sono alcune trame secondarie relative alla moglie di Vincent, e alla di lui passione per le scommesse per i cavalli, con relativi problemi di debiti nei confronti del suo booker (niente meno che Terrence Howard). Oliver, dal canto suo, porta al film anche i suoi problemi di adattamento nella suo nuova scuola, dove Chris O'Dowd, nei panni di un bizzarro prete cattolico, insegna insegna religione a ragazzini con le più diverse credenze.

Si procede in bilico tra commedia e dramma, ma alla fine tutto finisce (abbastanza) bene, con Vincent che massacra affettuosamente Shelter from the storm di Bob Dylan sui titoli di coda.

I 39 scalini

Sembra un po' un incrocio tra L'uomo che sapeva troppo dell'anno prima (o di venti anni dopo, nella seconda versione) e Intrigo internazionale. Anche se un po' tutto il cinema di Alfred Hitchcock ha la stessa aria di famiglia. Una volta entrati nel suo mondo ci si accorge che anche i film più diversi hanno tutti un qualcosa che li collega tra loro.

Richard Hannay (Robert Donat) è un canadese a Londra per affari. Per ingannare il tempo va a teatro dove, tra l'altro, si esibisce Mister Memory (Wylie Watson), un tale che, quasi come il Funes di Jorge Luis Borges, ricorda tutto, con una precisione inquietante. Nel mezzo dello spettacolo succede un mezzo parapiglia, e una donna piacente e misteriosa dall'accento piuttosto germanico (Lucie Mannheim) lo aggancia e gli chiede di ospitalità.

Trattasi di una spia che sta cercando disperatamente di sfuggire dalle grinfie di una organizzazione rivale, dal buffo nome che dà il titolo al film (da noi noto anche come Il club dei 39), che la vuole morta in quanto a conoscenza di qualcosa che stanno facendo che porterebbe molto danno al Regno Unito. Lei crede che il diversivo a teatro e la sua fuga all'inglese col canadese li abbia sviati, ma si sbaglia.

I diabolici 39 la eliminano e fanno in modo di far cadere la colpa su Hannay. A questo punto l'unico modo che il nostro eroe controvoglia ha per chiarire la sua posizione è esporre la loro trama. Il che non è molto facile, visto che lui sa ben poco di quello che sta accadendo, e che la polizia britannica è sulle sue tracce.

Cerca aiuto in un'altra bella donna di passaggio, Pamela (Madeleine Carroll), ma costei lo ricambia denunciandolo per ben due volte ai suoi inseguitori. Fortuna vuole che Pamela capisca il suo errore in tempo, e finisca per aiutarlo a risolvere l'intrico.

La scarsa plausibilità della storia passa completamente in secondo piano grazie al tocco lieve del Maestro che alterna piacevolmente toni da film spionistico con quelli da commedia romantica, farcendo la narrazione di quadretti con personaggi secondari che, pur avendo ognuno a disposizione solo poco tempo, riescono a guadagnarsi l'attenzione dello spettatore.

La pericolosa partita

Poco noto da noi, più popolare negli USA, al punto che era citato in Zodiac assumendo che lo spettatore sapesse bene di cosa si stesse parlando.

La sceneggiatura è basata su di un racconto di Richard Connell risalente al decennio precedente, e come tale intriso dell'atmosfera degli anni venti. The most dangerous game, più correttamente tradotto in italiano come La preda più pericolosa, è alla base anche di una riduzione radiofonica di Orson Welles che sembra aver mantenuto lo spirito iniziale.

Questa versione cinematografica ha invece modificato personaggi e introdotto varianti piuttosto inconsistenti nello sviluppo dell'azione per riciclare attori e scenari del King Kong che sarebbe uscito l'anno dopo. Si tratta infatti di un film a bassissimo costo, girato nei ritagli di tempo lasciati dalla produzione principale, puntando su atmosfere tra il pulp, il gotico e l'horror. A vederlo oggi fa ridere, ma ai tempi era risultato così eccessivo che dopo la prima uscita si è deciso di tagliare il quarto d'ora di pellicola più raccapricciante per limitare il disgusto del pubblico.

Bob (Joel McCrea), è un patito della caccia grossa e si sta recando in nave con facoltosi amici in Sudamerica per coltivare il suo hobby. Un incongruo incidente mal descritto ottiene lo scopo di eliminare tutti gli altri inutili personaggi e lasciare il solo Bob, naufrago su di un isola misteriosa.

Zaroff (Leslie Banks), è un altrettato misterioso nobiluomo di origine russa che vive sull'isola con la sola compagnia della servitù e di un regolare traffico di ospiti che scampano a tragedie marittime.

Nella versione di Connell, la storia è una partita a due tra di loro. Entrambi accaniti cacciatori, Zaroff ha superato il punto di non ritorno, non riuscendo a trarre più alcun piacere dalla caccia "normale" ha deciso di puntare su una versione più pericolosa, trattando come prede i suoi ospiti, a cui dà un coltellaccio, alcune ore di vantaggio, prima di inseguirli con varie armi e la sua muta di cani.

Difficile non scorgere l'influenza che questo racconto ha avuto in seguito. Se in un certo senso anche Rambo mi sembra avere un qualche debito narrativo, più immediato il riferimento nella fantascienza di Predator.

In questo film si è voluto introdurre anche una trama rosa per poter utilizzare Fay Wray, per la quale è stato creato di sana pianta il ruolo di Eve, altra naufraga su cui Zaroff ha mire sessuali esplicite, ma con la quale non riesce a concludere se prima non ammazza un competitore. Nel cast di King Kong c'era anche Robert Armstrong, un caratterista molto attivo in quel periodo, e così gli si è dato il ruolo di Martin, fratello di Eve, che però è del tutto inutile allo sviluppo, e viene usato solo come bizzarro spot contro il consumo di alcolici.

Animal crackers

Secondo lungometraggio dei fratelli Marx che, come il precedente (*), non è altro che una riproposizione sullo schermo dello spettacolo che stavano dando in un teatro sulla Broadway. Anche gran parte del cast era lo stesso, e lo si vede nella qualità della recitazione che ha una enfasi propria del vaudeville.

Da noi è noto anche con il titolo di Matti da legare! Il titolo originale è un misterioso riferimento ai cracker a forma di animale, tuttora usati per gli aperitivi, in particolare nella versione pesce. Forse un riferimento al protagonista, che dice di essere un cacciatore ma che probabilmente ha visto solo quegli animali da cocktail.

La storia è secondaria, avendo lo scopo principale di fare da veicolo per le pirotecniche battute dei Marx e per gli immancabili (**) numeri musicali. Una ricca vedova della buona società newyorkese, la signora Rittenhouse (Margaret Dumont), organizza una serata a cui parteciperà un famoso esploratore di ritorno dall'Africa, il capitano Jeffrey Spaulding (Groucho Marx), e in cui verrà presentato un famoso e prezioso dipinto francese diventato proprietà di un magnate locale, tal Roscoe Chandler (Louis Sorin).

Il capitano è accompagnato dal suo segretario (Zeppo Marx), e ad allietare l'evento arriva un musicista di presunta origine italiana, il signor Emanuel Ravelli (Chico Marx) accompagnato dal Professore (Harpo Marx). In più un paio di burloni, per motivi vari, vogliono sostituire il dipinto originale con una copia in loro possesso.

Il capitano e Chandler competono per le grazie, o per meglio dire i capitali, della vedova; il Professore porta scompiglio e insegue le donne con intenzioni non ben identificate; il signor Ravelli è alla ricerca di un metodo qualunque per mettere in tasca qualche soldo.

Il dipinto sparisce, arriva la polizia, il capitano si qualifica come un investigatore di Scotland Yard e comanda a bacchetta l'ispettore che dovrebbe indagare. Sembra che la colpa cada sul Professore, viene perdonato, ma si scopre che aveva occultato nella sua ampia palandrana un numero enorme di posate di argento. Sfugge nuovamente all'arresto irrorando tutti i presenti con una pozione soporifera e quindi, visto che tra i dormienti c'è anche la bella che ha seguito con maggior ostinazione per tutto il film, le si avvicina e, colpo di scena finale, si addormenta al suo fianco.

(*) The cocoanuts (1929), da noi noto come Noci di cocco - "nuts" è informale per matto.
(**) Siamo agli albori del cinema sonoro, per giustificare la spesa aggiuntiva della ripresa si faceva leva sul lato musicale della storia.

Nothing but the truth

Ovvero lo strano caso di un film americano che non ha raggiunto le sale del suo Paese perché il distributore è fallito. Qui da noi non è uscito in nessun modo, però è abbastanza facilmente recuperabile come DVD europeo, ma senza doppiaggio italiano. Cosa che potrebbe essere vista come vantaggio.

L'idea a Rod Lurie (sceneggiatura e regia) è venuta seguendo il caso di Judith Miller, quella giornalista americana che ha pubblicato notizie sulle armi di distruzione di massa in Iraq che poi si sono rivelate fabbricate di sana pianta. Il contatto sta solo nel fatto che i giornalisti americani, pur essendo teoricamente coperti nel loro diritto di non rivelare le fonti delle proprie notizie, possono essere incriminati per disprezzo della corte se si rifiutano di citarle quando il giudice, adducendo necessità di ordine maggiore, insista nell'ottenere questa informazione. Il resto è tutto inventato di sana pianta e non ha nessuna relazione con fatti realmente accaduti.

Succede che Rachel Armstrong (Kate Beckinsale) sia una giornalista alla ricerca del colpaccio. Lo trova quando una fonte, che sarà rivelata (e solo a noi spettatori) nel finale si lascia scappare che Erica Van Doren (Vera Farmiga) è una agente federale sotto copertura che in qualche modo aveva sconsigliato il governo dall'intraprendere una operazione poi effettivamente rivelatasi una scemenza colossale. L'articolo della Armstrong mira a mettere in difficoltà il governo e, a ben vedere, non ci sarebbe bisogno di scoprire la Van Doren. Però la signora è sposata ad un ex ambasciatore critico nei confronti dell'amministrazione corrente, e ha anche alcuni fatti personali che potrebbero intrattenere il lettore casuale, e così si decide di rovinarle la vita.

Ai federali gliene importa ben poco sia della Armstrong sia della Van Doren, però vogliono scoprire chi è il traditore che spiffera cose che non dovrebbe dire, per cui sguinzagliano un procuratore federale (Matt Dillon) con ampia facoltà di spaccare tutto quello che vuole. Il giornale risponde affidando la difesa della sua dipendente a un avvocato di chiara fama, anche se un po' vanesio e affezionato agli stilisti italiani (Alan Alda).

Le cose vanno per le lunghe, la Armstrong è irremovibile nel non voler rivelare la sua fonte, con una caparbietà che sembra eccessiva a tutti quanti. E viene il dubbio, ma ha ragione lei, e veramente il principio è così importante, o non è che dietro la sua facciata di difesa delle libertà civili ad ogni costo c'è qualcosa di molto imbarazzante?

John Wick

La storia è vecchia come il cucco. Un terribile assassino in pensione anticipata, costretto a tornare al lavoro, dimostra di non aver perso lo smalto dei bei tempi andati.

Forse la prima volta che ne ho visto una variante è stato nel West and soda di Bruno Bozzetto (1965) che riprendeva come parodia questo stereotipo del cinema western. Sarà per questo lontano imprinting che a me non dispiace vederne variazioni, e anche se ho mancato il recentissimo The equalizer con Denzel Washington al cinema penso di recuperarlo in visione casalinga.

In questo caso ho trovato la realizzazione piuttosto sotto tono. Un problema sostanziale direi che sia la durata. Una trama così esile non riesce a reggere i cento minuti canonici. Una produzione più efficace avrebbe tagliato gli ammazzamenti prima che diventassero troppo ripetitivi. Si veda ad esempio la Lucy di Besson. Un altro problema è certamente la scarsa esperienza dei registi. Chad Stahelski e David Leitch (*), più noti per il loro lavoro nelle coreografie dei combattimenti e coordinamento degli stunt, fuori dal loro ambito specifico hanno ben poco da dire.

Ci sono poi anche problemi più sostanziali, ma non è che in un film come questo si badi poi tanto alla sostanza.

Sul versante positivo, c'è il buon senso del ritmo, almeno finché non si raggiunge la saturazione, e l'idea di un albergo in centro alla New York contemporanea destinato esclusivamente ai killer di passaggio.

John Wick è interpretato da un Keanu Reeves alle prese con la sua solita limitata espressività, che qui potrebbe essere benevolmente vista come sottoprodotto della focalizzazione del personaggio nella sua missione.

Di solito i protagonisti di queste trame intervengono per evitare o vendicare qualcosa di mostruoso. Wick invece sbarella perché lo hanno pestato, gli hanno rubato la macchina, ma soprattutto perché gli hanno ucciso il cane. E va bene, il cane era una cagnolina pucciosa ultimo regalo della sua amata moglie, però, per la miseria, poteva prendersene un altro subito, invece di ammazzare prima svariate decine di persone. Le basi teoriche del comportamento di Wick sono spiegate in 7 psicopatici e ne Il settimo continente dove McDonagh e Haneke illustrano ognuno seguendo il proprio taglio preferito (rispettivamente satirico e documentaristico) come allo spettatore di questo genere di film non faccia grande impressione l'omicidio ma strabuzzi di fronte all'uccisione di un animale di compagnia. Tra l'altro il film di Haneke può essere preso a riferimeto per la scena in cui Wick distruggerà una gran mole di soldi. Qui però i registi mostrano di non aver capito bene la lezione. Perché qui ad essere impressionati sono sono solo i personaggi, e non ho visto grandi reazioni nel pubblico.

Abbastanza improbabilmente, prima di lasciare il lavoro, Wick era un killer al soldo di un delinquente russo basato a New York, tale Viggo Tarasov (Michael Nyqvist). Bizzarra la scelta di chiamarlo Viggo, un nome per niente russo e che difficilmente può non far pensare a Viggo Mortensen e quindi a La promessa dell'assassino, dove anche lì, ma in modo molto più plausibile, si parla di delinquenza di area russa trapiantata in occidente (là era Londra). E da lì si può risalire all'altro film della coppia Mortensen-Cronenberg A history of violence, la cui trama è abbastanza simile, ma sviluppata con una profondità non paragonabile.

A pestare i piedi a Wick è il figlio di Viggo, Iosef (Alfie Allen), per cui avremo la dinamica capo-dipendente contrapposta a quella padre-figlio. C'è spazio anche per un paio di comprimari notevoli, John Leguizamo e Willem Dafoe, un meccanico e un altro top killer, ruoli poco significativi.

Mi pare invece significativo che l'impalpabilità del lato femminile nel film. La moglie di Wick (Bridget Moynahan) muore prima dell'inizio del film, e la signora Tarasov non è mai nemmeno citata. Per quel che ne sappiamo Iosef potrebbe essere nato in provetta. Ci sarebbe una killer, Ms.Perkins (Adrianne Palicki) ma è così maschiaccio che non converrebbe nemmeno citarla. Il fatto è che in questo film le armi fanno da succedaneo alla sessualità. Ci sono carrellate su pistole e fucili che mi hanno ricordato equivalenti indagini della camera su corpi femminili in B-movies di altro genere. Forse in questa prospettiva hano un senso i troppo lunghi combattimenti, che non sono altro che la trasposizione nell'uso delle armi di quello dei corpi nel genere sexploitation.

Curioso che la carneficina si svolga principalmente a New York e che, nonostante il massiccio uso di armi, non si veda mai la polizia (**). Mi pare anche che a morire siano solo delinquenti e affiliati, come se tutto scorresse su un piano parallelo alla realtà dei comuni mortali. In effetti, a pensarci bene, la cifra stilistica sembra quella del videogioco. Anche le coreografie degli scontri sono impossibili, con Wick che sembra sapere sempre dove sarà il prossimo che deve ammazzare. Un po' come Tom Cruise in Edge of tomorrow, ma lì la spiegazione c'era.

(*) Per motivi che non so David Leitch non è accreditato ufficialmente.
(**) Una eccezione, un poliziotto che va a casa di Wick su chiamata dei vicini, gli apre il padrone di casa coperto di sangue (altrui), vede un cadavere nel corridoio, chiede se la situazione è sotto controllo, e se ne va.

Il mistero del carillon

Ultimo film della serie che vede Basil Rathbone nel ruolo di Sherlock Holmes e Nigel Bruce in quelli del dottor John H. Watson. Pare che Rathbone si sia stufato di interpretare storie che gli sembravano tutte uguali. E in effetti questa sceneggiatura di Frank Gruber sembra una rielaborazione de L'avventura dei sei napoleoni, che già era stata alla base de La perla della morte. Anche se qui si cita Uno scandalo in Boemia, che sarebbe stato pubblicato sullo Strand proprio prima dell'inizio di questa storia, vediamo Watson che legge la rivista tutto contento, e sentiamo Holmes fare commenti sulla sua qualità letteraria, che viene anche utilizzato dal principale carattere femminile Hilda Courtney (Patricia Morison) come suggerimento all'azione.

Hilda è il solito personaggio di questa serie che è in bilico tra essere una dark lady vera e propria e una più comune avventuriera. Il titolo originale, Dressed to kill, spinge nella prima direzione, ma averla relegata in posizione subalterna nella sua gang criminale, e dandole una inclinazione per operare sotto mentite spoglie la fanno tendere verso la seconda definizione.

Invece di essere a caccia di una perla, qui si cerca un messaggio criptato in un motivetto musicale suonato da carillon.

Terrore nella notte

Come al solito, non bisogna fare troppo i precisini con lo svolgimento della trama di questa avventura di Sherlock Homes. Anche perché questa volta la sceneggiatura è stata affidata a Frank Gruber, scrittore seriale noto per la sua velocità di scrittura, un po' meno per la sua accuratezza. Però porta la stessa ventata di leggerezza e autoironia che Roy Chanslor ha messo ne La casa del terrore.

Siamo su di un treno che da Londra porta ad Edimburgo. Holmes (Basil Rathbone) è stato ingaggiato per proteggere un diamantone, la Stella della Rhodesia, dopo che già un primo attacco è stato sventato. Holmes accetta questo compito in quanto ha il sentore che ci sia dietro lo zampino di Sebastian Moran, una spalla del defunto (speriamo definitivamente) Moriarty, di cui nessuno conosce la vera identità. Anche Scotland Yard è in allerta, e pure il buon ispettor Lestrade (Dennis Hoey) è sul treno, relativamente in incognito.

L'intero vagone sembra occupato da personaggi stravaganti, un burbero professore di matematica, una coppia di turisti, persino una appetitosa orfana (Renee Godfrey) che sta riportando le spoglie della madre in Scozia in una ingombrante bara. Lo stesso dottor Watson (Nigel Bruce) si accompagna quasi più con un suo vecchio collega d'armi, il maggiore Duncan-Bleek (Alan Mowbray), che con Holmes.

Svariati omicidi, alcuni dei quali solo tentati, colpi di scena, vedremo pure il pacifico Watson alzare le mani e anche Lestrade compiere finalmente una azione poliziesca sensata.

Destinazione Algeri

Il dottor Watson (Nigel Bruce) vorrebbe andare il Scozia, a pescare e cacciare, ma Sherlock Holmes (Basil Rathbone) si fa attirare dal furbo ambasciatore di Rovinia in un lavoretto che non parrebbe all'altezza del consulting detective, ovvero scortare il nuovo re di quell'inesistente Stato sulla via di casa. Nulla lascia immaginare dove sia (sud Europa, si potrebbe azzardare) e come mai non sia stato coinvolto nella guerra mondiale.

Per far funzionare la storia si deve credere che davvero nessuno sappia che faccia abbia il principino, che sarebbe stato mandato nel Regno Unito quand'era ancora piccino, e lì sarebbe cresciuto in incognito. Forze oscure cercano di rapirlo, e Holmes mescola le carte, fa finte e controfinte, sventa svariati attacchi, e infine recapita il prezioso giovine ad Algeri, considerato, chissà come mai, porto sicuro da dove proseguire il viaggio.

Questo episodio ha una inconsueta tendenza musicale, grazie ad una trama minore basata sulla partecipazione di Sheila Woodbury (Marjorie Riordan), una cantante americana misteriosamente in tournée solitaria tra Europa e Nord Africa che ci ammannisce alcune canzoni durante il fatale viaggio per nave. Il meglio però è rappresentato da Watson che ci fa ascoltare la sua versione di Bonnie banks o'Loch Lomond. E credo sia proprio Bruce a cantarla.

The imitation game

Se il sogno di ogni letterato è ottenere il Nobel per la letteratura (*), per chi sviluppa software c'è il Premio Turing. Chi si interessa di Intelligenza Artificiale non può non approfondire il concetto di test di Turing. E chi scrive programmi informatici dovrebbe avere in mente che cosa sia una macchina di Turing.

Questo dovrebbe bastare per spiegare come mai la figura di Alan Turing sia tenuta in alta considerazione in ambiente informatico, ma non mi ha chiarito come mai ci fosse tutta quella gente con me a vedere un film che segue, con gli inevitabili adattamenti, le vicende salienti della sua vita. Per dirla tutta, credo che la stragrande maggioranza degli spettatori avesse poca o nessuna conoscenza di fatti narrati, e che se ne avessero conosciuto qualcosa di più, probabilmente avrebbero optato per qualche altro titolo.

A posteriori, penso che a determinare il relativo successo commerciale del film sia stato Leonardo DiCaprio. Pare infatti che inizialmente (2011) avesse voluto interpretare il ruolo del protagonista, e questo ha creato un gran chiacchiericcio attorno al soggetto. Poi Leo deve aver letto qualcosa sul personaggio e si deve essere reso conto che aveva avuto una idea balorda. Ma ormai il polverone si era alzato, la sceneggiatura (Graham Moore, basata sulla biografia di Andrew Hodges) è diventata bollente, quel brutto soggetto di Harvey Weinstein si è convinto che il film avrebbe fatto faville ed ci ha buttato dentro qualche milione e, soprattutto, ha messo a disposizione un congruo numero di sale americane. Mancavano solo alcuni dettagli secondari, come ad esempio la definizione del cast tecnico e artistico.

Il ruolo più delicato era ovviamente quello del protagonista, ci voleva un attore credibile e adeguato alla parte. E qui entra in gioco il buon Benedict Cumberbatch, che proprio in quegli anni si stava costruendo una reputazione con personaggi dotati di carattere complesso. Il regista, con tutto il rispetto per Morten Tyldum, è poco importante in questi casi. Tipicamente se ne prende uno bravo ma ancora poco noto, in modo che non faccia troppe storie e segua le indicazioni di produzione. Come attrice protagonista si è puntato sul sicuro, Keira Knightley. A dire il vero il suo personaggio sarebbe dovuto essere una specie di tomboy che con lei ha ben poco a che fare, ma probabilmente già la sceneggiatura originale ne aveva previsto un ammorbidimento. La colonna sonora di Alexandre Desplat completa degnamente il quadro.

Si narra di come Turing (Cumberbatch) abbia partecipato al gruppo inglese dedicato alla decrittazione di Enigma, il sistema con cui i tedeschi nella seconda guerra mondiale oscuravano i loro messaggi, di come abbia intuito che solo creando un primo, per quanto rudimentale, computer si sarebbe potuto ottenere il loro scopo. E di come questo gli abbia rovinato la carriera e la vita stessa.

La narrazione segue tre diversi piani temporali, il presente è quello dei primi anni cinquanta quando ci viene mostrato il finale di partita. Da lì c'è un flashback agli anni della guerra, e da lì parte un altro flashback, ai tempi della formazione umana e matematica del giovane Turing.

Nel presente si segue l'indagine di polizia relativa ad un furto subito da Turing, e si lascia intendere che Turing abbia scientemente guidato la giustizia sul suo caso, perché era giunto al punto di aver bisogno di un test di Turing su se stesso, non sapendo più dove lo stesse portando la sua vita. L'investigatore assegnato al caso (Rory Kinnear, che è Tanner nel corrente universo di James Bond) pensa di indagare su un possibile caso di spionaggio, e quando scopre che l'unica cosa illegale che c'è nella vita di Turing è la sua omosessualità (**) ci resta piuttosto male, ma ormai il meccanismo giudiziario è partito.

Nel periodo bellico si seguono diverse trame. C'è il Turing che cerca di risolvere il problema affrontandolo solo dal punto di vista matematico e tecnico, rendendosi gradualmente conto che deve considerare anche le componenti umane per arrivare alla soluzione. C'è il Turing umano che scopre di avere una grande affinità con una valente matematica, Joan Clarke (la Knightley), che vede il suo lavoro penalizzato in quanto donna (***), ma per la quale non prova alcuna attrazione sessuale. C'è il Turing burocrate che si vede impastoiato nelle trame politico-militari del baraccone statale britannico, e che trova un pericoloso alleato nel capo del MI6 (un impeccabile Mark Strong).

(*) Con le dovute eccezioni. Si narra infatti che Jorge Luis Borges, a un giornalista che cercava di pungolarlo sul come mai non glielo avessero assegnato, abbia ribattuto "Ma non me l'hanno già dato?"
(**) La legge britannica era, almeno teoricamente, molto severa nel punire l'indecenza disgustosa ("gross indecency") dei sudditi di sua maestà imperiale. Solo nel 1967 l'omosessualità è stata parzialmente decriminalizzata, ed è quasi cronaca (2003) la completa eliminazione della norma.
(***) Nel film non se ne parla, ma la Clarke non poté completare gli studi, che ai tempi erano riservati ai maschi.

Snowpiercer

Sapendo che si tratta di come un tale a nome Curtis (Chris Evans) fa una rivoluzione che vorrebbe portare gli ultimi dell'umanità fino in cima, e che tutto ciò succede in un lunghissimo treno, non ha molto senso lamentarsi dell'eccessiva truculenza di Joon-ho Bong (regia). Se difficilmente le rivolte sono pacifiche, farle in un ambiente così circoscritto ha delle evidenti complicazioni che portano anche ad un maggior tasso di spargimento di sangue.

Però tutto quell'indugiare su ammazzamenti vari e primi piani di gente che esala l'ultimo respiro e resta con gli occhi sbarrati mi pare un po' troppo fine a se stesso.

In principio era un fumetto francese, Le Transperceneige, che chissà come, ha colpito la fantasia del regista coreano al punto da trascinare il suo abituale produttore in un progetto abbastanza folle e molto costoso, almeno per gli standard non-americani. Per avere una speranza di non trascinare nel fallimento tutti quelli che lo avessero toccato, si è deciso di farlo diventare una produzione internazionale, con attori da mezzo mondo. Nonostante il mezzo flop negli USA, per i soliti problemi commerciali, a livello planetario gli incassi hanno premiato la scommessa.

Un maldestro tentativo di arginare l'effetto serra ha causato il surgelamento del mondo. Pare che gli unici umani a cavarsela siano quelli che hanno comprato un biglietto per il treno di Wilford (Ed Harris), misteriosamente capace di moto perenne, e attrezzato di tutto punto per una indefinita sopravvivenza dei suoi viaggiatori. Come in ogni treno che si rispetti, ci sono gli scrocconi, saliti a bordo senza biglietto, che hanno evitato il surgelamento, ma sono tenuti negli ultimi vagoni in uno stato miserevole.

Costoro hanno una specie di leader spirituale Gilliam (John Hurt), e uno più militaresco, Curtis, che vuole farla pagare a Wilford per quello che gli ha fatto passare.

Nel cast spicca Tilda Swinton, nel ruolo di Mason, vice di Wilford che si occupa della gestione politica del treno. Folle come può esserlo un personaggio da cartone animato (mi ha fatto pensare a Woody Woodpecker) o un politico di lungo corso.

La storia è un evidente metafora della situazione corrente dell'umanità, come viene pure detto esplicitamente nel confronto finale tra Wilford e Curtis.

L'esercito delle 12 scimmie

Sembrerebbe un classico film di Terry Gilliam, e invece è uno dei pochi titoli del Monty Python d'oltreoceano che lo vede solo alla regia. Trattasi infatti di un film di produzione. Qualcuno ha visto La jetée di Chris Marker, s'è detto che ne poteva venire fuori qualcosa di buono, ha commissionato la sceneggiatura ai coniugi Peoples, e poi ha chiesto a Gilliam se fosse interessato a dirigerla.

L'idea che mi sono fatto è che avessero pensato subito a Gilliam, e che anche i Peoples abbiano scritto pensando a lui. Fatto è che lui non se l'è fatto dire due volte, ha accettato compromessi sul cast, si è fatto in quattro per rispettare tempi e budget, restando irremovibile solo sul diritto di final cut. Da cui il risultato che è decisamente in linea con il resto della sua produzione.

La storia è di una complessità ai limiti della follia, e forse anche oltre, ma può essere vista anche come se fosse un semplice film di fantascienza che congiunge il filone post-catastrofista a quello dei viaggi nel tempo. Nel 2035 James Cole (Bruce Willis) è stato messo in galera per il suo brutto carattere, ma questo è il minore dei problemi, visto che nel 1996 un virus ha ucciso la quasi totalità degli umani, e i pochi superstiti si sono adattati ad un infima vita sotterranea.

Un gruppo di scienziati (abbastanza folli) sta lavorando alla soluzione del problema. Vorrebbero combattere il virus, che però nel frattempo è mutato enormemente. Avrebbero dunque bisogno di entrare in possesso della sua forma iniziale (meglio non sottilizzare) e per questo stanno sviluppando un sistema che permetta di viaggiare nel tempo, in modo da tornare al momento della catastrofe e impossessarsi del campione utile.

Occorre tenere presente che in questo film non è possibile cambiare il passato. Il passato è fisso, i viaggiatori nel tempo possono solo osservare ma non modificare gli accadimenti. Quindi nessuno si aspetta di poter bloccare il contagio, la strage è avvenuta e non è più possibile evitarla.

Ci sono un paio di altre difficoltà. In primo luogo gli umani non reggono bene il salto in tempi diversi, così che gran parte dei viaggiatori finiscono per diventar completamente matti. Secondariamente, non è facile calibrare il viaggio, e un povero diavolo può venir sparato nell'Egitto dei faraoni invece che nel '96.

C'è qualcosa però che rende James un buon viaggiatore, è come se avesse un'attrazione per un fatto avvenuto proprio poco prima del disastro, quando era ancora bambino. Cosa che si traduce in un incubo ricorrente in cui ricorda, ogni volta con leggere variazioni, il fatto stesso, da cui emerge prepotente anche l'immagine di una donna.

James, dunque, viaggia. E incontra Kathryn Railly (Madeleine Stowe) che è proprio la donna dei suoi sogni. Incontra anche Jeffrey Goines (Brad Pitt) che è un tizio completamente matto, oltre ad essere il figlio del famoso dottor Goines (Christopher Plummer) che, guarda caso, sta facendo studi molto delicati che potrebbero aver portato alla creazione del virus fatale.

In un certo senso, è una specie di commedia degli equivoci. Praticamente tutti fanno errori di valutazione, con vari risultati. Però finisce malissimo, anche se questo, nel marasma dell'azione, deve essere sfuggito allo spettatore medio che vuole sempre e comunque l'happy end.

Abbastanza inconsequenzialmente, mentre guardavo il film continuava a venirmi in mente un vecchio film di Eric Rohmer, Le notti della luna piena. Poi ho trovato il nesso, è un episodio del ciclo Commedie e proverbi ed è identificato dal proverbio (rohmeriano) "Chi ha due donne perde l'anima, chi ha due case perde il senno". Il povero James ha una donna, Kathryn, che però è sdoppiata nella sua mente, quella reale, e quella che ha costruito nei suoi anni di incubi, e ha anche due case, il suo misero presente reale nel 2035, e il suo bizzarramente felice presente alternativo del 1996. Non può che aspettarsi un tragico epilogo.

Altro film che va citato è La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, sia perché era alla base del film di Marker sia perché qui la sua citazione viene sviluppata abbondantemente in un passaggio chiave della storia.

Bravo e divertente Pitt nel caratterizzare il suo personaggio, cosa che evidentemente gli valse la successiva scrittura in Fight club che, in un certo senso, è abbastanza vicino a questo film.

Della colonna sonora mi sono restati maggiormente impressi alcuni dei brani non originali proposti, in particolare l'introduzione alla suite Punta dell'Este di Astor Piazzolla, che viene ripetuta più volte.

La jetée

Chris Marker (sceneggiatura e regia) lo definisce nei titoli di testa un fotoromanzo e non un film. E in effetti in tutta la mezz'oretta di questo cortometraggio ci sono solo pochi secondi di immagini in movimento, giusto nel mezzo, a riprendere il risveglio di lei. Un colpo di scena poetico che vale più di mille effetti speciali. Per il resto ci sono "solo" fotografie che spesso simulano il movimento grazie al bel montaggio.

A quanto ho letto da qualche parte, questa realizzazione così inusuale sarebbe necessità fatta virtù. Marker aveva abbastanza soldi per noleggiare una macchina da presa per mezza giornata e non di più, e dunque ha trovato un modo alternativo per raccontare la sua storia che riuscisse a non sforare questo draconiano limite.

Abbiamo quindi l'impressione di sfogliare un album fotografico, seguendo il narratore che in voice over ci racconta cosa è successo. Oppure quella di rievocare ricordi che ci balenano come immagini più o meno scorrelate nella memoria, mentre una voce dentro di noi cerca di seguire il filo dell'intricata matassa.

Chi non si farà sfuggire una esplicita citazione a Vertigo, La donna che visse due volte, di Alfred Hitchcock, avrà il piacere di scoprire la fonte dell'ispirazione di Marker.

La terza guerra mondiale ha distrutto il mondo, i pochi superstiti sopravvivono malamente sottoterra, al riparo dalle radiazioni. Il protagonista (Davos Hanich) è stato fatto prigioniero, e i suoi carcerieri stanno sperimentando il viaggio nel tempo come tentativo di ottenere le risorse necessarie a superare la fase di stallo. Incredibilmente ottengono risultati positivi, se non fosse che gli umani mal tollerano mentalmente l'idea stessa, e gli sperimentatori danno tipicamente fuori di matto. Il nostro uomo, invece, ha una singolare fissazione per un fatto avvenuto nel lontano passato, quando lui era un bambino, che gli permette di saltare tra i due periodi senza eccessivi problemi. Il punto chiave della sua memoria è Lei (Hélène Chatelain), una bella donna che è presente nel suo ricordo e che non riesce a dimenticare. Giunto nel suo passato, la cerca, la trova, tra i due cresce lentamente una bella intesa.

Quando i carcerieri si rendono conto che Lui è pronto, lo spediscono nel futuro, dove riesce a trovare la fonte di energia richiesta. Esaurito il suo compito Lui si rende conto che potrebbe essere eliminato da un momento all'altro. Per sua fortuna gli umani del futuro che ha incontrato, gli propongono di tornare tra loro, scappando così dal suo destino. Ma Lui non può lasciare Lei, e chiede invece di essere rimandato nel suo passato. Nonostante che, affrontando la cosa con logica, non possa che essere ovvio che in qualche modo il paradosso di un Lui duplicato si debba pur chiudere.

La donna in verde

La sceneggiatura torna nelle mani di Bertram Millhauser per la quinta e ultima volta nella serie, dopo La perla della morte, La donna ragno, Sherlock Holmes di fronte alla morte, e Sherlock Holmes a Washington, e il risultato è paragonabile agli altri episodi. Guardabile, ma senza potersi aspettare troppo.

Per qualche strano motivo manca qui l'ispettore Lestrade, che viene citato un paio di volte e rimpiazzato dal suo collega Gregson (Matthew Boulton), che gioca meno sul lato comico del personaggio. La storia non è strettamente riconducibile ad alcun racconto di Conan Doyle, anche se il tentativo di omicidio ai danni di Holmes (Basil Rathbone) ricorda quello de L'avventura della casa vuota.

Gregson ricorre all'aiuto di Holmes per trovare il serial killer che opera a Londra. Il consulting detective capisce subito che si tratta di un elaborato piano del solito professor Moriarty. Nonostante che questi sia già morto due volte in precedenti casi, ne Le avventure di Sherlock Holmes, e L'arma segreta, non si fa cenno della cosa, mentre si fa riferimento ad una sua presunta terza morte che sarebbe avvenuta addirittura a Montevideo. Moriarty ha anche nuovamente cambiato connotati, essendo ora interpretato da Henry Daniell che fra l'altro era già apparso in altri ruoli ne La voce del terrore e Sherlock Holmes a Washington. Non credo che costituisca spoiler il dire che il genio del male finirà anche in questo episodio per schiantarsi a terra dopo una caduta da grande altezza.

C'è anche una dark lady, Lydia, esperta ipnotista al soldo di Moriarty, anche lei interpretata da una habitué della serie, Hillary Brooke, piccolo ruolo ne La voce del terrore (faceva da autista a Holmes) e al centro della complicata trama di Sherlock Holmes di fronte alla morte, come Sally Musgrave.

Watson (Nigel Bruce) torna ad avere un ruolo da pura spalla comica, anche se ora Holmes sembra più attaccato emotivamente a lui, al punto da cedere ad un ricatto di Moriarty temendo per la vita del buon dottore.

La casa del terrore

Nei titoli di testa si afferma che Roy Chanslor ha basato la sua sceneggiatura su I cinque semi d'arancia di Sir Arthur Conan Doyle, anche se, come al solito, resta davvero poco del racconto originale. Là era addirittura il Ku Klux Klan alla base dell'intreccio, e i semi d'arancia erano sempre cinque per ogni lettera minatoria. Qui si tratta di un più triviale tentativo di truffa ai danni di una assicurazione e i semi sono utilizzati per fare il conto alla rovescia delle minacce. Completamente inventata da Chanslor la congrega di scapoli al centro dell'azione.

Si abbandonano i toni cupi per dare allo svolgimento un ritmo molto più divertito. Capita così che la mancanza di logica di alcune azioni venga spiegata dalla sciempiaggine dei personaggi. Questa volta Sherlock Holmes (Basil Rathbone) non fa errori marchiani, come era successo nel precedente La perla della morte, ma deve contare (anche) su una pertinente osservazione del dottor Watson (Nigel Bruce) per arrivare alla soluzione del caso. Dulcis in fundo, finalmente Holmes ammette quanto bene voglia al suo compagno di avventure.

La perla della morte

Non è solo il titolo ad essere pulp, anche la principale sorpresa di questo episodio della serie Universal delle avventure di Sherlock Holmes sembra estratta di peso dai film horror di quel periodo. E pensare che secondo i titoli di testa la sceneggiatura sarebbe basata su L'avventura dei sei napoleoni di Conan Doyle. In realtà di quel racconto mantiene pochissimo, in pratica solo i busti del titolo, utilizzati da un delinquente (che là era italiano) per nascondere la sua refurtiva.

Si narra di come Holmes (Basil Rathbone), per motivi non ben specificati, si metta contro una piccola organizzazione criminale che vuole rubare una gigantesca perla che ai tempi sarebbe appartenuta a nientemeno che Alessandro Borgia in persona. Sventa un primo tentativo di furto, compiuto dalla bella avventuriera Naomi Drake (Evelyn Ankers, era già stata Kitty ne La voce del terrore), ma poi, pavoneggiandosi con le sue capacità deduttive, favorisce il secondo tentativo che va a buon segno. Ne approfitta l'ispettore Lestrade (Dennis Hoey) per prendersi una ben meritata rivincita agli svillaneggiamenti che è solito patire, ed è giocoforza che il nostro consulting detective si dia da fare per risolvere il guaio.

La piccola banda, capitanata da Giles Conover (Miles Mander, che era già morto come altro personaggio ne L'artiglio scarlatto) ha un asso nella manica, un gigantesco assassino noto col soprannome di The Creeper (tradotto in italiano come "mostro", quando invece è qualcosa di più inquietante, strisciante, che fa venire i brividi) di cui si parla per tutto il film ma che vediamo solo nel finale.

Ad interpretarlo è il povero Rondo Hatton che non aveva bisogno di alcun trucco per interpretare il suo spaventoso personaggio. Un problema endocrinologo lo aveva infatti sfigurato e lo porterà di lì a poco alla morte.

L'artiglio scarlatto

Sceneggiatura che, pur essendo evidentemente basata su Il mastino dei Baskerville, viene accreditata per essere originale. Mentre si sono visti precedenti episodi che sono indicati come rielaborazioni di racconti di Conan Doyle quando i riferimenti sono molto più tenui che qui.

I toni sono definitivamente da horror tardo gotico, ambientato com'è in un paesino dall'improbabile nome di La Mort Rouge, forse citazione da La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe, che però non mi pare abbia alcun riferimento con la storia narrata. Una vera e propria landa desolata, con tanto di palude che la circonda e nebbia che la ammanta giorno e notte. Chissà perché si è scelto di immaginarsela in Canada. Forse per fare sfoggio di nomi francesi, anche se poi tutti parlano tranquillamente in inglese.

Sherlock Holmes (Basil Rathbone) e il dottor Watson (Nigel Bruce) sono da quelle parti, espressamente giunti per assistere ad un convegno sull'occulto, che viene bruscamente interrotto quando Lord Penrose, che l'ha convocato e lo dirige, viene raggiunto dalla notizia che sua moglie è morta in modo misterioso. Lui non ha dubbi, è la maledizione di La Mort Rouge, dove per l'appunto abita. Holmes non sembra così convinto, ma non ha certo voglia di disputare con tal soggetto. Succede però che il giorno dopo riceve una lettera di Lady Penrose (le poste non sono lente solo da noi) che chiede il suo aiuto e fa cambiare idea al nostro detective.

Da notare che, come in Sherlock Holmes a Washington, anche qui si chiude con Holmes che cita Winston Churchill. Questa volta Watson riconosce la fonte senza fare gaffe imbarazzanti.

La donna ragno

Continua l'opera di demilitarizzazione di questa serie di avventure di Sherlock Holmes interpretate da Basil Rathbone. In pratica qui ne resta solo un accenno nel finale, quando ci si trova tutti in una specie di fiera paesana dove una attrazione è il tiro al bersaglio mobile, rappresentato dalle sagome dei leader dell'Asse.

Sceneggiatura composita che combina elementi da diversi racconti di Conan Doyle. In particolare il principale nemico di turno è una donna, Adrea Spedding ben interpretata da Gale Sondergaard, qualificata da Holmes come una Moriarty al femminile, che mi ha fatto pensare alla Irene Adler descritta in Uno scandalo in Boemia. Come per la Adler dell'originale, anche questo Holmes ha una fascinazione trattenuta a stento per questa avventuriera che arriva (quasi) a sconfiggerlo.

Ms. Spedding accalappia uomini rovinati dal gioco d'azzardo, ne sugge gli ultimi soldi e quindi li spinge al suicidio. Per scoprire il suo gioco, Holmes finge la sua morte e riappare nelle sembianze di un ricco indiano magneticamente attratto dalla roulette. La Spedding non cade nella trappola e quasi riuscirebbe a farla franca se non fosse che, grazie anche alle conoscenze anatomiche del dottor Watson (Nigel Bruce), Holmes riuscirà a trovare il bandolo della matassa.

Sherlock Holmes di fronte alla morte

Titolo poco indicativo, quando mai l'investigatore di Conan Doyle non deve affrontare la morte in una delle sue avventure, ma traduzione letterale dell'originale. La buona notizia è che la sceneggiatura è basata, anche se molto liberamente, su L'avventura del rituale dei Musgrave di Conan Doyle, e segna l'abbandono della linea militante-propagandistica tenuta da primi tre episodi marcati Universal (La voce del terrore, L'arma segreta, Sherlock Holmes a Washington) con il ritorno ad uno stile più ottocentesco tardo gotico, molto simile a quello dei precedenti due episodi Fox (Sherlock Holmes e il cane dei Baskervilles, Le avventure di Sherlock Holmes), anche se si continua ad ambientarli nel presente storico, ovvero nel bel mezzo della seconda guerra mondiale.

Per evitare di svolgere l'azione a Londra, si costringe il povero dottor Watson (Nigel Bruce) a lavorare per una casa di cura per militari che abbiano subito traumi in guerra nella lontana Northumberland. Curioso che i pazienti siano solo tre, e ancor più curioso che per indagare sugli accadimenti arrivi fin lassù anche il buon ispettor Lestrade (Dennis Hoey). Ci sono altre stranezze, che fanno pensare che gli sceneggiatori fossero parecchio di fretta e non stessero a badare ai dettagli, ma tutto sommato l'avventura risulta guardabile.

Al centro della storia, ma a sua insaputa, c'è Sally Musgrave (Hillary Brooke), che vede morire come mosche parenti e servitù, finché Holmes (Basil Rathbone) non riesce a inchiodare l'assassino alle sue responsabilità.

Poco digeribile, ma fortunatamente breve, il pistolotto finale in cui ci viene magnificato lo spirito di collaborazione degli inglese che porterà ad un radioso futuro.

Sherlock Holmes a Washington

Come i precedenti due film della serie holmesiana prodotti dalla Universal, anche in questo caso l'intento propagandistico anti germanico permea l'intera sceneggiatura, svilendo il risultato finale. La rete spionistica tedesca questa volta copre Londra e Washington, e Holmes (Basil Rathbone) dovrà attraversare l'oceano per risolvere il caso di un documento segreto scomparso. Estremamente deludente il ruolo del dottor Watson (Nigel Bruce) che tocca in questo episodio il suo minimo storico di utilità.

Il principale cattivo risulterà essere un tedesco che è rimasto per decenni "in sonno" avendo assunto nome, modi, e accento indistinguibili dai nativi, per risvegliare la rete spionistica al momento opportuno. Caso bizzarro, a interpretare questo personaggio è George Zucco, che già era stato Moriarty ne Le avventure di Sherlock Holmes.

Un suo tirapiedi, poi, è interpretato da Henry Daniell, che era stato Garbitsch, evidente presa in giro di Goebbels, ne Il grande dittatore di Chalie Chaplin e, nell'episodio La voce del terrore di questa stessa saga, era un pezzo grosso del governo inglese.

Dal punto di vista della sceneggiatura, risulta deludente che ci venga spiegato subito all'inizio che il documento è stato ridotto a microfilm e nascosto in una scatola di cerini, togliendoci così tutta la suspense. Il meccanismo, come ha illustrato magistralmente più volte Alfred Hitchcock, funziona se lo spettatore sa qualcosa che i personaggi non sanno. Ma se il protagonista condivide la conoscenza con noi, e a restare all'oscuro sono solo i cattivi, l'effetto risulta estremamente indebolito.

L'arma segreta

Nei titoli di testa si afferma che la sceneggiatura sia basata sul racconto L'avventura degli omini danzanti, ma non è vero. Si è preso solo un buffo sistema di criptazione dei messaggi e si è ignorato praticamente tutto il resto. Immagino che l'attribuzione abbia lo scopo di alleggerire la coscienza degli autori, che hanno scaricato così parte delle responsabilità su Conan Doyle.

La storia inizia a Zurigo. Una Zurigo ben poco realistica in cui tutti parlano inglese o francese e nessuno svizzero-tedesco. Vediamo Sherlock Holmes (Basil Rathbone) sotto le mentite spoglie di un vecchietto che vende libri d'epoca che parla in inglese con un improbabile accento tedesco a due spie tedesche, che ci non trovano niente da ridire. Una scena che mi ha fatto ribaltare dalle risate perché, dopo i primi momenti di sconcerto, ho riconosciuto il passaggio de La pantera rosa sfida l'ispettore Clouseau in cui l'ispettore si traveste da medico di campagna per riuscire ad entrare nel castello dove si nasconde l'ex ispettore capo Dreyfus ormai completamente impazzito. Peter Sellers e Blake Edwards si sono evidentemente ispirati a questa scena, e ne hanno fatto uno spoof così potente che regge anche senza conoscere l'originale.

Holmes è in Svizzera perché il dottor Tobel l'ha contattato, temendo che i tedeschi lo vogliano rapire. Avendo inventato un sistema di puntamento per bombardieri, costui è molto appetibile da ambo le parti in lotta. Con un sotterfugio, Holmes lo carica su un aereo e, non sottilizzando sul piano di volo che deve essere stato una specie di incubo per il pilota, arriviamo a Londra.

Tobel non si fida di nessuno, divide la sua invenzione in quattro parti, prende quattro scienziati svizzeri di sua conoscenza che vivono a Londra, e affida a ognuno di loro una parte. Incredibilmente, nonostante i bombardamenti tedeschi, pare che Londra pulluli di scienziati svizzeri, per cui nessuno sa chi possano essere. Perciò Tobel scrive i loro nomi e indirizzi su un foglietto che dovrà essere recapitato a Holmes nel caso gli capiti qualcosa.

Che ovviamente capiterà, visto che il professor Moriarty, pur essendo precipitato sotto i nostri occhi dalla Torre di Londra ne Le avventure di Sherlock Holmes è inspiegabilmente vivo e in buona forma. O meglio, ha cambiato i connotati, e ora assomiglia stranamente al dottor Mortimer che abbiamo incontrato in Sherlock Holmes e il cane dei Baskervilles, dato che entrambi i personaggi sono intrepretati da Lionel Atwill. "Ma non era morto?" si chiedono un po' tutti. La risposta, molto stringata è "No, non è morto".

Sarà ovviamente Holmes a scoprire che il suo arcinemico è ancora vivo, e lo farà travestendosi da marinaio, assumendo la personalità di un sodale di Moriarty che ha un debito insoluto nei suoi confronti. Non sono sicuro come per il caso sopra citato, ma forse questo travestimento holmesiano ne ha ispirato un altro di Clouseau, in La vendetta della pantera rosa. Dove l'ispettore impersona un lupo di mare con una gamba di legno e un pappagallo gonfiabile sulla spalla.

Comunque, il fatto è che Moriarty ora è diventato un collaborazionista germanico, sembra che riesca nel suo perfido intento, e persino ad uccidere il suo rivale, ma ovviamente le cose andranno ben diversamente. Questa volta non lo vediamo morire, sentiamo però il suo urlo mentre cade da una grande altezza. Nel finale nessuno dice che sia misteriosamente riuscito a scamparla, e quindi dovremmo concludere che sia la fine della sua carriera di genio del male. Sbagliando, certamente.

La voce del terrore

Nel '39 sono stati distribuiti i primi due film delle avventure holmesiane con Basil Rathbone nei panni di Sherlock Holmes e Nigel Bruce in quelli del dottor Watson. Passano tre anni ed esce questo terzo episodio. Sorpresa delle sorprese, l'ambientazione fa un salto di mezzo secolo e diventa contemporanea. La spiegazione che si dà nei titoli di testa è che Holmes è così tosto che anche il tempo gli fa un baffo.

I veri motivi sono più prosaici. In primo luogo è scoppiata la seconda guerra mondiale, e qualche genio della Fox ha deciso che non valesse più la pena di puntare su storie del secolo precedente. Viene dunque cancellata l'intera serie. Ne approfittano alla Universal, acquisiscono i diritti, scritturano Rathbone e Bruce, e rimettono in pista la serie. Però anche loro credono che sia meglio mettere un dettaglio cronachistico nella vicenda, con conseguente viaggio nel tempo del duo investigativo.

Col cambio di stagione cambia anche l'impostazione della sceneggiatura. Siamo decisamente nell'area dei B-movie, e il taglio investigativo mi sembra che attinga atmosfere più vicine al genere hard-boiled. E c'è pure uno smaccato uso propagandistico dell'intreccio. Ma questo è pegno che penso gran parte dei film di quell'epoca abbiano finito per pagare.

Ci sono almeno un paio di fonti della storia. Una è il racconto breve Il suo ultimo saluto, che verrà usato anche nel recente Sherlock della BBC, L'ultimo giuramento, l'altro è l'effettivo uso da parte tedesca di speaker nativi inglesi nei suoi programmi di propaganda nel corso della guerra.

Capita dunque che la radio tedesca trasmetta un programma in cui si annunciano atti di sabotaggio in territorio britannico che puntualmente si verificano. Holmes viene convocato per aiutare a scoprire come i tedeschi riescano a mantenere una rete dietro le linee e come queste possano comunicare così facilmente con la base.

Ci penserà Kitty (Evelyn Ankers, nome noto nel genere horror di quel periodo) a fare il lavoro sporco.

Memorabile nella sua bruttezza il finale, con un folle spiegone a due tra Holmes e il cattivo che tirano le fila della storia introducendo elementi estremamente improbabili se non completamente assurdi.

Le avventure di Sherlock Holmes

La sceneggiatura è basata, con notevoli modifiche, sulla piece teatrale che William Gillette aveva creato frullando e centrifugando svariati racconti holmesiani, il tutto con l'approvazione di Sir Arthur Conan Doyle. Il risultato è un po' strano, si vedono riferimenti a svariati casi, in particolare a L'ultima avventura, ma il tutto è rielaborato in un modo personale e, tutto sommato, piacevole.

Tra l'altro, pare che si debbano proprio a Gillette alcune caratteristiche iconografiche del personaggio, quali i peculiari cappello e pipa, e la battuta ricorrente "Elementare, Watson!".

L'azione parte con il professor Moriarty (George Zucco) che viene assolto da un accusa di omicidio, sfuggendo per una questione di secondi all'entrata in scena di Sherlock Holmes (Basil Rathbone) che afferma di aver trovato nuove prove che incastrerebbero il genio del male. Niente da fare, il processo è chiuso. Moriarty lancia una sfida a Holmes, metterà a segno un ultimo, eccezionale colpo, e poi si ritirerà a vita privata, lasciando nel discredito il suo arcirivale.

Nonostante John Watson (Nigel Bruce) lo pungoli, Holmes aspetta paziente che Moriarty faccia la sua mossa. Quello che non si aspetta e che costui di mosse ne faccia molteplici e, mostrando una ottima conoscenza del suo avversario, le riesca ad incastrare in modo da distogliere l'attenzione sul suo bersaglio principale.

Ann Brandon (Ida Lupino) si rivolge infatti al nostro consulting detective per sottoporgli l'oscuro caso di una minaccia di morte a fumetti indirizzata al di lei fratello. Questa non basterebbe a solleticare l'attenzione holmesiana, se non ci fosse anche il particolare del fidanzato di lei, e avvocato del fratello, che tentasse di impedire l'inizio dell'indagine. Anche questo rafforzamento, scopriremo, è dovuto all'ingegno criminoso moriartesco.

Seguono omicidi, feste nobiliari con intrattenimenti esotici, corse di calessi nella nebbiosa notte londinese e tutto quanto ci si può aspettare da un avventura di questo genere. Compreso il finale a favore del nostro eroe.

Il risultato mi pare superiore al precedente episodio, e ha alimentato le fantasie sherlockiane di numerosi successori. Direi ad esempio che sia evidente come questo film abbia ispirato il magistrale Le cascate di Reichenbach, terzo episodio della seconda stagione di Sherlock, versione BBC moderna a cura di Mark Gatiss e Steven Moffat.

Sherlock Holmes e il cane dei Baskervilles

Che sarebbe poi una delle molte versioni cinematografiche de Il mastino dei Baskerville, il racconto che rappresenta il ritorno di Holmes riuscito a sopravvivere, a furor di popolo, alla mortale caduta nelle cascate del Reichenbach avvenuta nel precedente L'ultima avventura.

Questo è invece il primo film che vede nel ruolo del consulting detective per antonomasia Basil Rathbone, che diventerà uno degli Sherlock più noti. Come dimostra la versione Walt Disney dell'investigatore, trasformato in Basil l'investigatopo (1986).

La versione Hammer di venti anni successiva sarà in salsa horror, come si addice alla gloriosa casa di produzione inglese. La Twentieth Century Fox invece ha puntato sul lato romantico, dando maggior spazio alla sottotrama che vede Sir Henry Baskerville (Richard Greene) innamorarsi della bella Beryl Stapleton (Wendy Barrie). Per rendere meno controverso questo aspetto al pubblico americano dell'epoca, si elimina il particolare che lei sia succube di John Stapleton, e che non sia affatto sua sorella, come pure ella afferma.

Credo che Sir Arthur Conan Doyle avrebbe avuto da ridire su questa semplificazione. Mentre forse avrebbe gradito l'episodio, totalmente spurio e inessenziale, della seduta spiritica, che tra l'altro non ottiene nemmeno alcun risultato.

Per il resto, la narrazione segue abbastanza da vicino l'originale. Non si cita Lestrade, a dire il vero, ma possiamo assumere che sia proprio a lui che Holmes segnala nel finale il momento di intervenire. Nota di merito alla regia (Sidney Lanfield) per non aver usato alcun effetto speciale che oggi risulterebbe imbarazzante. Il mastino è semplicemente un grosso cane molto combattivo.

La coppia Holmes - Watson (Nigel Bruce) funziona bene, e sarà alla base di una dozzina di altri episodi della serie.

Piccolo ruolo per John Carradine, padre di tutti i Carradine, che appare come maggiordomo di casa Baskerville. Particolare buffo: in originale, il carattere ha nome Barrymore, ma John Barrymore, famoso attore del tempo e tra l'altro nonno di Drew, era un grande amico di Carradine - che pare abbia assunto il nome John, lui che era nato Richmond Reed Carradine, proprio in onore suo - e dunque si decise di rinominarlo Barryman.

Mean streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

La sceneggiatura è così legata alle esperienze reali della vita di Martin Scorsese nella Little Italy newyorkese che il protagonista si chiama Charlie Cappa. E, guarda caso, il nome completo di Scorsese è Martin Charles, e sua madre di cognome faceva Cappa.

Interessante il confronto con Il padrino di Coppola, uscito l'anno precedente. Il nostro Charlie (Harvey Keitel) fa lavoretti per conto dello zio Giovanni (Cesare Danova), mafioso di medio livello, e ha la massima aspirazione di prendere in gestione un ristorante che sta scivolando dalle mani dei legittimi proprietari a quelle dello zio. Se si accenna a cose grosse, come la commistione tra politica americana e mafiosi ai tempi della seconda guerra mondiale, lo si fa solo di striscio. Sono solo ricordi del passato. Il taglio di Coppola era da tragedia shakespeariana. Qui siamo al livello della strada, come già il titolo lascia intendere.

Il tema principale è la gran confusione che c'è nella vita di Charlie. Vorrebbe essere un buon cattolico ma la sua realtà mal si sposa ai precetti religiosi, a questo allude il brutto sottotitolo aggiunto dalla distribuzione italiana. Non è che lui veda grossi problemi nel fatto che il suo lavoro consista nel taglieggiare e gestire una sorta di giustizia minore nel suo quartiere, sono le sue pulsioni sessuali a creargli grossi imbarazzi, ha infatti una relazione sessuale con Teresa (Amy Robinson) senza che i due siano sposati. Anzi, visto che lei ha attacchi epilettici e questo è visto come una pecca inaccettabile da zio Giovanni, i due devono tenere segreta la cosa. Inoltre a Charlie non dispiacerebbe avere qualche avventuretta, magari con una ballerina di colore, anche questo però è un tabù che non se la sente di rompere.

Come se tutto ciò non bastasse, il miglior amico di Charlie è suo cugino Johnny Boy (Robert De Niro), che ha hobby peculiari, come quello di far esplodere cassette postali, o quello, ben più pericoloso, di farsi prestare soldi da chiunque e poi non restituirli. Anche questa è una compagnia che zio Giovanni non reputa adeguata per un picciotto su cui lui fa affidamento.

Come ci si può aspettare, Charlie non riuscirà a mantenere il precario equilibrio troppo a lungo.

Svariati accadimenti movimentano l'azione. C'è anche un truculento omicidio in cui un ragazzetto segue in bagno un tale che si è ubriacato nel bar che frequenta Charlie. Lo riempe di piombo, ma quello è così sbronzo che manco se ne accorge e lotta a lungo con il suo assassino prima che le energie lo lascino. La scenetta è gentilmente fornita da due fratelli Carradine, David (ubriaco) e Robert (killer).

Ancora acerba, ma già molto personale e memorabile, la regia di Scorsese, che usa in modo interessante, almeno per i tempi, la colonna sonora che rende la confusione del protagonista e del suo ambiente mescolando la canzone napoletana alla canzonetta americana e a pezzi rock blues inglesi (Rolling Stones, Eric Clapton, John Mayall).

Titsiana Booberini

Titsiana (Tania Lacy) è una ragazzotta che lavora in un supermercato. Di evidente origine italiana, è presa in giro dalle colleghe per la sua diversità. Lei però ha un animo profondo, almeno se confrontato all'ambiente circostante, sta scrivendo un racconto (che sembra terribile) e ogni tanto ha dei flash in cui si vede trasportata in una realtà da sogno, resa con dei numeri da musical.

L'ennesima marachella delle sue colleghe arriva molto vicina al causare una tragedia. Questo spinge una di loro a rompere il fronte anti-Titsiana e a far comunella con lei, fino a spiegarle che c'è un semplice modo per limitare le differenze tra lei e le altre ragazze, che sono icasticamente rappresentate dal bel paio di baffi che le adornano le labbra.

Risolto questo problema, il brutto anatroccolo si trasforma in cigno e riceve persino le attenzioni di un collega da cui era attratta.

Sceneggiatura non particolarmente profonda, anche perché trattasi di un cortometraggio, regia divertente ma evidentemente immatura, entrambe firmate da Robert Luketic. Però bisogna tener conto che si tratta del suo primo lavoro, e che ai tempi era poco più che ventenne. E il risultato complessivo della produzione è superiore a quelle che erano le mie aspettative.

Il non anglofono si potrebbe chiedere che razza di nome sia quello della protagonista. Con tutta la buona volontà non è infatti pensabile che sia davvero un nome italiano. Infatti è un gioco di parole basato su due sinonimi birbantelli, tit e boob.

Nel nome del padre

Da non confondere con l'omonimo film che Marco Bellocchio ha scritto e diretto venti anni prima. In questo, In the name of the father, Jim Sheridan racconta una storia incredibilmente vera avvenuta nella civilissima Gran Bretagna nei non poi così lontani anni settanta, usando come riferimento l'autobiografia del protagonista, Gerry Conlon, magistralmente interpretato da Daniel Day-Lewis.

Gerry è un ragazzaccio di Belfast a cui non importa niente dello scontro in corso tra repubblicani irlandesi e l'esercito britannico. Preferisce passare il tempo rubacchiando con i suoi pessimi amici. Un equivoco fa sì che venga scambiato per un cecchino e, vista la tensione che c'era in Irlanda del Nord ai tempi, questo basta per portare la situazione sull'orlo della catastrofe.

Per evitare guai con l'IRA, il padre di Gerry (Pete Postlethwaite) lo spedisce da una zia a Londra. Nota curiosa, Conlon senior di nome fa Patrick ma tutti lo chiamano Giuseppe perché sua mamma, quando lui era un bimbo, si era invaghita di questo nome (colpa di un gelataio italiano), e aveva deciso di affibiarglielo. Che poi Giuseppe è un nome estremamente ostico per chi parla inglese, e infatti è mal pronunciato da tutti e nei titoli di coda è riportato erroneamente come Guiseppe - tipico errore degli angolofoni, forse per analogia con Guy, nome che da quelle parti è ben più popolare.

In ogni modo, Gerry evita la zia benpensante come la peste e fa comunella invece con un suo paesano, Paul, e con un gruppetto di hippy di tendenza squatter. Succede però che l'IRA ha portato la guerra a Londra, e una bomba viene fatta esplodere in un pub proprio una sera in cui Paul e Gerry sono da soli. Per questioni di donne, un hippy rancoroso accusa Paul e Gerry dell'attentato, probabilmente con l'idea di far passar loro un paio di notti in galera. Capita invece che il sistema giudiziario inglese perda la testa, anche grazie ad una draconiana legge anti-terrorismo, e così Paul, Gerry, e altri due loro amici, vengano condannati in quattro e quattr'otto, sulla base di indizi illusori e delle loro confessioni strappate grazie a pressioni indebite, all'ergastolo. Inoltre, anche zio, zia, nipoti, padre, persino un amico di famiglia, vengono accusati di aver fornito la rete di supporto all'attentato, e condannati anche loro a lunghe pene detentive.

Il tutto è narrato in flash back, a partire da quanto, una quindicina di anni dopo (!), l'avvocato Gareth Peirce (Emma Thompson), che si occupa di diritti umani, si interessa alla causa dei Conlon e si mette a scavare tra le carte del processo, scoprendo una serie di abusi, prove fabbricate, elementi a discarico nascosti.

E questo è il lato "legal" della vicenda.

C'è poi il lato umano. Gerry, infatti, era diventato un ragazzaccio (anche) per il pessimo rapporto con il padre, che sembra dovuto più che altro ad una incapacità comunicativa tra i due. I quindici anni di galera passati assieme mostrano anche l'evoluzione della loro relazione e di come Gerry, sia pure con una immane fatica, riesca a cambiare e superare quel muro che lo aveva tenuto distante dal padre.

Io... e l'amore

Avrebbe dovuto essere il primo film sonoro di Buster Keaton, ma a quei tempi alla Metro Goldwyn Mayer non erano così convinti di questa nuova tecnologia, i macchinari erano limitati e usati con circospezione. Si scelse così di puntare su Lionel Barrymore e sul suo Alias Jimmy Valentine, film andato perduto, che, fra l'altro, venne solo parzialmente sonorizzato, e poi su The Broadway melody, un musical che sembrava per sua stessa natura un più ovvio candidato.

Keaton era abituato a fare i film come gli venivano in mente, senza stare badare troppo a dettagli economici, e questo stop produttivo non gli piacque per niente. D'altra parte aveva firmato un contratto capestro per la MGM, causa alcuni precedenti film che non erano stati graditi dal pubblico, e non ci fu altro da fare che riscrivere la sceneggiatura per adattarla alla struttura dei film muti.

Comunque non credo sia solo questo il problema del film, che semplicemente non fa ridere. Anche se ho trovato sul sito del New York Times una recensione d'epoca decisamente favorevole, in cui si sostiene che il pubblico rideva a più non posso. Visto che si trovano critiche negative su quelli che in seguito sono diventati i classici keatoniani, si può forse dedurre che il senso dell'umorismo di Buster Keaton era in anticipo di alcuni decenni sui tempi.

Si narra di Elmer (Keaton), innamorato di Trilby (Dorothy Sebastian), attrice teatrale di successo, ma troppo timido anche solo per rivolgerle la parola. Grazie al suo lavoro, possiede una piccola lavanderia, ha accesso a uno strepitoso guardaroba che usa per riuscire ad accedere agli eventi a cui partecipa la sua bella, e per fare un figurone quando la va a vedere a teatro.

Trilby lo nota ma non è interessata all'articolo, in quanto innamorata di Lionel, suo collega, che però civetta allegramente con altre donnine, e in particolare con Ethyl (Leila Hyams). Per cui Trilby usa Elmer come mezzo per far ingelosire Lionel, ma senza alcun risultato apprezzabile.

Una sera Elmer riesce a sostituire un figurante e avvicinarsi così a Trilby sul palco senza essere riconosciuto, grazie al pesante makeup richiesto dalla parte ma, a parte generare una serie di catastrofi che trasformano il pezzo teatrale da una melassa sentimentale in stile Tosca incrociato con Via col vento in una commedia con inserti slapstick, non ne cava niente. Succede però che Ethyl confida a Trilby che Lionel è sul punto di annunciare il loro fidanzamento, al che Trilby decide di bruciarli sul tempo, e sposarsi col primo fesso che passa, che per l'appunto è Elmer. Da cui il titolo originale del film, Spite marriage.

Matrimonio che non serve a nulla, Lionel continua a non ingelosirsi, Trilby continua a trattare con distacco Elmer, tutti sono infelici e scontenti. In questo frangente Keaton ha inserito un numero da vaudeville che alla produzione non piaceva per niente, che però si è rivelata essere la parte del film che ha più fatto successo. Trilby s'è scolata una bottiglia di champagne, Elmer l'ha portata in camera e la vorrebbe mettere a letto, ma Trilby cade da tutte le parti e lui deve ricorrere a mezzi non convenzionali per raggiungere l'obiettivo.

Tornata sobria, Trilby lascia al suo manager il compito di scaricare il marito, mentre lei parte in crociera con Lionel, che evidentemente ha scaricato Ethyl. Una serie di disavventure portano Elmer sulla stessa nave, in qualità di mozzo, e si finirà in una situazione simile a quella di The Navigator.

Il cameraman

Buster (Buster Keaton), fotografo ambulante, incappa fortunosamente in Sally (Marceline Day) di cui si innamora al momento. La perde di vista ma le resta la foto che le ha fatto, e sa che lavora per la sezione notizie dell'MGM. Per starle vicino, cambia lavoro e diventa cinecorrispondente free lance, dotato di macchina da presa obsoleta che per di più non capisce bene il funzionamento.

Il primo rullo che gira per le strade di New York si rivela essere una porcheria, sia perché non ha idea di cosa filmare, sia perché fa marchiani errori tecnici (gira la manovella avanti e indietro, usa la pellicola per più riprese) ottenendo materiale che sembra più adatto ad un videoclip psichedelico che ai cinenotiziari. Però riesce a strappare una mezza promessa di un possibile appuntamento con la sua bella.

L'appuntamento si concretizza, e riesce pure ad andare abbastanza bene, nonostante una serie di avversità che colpiscono Buster e a cui lui si contrappone come può, almeno fino alla sera, quando un collega riesce con uno stratagemma e l'aiuto del maltempo ad avere ragione della concorrenza e accaparrarsi il diritto di riportare a casa Sally.

Il giorno successivo Buster si ripresenta al lavoro, nonostante il lavoro non ne voglia sapere nulla di lui. Sally però gli passa una dritta, un grosso guaio è sul punto di succedere a China Town. Lui ci va, e si trova nel bel mezzo di una guerra di bande. Filma tutto ma non si accorge che una scimmietta burlona (di cui è diventato inaspettatamente il proprietario) gli ha nascosto la pellicola, facendogli fare un altra brutta figura col capo, il quale se la prende con Sally, rea di dare corda ad un incapace. Sarebbe sul punto di licenziarla, ma Buster promette di non farsi vedere più salvandole il posto.

In realtà a Buster era venuta un'altra idea, riprendere una corsa di motoscafi da una angolazione inattesa e presentare la sua pellicola all'MGM, mostrando che dopotutto qualcosa era capace di fare. Viene allontanato dai giudici di gara, e deve rassegnarsi ad una ripesa normale. Succede però che un equipaggio viene sbalzato dalla propria imbarcazione, e lui è l'unico presente nella zona che possa intervenire. Un uomo raggiunge la riva per conto suo, una donna resta in pericolo. Lui, con gran rischio, la salva, e si accorge che è proprio Sally. Però si allontana un attimo e il merito se lo piglia il di lei collega, che era appunto alla guida del mezzo.

Buster si arrende. Manda la pellicola all'MGM, ne facciano quel che vogliono, e lui si riprende la sua macchina fotografica, e torna, molto mestamente alla sua vita di prima. Non si è accorto però che la scimmietta ha girato al posto suo mentre lui era intento al salvataggio, riprendendo tutto quelle che serve per chiarire i fatti. E dunque assicurandogli il lieto fine.

Storia più complicata del solito, causa influssi dell'MGM mitigati dal buon grado di indipendenza artistica che Keaton è riuscito anche questa volta a strappare. C'è anche una buffa trama parallela, con un poliziotto incappa più volte in Buster e lo vede in circostanze sempre più bizzarre ed inesplicabili. Tra le scene memorabili, quella in cui Buster aspetta la telefonata della sua bella, e scende, sale, e poi scende di nuovo le scale del condominio dove abita a diverse velocità e stati d'animo.

Io... e il ciclone

In un porto fluviale nel Midwest americano, si confrontano due figuri che provano immensa antipatia l'uno per l'altro. William Canfield (Ernest Torrence), detto Steamboat Bill dall'omonimo ragtime di Arthur Collins, canzone ai tempi molto famosa in America, è un omone collerico che campa grazie al suo battello a vapore, vecchiotto e piuttosto malandato. J.J.King è un proto-capitalista che possiede tutto quel che c'è da possedere in città, che ricorda un po' il Mr.Potter di La vita è meravigliosa di Frank Capra, e giusto per dar fastidio al suo arcinemico ha appena inaugurato un nuovo battello, più grande e più bello di quello del rivale.

Un telegramma avverte Canfield che sta per venire a trovarlo suo figlio, William Canfield Junior (Buster Keaton), da cui il titolo originale del film, Steamboat Bill Jr., che praticamente non ha mai visto in vita sua. I motivi di questa lunga separazione non sono spiegati, fatto è che Junior ha vissuto a Boston, e ci viene dunque presentato come un damerino di città, ben poco avvezzo alla dura vita della immensa campagna americana. Senior non è molto contento, ma fa buon viso a cattivo gioco, convinto di riuscire a convertire il ragazzo. Ma quello che non manda giù è che Junior sia mezzo fidanzato con una ragazza (Marion Byron) che ha conosciuto in città, e che scopriamo essere, già, proprio la figlia di King.

Quando capisce che non c'è modo per dissuadere Junior da frequentare quella cattiva compagnia, Senior decide di rispedirlo in città. Il povero Junior fa i bagagli e si prepara a partire, ma scopre che Senior, in seguito al suo cattivo carattere e ad una perfida manovra di King, è stato messo in galera. Fallito un maldestro tentativo di farlo evadere, Junior si risveglia in ospedale, ma probabilmente pensa di essere in un incubo, perché succedono cose folli. Le case crollano come fossero castelli di carta, il suo letto si trova circondato da cavalli che lo guardano perplessi, e altre bizzarrie. Il fatto è che si è scatenato un ciclone altamente distruttivo, e la natura sembra farsi beffe di Junior.

Eppure la fortuna, che non era stata dalla sua parte fino a questo momento, sembra prenderlo a ben volere. Situazione che avrebbero fatto morire di paura un animo battagliero, sembrano non aver nessuna chance di impressionare Junior. E' qui che vediamo uno degli stunt più pericolosi di Keaton, che si fa cadere una facciata di una casa addosso, ma ne esce illeso grazie ad una finestra che finisce per fornirgli il minimo spazio per non venire schiacciato. E il nostro eroe parte alla riscossa, salvando donna e rispettivi padri dalla furia degli elementi. Colpo di scena finale, salvati tutti, salta nel fiume e si allontana a nuoto, ma per un ottimo motivo.