SpongeBob - Fuori dall'acqua

Il feroce pirata Barba Burger (Antonio Banderas) ha un sogno nella vita. Metter su un baracchino tipo quello di Chef e vendere a tutti hamburger, diventando in questo modo favolosamente ricco. Dunque si impossessa di una mappa del tesoro che lo porta in una isoletta dove è custodito un magico libro (*) che permette di modificare gli accadimenti a piacere del suo proprietario. Basta scrivere su una sua pagina quello che si vuole che succeda.

Chissà come Barba Burger sa dell'esistenza di SpongeBob, e di come questo strano essere spugnoso usi una miracolosa ricetta che rende gli hamburger irresistibili. Sottrae perciò la minuscola pergamena, impara l'arte e la mette in pratica.

Il problema è che SpongBob non conosce la ricetta. Mr. Krabs, l'estremamente malfidente proprietario della bettola, lo ha infatti costretto a firmare un contratto in cui si impegna a non memorizzare in alcun modo alcuna sua parte. E SpongeBob, che è un essere dall'incomparabile candore, lo segue alla lettera.

Si impone la ricerca della ricetta perduta. Per far ciò SpongeBob stringerà alleanza con l'ipernemico suo e di Mr. Krabs, tale Plankton, anche perché entrambi sono accusati della cosa. Morale della storia, lavorando in squadra, superando le differenze, si riescono ad ottenere risultati impensabili.

La sceneggiatura fa acqua da tutte le parti (**), ma il prodotto è pensato per un pubblico molto giovane e si racconta di una spugna umanizzata e che, pur avendo la forma di una spugna artificiale, vive in fondo al mare assieme alla fauna locale e una scoiattolina subacquea. Difficile perciò contestare qualcosa in questa direzione.

Il guaio è che non sono riusciti a pensare una storia capace di reggere un ora e mezza. C'è una lunga parte centrale che ha lasciato perplessi anche i più giovani del pubblico e che ha evidentemente il solo scopo di fare da riempitivo in attesa dello scontro con Barba Burger.

Questo secondo lungometraggio dedicato a SpongeBob è il primo lavoro della Paramount Animation, società nata quando in Paramount si sono resi conto che non era il caso di limitarsi a distribuire animazioni prodotte da altri, visto gli utili che sono in ballo. Forse è per questo che, nonostante il budget molto sostanzioso, la tecnica mista utilizzata per questa pellicola non è ancora completamente soddisfacente.

(*) Tutto quello che riguarda questo miracoloso oggetto è avvolto dal mistero, e nessuno mostra alcun interesse sulla sua storia. Un vero peccato.
(**) Letteralmente e figurativamente.

Automata

Jacq Vaucan (Antonio Banderas) è in una crisi di mezza età così potente che, nonostante faccia un lavoro ad elevato tasso di noiosità (perito assicurativo), riesce a trovare il modo di ficcarsi in un gigantesco guaio piuttosto di affrontare la sua prima paternità.

Forse Gabe Ibáñez (co-sceneggiatura e regia) non voleva che fosse troppo chiaro il tema che voleva trattare, e ha camuffato il film in modo che sembri un thriller fantascientifico centrato sull'evoluzione di una futuribile intelligenza artificiale che finisce per superare quella del suo creatore. Ovvero la teoria della singolarità che tanto va di moda in questi tempi. Vedasi ad esempio Transcendence.

Tra qualche decennio la quasi totalità della popolazione mondiale viene sterminata, un po' come in Interstellar, ma qui il principale colpevole è il nostro sole che decide di abbrustolirci più del solito. E' diversa anche la soluzione scelta, si punta tutto su un modello di automa, un po' come quelli di Io robot, che dovrebbe permettere la riconquista del deserto che ora copre quasi completamente l'intero pianeta.

L'azione parte quando ormai s'è persa ogni speranza. Il deserto è più forte, ci si accontenta di sopravvivere nelle città. A dire il vero noi di città ne vediamo una sola, e non ha nome, anche se sembra americana, e ricorda molto la metropoli di Blade runner, anche a causa delle continue piogge, che qui sono provocate artificialmente. Ma si accenna all'esistenza di almeno un'altra città superstite, che sarebbe sulla costa dell'oceano, e verso la quale vorrebbe fuggire Jacq, per inseguire quello che sembra un ricordo di infanzia, non si sa quanto reale.

A fare le spese della crisi del protagonista è sua moglie (Birgitte Hjort Sørensen), che dovrà arrangiarsi da sola al momento del parto, e soprattutto il suo capo (Robert Forster), felicissimo del suo insulso lavoro e che si trova invece catapultato nel deserto senza capire neanche bene perché.

Già, perché la presa di coscienza dei robot ha uno spiacevole contraccolpo assicurativo, visto che qualcuno deve pur pagare se questi non funzionano come atteso. Il che sarebbe una idea per una deriva satirica alla Brazil di Gilliam, che però viene accuratamente evitata, mantenendo una seriosità che mi è parsa eccessiva. Invece Jacq, convinto che qualcuno manipoli i suoi robot, segue una pista nei bassifondi della città che lo porteranno ad avere a che fare con una robottina di facili costumi, seguire una pista che porta ad una esperta fai da te di intelligenza artificiale (Melanie Griffith, poco più di un cameo), e infine ad un regolamento di conti in stile quasi western.

La sceneggiatura m'è parsa troppo confusa, tanti riferimenti che però non portano da nessuna parte, e pochi sviluppi che siano realmente memorabili. Il risultato visuale non è male, in particolare se penso al budget che deve essere stato ridicolmente basso, se paragonato a titoli simili.

Zombi

Dieci anni dopo La notte dei morti viventi, George A. Romero si è deciso a farne il sequel, Dawn of the dead. Un grosso aiuto gli è arrivato da Dario Argento, da cui consegue anche la non memorabile colonna sonora dei Goblin.

Tra le versioni disponibili, ho visto il director's cut da due ore e venti. Ne esiste una che sta sotto le due ore, tagliata e rimontata dallo stesso Argento su permesso di Romero per il mercato europeo, che probabilmente è migliore.

Si inizia più o meno dove era finito il precedente episodio. Però l'epidemia (*) non è per niente sotto controllo, anzi, il panico serpeggia, e vediamo Pittsburgh sull'orlo della catastrofe. Chi può lascia la città per cercare scampo altrove, noi seguiamo quattro tizi che prendono l'elicottero della televisione con l'idea di andare in Canada. Finiscono invece in un centro commerciale, dove si installano in attesa dell'arrivo di tempi migliori.

Arrivano invece altri superstiti umani, ma questo non rallegra nessuno, a parte gli zombie che trovano così qualcosa di cui pascersi.

Il budget è più elevato, tanto per dirne una Romero si è potuto permettere di abbandonare il bianco e nero. Anche questa volta il cast è composto da sconosciuti, che però mediamente recitano meglio, e il protagonista è di colore (Ken Foree). Per sua fortuna non fa la stessa fine del suo predecessore, il finale è aperto, ma potrebbe pure salvare la pelle.

(*) O qualunque sia la causa del ritorno dei morti ad una specie di sub-vita. Romero lascia cadere l'ipotesi della radiazione venusiana e non azzarda altre spiegazioni.

La notte dei morti viventi

Stando a quanto dicono George A. Romero e John A. Russo (di entrambi la storia, del primo la regia), quando si sono imbarcati in questa avventura, l'unica cosa di cui erano certi era che volevano fare un film. Il bianco e nero è stato imposto dal budget minimale, come pure il ricorso ad attori sconosciuti e gli effetti speciali quasi inesistenti. Il genere horror è stato scelto perché ai tempi andava bene, e questo poteva convincere più gente a finanziare l'impresa. Il titolo della sceneggiatura, Monster flick, è quanto di meno definito si possa pensare.

Anche la scelta decisamente di rottura per i tempi di far sì che il protagonista fosse il debuttante Duane Jones, unico di colore in un cast estremamente bianco, è stata liquidata dai due con la dichiarazione che Jones era il più adatto che si fosse presentato per la parte.

Eppure questo titolo ha rifondato il genere, e nei decenni successivi chi ha voluto mettere uno zombie (*) nel film non ha potuto fare a meno di confrontarsi, volente o nolente, con questo titolo.

Un po' come in Io sono leggenda di Richard Matheson (**), una folla di ex-umani cinge d'assedio una casa. Qui però a resistere non è un solo uomo, e la sua non è nemmeno un'ultima difesa prima della sparizione della razza umana come la conosciamo. Sono in una mezza dozzina e, grazie ad una radio e poi una televisione, seguono le notizie della catastrofe, che pare sia causata da una sonda che torna da Venere portando una radiazione ad alta energia (?).

La necessità di tener sotto controllo i costi, spinge a far succedere poco, al punto che gran parte dell'azione consiste in Ben (Jones) che inchioda assi alle finestre, o in litigi tra gli umani che sostengono diverse strategie. Il resto del tempo li vediamo prendere decisioni sbagliate, fare errori, e alla fine morire orribilmente. Ancor più deprimente il contributo femminile. La protagonista, Barbra (Judith O'Dea), rimane scioccata subito all'inizio dalla scomparsa del fratello, e dice poco o niente per il resto della storia.

(*) Anche se nel film il termine zombie non è mai utilizzato.
(**) E Romero effettivamente cita il racconto di Matheson come sua fonte di ispirazione.

Il problema finale

Le cascate del Reichenbach erano in agguato da tempo. Il professor Moriarty (Eric Porter) aveva da tempo iniziato a vedere in Sherlock Holmes (Jeremy Brett) una minaccia, anche se noi e il dottor Watson (David Burke) eravamo all'oscuro del silezioso duello che i due avevano iniziato (*).

A far scattare Moriarty è l'ennesimo diabolico piano andato in fumo. Questa volta aveva addirittura fatto rubare la Gioconda al Louvre, con l'intento di venderne copie spacciandole come originali leonardeschi, contando sul silenzio degli incauti compratori.

Le minacce, seguite ai fatti, ottengono l'effetto contrario di far sì che Holmes, contando sull'aiuto del fratello, distrugga l'intera rete delinquenziale del suo pericoloso avversario. Però Moriarty sfugge all'arresto di massa, e ora vuole solo vendicarsi.

Il regolamento di conti avverrà in Svizzera, dove i due contendenti si incontreranno sul ciglio di un burrone.

(*) In questa versione televisiva marcata Granada delle avventure del consulting detective, che pure è insolitamente molto aderente allo spirito e alla lettera di Conan Doyle, si è anticipato nel precedente episodio l'ingresso in scena del professore, rivoluzionando anche l'ordine dei racconti.

La lega dei capelli rossi

Che Sherlock Holmes (Jeremy Brett) spesso maltratti i suoi clienti non è certo una sorpresa, ma questa volta neanche il dottor Watson (David Burke) riesce a trattenersi e i due ridono apertamente al racconto di Jabez Wilson (Roger Hammond) della sua disavventura.

E' successo infatti che a costui è stato fatta balenare la speranza di essere stato prescelto, grazie alla sua appariscente chioma, per essere lautamente pagato per copiare a mano l'Enciclopedia Britannica. La pacchia però non è durata molto, e un bel giorno la lega che così generosamente pagava il suo inutile lavoro sparisce nel nulla.

Sulle prime anche Holmes pensa ad una burla ordita da chissà chi alle spalle del poveretto, ma un successivo approfondimento lo mette sull'avviso che qualcosa di grosso si può celare dietro quella che sembra una innocente marachella.

Fin qui si mantiene l'impostazione originale di Conan Doyle, al punto di seguire pure i nostri due quando vanno a teatro a sentire un concerto di Pablo de Sarasate (*), paragonabile a Niccolò Paganini per l'attività compositiva e interpretativa, ma coevo al periodo in cui sono ambientati i racconti in questione, tardo ottocento, insomma.

Viene aggiunto però un particolare fondamentale. In questa versione, l'operazione criminale è riconducibile al professor Moriarty (Eric Porter), che si mostra anche molto contrariato dall'ingerenza del consulting detective, giustificando così meglio lo scontro mortale tra i due che sarà trattato nel prossimo episodio, ultimo della stagione.

Nota che, nel canone ufficiale, questo racconto è tra i primi, seguendo Uno scandalo in Boemia nella collezione de Le avventure di Sherlock Holmes (che è anche il titolo che Granada ha dato a queste due annate di riduzioni televisive). E quindi in realtà è molto distante da L'ultima avventura, che chiude Le memorie di Sherlock Holmes.

(*) Interpretato da Bruce Dukov in una delle sue rare interpretazioni sullo schermo. Qui suona Bach (credo) ad una velocità spaventosa.

Il paziente a domicilio

Credo sia la prima volta nella serie Granada delle avventure di Sherlock Holmes che si fa suonare e canticchiare a Holmes (Jeremy Brett) e Watson (David Burke) un brano molto riconoscibile, che fra l'altro viene citato espressamente. Il terzo movimento rondò allegro dal concerto per violino e orchestra di Ludwig van Beethoven.

A ben vedere la storia finisce molto male per il cliente di Holmes, che poi è il paziente citato nel titolo (*). Anche se il consulting detective ha l'attenuante che il cliente si è mostrato riottoso e non ha voluto rivelargli dettagli che sarebbero stati essenziali per l'indagine. E pure quasi tutti i perpetratori riescono a sfuggire alla legge, anche se pare che facciano comunque una brutta fine.

Come consueto in questa versione, il tono è molto leggero, e quadretti comici di alleggerimento punteggiano la narrazione. Bizzarro il finale, con Watson che medita sul titolo da dare a questa storia, e finisce per scegliere quello che con nonchalance gli era stato proposto da Holmes poco prima.

(*) Il racconto di Conan Doyle su cui è basato questo episodio parla di un resident patient, che normalmente viene tradotto come interno e non a domicilio.

Shaun, vita da pecora - Il film

Meglio un giorno da leone che cento da pecora, disse quel tale che non conosceva Shaun la pecora.

Il lungometraggio è basato sulla serie di cortissimi televisivi che narrano le avventure di Shaun, pecora di intelligenza inaspettatamente elevata, nella pacifica fattoria di Mossy Bottom. Produzione della mitica Aardman Animations, quella di Galline in fuga e, più recentemente, dei Pirati da strapazzo. Anche questa una animazione in passo uno. E' bello vedere che le disavventure che li hanno colpiti non sono riusciti a mandarli fuori mercato.

Qui succede che Shaun decide, in comune accordo con le altre pecore, di assestare un tiro birbone al fattore, con lo scopo di farsi un giorno di vacanza dalla vita di pecora. Le cose però sfuggono loro di mano, e si trovano a vagabondare per la Grande Città, il fattore trasformato in Mr.X da una botta in testa che gli ha fatto perdere la memoria, pecore e cane alla sua ricerca, ma a loro volta tallonati da un acchiappa-animali che ha il De Niro di Taxi driver tra i suoi modelli di comportamento.

Il costruttore di Norwood

Prima apparizione in questa versione televisiva delle avventure di Sherlock Holmes per l'ispettore Lestrade (Colin Jeavons). Nella serie originale di Conan Doyle appare sin dal primo racconto, Uno studio in rosso, ma la Granada ha rimescolato le carte (*).

Un avvocatino si rivolge a Holmes in quanto accusato dell'omicidio di un palazzinaro in pensione (**), le prove sembrano essere tutte contro di lui e, nonostante Holmes abbia la sensazione che il suo assistito sia innocente, non riesce a fare breccia nel caso.

Watson (David Burke) contribuisce all'indagine identificando carte mancanti che suggeriscono una certa pista investigativa. Altri elementi vanno nella stessa direzione, ma il punto principale sembra essere destinato a restare nascosto. Sarà il brutto carattere del cattivo di turno, e da una intuizione sherlockiana basata sulla di lui professione, a risolvere l'inghippo.

(*) Inoltre non è riuscita a completare l'impresa di portare tutto l'opus sullo schermo, per la prematura dipartita dell'irrimpiazzabile protagonista, Jeremy Brett. E quello è proprio uno degli episodi che mancano.
(**) Jonathan Adams, era lo scienziato rivale del dottor Frank-N-Furter nel Rocky horror picture show.

L'interprete greco

L'importanza di questo racconto sta nell'introduzione del personaggio di Mycroft Holmes, qui interpretato da Charles Gray, fratello maggiore di Sherlock (Jeremy Brett) che sarebbe dotato di capacità analitiche e induttive persino superiori a quelle del fratellino, il che lo renderebbe un eccellente investigatore, se non fosse che mancasse della sua atleticità (abbiamo visto come sia anche un provetto pugile) e sia ancora meno capace di interagire con altri esseri umani.

Questa versione televisiva cambia alcuni dettagli, rendendo tra l'altro un particolare poco chiaro. Viene infatti saltata la spiegazione di come i nostri eroi riescano a trovare la villa in cui si è svolto il fatto criminoso, lasciandone solo un misero accenno.

Da notare che entrambi gli Holmes usino il loro acume in questo caso solo a sprazzi. Ad esempio, Mycroft causa grossi problemi all'interprete del titolo, pubblicando sui giornali una richiesta che lo mette in pericolo, e Sherlock, che pure si rende conto dell'idiozia che ha fatto il fratello, si limita ad un blando avvertimento al povero disgraziato, che in seguito a ciò rischierà la vita. Sarà il provvidenziale intervento del dottor Watson (David Burke) a salvarlo.

Anche il finale è cambiato, probabilmente perché la produzione voleva movimentare la puntata con un po' di azione ferroviaria. Ne si approfitta per rendere lo Sherlock di Brett persino più misogino dell'originale di Conan Doyle.

I faggi rossi

Primo episodio della seconda annata de Le avventure di Sherlock Holmes in versione Granada, quella con Jeremy Brett nel ruolo del protagonista e David Burke in quello del dottor Watson.

Il caso sembra così triviale che Holmes si arrabbia col mondo intero, che non gli fornisce casi degni di nota, e arriva pure a maltrattare Watson per la banalizzazione che egli fa del suo lavoro nei racconti che stiamo leggendo (o vedendo).

Quando però concede udienza alla sua cliente, Violet Hunter (*), si accorge che sotto l'apparente banalità, un signorotto di campagna che intende pagare una cifra eccessiva per una istitutrice per il suo pargolo, il caso presenta degli aspetti inquietanti.

Il signor Rucastle (Joss Ackland), infatti, fa alla Hunter richieste strane, tagliarsi i capelli in un certo modo, mettere un certo vestito, ascoltarlo mentre racconta storielle allegre, che fanno pensare che la residenza di campagna che dà il nome al racconto abbia influssi pericolosi sulla salute mentale di chi la occupa.

Aggiungiamoci poi un giovanotto barbuto che sembra tenere sotto controllo a distanza la magione, il feroce cane da guardia che viene lasciato libero di scorazzare nel parco di notte, e una stanza isolata che sembra ospitare qualcuno, per far capire che qualcosa che non va ci deve essere.

L'intervento dei nostri, a dire il vero, non cambia di molto lo svolgimento dei fatti. Ma almeno hanno modo di farsi una gita in campagna, e lasciare per qualche giorno una Londra molto nebbiosa.

(*) Interpretata dalla povera Natasha Richardson, figlia di Tony Richardson e Vanessa Redgrave, subito prima del Gothic di Ken Russell.

Boxtrolls - Le scatole magiche

Terzo lungometraggio, sempre in animazione a passo uno, dello studio Laika, dopo Coraline e ParaNorman.

L'immaginario sottostante continua ad essere fortemente debitore di Henry Selick (e quindi di Tim Burton) anche se la sua collaborazione con lo studio si è limitata alla sola Coraline. Qui si è creata una variante Monty Python, omaggiata esplicitamente con l'inclusione di una canzone firmata da Eric Idle sui titoli di coda, e con la tragica fine del cattivo che molto ricorda un episodio del pitoniano senso della vita.

La storia è basata sulla contrapposizione tra due comunità che insistono sullo stesso territorio, una alla luce del sole, l'altra sotterranea. Tra i mille esempi del genere, vedasi ad esempio il più gentile Ernest & Celestine. Qui capita che tale Archibald Arraffa (1) abbia in mente un piano diabolico per sfruttare la differenza degli uni nei confronti degli altri per suoi propri scopi, che si riveleranno autodistruttivi.

In una bizzarra cittadina apparentemente settecentesca con tratti molto favolistici, il potere è in mano ad alcuni svampiti nobili che pensano solo al formaggio. Il capo supremo è Lord Gorgon-zole (2) che ha una moglie (3) e una figlia, Winnie (4), a cui non sembra molto attaccato. Lady Gorgon-zole ha ben pochi secondi di presenza sullo schermo, Winni, invece è la prima donna dello show.

Archibald Arraffa vuole entrare nella cerchia dei notabili, e per farlo si propone come sterminatore dei boxtroll, che sarebbero i compaesani del mondo sotterraneo. Ha tre tirapiedi, uno, Mr. Nervetto (5), è felice di fare del male, gli altri due, Mr. Pasticcio e Mr. Trota (6), sono i buffi nel senso shakespeariano del termine, offrendo un costante contrappunto all'azione principale. Pensano di essere dalla parte del bene, i loro dubbi aumentano nel tempo, fino a giungere alla conversione finale. A prima vista sembrano sciocchi, ma se si fa caso a quello che dicono si scopre una profondità imprevista nei loro pensieri. Nel finale mostreranno di aver capito di essere solo personaggi in un film, mossi da un burattinaio a loro invisibile.

I troll del mondo di sotto sono bruttarelli e hanno abitudini disgustose. Ma a parte questo non sono certo un pericolo per il mondo di sopra. Sono al contrario dei gran fifoni, e al minimo accenno di pericolo si rinchiudono nelle scatole che fanno loro da approssimativo vestito. Ogni troll ha la sua scatola che si porta dietro per tutta la vita (pare), e spesso determina il suo nome. Ad esempio, il troll con la scatola che ha un immagine di un pesce viene chiamato Fish.

L'incidente causato da Arraffa fa sì che un poppante finisca tra loro e venga allevato come un troll, diventando noto col nome di Uovo (7). Trattasi del figlio di Herbert Trubshaw (Simon Pegg), anch'egli misteriosamente scomparso nell'occasione, e di cui scopriremo il destino solo molto in avanti nella storia.

Che il piano di Arraffa non sia particolarmente astuto lo si deduce dal fatto che richiede un decennio abbondante per essere portato a termine. Tempo che serve per far crescere Uovo a sufficienza, così da poter essere lui a occupare il ruolo principale della storia.

Simpatica la colonna sonora di Dario Marianelli che include anche alcune buffe canzonette in tema di formaggio, che sembra essere al centro degli interessi di quello strano mondo.

1) Archibald Snatcher. Voce italiana Massimo Lopez, originale Ben Kingsley
2) Lord Portley-Rind. Stefano Benassi, Jared Harris
3) Toni Collette
4) Elle Fanning
5) Mr. Gristle (Tracy Morgan)
6) Mr. Pickles (Richard Ayoade - il Moss dell'IT crowd) e Mr. Trout (Nick Frost)
7) Eggs (Isaac Hempstead Wright)

Il carbonchio azzurro

Settimo e ultimo episodio della prima annata firmata Granada delle avventure di Sherlock Holmes, interpretato da Jeremy Brett.

E' una puntata natalizia, e sono (quasi) tutti più buoni. A morire sono solo le tradizionali oche, che nel nord Europa abbondano sulle tavole di Natale. O meglio, le morti ci sarebbero pure, ma avvengono tutte prima dell'inizio della storia.

Al centro c'è infatti la solita pietra preziosa maledetta, giunta a Londra lasciando dietro di sé una scia di sangue. Bizzarria di Conan Doyle vuole che la pietra sia identificata col nome medioevale di carbonchio, anche se poi si dice che è stata trovata solo un paio di decenni prima. Inoltre il carbonchio è il nome che ai tempi si dava alle pietre preziose rosse in generale, e ai rubini in particolare. Ma questa, inesplicabile scherzo della natura, è azzurra.

La pietra viene rubata ad una nobildonna che appare antipatica a prima vista, e riappare misteriosamente nello stomaco di un'oca. Holmes e Watson (David Burke) risalgono il percorso del palmipede e giungono a chiarire l'arcano.

La versione televisiva risolve qualche dettaglio problematico lasciato dall'autore, anche se introduce altri. Ad esempio Holmes si tiene la pietra (!) invece di restituirla alla legittima proprietaria, mettendola in un cassetto in cui tiene i suoi tesori. Credo che lo scopo sia quello di farci vedere che in quel cassetto c'è la foto di Irene Adler, da lui acquisita in Scandalo in Boemia.

La banda maculata

Come al solito molto aderente al racconto originale di Conan Doyle, L'avventura della banda maculata. In questo caso mantenendo pure l'incongruità del mezzo con cui il crimine viene commesso e mostrandoci uno Sherlock Holmes (Jeremy Brett) che inventa il nome di una specie animale e del dottor Watson (David Burke) che, pur avendo vissuto in India, non gli fa notare i suoi errori.

La cliente del consulting detective è la non più giovanissima Helen Stoner (Rosalyn Landor) che sta per abbandonare la casa del suo patrigno per convolare a tardive nozze. Ma già due anni primi la sorella era stata sul punto di sposarsi ed era invece morta biascicando qualcosa a proposito di una banda maculata di cui bisognerebbe diffidare.

Holmes fa sfoggio di forza bruta raddrizzando una barra di metallo che altri ha piegato credendo di impressionarlo, e anche della sua solita poca sensibilità, sostenendo che i medici possono diventare i più crudeli assassini, dimenticando la professione del suo affezionato compare.

Whiplash

E' come se fosse un folle mashup tra L'attimo fuggente e la prima parte di Full metal jacket, con il sergente Hartmann che prende il posto del professor Keating. In più c'è una bella colonna sonora jazz, tendenza bepob per big band.

Musicalmente parlando, c'è da dire che non sono un fan della batteria, e il protagonista, Andrew (il lanciatissimo Miles Teller), ha deciso di dedicare la sua intera vita a questo strumento. Alcune parti, tipo il lunghissimo assolo finale, mi hanno più annoiato che estasiato.

Andrew è un ragazzetto con tendenze autistiche e la passione per la musica. Il suo sogno pare sia diventare un nuovo Buddy Rich, e per questo trascura tutto il resto, trattando con spocchia chi gli faccia notare come la vita sia qualcosa di più complesso che pestare su una batteria. La sceneggiatura (Damien Chazelle, anche regia), presa com'è dalla formazione musicale del protagonista, non dedica molto tempo a questo aspetto, ci fa comunque vedere che in un attimo di buonsenso Andrew attacca bottone con una coetanea, Nicole (Melissa Benoist), per poi rendersi conto che una relazione umana lo distrarrebbe dal suo obiettivo finale di rovinarsi la vita, e la molla.

Dall'altra parte c'è Fletcher (J.K. Simmons), temutissimo insegnante della scuola che Andrew ha scelto, il fittizio Shaffer Conservatory di New York (*). Costui dirige la band jazz di maggior spicco della struttura e il successo che ottiene ai concorsi esterni è tale che gli hanno permesso di esercitare il diritto di prelazione sugli studenti di tutta la scuola. Spesso gira tra le aule, gettando nel panico tutti quanti e, di tanto in tanto, rapisce un allievo e lo porta nella sua band. Lui dice di cercare un nuovo Charlie Parker, e che i suoi metodi abusivi servono a dare maggiore motivazione a chi ha davvero talento. A me sembra invece che lui sia un sadico nel paese della cuccagna. A sostegno della mia ipotesi la sua ammissione di non aver trovato nessun nuovo talento in tutta la sua carriera. Eppure è convinto che a New York ci siano i migliori musicisti del mondo e di lavorare per la migliore scuola di musica di New York. Nonostante ciò non gli viene nemmeno il dubbio di essere lui il problema. Quando scopre che un suo ex allievo si è suicidato ha un attimo di sbandamento, che risolve rapidamente mentendo agli altri (**) e probabilmente anche a se stesso, creandosi l'alibi che, se non ce l'ha fatta è perché non era destinato a farcela.

Un sadico incontra un masochista. Walter Chiari raccontava qualcosa del genere in un suo sketch, i due si riconoscono, il masochista chiede al sadico di fargli tanto male, questi gli dice di no e se ne va. Ma questa non è una commedia, e i due instaurano una relazione malata che quasi li distrugge. Però evidentemente Chazelle si ritrova in questo modello, e trova il modo di far finire bene la storia. Anche se ho i miei dubbi che si possa dire che è una fine positiva.

Si vede che la regia è fatta da chi ne sa di musica, e anche la scelta del cast lo dimostra. L'enfasi della sceneggiatura è però tutta sul rapporto Andrew - Fletcher, e si finisce per trascurare la credibilità di alcuni passaggi per semplificare la narrazione. Ad esempio è ben strano che si arrivi al concerto finale senza che i membri della band abbiano provato a lungo assieme e senza che vi sia un percussionista di riserva, quando tutta la prima parte del film era sul massacro delle prove e sulla lotta fino all'ultimo momento per il posto sul palco.

(*) In realtà gran parte del film è stato girato a Los Angeles e nel resto della California.
(**) Dice che il ragazzo è morto in un incidente stradale. Il fatto che menta è significativo, avrebbe potuto glissare sulle cause, nessuno avrebbe osato fare domande. Dunque ha ben presente che il suicidio è legato ai suoi metodi (dis)educativi.

L'uomo difforme

Altro titolo mal scelto dalla distribuzione italiana. In questo caso mi ha fatto pensare all'uomo in ammollo di Franco Cerri. Tratto dalla raccolta The memoirs of Sherlock Holmes, il titolo scelto da Conan Doyle è The adventure of the crooked man, solitamente reso in italiano come Il caso dell'uomo deforme. Che poi, a ben vedere, è un mezzo spoiler.

Succede che Sherlock Holmes (Jeremy Brett) viene quasi costretto dal dottor Watson (David Burke) ad occuparsi di un caso in ambiente militare. A Holmes i militari non stanno molto simpatici, e non fa nulla per nasconderlo. Watson invece ha avuto un passato come medico nell'esercito, e gli è rimasta una attrazione per le divise e la vita di caserma.

Il colonnello Barkley è morto di morte violenta e, non essendo stato per niente popolare, questo non sarebbe un problema, se non fosse che la moglie Nancy è la principale indiziata del fatto. E questo sarebbe uno scandalo per l'intera guarnigione. Purtroppo Nancy è caduta in uno stato catatonico (per comodità dello svolgimento della trama, più che altro), e quindi l'indagine deve essere condotta senza poter chiedere nulla a lei, come sarebbe invece naturale.

Seguendo certi indizi si arriva al povero disgraziato che dà il titolo all'avventura, il quale parte in uno spiegone spericolato che soddisfa il consulting detective e, devo dire, anche lo spettatore / lettore.

Come al solito in questa versione holmesiana della Granada, grande aderenza al testo, con alcune piccole varianti. Questo racconto è noto in quanto è l'unico (credo) in cui Holmes sbotta in un "Elementare!" che è invece diventato nel gergo comune quasi un suo tic. In questa versione televisiva è invece Watson a prendersi gioco di Holmes, scoprendogli nel finale un suo colpo di teatro e dicendogli che, caro Holmes, era stato elementare capire che aveva barato.

Il ciclista solitario

Pare che a Conan Doyle questo racconto non piacesse molto, e inizialmente l'avesse scritto limitando al minimo indispensabile lo spazio a disposizione di Sherlock Holmes. L'editore, che ben aveva il polso della situazione, glielo rimandò indietro. Anche nella versione accettata, Holmes continua ad essere meno presente del solito, ma ha comunque modo di sfoggiare il suo brutto carattere in più occasioni, e persino di fare a pugni con un brutto soggetto.

In questa versione televisiva si aggiunge il particolare comico di un esperimento chimico che sembra ricollegarsi a quello visto nel precedente episodio. Holmes (Jeremy Brett) cerca di eseguirlo all'inizio di puntata, ma viene interrotto dall'arrivo della cliente di turno, Miss Violet Smith (Barbara Wilshere). Verrà perciò rimandato nel finale, con esito catastrofico.

Scintille nella relazione tra Holmes e Watson (David Burke), con il secondo che viene tacciato dal primo di aver condotto malamente la parte di investigazione che gli era stata richiesta. Fortuna che il dottore conosce il suo compare e non se ne ha troppo a male.

Miss Violet insegna musica, viene accolta da Mr.Carruthers (John Castle) nella sua casa per badare all'istruzione della figlia ma ottiene lo spiacevole effetto collaterale, per lei che è già fidanzata, di attirare proposte di matrimonio inattese. Inoltre, nel suo tragitto dalla stazione al maniero di campagna, nota uno ciclista che la segue a distanza, non si capisce bene con quali intenzioni.

Holmes ha anche modo di far brillare il suo lato compassionevole, spendendosi in prima persona per ridurre la pena di uno dei malviventi alla base del mistero, quando si renderà conto delle sue circostanze attenuanti.

La teoria del tutto

Ho l'impressione che svariati tra i film più interessanti di questo periodo vertano principalmente su due temi, cosa qualifichi un essere umano come tale, e cosa sia il tempo. Anche 12 anni schiavo di Steve McQueen narra di come alcuni individui, prevalentemente bianchi di origine europea, abbiano deciso che altri, prevalentemente neri di origine africana, potessero essere considerati subumani, e di come un povero diavolo caduto nel meccanismo sia riuscito a sopravvivere grazie alla speranza, relativizzando i dodici anni del titolo in funzione di quello che aveva prima e avrebbe potuto riottenere dopo.

Però è più interessante il parallelo con The imitation game, visto che entrambi hanno al centro la figura di un professore universitario inglese, entrambi sono figure centrali della scienza del secondo novecento, entrambi avrebbero potuto dare molto di più all'umanità se circostanze al contorno non li avessero colpiti duramente.

Alan Turing, tra l'altro, era interessato a capire cosa definisse l'umanità. Quello che ora è noto come il test di Turing, viene considerato come un criterio per stabilire se una intelligenza artificiale può essere considerata come umana. Ma, come viene evidenziato nel film, può essere usato per mostrare l'assurdità dei pregiudizi nei confronti di chi viene etichettato come "altro". Difficile giustificare il senso di costringere ad una condizione disumana un individuo se è a tutti gli effetti indistinguibile da chi si reputa superiore al punto di permettersi di giudicarlo.

Qui invece si parla di Stephen Hawking (Eddie Redmayne) che ha messo al centro della sua carriera di cosmologo il tentativo di dare una definizione coerente di tempo. Già, perché sembra una banalità, ma prova a spiegare cosa sia, o lettore, e magari ti guadagni un Nobel.

Ed è proprio il tempo al centro del racconto, che viene distorto, piegato e presentato allo spettatore in modo che trenta anni passino in un baleno. Un attimo prima i figli di Stephen e Jane (Felicity Jones) sono dei poppanti, improvvisamente ce li troviamo davanti che sono dei ragazzotti. E allo stesso modo le due ore di pellicola mi sono sembrate brevissime, al punto che mi sono sorpreso, uscendo la cinema, a scoprire che era ormai quasi mezzanotte. Non che succeda niente di particolarmente appassionante o inatteso nella narrazione, è come se un buco nero si sia misteriosamente mangiato il tempo.

In breve abbiamo che Steve è un fisico di belle speranze, sul punto di scrivere una tesi di ricerca destinata a rivoluzionare la scienza del tempo, e ha pure conosciuto una bella ragazza con cui le cose sembrano filare alla meraviglia. Epperò gli diagnosticano una malattia a dir poco terribile che lo lascerà in breve incapace di un qualunque movimento muscolare che non sia automatico. Si stima che dovrebbe portarlo alla morte nel giro di due anni.

Da bravo nerd, Steve vorrebbe rinunciare a tutto quello che percepisce come superfluo e dedicare il poco tempo che gli resta allo studio. Per sua fortuna Jane è cocciuta al punto da costringerlo ad una vita meno deprimente.

La malattia avanza rapidamente, e qui entra in gioco il test di Turing. A vederlo sulla sua carrozzella, costretto all'immobilità, Hawking può ispirare al massimo compassione. Ma grazie al cielo riesce a comunicare, ed è ascoltando i suoi pensieri che ci si rende conto di chi abbiamo realmente di fronte.

Il bello di Hawking è la sua capacità di ammettere i propri errori. Sia in campo scientifico, anche se il film non usa molto tempo in questo ambito, sia in campo umano. Nel finale infatti dirà a Jane che quello che lo riempe di orgoglio non sono tanto i suoi studi quanto i tre figli.

Bella la colonna sonora post minimalista di Jóhann Jóhannsson.

The equalizer - Il vendicatore

Solita storia. C'è un tipo che sembra normale, tal Robert McCall (Denzel Washington). Alcuni brutti ceffi lo fanno arrabbiare, si scopre così che è un ammazzasette in pensione che non ha perso l'allenamento. Segue una strage di cattivi.

Pare che la regia, prima di arrivare nelle mani di Antoine Fuqua, fosse stata offerta ad altri, tra cui Nicolas Winding Refn che già aveva scritto e diretto quella che credo sia una tra le migliori pellicole di questo specifico sottogenere, ovvero Drive. Avrà forse pensato che il soggetto era troppo simile e che era meglio cambiare aria.

Come nel molto simile John Wick, i cattivi sono delinquenti russi che hanno stabilito una serie di succursali negli USA, il nostro incappa in quella di Boston, ma pare ce ne siano altre. La regia indugia molto sui loro tatuaggi, che però mi sembrano eccessivamente stilosi e meno impressionati di quelli che si possono vedere in La promessa dell'assassino di Cronenberg o in Educazione siberiana di Salvatores.

Se a scatenare l'ira di John Wick era l'uccisione di una cagnetta, qui McCall agisce per difendere Alina, in arte Teri (Chloë Grace Moretz), ragazzetta russa esportata in America in giovanissima età per esercitare la professione presso la locale sezione delle banda in questione. Wick parte subito con un impeto (auto)distruttivo tendente al videogioco. McCall è più prudente, vorrebbe solo riscattare la baby prostituta e, quando perde la pazienza pensa di "limitarsi" ad eliminare una banda di magnaccia. Fa dunque attenzione a non lasciare troppe tracce e, se dietro non ci fosse stata la mega organizzazione criminale che invece è, avremmo visto un cortometraggio. Il che, a mio gusto, non sarebbe stato poi male. Nella seconda parte, infatti, mi pare si scada nella normale amministrazione del genere.

Con la variante che McCall lavora ad un centro per il bricolage, ed è proprio lì che si consuma la resa dei conti finale. Il che gli permette di ammazzare i cattivi usando mezzi impropri con truculenza.

Breve apparizione di Bill Pullman e Melissa Leo nei panni di due ex colleghi di McCall a cui lo stesso fa riferimento per capire che razza di vespaio abbia stuzzicato con la sua azione iniziale.

La sceneggiatura è scritta facendo riferimento alla serie televisiva Un giustiziere a New York, adattata opportunamente come se si trattasse di un reboot. E il finale viene lasciato aperto ai possibile sequel.

Il patto navale

Nonostante il nome scelto da Granada per le prime due stagioni di questa serie sia The adventures of Sherlock Holmes, anche questo episodio, terzo in ordine di uscita, è tratto da un'altra collezione, in questo caso The Memoirs of Sherlock Holmes. Bisogna però non farsi ingannare dalla distribuzione italiana, che le ha cambiato nome rispetto al più canonico Il trattato navale. In originale era The Adventure of the Naval Treaty. Per quanto mi possa ricordare, la sceneggiatura segue senza tentennamenti il testo di Conan Doyle.

Il duo Jeremy Brett - David Burke funziona a meraviglia. Un po' meno la regia e i personaggi minori. C'è da dire che al povero David Gwillim è capitato di dover interpretare il ruolo di un improbabile piccolo funzionario ministeriale, Percy Phelps, che cade in una specie di deliquio quando si rende conto di essere stato derubato di un documento molto delicato, per l'appunto un trattato tra Regno Unito e Italia per faccende della marina militare, in funzione anti francese.

La poco ortodossa debolezza di nervi di Phelps è necessaria alla trama, per giustificare la sua lunga permanenza in una stanza, che porterà a strani movimenti che, a loro volta, metteranno sulla giusta strada Holmes per risolvere il mistero.

Finalmente un successo pieno per il nostro consulting detective, anche se il suo amore per il colpo di teatro lo spinge ad una azione rischiosa, col risultato di procurarsi una leggera ferita per mano del cattivo di turno.

I pupazzi ballerini

Come seconda avventura da portare sullo schermo, quelli di Granada hanno scelto The adventure of the dancing men, che solitamente in italiano viene tradotta come L'avventura degli omini danzanti. Il titolo che ha scelto la distribuzione italiana fa più pensare a Dylan Dog (Giuda ballerino!) che al consulting detective di Conan Doyle, ma la realizzazione continua ad essere molto fedele alla lettera.

Curioso che si sia scelta ancora una storia in cui Sherlock Holmes (Jeremy Brett) non stravince. Se nella prima puntata pareggiava, qui ottiene una vittoria ai punti, facendo sì arrestare Abe, il cattivo di turno, ma arrivando molto vicino a perdere i suoi clienti. Considerando che Gli uomini danzanti non fanno parte della prima raccolta che dà anche il titolo all'intera stagione bensì de Il ritorno di Sherlock Holmes, vien da pensare che si sia intenzionalmente mostrato subito come Holmes, nonostante la sua genialità, non sia imbattibile.

Questa volta a portarlo sull'orlo del disastro è la sua tendenza ad agire solo quando è certo della soluzione. E qui, dovendo aspettare una risposta dalla polizia di Chicago per accertarsi dell'identità di Abe, perde tempo prezioso.

La coppia Holmes - Watson (David Burke) funziona a meraviglia. Il punto debole è semmai la regia, televisiva e molto anni ottanta, ma è già tutto dichiarato dalla produzione.

Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza)

Riggan (Michael Keaton), dopo aver raggiunto la fama nell'interpretare Birdman (*), è caduto nell'anonimato. Vent'anni dopo ha una idea geniale (?), affitta un teatro a Brodway (**), rielabora Di cosa parliamo quando parliamo d'amore (***), ne cura produzione (°), regia, e si prende pure la parte principale.

Nel fare ciò rischia il disastro economico, artistico, relazionale e mentale. Secondo la narrazione di Inarritu (°°), che segue (prevalentemente?) la soggettiva di Riggan, il protagonista riesce a salvare la baracca sotto tutti gli aspetti. Ma visto che il finale è palesemente frutto di una sua allucinazione, ci dovrebbe perlomeno sorgere il dubbio che sia avvenuta invece una completa catastrofe.

D'altronde, chi conosca quell'allegrone di Inarritu, sa bene della sua tendenza alla tragedia. Genere in cui i messicani sono maestri, tra l'altro. L'impressione che ho avuto è che il regista abbia voluto nascondere il dramma dietro una patina leggera. Probabilmente per far felici i suoi produttori e magari anche per garantirsi la possibilità di fare altri film con un budget significativo.

Per cui immagino che abbia accolto la candidatura e i successivi premi ai Golden Globe nella categoria "comedy or musical" con lo spirito di chi abbia fatto uno scherzo andato a buon fine. Anche se, per dirla tutta, è troppo facile prendere in giro quelli del Golden Globe in materia di cinema.

Qualcosa di molto comico nel film c'è. Ad esempio il fatto che tra il pubblico c'era gente che si aspettava un film di un supereroe fumettoso, e si è trovato a doversi sorbire due ore di delirio del passato interprete finzionale di un tale carattere. Per costoro c'è il contentino di una breve sequenza in cui Birdman prende il sopravvento su Riggan e distrugge un po' di New York in una lotta con un mostro apparentemente extraterrestre che avrebbe fatto felice Michael Bay.

Molti i riferimenti al cinema e al mondo che gli gira attorno, alcuni centrati, altri che sembrano messi apposta per confondere le acque. Il riferimento ad Altman mi pare stia nel secondo gruppo. E se proprio lo si vuole citare, penserei più a Il dottor T & le donne che ad altri titoli, facendo leva sul pessimismo nei confronti dei caratteri maschili che, pur sembrando al centro dell'azione, girano a vuoto. Il film di Altman lascia un barlume di speranza, qui non ce n'è. Gli uomini sono di una vacuità impressionante, sono le donne a reggere il gioco nella vita reale.

Sappiamo che Riggan è fuso già dalla prima scena, in cui lo vediamo meditare in levitazione, e nel resto del film la sua tendenza al delirio non fa che aumentare. Il secondo ruolo maschile, sia nel film sia nella piece teatrale, va a Mike (Edward Norton) che ammette senza problemi di sentirsi vero solo sul palcoscenico.

Sam (Emma Stone), figlia di Riggan, che teoricamente sarebbe il personaggio più debole della storia, avendo una dipendenza da droghe e lavorando come assistente del padre, mostra di saper tenere il gioco in mano. Come hobby si siede sul balcone, senza avere nessuna intenzione di buttarsi, per avere una scossa adrenalinica. Se decide di fare sesso con qualcuno, lo fa, anche se lui non ne aveva nessuna voglia e intenzione.

Anche gli scambi tra Riggan e la ex moglie (Amy Ryan) mostrano quanto il primo veda solo i lustrini ma gli sfugga la realtà.

C'è pure una scena lesbo tra Lesley (Naomi Watts), sul punto di rompere con Mike in quanto stremata dalla sua inconsistenza fuori dal palco e per il suo iperrealismo nella finzione, e Laura (Andrea Riseborough), anche lei sul punto di rompere con Riggan fondamentalmente per gli stessi motivi, che mostra quanto poco siano essenziali i loro ex anche quando si parla di sesso.

Non credo sia un caso che anche il critico teatrale da cui tutti si aspettano il verdetto definitivo sulla piece, Tabitha Dickinson (Lindsay Duncan), sia una donna, che abbia ben chiaro il senso dell'operazione, e che ne sia disgustata.

Tecnicamente ho trovato il film troppo forzato. E' vero che i lunghi piani sequenza che sembrano non aver mai fine sono funzionali a mostrarci lo stato mentale di Riggan, che si sente evidentemente ingabbiato in una struttura da cui non riesce ad uscire, rappresentata anche dal teatro e dai suoi meandri. Però forse non era necessario spingersi così in avanti, con il rischio di scatenare nello spettatore il gusto per la caccia al cambio di sequenza. Stesso discorso per la colonna sonora, che consiste in larga parte di improvvisazioni per batteria jazz opportunamente discordante, e che ci dovrebbe avvicinare al tumulto interiore di Riggan. Che però potrebbe causare un sovraccarico sensoriale con associata perdita di significati più interessanti. Ma magari era proprio quello che voleva Inarritu.

Simpatica l'idea di creare ulteriore confusione nello spettatore chiamando nel cast attori con un legame reale o interpretativo nella vicenda. Vedi la connessione a Fight club via Edward Norton, per la faccenda della lotta interiore del protagonista, e per un parallelo sul modo in cui risolverla, o quella con Paper man via Emma Stone per il rapporto che il protagonista ha con il supereroico amico invisibile.

(*) un supereroe variopinto ma tenebroso alla Batman.
(**) e mica off-off, praticamente in Times Square.
(***) il racconto che dà il titolo alla raccolta di Raymond Carver da cui ha attinto Robert Altman per il suo Short cuts, da noi noto come America oggi.
(°) tramite Jake (Zach Galifianakis) che sembra essere il suo unico amico, per quanto sembri interessato ai soli aspetti economici e legali di quello che accade.
(°°) Alejandro González Iñárritu, per essere precisi.

Scandalo in Boemia

Primo episodio della prima stagione, che ha il titolo complessivo di Le avventure di Sherlock Holmes, sul consulting detective per la rete televisiva privata inglese Granada. E in effetti A scandal in Bohemia è il primo racconto della raccolta The adventures of Sherlock Holmes. Uno studio in rosso e Il segno dei quattro ne sono restati fuori, perché non pubblicati sullo Strand Magazine come gli altri.

Si segue quasi alla lettera il racconto di Sir Arthur Conan Doyle, con il prossimo re di Boemia che chiede a Holmes (Jeremy Brett) di recuperare la foto che lo ritrae con la avventuriera Irene Adler (Gayle Hunnicutt) e che questa gli nega. Un paio di travestimenti e qualche azzardo sembrano bastare per ottenere lo scopo, ma la Adler si rivela un osso duro e, se non una sconfitta, direi che il match si può considerare un pareggio.

La differenza più grossa che ho notato è che il dottor Watson (David Burke) risulta ancora scapolo, mentre credo che nel racconto risultasse già ammogliato. Inoltre, nel finale si vede la Adler distruggere la foto, e anche questa credo sia una aggiunta dello sceneggiatore.

Big hero 6

La Disney, a furia di comprare tutto quello che trova, è entrata in possesso pure della Marvel. Questo film è basato sul prologo della omonima serie a fumetti, opportunamente adattata allo scopo di farlo diventare un classico Disney.

Pur essendo un fumetto americano, l'ambientazione era giapponese, nel film la si è portata in una futuristica San Francisco che si è, chissà come e chissà perché, fusa con Tokio, dando vita ad una San Fransokyo che eccheggia lontanamente la memoria di Blade runner, ma senza la pioggia, più utopica che distopica, più da uomo ragno che replicanti.

Tra i personaggi a far da mattatore è Baymax, un robot coccoloso inventato dal fratello maggiore del protagonista per far da crocerossino, e che quel giovane teppista Hiro, suo fratello minore, converte quasi militarmente insegnandogli pure discipline di combattimento orientali (un po' alla Matrix).

Ad una prima parte molto divertente, coinvolgente e per molti versi pure sorprendente, segue una seconda parte più tradizionale e, a tratti, pure deludente. Almeno per me, che a sentir dire che il gruppettino di amici di Hiro deve essere da lui stesso "upgradato" ad una loro versione supereroica, mi si sono rizzati i capelli. Avrei preferito che avessero affrontato la loro avventura così come erano. Ma d'altronde si sarebbe perso l'aggancio con il fumetto e, soprattutto, il merchandising ne avrebbe risentito.

Curiosa la difesa di Alistair Krei, l'imprenditore senza scrupoli che usa la ricerca per i propri fini economici. Negli ultimi anni si era assistito ad una loro caratterizzazione decisamente più negativa. Vedasi ad esempio Piovono polpette 2. Forse i tempi stanno nuovamente cambiando.

Interessante invece che si rinunci alla logica in bianco e nero dei vecchi film disneyani, arrivando perfino a non uccidere il supercattivo, che verrà solo mandato in galera a meditare sulle sue malefatte.

Il Golem - Come venne al mondo

Paul Wegener aveva già provato a portare sullo schermo la leggenda del Golem nel 1915. La aveva conosciuta pochi anni prima quando, girando il suo primo film, Lo studente di Praga, si era per l'appunto recato in quella città ed era entrato in contatto con l'atmosfera del locale ghetto ebraico. La produzione chiese qualche piccola modifica, come ad esempio spostare l'azione quattro secoli più avanti, pensando che una storia contemporanea sarebbe risultata più accettabile per gli spettatori. Il risultato fu strabiliante, con il mostruoso omone di argilla, interpretato dallo stesso Wegener, che divenne parte dell'immaginario collettivo mondiale.

Forte di questo risultato, Wegener riuscì a imporre la sua idea e realizzò quello che sembra essere stato il primo sequel della storia del cinema. O meglio prequel, visto che, come dice il titolo, si torna al sedicesimo secolo e si racconta la nascita del Golem.

La storia narrata è molto ricca, seguendo svariate trame che si sovrappongono e alimentano a vicenda. Al centro c'è la vita nel ghetto di Praga, con i suoi abitanti sempre a rischio di attacchi. Il Golem viene creato per mostrare all'imperatore l'inventività della comunità. Una volta raggiunto lo scopo dovrebbe essere distrutto. Anche perché, essendo legato ad una pratica di magia nera, si sa che non potrà essere controllabile a lungo.

Capita però che Miriam (Lyda Salmonova), figlia del creatore del Golem, si invaghisca di un cavaliere dell'imperatore e questo scateni le ire dello sciocco aiutante di famiglia (Ernst Deutsch, nientemeno), che finirà per scatenare il Golem.

Considerato tra i pezzi più pregiati dell'espressionismo tedesco, ha probabilmente influenzato Metropolis di Fritz Lang, certamente il Frankenstein di James Whale, quello dove il mostro è interpretato da Boris Karloff, e tutto il seguente dibattito sull'intelligenza artificiale.

Nel cast si vede per un attimo anche Greta Schröder, è lei che dà un fiore al Golem, forse creando in lui una tensione interiore che lo porterà più avanti a sbroccare.

Il quarto uomo

Quentin Tarantino ha detto che l'ispirazione per la sua opera prima, Resevoir dogs (per noi Le iene), gli è venuta da Rapina a mano armata (in originale The killing) di Stanley Kubrick. A molti però sembra di vedere più punti di contatto con questo Kansas City confidential diretto da Phil Karlson quattro anni prima. Sia come sia, se si è interessanti al genere, vale la pena di vederli tutti e tre, anche se questo è il più debole del lotto.

La storia viene raccontata seguendo prevalentemente il punto di vista di Joe (John Payne), ma si inizia seguendo la versione di Tim (Preston Foster), e i due filoni verranno uniti solo nel finale.

Joe sembra quasi un eroe hitchcockiano, fiondato suo malgrado in una storia più grande di lui, con l'avvertenza che siamo in un noir, e che dunque l'impiccio riguarda una rapina in banca e la successiva caccia all'uomo. Joe è un povero disgraziato che guida il furgone di un fiorista, i rapinatori gli clonano il veicolo e lasciano che la polizia insegua la macchina sbagliata, così da guadagnare il tempo per la fuga.

Quello che non sapevano è che Joe aveva la fedina penale sporca, e che aveva quel lavoro come parte del suo essere in libertà vigilata. Di conseguenza la polizia non va per niente leggera con lui. In pratica lo riempono di botte per alcuni giorni nel tentativo di farlo cantare. Alla fine non possono fare altro che rilasciarlo, ma senza scagionarlo pubblicamente, il che rende Joe una specie di paria.

Usando i suoi agganci nella malavita locale, Joe trova una flebile traccia, che lo porta in Messico, dove cercherà i veri delinquenti, con lo scopo di consegnarli alla legge o di farsi dare una parte del bottino.

Tim è un poliziotto messo a riposo per qualche pasticcio che ha combinato. Da come agisce viene il sospetto che abbiano fatto bene a sbatterlo fuori, ma secondo lui è stato vittima di oscure manovre politiche. Inscena dunque la rapina come modo per mostrare al mondo come lui sia un ottimo investigatore. Mette insieme una banda di brutti ceffi, Neville Brand, Jack Elam, e Lee Van Cleef, senza che loro lo vedano mai in faccia, studia alla perfezione un piano e, dopo qualche tempo, chiama tutti quanti nel resort messicano dove lui va abitualmente in vacanza per dividere il bottino, mentre in realtà li vuole consegnare alle autorità.

A sparigliare le sue carte c'è Helen (Coleen Gray), sua figlia, che, guarda un po', lo viene a trovare in vacanza proprio nel bel mezzo dell'azione e, se questo non bastasse, si innamora di Joe.

Il risultato complessivo dell'opera è discontinuo. Ci sono scene e situazioni ben riuscite, ma anche lungaggini che si sarebbero potute asciugare. Il finale che combina noir a dramma romantico mi ha lasciato molto perplesso.

Schiavo della furia

A prima vista sembra un classico B movie noir americano degli anni quaranta, ma con un buon numero di elementi inattesi che lo rendono molto particolare. Non riesco a vedere alcun senso nel titolo italiano. Quello originale, Raw deal, è molto più in linea con la tradizione pulp del genere. Il titolo inizialmente associato al lavoro, Corkscrew Alley, rende maggiormente il senso della storia, con i suoi avvitamenti e circonvoluzioni.

Gran lavoro di coppia tra il regista (Anthony Mann) e direttore della fotografia (John Alton) che, nonostante il budget molto limitato, hanno sperimentato, almeno a tratti, soluzioni piacevoli e sorprendenti. Si veda ad esempio la scena nel finale dove il rovello interiore di un personaggio è reso visivamente con l'immagine di un orologio su cui si fonde quella dell'attrice stessa. Intrigante anche il supporto di un theremin nella colonna sonora, sempre a sottolineare i momenti di angoscia dello stesso personaggio.

In teoria il protagonista della storia è Joe (Dennis O'Keefe), finito in galera per coprire il suo capo, dal quale si aspetta una ricca ricompensa quando uscirà. Però gran parte del racconto segue la prospettiva di Pat (Claire Trevor), sua donna e sodale, unico personaggio che ha la facoltà di farci sentire i suoi pensieri con il voice over.

Joe è combattuto. Da una parte c'è Pat, che rappresenta la continuità della sua vita di delinquente, dall'altra c'è Ann (Marsha Hunt), una assistente sociale che sta cercando di guidarlo verso il ravvedimento.

A complicare le cose arriva il suo capo, Rick (Raymond Burr), una brutta persona. Un coacervo di meschinità e violenza, con una preoccupante tendenza alla pirofilia. Per risparmiare sul generoso premio promesso a Joe per i suoi servigi, organizza la sua evasione, contando sul fatto che venga ucciso nell'atto, o almeno riacchiappato e premiato con una sostanziosa estensione della pena.

Abbiamo dunque almeno tre storie da seguire. Pat innamorata di Joe, nonostante sappia di non essere ricambiata, che si rende conto di quanto lui si stia innamorando di Ann, e si troverà a scegliere tra essere un ripiego o lasciare che lui se ne vada.
Joe, a sua volta, si trova ad essere al centro di una azione che non capisce, vorrebbe continuare sulla sua strada di criminale ma l'incontro con Ann lo ha messo di fronte alla sua natura duplice, e inizia a pensare che sia possibile ricominciare da capo.
Rick vorrebbe essere uno spietato capo banda, ma non ne ha le capacità. I suoi stessi accoliti si prendono gioco di lui, anche se poi sono disposti a farsi ammazzare per seguire i suoi ordini, e a lui non resta che giocare col fuoco per rassicurarsi del suo inesistente potere.

Curioso il rimescolamento dei ruoli dal punto di vista del sesso. Joe, nelle regole del genere, dovrebbe essere un uomo tutto di un pezzo. Invece è dilaniato da una crisi interiore. Si sollazza (*) con le due donne della storia ma senza cavarne gran piacere.
Pat, pur essendo fisicamente molto femminile, caratterialmente e nel nome sembra più un uomo. Anche Joe la tratta più come la sua spalla criminale che come la sua donna. Sarebbe molto facile riscrivere le sceneggiatura per far diventare i due una variante di Otello e Iago.
Rick sembra sdegnare le relazioni sessuali. In una scena centrale rifugge le avances di una avvenente biondona per proseguire una fallimentare partita a poker, finendo addirittura per gettare un piatto fiammeggiante sulla poveretta.

Da notare quanto il fuoco sia importante nella storia. In particolare per Rick, che lo usa come mezzo per imporre il suo ruolo di capobanda, ma anche per Joe, del quale ci viene detto di sfuggita che, quando era ancora un ragazzino, s'era comportato in modo eroico durante un incendio. C'è anche una scena chiave in cui il terzetto in fuga (Joe, Pat, Ann) rischia di essere intercettato a causa di un fuoco acceso in un bosco.

(*) Per quanto sia possibile in un film di quel periodo. Il mefitico codice Hays era in vigore dal 1934.