Allied: Un'ombra nascosta

Nel 1942 Max Vatan (Brad Pitt), introverso contadinotto canadese, viene mandato in missione quasi-suicida a Casablanca allo scopo di uccidere il console tedesco in Marocco. Per compiere questa insensata azione deve fingere di essere il marito parigino di Marianne Beauséjour (Marion Cotillard) fascinosa resistente francese finita lì per sfuggire alle indagini della polizia militare tedesca dopo che la sua unità nella Francia occupata è stata annichilita.

Ufficialmente coppietta innamorata, in realtà sconosciuti che fanno il loro lavoro ben consci di avere una altissima possibilità di lasciarci le penne a breve, i due hanno una relazione complicata che poi però sfocia in un profondo amore. Sorprendentemente, l'azione funziona, e Max decide d'impeto di portare Marianne con sé nella relativamente meno pericolosa Inghilterra. I due si sposano e poco dopo nasce, sotto un bombardamento quasi d'ordinanza, la loro figlia.

Un anno dopo, i servizi segreti inglesi comunicano a Max che Marianne è una spia tedesca. Lui deve partecipare passivamente ad una trappola per confermare definitivamente la cosa e ucciderla. Altrimenti entrambi verranno uccisi.

Max è convinto che si tratti di un errore. In subordine potrebbe anche essere una verifica sul suo conto, per accertarsi di quanto sia affidabile prima di dargli un compito estremamente delicato. Oppure Marianne potrebbe essere davvero una spia.

Interessante il lavoro alla regia di Robert Zemeckis che mescola la sua consueta capacità nel gestire scene di notevole complessità tecnica, facendole peraltro sembrare assolutamente naturali, ad un gusto nel nuovere la macchina da presa che mi ha ricordato molto i classici del dopoguerra. Ad esempio certe inquadrature e zoom su alcuni particolari mi hanno fatto pensare a Hitchcock, e il racconto visuale della Casablanca nella seconda guerra mondiale non può che riportare alla memoria il capolavoro di Michael Curtiz. Molto bella la ricostruzione d'epoca. Molto bravi gli attori, in particolare la Cotillard.

Non mi ha convinto appieno la sceneggiatura di Steven Knight, che pure ha nel suo bagaglio cose ragguardevoli come La promessa dell'assassino (2007) di David Cronenberg. In particolare, non riesco trovare un senso, in qualunque modo la guardi, per le circostanze della missione a Casablanca. Né per gli alleati né per l'asse.

Le due ore di azione filano via bene, anzi, il finale m'è sembrato persino tirato via, ridotto ai minimi termini proprio per non rischiare di sforare troppo con i tempi.

Sherlock 4.3: Il problema finale

Qualche passaggio scricchiola un po' (*) ma, paradossalmente per una serie basata sulla logica, in questa puntata la ragione viene messa in secondo piano dal sentimento, ed è con quella chiave di lettura, così ostica per il suo protagonista, che va affrontata.

Sapevamo già, dalla puntata scorsa, che il problema finale (**) sarebbe stato legato a Eurus (Sian Brooke), la più giovane della famiglia Holmes, di cui nulla Sherlock (Benedict Cumberbatch) si ricordava e di cui nulla Mycroft (Mark Gatiss) avrebbe voluto dire.

Sherlock e John Watson (Martin Freeman) concepiscono un piano per far saltare l'equilibrio nervoso al solitamente imperturbabile più astuto fratello Holmes, così da spingerlo a rivelare la verità. I fatti relativi a Eurus sono così spaventosi che Mycroft può narrarne solo il minimo indispensabile, aggiungendo qualche piccolo dettaglio quando necessario, senza che al fratellino o a John vengano sospetti.

Lo sviluppo spiega molto di quanto era poco chiaro nelle precedenti puntate, ma anche punti corposi, come l'apparentemente inspiegabile capacità di Jim Moriarty (Andrew Scott) di colpire Sherlock nei punti più deboli (***), sbiadiscono di fronte a quello che è il punto chiave, la spiegazione di come mai Sherlock sia così ossessionato dal risolvere misteri polizieschi, e perché faccia così fatica a legarsi con altre persone.

Il finale di puntata è congegnato in modo tale da reggere benissimo come finale di serie (ohimé), ma lasciare comunque la porta aperta a possibili sviluppi. Magari un episodio speciale, di tanto in tanto, possiamo pure sperare di ritrovarcelo nella calza della befana.

(*) Ad esempio la scena dell'esplosione. Difficile credere che nessuno dei personaggi coinvolti non riporti almeno una qualche lieve ferita, si sia rotto un qualche osso, strappato un muscolo.
(**) The final problem, che secondo Conan Doyle avrebbe dovuto essere la scontro finale con Moriarty, in questa versione firmata da Mark Gatiss e Steven Moffat consumato ne Le cascate di Reichenbach.
(***) Al punto che mi aveva fatto pensare alla bislacca ipotesi che fosse proprio Jim il terzo fratello Holmes. Sembrava anche a me quasi impossibile, e infatti. In un certo senso, però, Jim era stato plagiato da Eurus, diventando una specie di sua longa manus, e quindi, per interposta persona, la lotta tra Sherlock e Jim era davvero una lotta fratricida.

Paterson

Paterson (Adam Driver) è un autista di autobus che vive a Paterson, New Jersey, con la pazzerella Laura (Golshifteh Farahani). I due si amano teneramente, e se Paterson ha perplessità sulla vena creativa di Laura, le dissimula abbastanza bene. L'idillio è disturbato da Marvin (*), il bulldog inglese della coppia, che è evidentemente geloso di Paterson e vorrebbe Laura tutta per sé.

Uno dei pochi motivi di discussione nella coppia è causato dalla vena poetica di Paterson, che scrive di getto brevi composizioni in versi sciolti che trattano temi molto quotidiani con un punto di vista candido e disarmante (**). Il punto è che Paterson le scrive in un libricino che custodisce gelosamente, e Laura è l'unica che abbia avuto modo di conoscerne alcune. Lei vorrebbe che lui rendesse in qualche modo pubblico il suo lavoro, o che almeno ne facesse una copia. Malvolentieri, Paterson promette che il weekend successivo fotocopierà il libercolo.

Da questi presupposti parte la narrazione di una settimana della vita dei protagonisti, seguendo la prospettiva prevalente di Paterson. Il che è tendenzialmente noioso, considerando che la routine del nostro è inchiodata ad appuntamenti fissi che si ripetono sempre uguali tutti i giorni. Si sveglia abbracciato a Laura, fa colazione, raggiunge la stazione degli autobus, prende il suo mezzo, scambia due chiacchiere con un collega, guida tutto il giorno, prestando a volte orecchio alle parole dei passeggeri, torna a casa, cena con Laura, porta a spasso Marvin, si ferma al bar di Doc (Barry Shabaka Henley) dove beve qualche birra e chiacchiera con i presenti.

Questo quadro ripetitivo (***) viene scardinato da piccoli avvenimenti che oggettivamente sono di minima importanza ma, all'interno della cornice, mostrano quanto siano significativi per i nostri.

Chi conosce Jim Jarmush dovrebbe apprezzare questo suo lavoro che è perfettamente in linea con la sua poetica. Agli altri la tranquillità con cui si lascia che i minuti passino potrebbe risultare eccessiva.

(*) Interpretato da Nellie, ruolo che le è valso la Palma d'Oro di categoria. Ohimé, postuma.
(**) Sono in realtà lavori di Ron Padgett. Nel finale si cita la New York school, forse come indizio per permettere più facilmente di identificarlo.
(***) Per conto mio sarebbero bastate tre o quattro giornate, il resto mi è sembrato un eccesso di descrizione.

Il riccio

Una indisponente undicenne parigina di famiglia bene, che risponde all'inconsulto nome di Paloma (Garance Le Guillermic), alla sorella maggiore, Colombe, è andata anche peggio, ha deciso che si suiciderà al compimento dei dodici anni. Motivo, non vuole una vita vacua come quella della sua famiglia e di tutta la gente che conosce. Capita però un nuovo vicino, il giapponese Kakuro Ozu (Togo Igawa), che sovverte i suoi schemi e la porta ad interessarsi della portinaia Renée (Josiane Balasko) di cui entrambi hanno scoperto il segreto.

Tratto dal best seller L'eleganza del riccio di Muriel Barbery, a quanto mi dicono non mantiene le promesse del romanzo. Pare che anche la Barbery sia stata dello stesso avviso e abbia fatto il possibile per distanziare la sua opera da quella, cinematografica, di Mona Achache. Da cui il titolo, monco, e la nota sui titoli che avverte lo spettatore di quanto la sceneggiatura sia liberamente tratta dall'originale.

Simpatici alcuni passaggi, come le animazioni che prendono vita dai disegni di Paloma, o la scena in cui la protagonista cerca di provocare i genitori affermando di aver deciso cosa farà da grande, ottenendo, con suo gran dispiacere, una sorprendente approvazione incondizionata. Per il resto m'ha convinto molto poco.

Le svariate prove di suicidio di Paloma mi hanno ricordato Harold e Maude (1971), che però qui sono a solo uso e consumo dell'artefice, mentre là sono delle vere messe in scena decisamente più intriganti.

Arthur e il popolo dei Minimei

Primo film della trilogia tratta dalla serie fantasy quasi omonima (*) scritta da Luc Besson su idea di Céline Garcia. Besson stesso ha curato il passaggio al cinema della storia.

Combinazione di live-action e animazione in cui la prima ricorda molto un film Disney anni sessanta, tipo Un maggiolino tutto matto (**), la seconda, invero non completamente riuscita, è completamente folle, con riferimenti temporali mescolati che creano un curioso effetto di spiazzamento.

Si narra di un ragazzetto (Freddie Highmore) che, nell'intento di salvare la proprietà dei nonni dallo sfratto, parte alla ricerca del nonno che scopre essere in giardino, rimpicciolito al fino di andare a far visita al microbico popolo dei Minimei che lì si trovano per motivi troppo lunghi da spiegare.

Lascia così la nonna (Mia Farrow) senza spiegare bene la situazione e si fionda in una inesplicabile avventura nel corso della quale dovrà sconfiggere il perfido Maltazard e si innamorerà della bella, per quanto di carattere difficile, principessa Selenia.

Pur essendo una produzione francese, mira molto al mercato americano in particolare e di lingua inglese in generale. Io l'ho visto in italiano, e così non ho potuto sentire la voce del David Bowie che doppia il cattivo (***), Madonna come Selenia (°), e poi David Suchet (narratore), Harvey Keitel, Robert De Niro, Chazz Palminteri, Snoop Dogg, eccetera.

(*) In quattro volumi. I primi due concorrono a formare la sceneggiatura di questo episodio cinematografico.
(**) L'ambientazione è proprio anni sessanta nel New England americano. Il buffo è che sembra davvero girato in quel periodo.
(***) Scelta che deve essere stata compiuta in fase di pre-produzione, visto che Maltazard assomiglia al Duca Bianco.
(°) Come dicevo, il mondo dei Minimei è tutto strano. Selenia ha mille anni locali, che corrispondono a dieci anni nostri, ma ha una maturità e una voce di una donna non più giovanissima.

Sing

Per me che amo le animazioni, Cattivissimo me (2010) è stato un film di enorme importanza perché ha segnato la nascita dei Minion, che assumeranno maggiore importanza nel sequel del 2013 per poi diventare protagonisti assoluti nel prequel del 2015, e contestualmente la nascita di una nuova casa di produzione cinematografica, la Illumination.

Superati alcuni incidenti di percorso (*) sono rapidamente giunti ad una fase di maturità tale da riuscire a proporre una media di due titoli all'anno (**), il che, sapendo la mole di lavoro che c'è dietro, ha qualcosa di stupefacente. Interessante notare come la necessità creativa spinga la produzione ad attirare nel campo gente che viene da storie diverse. In questo caso vediamo che sceneggiatura e regia (***) sono di Garth Jennings che ha iniziato la sua carriera con i video clip per poi dirigere un film di culto come la Guida galattica per autostoppisti (2005).

Il doppiaggio italiano m'è parso molto buono, però i titoli di coda mi hanno fatto rimpiangere di aver potuto ascoltare la versione originale, che usa le voci di Matthew McConaughey, Reese Witherspoon, Scarlett Johansson, John C. Reilly, eccetera.

Buster Moon è un koala che ama alla follia il lavoro di imprenditore teatrale, purtroppo per lui i suoi concittadini non riescono a trovare nella sua passione uno stimolo sufficiente per andare ai suoi spettacoli. Il suo teatro è ormai fatiscente, e senza un colpo grosso la chiusura è imminente (°). Così decide di provare la via di un talent show per cantanti. La sbadatezza della sua vetusta assistente, l'iguana Karen Crawley, porterà ad un inaspettato successo tra gli aspiranti partecipanti, anche se aggiungerà un tassello al rischio di catastrofe che diventa sempre più incombente.

Estremamente divertente la collezione di performer che vanno dal minuscolo topolino Mike (°°) alla timida elefantina Meena.

(*) Ad esempio sconsiglio la visione di Hop (2011), che ai tempi mi deluse moltissimo.
(**) Questa volta, prima di Sing è toccato a Pets. Non mi ha entusiasmato ma è comunque un buon prodotto.
(***) Affiancato alla direzione da Christophe Lourdelet, nato come animatore nella Amblin, ha girovagato parecchio, passando anche dalla Aardman per Pirati! (2012) fino ad assumere un ruolo importante in Un mostro a Parigi (2012) della EuropaCorp di Luc Besson e quindi entrare nella Illumination.
(°) Tra gli altri, ricorda un po' anche la storia de I muppet (2011).
(°°) Evidente parodia di Frank Sinatra, ha una smodata passione per donne e guai, un grandissimo ego e una voce da crooner sensazionale.

Le 5 leggende

Motivi per così dire tecnici mi hanno mal predisposto alla visione di questo lavoro della DreamWorks. L'ho dovuto vedere in italiano, e quindi mi sono perso le voci originali, che sono di gente come Chris Pine, Alec Baldwin, Jude Law e Hugh Jackman. L'animazione degli umani non è ancora convincente, non hanno ancora la fluidità che ci si può aspettare dalla realtà, mentre ormai l'animazione del resto è eccellente, e questo mi che crei uno strano scompenso.

Non conosco la fonte di partenza (una serie di racconti di William Joyce) e quindi non so se alcuni passaggi mi abbiano generato dubbi per colpa della conversione sullo schermo, che pure è stata affidata all'ottimo David Lindsay-Abaire (*), o siano peccati originali. La cosmogonia di riferimento è alquanto bizzarra, e la conseguente interpretazione della psicologia umana poco convincente.

Nonostante tutte questi miei distinguo, alla fine mi sono divertito, e direi che il risultato complessivo è buono.

In uno strano mondo parallelo, l'Uomo nella Luna (**) è a capo della fazione del Bene, ma non interviene direttamente nelle faccende degli umani, lasciando che siano i suoi assistenti a sporcarsi le mani. Costoro sono Babbo Natale (***), il coniglio pasquale (°), la fata del dentino, e l'omino del sonno (°°).

Per quanto ne sappiamo, il Male ha un solo rappresentate, l'Uomo Nero (°°°). Costui dominava sull'umanità, distribuendo a tutti i bimbi incubi orribili con cui passare la notte, ma poi per qualche motivo all'Uomo nella Luna è venuto in mente di cambiare le cose e ha creato i Guardiani con il compito di far dormire meglio i cuccioli d'uomo.

Ora però l'Uomo Nero sta tornando, più forte che mai, e l'Uomo della Luna percepisce che i Guardiani non saranno capaci di tenerlo a bada. Così sfodera il jolly, Jack Frost (#). Costui ha tutta una sua serie di problemi, non sa chi sia, nessuno lo considera, eccetera. Riusciranno i Guardiani a portarlo dalla loro parte? Riuscirà Jack a scoprire chi è davvero? Verrà sconfitto l'Uomo Nero?

(*) Suo Rabbit hole (2010).
(**) Personaggio poco definito, che immagino prenda le mosse da quello rappresentato anche da Georges Méliès nel suo Viaggo nella Luna (1902).
(***) Chiamato amichevolmente Nord, ispirato più al Nonno Gelo russo che al San Nicola nord Europeo convertito nell'attuale iconografia dagli americani.
(°) In italiano lo chiamano Calmoniglio, chissà perché.
(°°) Mitologia ben poco popolare da noi, molto noto dagli anglofoni come Uomo della Sabbia (Sandman).
(°°°) Pitch Black. Vedasi, anche se non c'entra niente, l'omonimo primo capitolo delle storie di Riddick (2000).
(#) Personificazione del gelo. Praticamente ignoto da noi, piuttosto popolare tra gli anglofoni.

Sherlock 4.2: Il detective morente

Il titolo italiano mantiene quello che è il racconto di Conan Doyle che più ricorda la trama investigativa dell'episodio (*), in originale c'è la solita leggera variazione, The lying detective, che è uno dei tratti distintivi della serie.

Il finale della puntata precedente aveva lasciato aperto uno spiraglio sullo sviluppo, Mary Watson (Amanda Abbington) sembrava proprio averci rimesso le penne, ma non tutto (mi) sembrava perduto. I primi minuti di questo episodio lasciano ancora aperti i giochi, scopriamo però rapidamente che è solo John Watson (Martin Freeman) a mantenerla in vita, sotto forma di allucinazione.

Sappiamo che Mary ha ordito un piano per riavvicinare John a Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), difficile però capire quale sia. Sembra che Sherlock stia facendo di tutto per autodistruggersi abusando di droghe, e anche se questo potrebbe forse avvicinarlo a Mary non pare essere uno sviluppo soddisfacente.

Entra però in gioco Culverton Smith (Toby Jones), ricco, famoso, consumato dentro da una cattiveria cieca e insensata. A portargli il caso è Faith Smith (Sian Brooke), figlia di Culverton, che narra con raccapriccio un meeting paterno a cui è stata costretta ad assistere, ma di cui si è dimenticata quasi tutto, causa una droga a cui tutti i partecipanti, tranne Culverton, sono stati esposti.

Il caso è così bizzarro, e Sherlock è così fuso, che il nostro non pare prenderlo in considerazione. Poco alla volta però l'interesse gli cresce dentro, anche se con effetti che è difficile considerare positivi. L'intervento della signora Hudson (Una Stubbs), che rivela alcuni degli assi che finora ha ben nascosto nella sua manica, riesce in qualche modo a far ripartire la collaborazione tra Sherlock e John, anche se quest'ultimo è più interessato a parlare con Mary che con il suo partner in investigazioni.

La soluzione del caso pare portare ad un nuovo equilibrio, ed è estremamente buffo vedere come Mycroft (Mark Gatiss) e lo stesso Sherlock reagiscano ad un abbassamento dei loro schermi protettivi nei confronti del sentimento, scopriamo però che il terzo fratello Holmes forse non è esattamente quello che credevamo, ed è con noi, in parole, opere, e anche persona, da più di quanto potessimo aspettarci.

(*) Per qualcosa di più vicino alla lettera doyliana, vedasi la versione di Jeremy Brett (1994), uno degli episodi più riusciti di quelle serie, e che mi pare abbia fornito qualche spunto alla sceneggiatura di Steven Moffat.

Florence

Storia in due tempi, anche se questo non giustifica l'italica abitudine che mantengono numerose nostre sale di spezzare la visione in due, troncando più o meno a caso, più o meno in mezzo. La storia è basata su un personaggio reale, la signora Florence Foster Jenkins, anche se la sceneggiatura (Nicholas Martin) si prende alcune libertà allo scopo di indirizzare lo sviluppo nella direzione auspicata dal regista, Stephen Frears. Mi parrebbe interessante vedere di fila questo film con un altro recente lavoro di Frears, Philomena (2013). Entrambe storie basate su accadimenti reali, là abbiamo una lenta evoluzione dei personaggi principali dovuta alla loro interazione, qua il cambiamento del carattere dei protagonisti è molto limitato, a cambiare è quello che capiamo del loro modo di agire.

La prima parte tende alla farsa. La protagonista, Florence (Meryl Streep) è una attempata signora newyorkese dalle ingenti risorse economiche e con il pallino per la musica d'arte, che sovvenziona con larghezza. Il suo club, intitolato a Verdi, fornisce spettacoli amatoriali più in linea con i gusti ottocenteschi che con quelli degli anni quaranta del novecento. Se tutti ne sono entusiasti, forse il merito va alle notevoli quantità di cibo ammannite ai fortunati associati.

St Clair Bayfield (Hugh Grant) è un posato signore dal sorriso fascino, dai modi garbati, e dalla parlata eloquente. Spiantato, di origine inglese, in gioventù è stato attore e, come molti a quei tempi (*), ha attraversato l'Oceano in cerca di fortuna nel campo dell'intrattenimento. A lui è andata male nell'arte, ma ha trovato Florence, e ora conduce una vita decisamente piacevole.

Il sospetto che nasce e ci cresce dentro rapidamente, è che un po' tutti se ne approfittino della leggera sconclusionatezza di Florence. Senza cattiveria, si intende, ma comunque accettino le sue stravaganze in cambio di una qualche contropartita. Il dubbio che la storia pencoli pericolosamente nella direzione della pochade viene quando scopriamo che St Clair ha un suo appartamento distinto in cui vive con Kathleen (Rebecca Ferguson), la quale sembra accettare la condivisione del compagno con filosofia.

A far precipitare la situazione arriva la decisione di Florence di mettersi a cantare. Il che non sarebbe così tragico se non fosse per la sua incapacità nel campo che va oltre ad ogni possibile immaginazione. Nessuno osa farglielo notare, non il prestigioso insegnante di canto (David Haig), tantomeno il timido pianista che l'accompagna, Cosmé McMoon (Simon Helberg), che non avrebbe modo di trovare un altro ingaggio che sia lontanamente paragonabile. E il peggio è che Florence decide di fare le cose in grande, tenere un primo concerto aperto al pubblico, incidere un disco, per passare poi ad una serata alla Carnegie Hall, il tutto a sue spese, ovviamente.

E qui, gradatamente, si entra nella seconda parte. Lentamente ma inesorabilmente le carte cambiano in tavola. Scopriamo così, poco alla volta, che Florence ha sempre avuto una grande passione per la musica, amore per il quale ha abbandonato la ricca famiglia rischiando la povertà assoluta. Da giovinetta campava dando lezioni di piano, fino a che incontrò il suo primo marito, che le passò la sifilide, malattia invalidante ai tempi praticamente incurabile e che portava alla morte in pochi anni. Lei ci ha convissuto per mezzo secolo, seguendo cure che per noi sono raccapriccianti, a base di mercurio e arsenico. Scopriamo anche che St Clair la ama davvero, si fa in quattro per evitare di esporla al ridicolo, lo vediamo rischiare fisicamente cercando di far sparire uno spiacevole disco di Florence, cosa che metterà anche alla prova finale la sua relazione con la pur paziente Kathleen. E lo vedremo nel finale affrontare la Carnegie Hall, in una serata che non lascia presagire niente di buono.

Piccola parte, ma succosa, per Nina Arianda, giovane moglie di un arricchito che vede nel club di Florence un modo per entrare nella New York bene. All'inizio è quella che dice che il re è nudo, o meglio, che la cantante non sa cantare, e lo fa sbellicandosi dalle risate durante il primo concerto. Ma alla serata della Carnegie vedrà, e farà vedere agli altri, oltre le stonature.

(*) Charlie Chaplin e Stan Laurel, tanto per fare un paio di nomi.

Sherlock 4.1: Le sei Thatcher

Non si può scappare dal proprio destino, spiega un antico racconto arabo in cui un mercante si prende il disturbo di scappare a Samara per evitare la morte, per poi scoprire che la morte lo aspettava proprio lì. A Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) quella storia non è mai piaciuta (*), e ben si può capire perché, essendo lui così razionalizzatore e incapace di accettare quel che accade. Alla base di tutto ci deve essere un trauma infantile, come più volte accennato in passato, chissà se ne sapremo di più in questa stagione.

Comunque, fatto buffo per una prima donna del suo calibro, non è Sherlock al centro di questa puntata, e quindi non è lui nemmeno il riferimento principale della storia del mercante, bensì Mary Watson (Amanda Abbington), che fa muovere gran parte dell'azione e lascia Sherlock e il marito John (Martin Freeman) il compito di rincorrerla.

Come spiegato nello speciale dell'anno scorso, Sherlock è stato scelto come volontario per una missione suicida ma richiamato immediatamente indietro per fronteggiare il ritorno di Jim Moriarty (Andrew Scott), che però è molto morto e non si capisce bene cosa possa aver ordito in queste condizioni.

La soluzione di Sherlock è di aspettare la mossa, per quanto postuma, del suo arcinemico. E mentre lo fa, per passatempo, risolve una caterva di casi minori, dei quali, sfortunatamente, abbiamo solo rapidi accenni. In parallelo, Mary e John hanno una bimba, Rosamund Mary, di cui Sherlock diventa malvolentieri padrino, e che cerca inutilmente di introdurre alle delizie della logica.

E infine il gioco ha inizio. In un primo tempo sembra assumere le sembianze de I sei Napoleoni (**), poi succedono cose strane, a rompere i busti della Thatcher risulta essere un tal Ajay (Sacha Dhawan) cambia le carte, essendo egli nientemeno che un compagno di rischi della Mary pre-John della quale non sappiano niente. Ajay dice qualcosa, in particolare di essere molto arrabbiato con Mary. E questo è solo l'inizio di una serie di eventi che porteranno ad un presumibile tragico finale.

Non ci si poteva aspettare che la prima puntata della stagione chiarisse molto, ma qui siamo andati addirittura nella direzione opposta. Succede qualcosa di molto sorprendente, di cui parlerò fra poco, giusto per dare il tempo a chi non abbia ancora visto l'episodio di chiudere la pagina. Ma, anche se non abbiamo ancora visto in azione il cattivo del momento (***), abbiamo accumulato molti altri piccoli particolari su cui mediare.

Tornando al punto chiave, che chi non sa già sarebbe meglio se continuasse a non saperlo, Mary muore nel finale. Il che causa una rottura tra Sherlock e John. Da chiedersi però se davvero Mary è morta o se i Watson hanno agito in concerto per fingere la dipartita di lei. Potrebbe infatti essere un parallelo con la caduta di Reichenbach, e alcune cosucce che dice Mary (°) lasciano aperte entrambe le strade.

(*) Mentre era piaciuta molto a Roberto Vecchioni, che l'ha adattata in canzone, Samarcanda, title track del suo album del 1977.
(**) Vedasi la bella versione Granada con Jeremy Brett.
(***) Trailer BBC ci hanno già rivelato che è interpretato da un minaccioso Toby Jones.
(°) Dice a Sherlock che hanno pareggiato il conto, come quando lei ha sparato a lui. Ma noi sappiamo che in quel caso lui non è morto. E poi quel continuo reiterare nel messaggio-testamento al fatto che lei è morta, o potrebbe esserlo.