Anomalisa

Michael Stone sta molto male. E non parlo della condizione fisica, che pure pare molto trascurata, quanto di quella mentale. Sulla cinquantina, scrittore di successo di un saggio sul come interagire professionalmente col prossimo, lo seguiamo nel suo viaggio di un giorno a Cincinnati (*) dove si reca per un congresso sulle tecniche da usare nelle relazioni telefoniche con i clienti.

Il suo problema potrebbe essere che, a furia di spiegare a tutti quanto ognuno di noi sia diverso e va trattato come tale, si sia convinto del contrario, ovvero che tutti gli altri siano cloni dello stesso individuo, e lui sia l'unico che sfugge a questa omologazione. Uomini, donne, bambini, tutti quanti per lui hanno la stessa faccia e pure la stessa voce (**). La tragedia è che Charlie Kaufman (***) ritiene piuttosto che Michael sia affetto da una forma estrema della sindrome di Fregoli, e che quindi non stiamo parlando di un severo caso di esaurimento nervoso ma di una malattia psichiatrica che correntemente non si sa come trattare.

Michael si deve essere convinto di essere la vittima di un oscuro complotto e non ha nessuno con cui parlarne, visto che tutti quelli che incontra ne fanno parte. Gli capita però di incontrare Lisa, una giovane donna che per circostanze misteriose ha ancora la sua voce e faccia. Lisa è sgraziata, poco intelligente e molto insicura di sé. Nonostante tutto ciò a Michael sembra un miracolo fatto persona, e potrebbe anche dargli la forza di affrontare il suo male.

Trattando di una persona in una situazione estremamente deprimente, la prima parte del film è di una notevole pesantezza. Bisogna aspettare l'arrivo di Lisa perché il racconto si ravvivi. Notevole, anche se nel senso di tendente al raccapriccio, la scena dell'incubo. E poi tutto quello che ne segue ha una sua buona forza narrativa.

La scelta di raccontare la storia come animazione in passo uno (°) credo derivi dall'esigenza di non spendere cifre assurde con gli effetti speciali e di rischiare un risultato pietoso. Si può avere una idea di come potrebbe essere il risultato con attori in carne e ossa rivedendosi Essere John Malkovich.

Come spesso mi succede con i film scritti da Kaufman, non sono sicuro di dove voglia andare a parare la storia. Ad esempio, si potrebbe notare come la premessa sia simile a quella di Memento, però lì vediamo come il protagonista, pur trovandosi apparentemente in una situazione senza via di uscita riesca in qualche modo ad uscirne fuori. Qua ci ferma alla prima parte. Nel finale si accennano ad un paio di possibili porte aperte (°°) che potrebbero in qualche modo ribaltare la situazione. Ma nulla di definito.

(*) Lui è inglese, ma vive da lungo tempo negli USA, e attualmente risiede con la famiglia a Los Angeles.
(**) Superlavoro per il doppiatore, che in originale è Tom Noonan e per noi Stefano Benassi.
(***) Sceneggiatura e co-regia assieme a Duke Johnson.
(°) Tecnica di cui qui in Italia eravamo maestri, oggi la si chiama stop motion e si pensa che sia una cosa che fanno nel resto del mondo.
(°°) La geisha-bambola che Michael, con ben poca sensibilità paterna, porta in dono a suo figlio mantiene la sua individualità, seppur artefatta. Lisa sembra non aver perso le sue speranze in Michael.

Amore e guerra

Ha più di quarant'anni ma lo vedo sempre con piacere. Neanche questa volta ha fatto eccezione.

Anche se è scritto e diretto da Woody Allen, il film non è sbilanciato sul suo Boris ma segue con eguale interesse le vicende dell'inetto russo quanto quelle della sua bella cugina acquisita Sonja interpretata da Diane Keaton, che passa dal comico al tragico con una facilità esemplare, con il vantaggio di risultare molto credibile anche nelle scene più drammatiche. Vedasi ad esempio la citazione bergmaniana di Persona nel finale.

Per lungo tempo Boris ama Sonja senza essere ricambiato. Ci vorranno due invasioni napoleoniche e altri eventi minori, tra cui il matrimonio di lei con un mercante di aringhe e una fugace relazione pericolosa di lui con una procace vedova (Olga Georges-Picot), con conseguente duello all'ultimo sangue, per farle cambiare idea.

Nonostante gli stravolgimenti, mi pare evidente il grande affetto con cui Allen cita i romanzi russi ottocenteschi, in particolare Guerra e pace di Lev Tolstoj, e l'opera di Ingmar Bergman.

I sospiri del mio cuore

Unica regia di Yoshifumi Kondô, che si sperava diventasse la nuova mente creativa dello Studio Ghibli e che invece morì solo tre anni dopo. L'idea di convertire un manga per ragazzine scritto e disegnato da Aoi Hiiragi è stata di Hayao Miyazaki, che ne ha curato la sceneggiatura ma ha affidato la regia a Kondô, sapendo di potersi fidare di chi, tra l'altro, aveva curato i personaggi e diretto le animazioni de Una tomba per le lucciole, supervisionato le animazioni di Kiki - Consegne a domicilio, ed essere stato tra gli animatori di Porco Rosso. Quest'ultimo titolo è citato direttamente, e incongruamente, facendolo diventare la marca della bella pendola con nanetti che si vede in una scena iniziale.

La storia è fondamentalmente quella di una ragazzina, Shizuku, che sta per diventare giovine donna. Si trova a dover prendere alcune decisioni importanti, nei confronti del suo futuro, della famiglia, dell'amica del cuore, Yuko, di un paio di ragazzi che le girano attorno. Una vicenda piuttosto minimale, che però è svolta con gran maestria. Molte le digressioni che danno spessore al racconto. C'è ad esempio un gatto ciccioso e molto indipendente, che gira per Tokio in treno, frequentando diverse case, e che aiuterà Shizuku, sa il cielo quanto involontariamente, in almeno un paio di occasioni a trovare la sua via.

Subito all'inizio vediamo Shizuku affrontare un compito. Deve tradurre in giapponese Take me home, country roads, di John Denver. Lo fa su istigazione di Yuko, che la vuole cantare con il coro scolastico. Shizuku prova una traduzione letterale, che non la convince, poi ne fa una umoristica (*), e infine ha l'inspirazione vincente, tradire l'originale e metterci del suo. Che è un po' quello che ha fatto anche Miyazaki con la storia originale, facendo diventare il prescelto da Shizuku un ragazzino con la passione per i violini, che vuole andare a Cremona per imparare a diventare liutaio.

(*) Che le causerà un imbarazzante contrattempo.

La isla mínima

Ci si può accontentare di guardarlo come un classico thriller poliziottesco, e già così fa la sua bella figura. La regia di Alberto Rodríguez (*) è eccellente, sfrutta a meraviglia le potenzialità del posto (**) e del tempo (***), grazie anche ad una fotografia dai colori slavagiati, che ci dà l'impressione di guardare un film d'epoca.

Due poliziotti madrileni vengono spediti in un paesino sperduto nel sud per indagare sulla scomparsa di due giovani sorelle. Per Pedro (Raúl Arévalo), giovane e rampante, si tratta di una punizione, per aver criticato pubblicamente un generale. Invece Juan (Javier Gutiérrez), che ormai è un residuo del passato, non ci fa nemmeno caso. Ha ben altro a cui pensare, tipo i malanni che se lo stanno divorando e la coscienza che non lo lascia dormire.

Il caso in sé è di una banalità sconcertante. Nonostante il disinteresse generalizzato, i due inquadrano subito correttamente la situazione, imbastiscono una indagine che lentamente ma con gran sicurezza segue il suo percorso e arriva senza grossi sconvolgimenti alla soluzione. Eppure, se non fossero arrivati loro, l'assassino sarebbe rimasto impunito. Anzi, di più. Aveva già colpito in passato, e avrebbe nuovamente colpito. In pratica il thrill principale dell'azione è scoprire se i due riusciranno a evitare un ennesimo ammazzamento. E, come ci dice il padre delle due vittime, l'unico motivo per cui loro sono stati mandati ad investigare è che avevano un parente con agganci a Madrid. Scopriamo infatti che i militi della Guardia Civil (°) preferiscono fare il meno possibile, adducendo come ragione che loro devono restare lì, e quindi devono fare attenzione a non pestare i piedi a nessuno.

La storia assume maggior interesse se teniamo presente il suo aspetto metaforico. Pedro è il nuovo spagnolo, democratico, che deve convivere con un suo vecchio alter ego, Juan, che ha pesanti responsabilità derivanti dal suo coinvolgimento con il franchismo. La tentazione di Pedro è quella di mettere da parte Juan, considerarlo un peso, e gestire l'indagine per conto suo. Cosa che del resto, almeno a tratti, fa. Ma non è la via giusta. Juan sarà anche stato una brutta persona, e forse continua ad esserlo, almeno parzialmente. Però ha anche una parte positiva. Ha la capacità di empatizzare con i locali, mentre Juan, algido, cittadino, moderno, nessuno se lo fila. Solo lavorando assieme i due possono sperare di portare a casa il risultato.

(*) Nonostante le convinzioni che un mio vicino di poltrona cinematografica ha sbandierato allegramente, Alberto Rodríguez non ha niente a che fare con Quentin Tarantino. Quello è Robert Rodriguez.
(**) Dalle parti di Siviglia, ma la città è ignorata e tutta l'azione si svolge nelle campagne attorno al Guadalquivir. Il fiume, la natura, il carattere brusco e diffidente dei paesani che vivono in un ambiente affascinante in cui però è difficile anche solo sopravvivere hanno una parte notevole nella narrazione.
(***) 1980. La Spagna sta vivendo il passaggio dalla dittatura alla democrazia. Nonostante Franco sia morto da cinque anni, e che le prime elezioni libere si siano tenute l'anno prima, è evidente che l'inerzia dei decenni precendenti non sia ancora stata smaltita.
(°) Che sarebbe approssimativamente il corrispettivo spagnolo dei nostri carabinieri.

X-Files 10.1: La verità è ancora là fuori

Non sono un fan della serie, al punto che il titolo originale (*) dell'episodio si è riflesso nello sforzo che ho fatto per non appisolarmi durante la visione. Mi sono ripreso solo nel finale, quando l'esagerazione dei mezzi messi in campo dai "cattivi" per compiere le loro cattiverie è stata così fuori scala da risultarmi comica.

La puntata si apre con uno spiegone di quel volpino di Fox Mulder (David Duchovny) volto a mettere al passo i novellini della serie (**) con quello che sta per accadere. Poi un flashback ci porta nell'immediato dopoguerra, dove assistiamo allo schianto di un disco volante monoposto, ai cui comandi c'è un alieno così incapace da venir finito a schioppettate dai militari americani sopraggiunti per demeriti aviatori. Il medico portato in loco si impossessa del cadavere e si mette a fare studi che porteranno enormi vantaggi alla nostra medicina, e vediamo per l'appunto che Dana Scully (Gillian Anderson), che ha abbandonato l'FBI, ne approfitta per fare operazioni fantascientifiche.

Walter Skinner (Mitch Pileggi), pezzo grosso dell'FBI, per motivi suoi che non mi pare siano chiariti, è convinto che Moulder avesse avuto ragione ad incaponirsi con la storia degli alieni che voglio invadere il mondo e, usando un bel po' di paranoia, cerca di rimettere insieme il team Mulder-Scully. Un punto chiave del suo (s)ragionamento è che una tipa, Sveta (Annet Mahendru), asserisce di essere stata più volte rapita, fecondata per generare incroci umano-alieni, e poi rimessa in libertà. Un altro è rappresentato da un impossibile velivolo segreto che si produce in attività insulse che sarebbero possibili grazie alle tecnologie aliene apprese studiando i rottami dei dischi volanti.

C'è poi un tele-matto, che diffonde via web il suo verbo complottista secondo cui il governo americano fa da marionetta ad un potere più forte che vuole soggiogare prima gli USA, e poi il mondo. Mulder ha una illuminazione. Tutto quello che aveva pensato per le nove stagioni precedenti era sbagliato. Non sono gli alieni che vogliono prendere il potere, ma uomini che pensano di fingersi alieni per giustificare il regime illiberale che intendono instaurare. Notevole come riesca a rinnegare la convinzione di una vita in quattro e quattr'otto. Nemmeno un momento di tristezza per i lunghi decenni passati a credere ad una fesseria.

Comunque, come da copione, i cattivi arrivano e spaccano tutto, così che i buoni non possano dimostrare un bel niente.

(*) My struggle.
(**) Che stimo essere pochi. Mi aspetto che la larghissima maggioranza degli spettatori sappiano già tutto quel che c'è da sapere.

Il caso Spotlight

Basta vedere il trailer per rendersi conto che Spotlight non è il nome del caso trattato ma quello del team investigativo del Boston Globe che lo ha seguito. Siamo dalle parti di Tutti gli uomini del presidente, un tema scottante, una verità fastidiosa che fatica ad emergere, ma che quando arriva sulla prima pagina cambia la realtà delle cose.

A dire il vero non siamo arrivati ancora alla fine della storia perché riguarda la chiesa cattolica e, come si dice anche nel film, quella è una istituzione abituata a ragionare in termini di secoli. Qui ci si concentra su una serie di fatti avvenuti all'inizio del secolo, e si accenna solo molto rapidamente a cosa è successo nel decennio successivo. Chissà quanti altri decenni serviranno per arrivare ad un punto fermo più soddisfacente.

La scintilla che fa scoccare la storia sta nell'arrivo al Boston Globe di un nuovo responsabile, Marty Baron (Liev Schreiber), che ha il solito compito, tagliare le spese, aumentare la tiratura. La sua idea che ci interessa in questo contesto è quella di spingere Spotlight a lavorare su di tema piuttosto spinoso che non sembra piacere a nessuno, ovvero il caso di un prete molestatore seriale che è sempre riuscito a evitare problemi con la giustizia. E si tenga presente che a Boston, e in tutto il Massachusetts, il cattolicesimo è molto forte.

A capo di Spotlight c'è Walter Robinson (Michael Keaton), che accetta l'incarico del suo capo ma non sembra troppo entusiasta, al contrario di Mike Rezendes (Mark Ruffalo), che ci si butta a capofitto. Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) è presente per ragioni di verosimiglianza storica, anche se non aggiunge molto alla narrazione. Tra i molti personaggi che entreranno nel racconto ricordo Mitchell Garabedian (Stanley Tucci), l'avvocato che, in pratica, ha fornito il materiale necessario all'indagine.

La sceneggiatura e regia di Tom McCarthy (*) riescono ad evitare i tranelli di un manicheismo che finirebbe per risultare stucchevole. Se le colpe principali sono ascrivibili alla chiesa cattolica, nessuno può chiamarsi fuori dalla tragedia a cuor leggero. In un certo senso, sarebbe una buona cosa vedere il film in accoppiata con Philomena, anch'esso un film in cui si evita un bianco e nero disneyano per riflettere invece sulle sfumature.

(*) Ha debuttato una dozzina di anni fa con The station agent, a cui sono seguite altre cose buone come L'ospite inatteso e Mosse vincenti. Forse questa volta ci siamo, e diventa un nome noto.

Father, vendetta sanguinaria 1 - 3

Su consiglio di The storyteller (AKA @neweraclea), mi sono guardato i primi tre episodi della web series di Paolo Pietro Moro.

1: Peter e Bob

Atmosfera da incubo, fotografata in bianco e nero, o meglio, con colori così desaturati da lasciare solo una gamma di grigi. Peter (Andrea Pergolesi) e Bob sono in auto (*). Il secondo, molto chiacchierino, cerca di fare amicizia, allude ad un impiccio da cui Peter l'avrebbe cavato fuori, lasciandosi scappare parole che lo qualificano come brutta persona.

Dopo un lungo silenzio, Peter racconta a Bob una storiella di quelle, ben poco rassicuranti, che di solito in un racconto hard-boiled quello con la pistola scodella a chi dalla parte sbagliata della pistola, subito prima di far cantare l'arma. E infatti l'arma canta e tanti saluti a Bob.

Salto di scena, siamo in una clinica, dove Lei (Giulia Briata), presumibilmente una psichiatra, sta cercando di ricostruire cosa sia successo a Peter, che è emerso recentemente da un lungo coma.

Non ho capito se l'audio pessimo sia una scelta stilistica, a rafforzare il senso di confusione di Peter, o se si tratti di un problema tecnico.

2: Peter

Lei induce, con una facilità sospetta, un sonno ipnotico in Peter, che riprende il suo racconto, ma facendo un passo indietro rispetto alla prima puntata. Scopriamo così come Peter abbia incontrato Bob. Stava infatti per ammazzare con un colpo di pistola alla nuca un tale che aveva tirato fuori dallo scomodissimo bagagliaio della sua macchina quando delle urla femminili lo hanno spinto a desistere dalla sua azione. Arriva Bob, Peter malvolentieri gli dà un passaggio.

3: Peter e Mr Z

Finito il flashback della seconda puntata, si torna a dove eravamo arrivati alla fine del primo episodio. Peter ha sparato a Bob, abbandona la macchina (**), cammina su una strada di campagna, incontra Mr Z, lo prende a schioppettate e gli chiede che ne è stato di suo figlio. Z. e altri devono aver fatto qualcosa di molto brutto, e sembra che questo abbia messo Peter in modalità omicida/vendicativa.

Concludendo, mi è ancora impossibile dire che ne penso della storia. La brevità degli episodi non è tale da permettere approfondimenti e, a questo punto, l'unico personaggio che ha un qualche spessore è quello di Peter, di cui pure non sappiamo ancora quasi niente. Il mio timore è che si prosegua in direzione tarantiniana, con ammazzamenti vari e poca sostanza. La speranza è che Moro abbia pensato ad uno sviluppo più solido.

(*) Credo sia una Fiat 124 Sport Coupé prima serie. Il che mi ha fatto pensare che la storia fosse ambientata sul finire degli anni sessanta o nei primi anni settanta. Poi, in (3), è apparsa con mia gran sorpresa una vettura a noi contemporanea.
(**) Nel bagagliaio è rimasto il tapino che era sul punto di venir giustiziato in (2), che si deve essere ben guardato di ricordare la sua esistenza a Peter.

L'abbiamo fatta grossa

Qualche risata me la sono fatta, ma la tensione comica è stata troppo discontinua. Le due migliori battute direi che sono state quella di Carlo Verdone (*) "mi sono fatto un po' ispirare da un certo cinema francese e dalle commedie di vent'anni fa di Woody Allen" e quella di Mario (**) "non ne posso più, io mi alzo e me ne vado".

Yuri Pelagatti (Antonio Albanese) era un grande attore teatrale e noto tombeur de femmes. Sua moglie (Clotilde Sabatino) si è stufata della situazione e lo ha buttato fuori di casa. Da allora Yuri si è depresso, a tal punto da risultare fiacco e inconcludente nella vita reale, e da dimenticarsi le battute sul palco. Oltre al danno la beffa, la sua ex ha trovato immediata consolazione nell'avvocato che l'ha seguita nella causa di divorzio. Così Yuri recluta Arturo Merlino (Carlo Verdone) perché gli produca le prove del "tradimento". Arturo è un ex carabiniere, a sua volta abbandonato dalla moglie una quindicina di anni prima, che ora campa a stento con una attività di investigatore privato di scarsa fama.

L'incapacità di entrambi li porta ad entrare in possesso di una valigetta piena di soldi sporchi e di grosso taglio, della quale non sanno che farsene. La nascondono nel posto peggiore che si possa immaginare e devono gestire l'illegittimo proprietario (Massimo Popolizio) e i suoi sgherri che la rivogliono indietro. Per i due le cose finiranno male, ma chissà, a volte il bene si nasconde nei posti più strani.

La sceneggiatura funziona a strappi, la regia è pessima, al punto che nemmeno Popolizio riesce a dare una convincente prova attoriale. Si salva dalla catastrofe la colonna sonora di Andrea Farri e il debutto cinematografico di Anna Kasyan, soprano armeno che dimostra di avere interessanti potenzialità anche in questo campo.

(*) Come da intervista. Non sono riuscito a capire a quale cinema francese si riferisse, che così per me è diventato "incerto". Venti anni fa, Allen ha diretto il musical Tutti dicono I love you, preceduto dall'incrocio tra tragedia greca e analisi della moderna commercializzazione del sesso ne La dea dell'amore e seguito dal decostruttivista sperimentale Harry a pezzi. Tutti e tre a millemila miglia di distanza da questo film. A parziale discapito, Verdone ha completato il suo pensiero dicendo "anche se Allen è Allen e io sono solo un commediante di commedia all'italiana". Anche qui, mi addolora dover notare che la commedia all'italiana ha prodotto pellicole ben più memorabili di questa.
(**) Seduto di fianco a me al cinema, parla raramente durante la proiezione. Una fase di stanca troppo lunga nella fase centrale gli ha strappato quell'affermazione, poi rientrata.

Perfetti sconosciuti

Una cena tra amici che rischia di diventare catastrofica. Un topos molto frequentato in questi anni, vedasi ad esempio Cena tra amici o magari anche Coherence. Anche se qui al centro dell'azione Paolo Genovese mette lo smartphone, come se la colpa delle tensioni iterpersonali fosse tutta di quell'oggetto.

Rocco (Marco Giallini), Cosimo (Edoardo Leo), Lele (Valerio Mastrandrea) e Peppe (Giuseppe Battiston) si conoscono da sempre. Rocco, chirurgo estetico popolare, ha sposato Eva (Kasia Smutniak), psicoterapeuta che sembra aver maturato dei dubbi sul matrimonio. Forse ora pensa che avrebbe dovuto dar retta al padre (*) sposarsi qualcuno del suo rango, o magari vorrebbe avere avuto una vita più selvatica, chissà. Cosimo è un concentrato ambulante di testosterone, e non si capisce perché si sia sposato, dopo lunga carriera da single impenitente, con Bianca (Alba Rohrwacher), una veterinaria che sembra lontana mille miglia dal modello di donna che deve occupare la sua mente. Lele, ha un lavoro noioso, una moglie alcolista, Carlotta (Anna Foglietta), e pare destinato a una depressione cronica. Peppe è un insegnante di ginnastica divorziato, aveva promesso di portare la sua nuova fiamma, Lucilla, alla serata e invece è arrivato da solo, adducendo un improvviso malanno di lei.

Eva propone di fare un gioco per smuovere la serata. Ognuno deve mettere il proprio telefono sul tavolo e rendere pubblico tutto il traffico di telefonate e messaggi che arriva. Nessuno ha il coraggio di mandarla a quel paese (**) e questo dà l'avvio ad una serie di accadimenti in bilico tra commedia e tragedia.

Ottima la scelta del cast, in particolare sul lato maschile, anche se Mastrandrea m'è sembrato sottotono rispetto ai suoi standard. Gli spunti comici della sceneggiatura sono sfruttati molto bene dagli attori, che sono bravi anche sulle parti più drammatiche.

Poco riuscita, a mio avviso, la chiusura, dove succede qualcosa che porta a quello che forse è stato pensato come un inaspettato lieto fine, magari seguendo il modello francese citato sopra. Che però a me non sembra per niente lieto, piuttosto dilatorio. Le tensioni che sono state evidenziate nell'ora precedente non vengono risolte, ma annullate. E questo implica che dovranno necessariamente ripresentarsi in futuro.

(*) Si accenna che è un primario di gran fama che non ha mai avuto una gran opinione del genero.
(**) Come si meriterebbe.

Mr. Holmes - Il mistero del caso irrisolto

Sherlock Holmes (Ian McKellen) ha superato i novant'anni ma, nonostante gli acciacchi, non è cambiato poi di tanto. A scanso di equivoci, lo vediamo subito in treno maltrattare verbalmente una giovane madre col suo pargolo, in quanto rei di aver confuso vespe e api, e il ragazzino anche per aver pensato di infastidire un insetto posato sul finestrino.

La sdegnosa sociopatia del consulting detective per eccellenza è ancora tutta lì. I problemi sono sul lato fisico e mentale. In particolare la memoria è quella che è. Lo vediamo ricorrere a trucchetti per non mostrare come si dimentichi anche il nome delle persone con cui sta parlando. Il suo medico curante (*) gli dà una agendina e lo invita a segnare con un puntino ogni volta che non si ricorda qualcosa. E abbiamo una rappresentazione visuale della catastrofe che stringe il cuore.

Ma c'è qualcosa che lo tormenta e lo ha spinto a lasciare la sua residenza nel East Sussex per andare fino in Giappone, alla ricerca di una pianticella, il pepe del Sichuan, che potrebbe aiutarlo a recuperare la sua memoria. Il fatto è che non sa più cosa è successo trent'anni prima, quando affrontò il suo ultimo caso, che si deve essere concluso così malamente da spingerlo a ritirarsi in campagna. Come ci si può aspettare, il resoconto che ne ha fatto il dottor Watson di quell'avventura è ben poco fedele a quella che deve essere stata la realtà dei fatti. Holmes ne vede pure la versione cinematografica (**) e non può che restarne estremamente deluso per l'incongruità e l'abuso di punti esclamativi nelle battute degli attori.

Il pepe del Sichuan, oltre ad essere disgustoso, non serve a niente. Lunghe ore passate davanti ad un foglio bianco anche meno. Holmes scopre con sorpresa che alcuni brandelli di memoria gli tornano parlando con Roger (Milo Parker), il figlio della sua governante (Laura Linney). Roger lo idolatra, sia perché ha una mente sveglia ed è affascinato da quest'uomo che con un occhiata riesce a estrarre informazioni che sembrano prima così misteriose ma poi, una volta spiegato il processo, diventano così naturali, sia perché ha perso il padre che era ancora un frugoletto, e gli manca una figura maschile di riferimento. Quasi senza accorgersene, Holmes ricambia l'attenzione, e così matura una relazione proficua per entrambi.

Lentamente i contorni del caso emergono. Un marito che non capisce la moglie, lei (Hattie Morahan) che cerca aiuto da una strana insegnante di musica (Frances de la Tour), e poi si trova a dover competere con niente meno che il grande Sherlock Holmes. Lui affronta il caso usando le armi che conosce così bene, quelle della logica, e ritiene di averlo risolto. Per scoprire troppo tardi di aver sbagliato tutto, e non perché ci fossero difetti nei suoi ragionamenti, ma per non aver applicato lo strumento giusto nella giusta circostanza. Per trovare la giusta chiave di lettura della vicenda avrebbe dovuto fidarsi di cosa gli diceva il suo cuore. Non ne era stato capace, aveva nascosto la sua sensibilità dietro la corazza del ragionamento, e questa scoperta lo aveva annientato.

Mentre ricorda questo dramma nel passato, un altro si svolge nel presente, centrato in Roger. Anche qui Holmes si trova a dover gestire una sfida ai limiti delle sue possibilità, dovendo usare capacità che non gli sono per niente familiari, quando quelle per le quali è rinomato sono annebbiate dal degrado fisico.

C'è anche un terzo mistero che Holmes deve risolvere, la scomparsa del padre di Tamiki Umezaki (Hiroyuki Sanada), il suo corrispondente giapponese che lo aveva contattato con la scusa del pepe del Sichuan. Dal punto di vista della logica, la soluzione è di una banalità sconcertante, ma finalmente Holmes ha capito quando sia il momento di usarla, e quando no.

(*) No, non si tratta di John Watson, deceduto decenni prima.
(**) Abbiamo così modo di vedere un'altro Sherlock Holmes. In questo fittizio film in bianco e nero, ad interpretare il nostro è Nicholas Rowe, che qui riprende il ruolo che ebbe già in Piramide di paura (1985), il prequel ambientato nell'infanzia sherlockiana diretto da Barry Levinson.

L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo

Lo sapevo ma non ci avevo mai pensato. In origine non c'era niente di eccessivamente strano nell'essere comunisti in America. Probabilmente non era una buona idea sbandierare questa opinione politica in un paesino della Bible belt, ma niente di paragonabile a quello che successe a partire dai tardi anni quaranta, per peggiorare nei primi anni cinquanta (*), lasciando un clima di sospetto che perdura, seppur molto più blandamente, anche ai giorni nostri.

Il film esamina il brusco cambiamento che avvenne praticamente da un giorno all'altro (**), seguendo la storia di un comunista molto visibile come Dalton Trumbo (Bryan Cranston). Costui era uno sceneggiatore di gran successo, con vent'anni di carriera alle spalle, che si trovò improvvisamente a doversi giustificare per le sue opinioni politiche, venendo tacciato di tradimento.

Pur non avendo fatto nulla di perseguibile a termini di legge, Trumbo, e chi non sentisse giusto rinnegare la propria coscienza, si fece un po' di galera, e si trovò poi nell'impossibilità di lavorare. Per un decennio riuscì a campare lavorando con nomi falsi, scrivendo film di serie Z sottopagati, e qualche volta anche roba buona, addirittura Vacanze romane (1953), che gli valse un primo Oscar per interposta persona, e poi un film a basso costo, La più grande corrida (1957), che gli portò un secondo Oscar (***) via pseudonimo. Ma quando poi Kirk Douglas (Dean O'Gorman) gli affidò la riscrittura della sceneggiatura al film a cui stava lavorando come protagonista e produttore, nientemeno che lo Spartacus (1960) diretto da Stanley Kubrick, e allo stesso tempo Otto Preminger (Christian Berkel) quella di Exodus, decise che era tempo di passare al contrattacco, e mostrare come la lista di proscrizione oltre a non aver senso non funzionasse nemmeno.

La sceneggiatura (John McNamara) cerca, e direi che riesce agevolmente, di non fare di Trumbo un martire, mostrando le sue contraddizioni, e non infierendo su chi si è trovato dall'altra parte della barricata. I numerosi personaggi al contorno offrono uno spaccato delle diverse posizioni, rendendo con sufficiente dettaglio la complessità della vicenda. Brava Diane Lane nella parte della moglie di Trumbo, a mostrare come lei fosse il necessario contrappeso ad una forza della natura che, in sua assenza, avrebbe potuto essere autodistruttiva. Michael Stuhlbarg interpreta Edward G. Robinson, attore democratico progressista, che sottovaluta le potenzialità della deriva maccartista, scoprendo troppo tardi quanto fosse pericolosa. I principali "cattivi", come spesso accade nel cinema americano, sono interpretati da stranieri, che non sono molti gli attori locali che se la sentono di sporcare loro immagine, così abbiamo che la perfida giornalista scandalistica Hedda Hopper è interpretata da Helen Mirren e lo sciocco iperconservatore John Wayne da David James Elliott. Bravo Louis C.K. nel ruolo di Arlen Hird, comunista puro e duro, che serve da contraltare a Trumbo, che ha una posizione meno definita, più compiacente, forse più teorica che pratica. Divertente John Goodman, trasbordante, pacchiano, eccessivo nel ruolo di Frank King, produttore di filmacci che non gli importa niente di chi scrive le sceneggiature, sia anche il diavolo in persona, basta che siano all'altezza delle sue scarse aspettative.

Non mi sarei aspettato di trovare alla regia Jay Roach, che vedo più a suo agio nella commedia grossolana, vedasi le sue due saghe di successo, quella di Austin Powers e quella dei Fokers (da noi tradotto come Fotter). Però non se l'è cavata male.

(*) Periodo noto come maccartismo, da Joseph McCarthy, senatore ottusamente anticomunista che fu il principale esponente di questa caccia alle streghe.
(**) All'origine di tutto ciò il cambiamento di equilibrio dovuto alla seconda guerra mondiale. USA e URSS si sono spartiti il mondo a Yalta, ponendo le basi per un duopolio che ha afflitto l'umanità per mezzo secolo.
(***) Tra i nominati quell'anno, citati anche nel film, Jean-Paul Sartre per Gli orgogliosi e Cesare Zavattini per Umberto D. - questo per dire che le scelte dell'Academy sono sempre state discutibili.

Steve Jobs

Mamma e papà devono avere una discussione spinosa. Una simpatica signora invita ad andare loro figlia Lisa, una bimbetta di cinque anni, a fare un giro con lei. Lisa le dice con orgoglio che il suo papà ha chiamato come lei un coso che ha fatto. Lui la guarda perplesso e dice che no, è solo un caso, il coso si chiama così perché è un Local Integrated Software Architecture. Alle due donne cascano le braccia, la bimba ammutolisce e poi chiede se allora è lei che ha il nome del coso. Non sarebbe così bello come pensava ma almeno sarebbe qualcosa. Il papà però insiste, è solo un caso, avete lo stesso nome ma non c'è alcuna relazione.

Ladies and gentlemen, il papà era Steve Jobs.

Non credo che una scena del genere sia mai avvenuta. Di sicuro Steve si rifiutò per otto lunghi anni di riconoscere che Lisa (la bimba) fosse sua figlia, adducendo scuse a dir poco patetiche. Di sicuro per anni non si seppe perché quel piccolo computer si chiamasse Lisa. Difficile pensare che la storia dell'acronimo insensato fosse girata senza l'approvazione di Jobs, il quale solo molto più in là ammise che si trattava del nome della figlia.

Ma tutto ciò è abbastanza secondario. Mi verrebbe quasi da dire che non sia poi così importante nemmeno sapere quanto lo Steve Jobs del film sia davvero vicino allo Steve Jobs reale, se non fosse uno sgarbo a Michael Fassbender che lo interpreta con una capacità camaleontica impressionante, considerando anche che il film è concepito come una messa in scena in tre atti che vanno a coprire una quindicina di anni, a cui va sommato un flashback che allunga ulteriormente il periodo, costringendo Fassbender ad interpretare quattro diversi Steve Jobs, a partire da giovinastro molto peloso che sta per lanciare una rischiosa start-up, per finire con l'uomo sicuro di aver già vinto la sua scommessa, sul punto di invadere il mondo con l'iMac.

Il punto chiave della sceneggiatura di Aaron Sorkin mi pare piuttosto quello di studiare il carattere di un imprenditore (*), per chiedersi i motivi del suo successo. Spesso si sostiene che la genialità di Jobs fosse legata al suo cattivo carattere, a me pare invece che questo facesse da freno alle sue potenzialità, e di sicuro ha rovinato, o almeno reso difficile, la vita a molta gente. Come esempio porterei un'altra scena, quasi nel finale. Jobs ha sconfitto John Sculley (Jeff Daniels), si è ripreso l'Apple, e una delle prime cose che ha fatto è segare la produzione di Newton, idea di Sculley, che può essere considerato un precursore dei tablet. Sculley gliene chiede ragione, Jobs allude alla sua inusabilità e chiude il discorso. Evidentemente una menzogna, per quanto parziale. Ovvero, è vero che lo stilo usato per interagire con il Newton era una dannazione, ma l'idea di massima era buona, come la storia ha dimostrato. Se avesse avuto l'umiltà di accettare che le idee buone venivano anche agli altri, noi avremmo avuto l'iPad con anni di anticipo, e la Apple avrebbe fatto molti più soldi.

Bella la scelta di narrare la storia seguendo la prospettiva di Joanna Hoffman (Kate Winslet), una persona normale che ha fatto da assistente a Jobs per tutto quel periodo, riuscendo a tenergli testa, senza piegarsi al suo ego incommensurabile. Come pure sono seguiti bene i rapporti (**) tra Jobs e i veri nerd che hanno fatto il successo di Apple, in particolare hanno spazio Steve Wozniak (Seth Rogen) e Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg). La regia di Danny Boyle viene quasi messa in ombra dalla preponderanza del materiale della sceneggiatura, bisogna però riconoscergli il merito di essere riuscito a spremere il meglio dagli attori.

(*) Sorkin aveva già applicato la stessa metodologia sullo Zuckerberg di Facebook, con un risultato a mio parere molto inferiore, e in precedenza aveva fatto anche uno studio simile in campo politico, analizzando una ipotetica figura presidenziale.
(**) Anche qui la sceneggiatura si prende molte libertà, e va considerato più il senso generale della cosa che i singoli accadimenti.
(***) Solita motivazione, non lo sentiva come un suo progetto, essendo più figlio delle idee del Woz.

Poirot 3.11: Il mistero di Hunter's Lodge

Hercule Poirot (David Suchet) e il capitano Hastings (Hugh Fraser) sono invitati ad una partita di caccia che si tiene presso il villino di campagna di un antipaticissimo riccone che, al termine della giornata, viene ucciso con una pistolettata in faccia. Per le indagini viene chiamato dalla città l'ispettore capo Japp (Philip Jackson), che deve avere la luna di traverso, e sfodera in questa puntata una serie di battute che punzecchiano un po' tutti coloro gli capitano a tiro, compreso Poirot, colpevole di essersi preso un gran raffreddore.

Il morto era odioso a tal punto che chiunque nei paraggi aveva buone ragioni per farlo fuori, o almeno augurarselo. La mente criminale che ha agito, lo ha fatto con lunga premeditazione, creando un piano arzigogolato di cui non ho capito il senso, se non quello di intrattenere il lettore/spettatore. Perché poi agire quando è presente Poirot, che ovviamente si darà da fare per smascherare il colpevole.

Da notare che la sceneggiatura (*) ci nasconde un importante elemento che nel racconto rendeva più plausibile una parte importante del piano criminoso, ma rendendolo anche troppo facile da scoprire sin dalle prime battute. Un altro cambiamento sostanziale è nel finale, che su carta si traduceva in una mezza sconfitta per Poirot, incapace di assicurare alla giustizia chi ha compiuto il fatto.

(*) T.R. Bowen, che ha scritto anche molti episodi dello Sherlock Holmes con Jeremy Brett, tra cui la buona versione de Il mastino dei Baskerville. Questo dovrebbe essere il suo unico Poirot, ma Bowen ha al suo attivo numerose drammatizzazioni da altre opere di Agatha Christie, in particolare relative a Miss Marple.

1981: Indagine a New York

Blaise Pascal, con la sua famosa scommessa, sosteneva che conveniva puntare sull'esistenza di Dio (*), in quanto se si vince si ottiene un ricompensa infinita e se si perde, beh, comunque si è vissuto una vita felice. Ho l'impressione che nemmeno Pascal desse molto peso alle sue argomentazioni, e che le considerasse piuttosto un simpatico giochetto logico con cui stupire gli amici. Che razza di vita sarebbe mai, mi sono sempre chiesto, quella di un tale che segue una religione non perché ci crede ma perché spera in una futura ricompensa.

In questo film J.C. Chandor ce lo racconta. O almeno, qualcosa del genere.

Si narra infatti di Abel Morales (Oscar Isaac) che cerca di mantenere la sua vita in un difficile equilibrio morale in un mondo che di morale sembra avere ben poco. Siamo infatti nel 1981 a New York, in uno dei periodi più turbolenti che la città abbia attraversato (**). Immigrato ispanico, ha rapidamente fatto carriera, sposato Anna (Jessica Chastain), figlia di quello che sembra essere stato un pezzo grosso della mafia italo-americana, e preso la direzione dell'attività di famiglia, commercio di combustibile per riscaldamento.

Lui vuole stare fuori dagli affari sporchi, preferendo contare sulle sue capacità di venditore e un modello di business profittevole, ma le pratiche commerciali di quel ramo non sono pulitissime e bisogna adeguarsi alla concorrenza. La sua azienda subisce una serie di furti, e seguiamo la vicenda di un suo autista, Julian (Elyes Gabel) che viene selvaggiamente picchiato. In più c'è un pubblico ministero (David Oyelowo) che lo ha preso di mira e sta indagando su di lui.

Non sembrerebbe il momento di compiere azione azzardate, ma Abel la pensa diversamente, e punta tutto sull'acquisto di un'area che lo farebbe crescere enormemente. Il problema è che una serie di circostanze spaventa la banca che doveva garantirgli i fondi necessari, facendogli correre il rischio di capottare bruscamente. In pochi giorni Abel deve risolvere una lunga serie di inghippi se non vuole rischiare di fare la fine del topo.

Le atmosfere sono quelle da film sulla mafia, da Il padrino in qua, con l'avvocato di Abel, Andrew (Albert Brooks) che sembra proprio il consigliori di famiglia, e anche con un incontro al ristorante italo-americano (***) di una specie di consiglio capitanato da quello che sembra essere il corrente big boss, Peter (Alessandro Nivola). Però il punto di vista è quello di uno che si trova ai margini di quel sistema e fa di tutto per non venirne coinvolto.

Per gran parte del film sembra esserci una distinzione piuttosto netta tra buoni e cattivi, con Anna che sembra quasi una Lady Macbeth che vorrebbe che il suo uomo si facesse meno scrupoli, e con il PM che sembra attaccare Abel perché non lo distingue dai veri cattivi.

Nel finale, decisamente amaro, scopriamo come di buoni ce ne siano davvero pochi (°), e non abbiano un buon destino che li aspetta.

(*) E in particolare su quella del Dio cristiano cattolico, corrente giansenista.
(**) Da cui il titolo originale, A most violent year. L'idagine è assolutamente secondaria allo sviluppo della storia, e i nostri distributori l'hanno messa nel titolo con l'evidente intenzione di attirare pubblico che si aspetterà qualcosa di diverso e rimarrà così molto deluso dalla pellicola.
(***) Con tanto di Una lacrima sul viso di Bobby Solo in sottofondo.
(°) Difficile non ripensare al primo film di Chandor, Margin call. Qui è come se si dicesse che il sistema non è che si sia corrotto negli ultimi anni, è una cosa più radicata, forse intrinseca al nostro modello di società.

Poirot 3.10: Il ballo della vittoria

Già nel racconto di Agatha Christie l'intrigo risulta eccessivamente complesso e improbabile. Qui si cerca di rendere più credibile almeno la resa del colpevole, aumentando gli indizi a suo sfavore, che però sono comunque inconsistenti, e dovrebbero essere facilmente smontati da un buon avvocato in fase di dibattimento.

Un gruppetto di sei personaggi si reca ad un ballo in maschera, ognuno vestito come una statuina di una preziosa serie di ceramiche di proprietà del riccone della comitiva. Ben due di costoro moriranno. Hercule Poirot (David Suchet), che si trovava casualmente all'evento, ha modo di osservare una serie di dettagli che lo porteranno velocemente alla soluzione.

Dettaglio simpatico, si fa in modo di coinvolgere la BBC, nel senso di servizio radiofonico. Poirot, deriso dalla stampa perché il primo omicidio è avvenuto sotto il suo naso, decide di smascherare il colpevole in diretta radiofonica. Purtroppo per lui, l'attenzione dell'audience va tutta al suo pessimo inglese. Lui ovviamente nega, e accusa Japp (Philip Jackson) e la sua parlata molto popolana di aver causato il problema.

Le statuine dovrebbero rappresentare maschere della Commedia dell'Arte, e dovrebbero essere esemplari di alto pregio. Si sarebbe quindi portati ad assumere la loro origine italiana, sei o settecentesca. Eppure i personaggi rappresentati sono: Arlecchino e Colombina (bene), Punchinello e Punchinella, Pierrot e Pierrette. Gli sdoppiamenti di Pulcinella (Punchinello) e Pierrot non sono riconducibili alla nostra tradizione, ma a varianti molto più tarde e nordiche. Dunque, come minimo, il collezionista è stato truffato.

Poirot 3.9: L'avventura del dolce di Natale

Più fedele del solito al racconto di Agatha Christie, da cui si discosta soprattutto per l'identità di chi subisce il furto (*), che qui diventa nientemeno che il principe Faruq, prima che diventasse re d'Egitto. Non capisco bene il motivo di questa sostituzione, se non per ricambiare, a distanza di decenni (**) la cordiale antipatia di questi per gli inglesi. Oltretutto lo sceneggiatore (Anthony Horowitz) si vede costretto a cambiare la data di ascesa al trono di Faruq, asserendo che ancora diciannovenne era ancora principe, mentre in realtà divenne re a soli sedici anni.

Una misteriosa donna ruba il rubino di Faruq. Hercule Poirot (David Suchet) farebbe volentieri a meno di impicciarsi della storia, preferendo passare il Natale solo soletto (***) mangiandosi cioccolatini di alta pasticceria. La ragione di Stato lo richiama all'ordine. Per pura fortuna si trova nel posto giusto al momento giusto, e la pietra gli finisce in mano da sola. Ma non basta, i perpetratori sono motivati da ragioni politiche, e occorre arrestarli. Supplemento di indagine che il nostro completa con l'aiuto di alcuni ragazzini.

Interessante testimonianza indiretta sul classismo esistente ai tempi in Inghilterra, la ricerca del colpevole viene rallentata dall'impossibilità per una donna della servitù di comunicare quello che sa all'investigatore, in quanto il suo basso rango non le permette di prendersi simili libertà.

(*) Da cui l'altro titolo inglese della storia, The theft of the royal ruby, che ad essere rubato è un regal rubino. Il dolce che per noi è generico, per gli anglofoni è il tradizionale pudding.
(**) Il vero Faruq morì a Roma, al culmine della Dolce Vita, cinquant'anni fa.
(***) Hastings e la Lemon si sono presi vacanze, ognuno per conto proprio.

Once (Una volta)

John Carney questo film lo voleva proprio fare. Così quando chi sarebbe dovuto essere il nome noto da mettere in locandina (Cillian Murphy) si è sfilato dal progetto, lui non si è dato per vinto. Ha convinto Glen Hansard, che aveva composto la colonna sonora assieme a Markéta Irglová, a fare un passettino in più, e a diventare lui il protagonista. Passettino per modo di dire, che il buon Hansard non aveva nessuna intenzione di esporsi in un ruolo così importante, gli era bastata l'apparizione ne The Committments di Alan Parker, roba di quindici anni prima.

Senza la garanzia di Murphy, Carney ha dovuto salutare il budget iniziale, e accontentarsi di una cifra miserrima. Da cui l'atmosfera da simil documentario che permea tutto il racconto, l'assenza di attori professionisti, l'abbondanza di riprese che sembrano rubate e che, a tutti gli effetti, lo sono. Ma se Carney ha consultato il Dogma 95 di von Trier, lo ha fatto con la sola intenzione di trovare escamotage per tagliare i costi.

Un ultima considerazione, la musica qui la fa da padrona. Sconsiglio perciò la visione a chi non piace il genere che pratica Hansard. Per intendersi, i suoi riferimenti sono Leonard Cohen, Van Morrison, Bob Dylan. Con una spruzzatina di Bruce Springsteen.

Lui (Hansard) è stato mollato molti anni prima dalla sua bella. Non si è più ripreso. Vive con suo padre, e i due mandano avanti un negozietto di assistenza per aspirapolveri. Anche se gran parte del tempo lui lo spende come busker per le vie di Dublino. Una sera incontra Lei (Irglová), che rimane colpita dalla triste canzone di amor perduto che lui canta solitario. I due iniziano una titubante relazione di amicizia e cooperazione musicale.

Forse Lui e Lei sarebbero una bella coppia, ma nessuno dei due ci crede abbastanza. Lui ha la sua ex e il sogno di trasferirsi a Londra e fare successo nel mondo della musica. Lei ha un marito che è tornato al paese (Repubblica Ceca) e l'ha lasciata con la responsabilità di badare alla madre e alla figlioletta.

O forse non doveva essere niente di più che un bell'incontro destinato a durare poco. In ogni caso, Lei gli dà la spinta per uscire dalla secca in cui era finito. Lo aiuta a raccogliere i soldi necessari per incidere un demo, mettono assieme un gruppetto di sciagurati, passano un weekend nello studio, e il risultato sembra davvero buono. Anche Lei ottiene qualcosa da questo incontro, decide infatti di ricontattare il marito, e forse riesce a far ripartire quella relazione che sembrava chiusa.

Chissà come va poi a finire. Possiamo solo sperare che l'Oscar per la miglior canzone originale sia un buon auspicio:

Poirot 3.8: Il mistero della cassapanca spagnola

Come giallo è proprio scarso. Bisogna essere molto distratti per non capire chi sia il colpevole, sembra anzi che la sceneggiatura (Anthony Horowitz) miri a farci capire quanto prima chi abbia commesso l'omicidio che è al centro della storia. Mi viene quasi da pensare che si voglia in questo modo distrarre lo spettatore dalla tesi originaria di Agatha Christie (*) che oggi suona delirante, almeno nella nostra cultura. Qualcosina del messaggio originale lo si è mantenuto, ma lo si è silenziato a tal punto che passa praticamente inosservato.

Tra i vari cambiamenti operati, va rimarcato come qui ad essere assente sia Miss Lemon, mentre sulla carta sarebbe il capitano Hastings (Hugh Fraser) ad aver disertato. Il lato comico supplementare è fornito da qualche notazione sulla vanità di Hercule Poirot (David Suchet) che, come Hastings gli fa notare, stona con l'amore inglese per l'understatement. Nel finale, Poirot avrà modo di riuscire ad essere vanesio pure nell'essere modesto. Curiosa mancanza, non si riporta come Poirot pensi a Vera Rossakoff (**) sospirando per l'occasione persa.

Bella la ricostruzione dei duelli formali che ancora si tenevano in Inghilterra all'inizio del secolo scorso. Si seguiva la tradizione tedesca, e infatti sentiamo come si usino parole tedesche nel seguire il protocollo, e i contendenti venivano bardati per ridurre i rischi di ferite mortali. Scopo principale dello scontro era causare danni visibili all'avversario. Un bello sfregio in faccia era considerato un titolo di merito, al punto che non si capiva bene chi fosse il vincitore e chi lo sconfitto.

Abbiamo un marito geloso (Malcolm Sinclair) che dubita della fedeltà della bella moglie (Caroline Langrishe), e ci viene fatto subito capire che ha qualche motivo per esserlo. C'è in particolare un maggiore (Pip Torrens) che le ronza attorno con una certa insistenza. Un amico della coppia (John McEnery) si mette in mezzo, dando consigli a tutti quanti.

Il marito va a casa del pretendente, quando sa bene che lui è altrove e, approfittando della distrazione del maggiordomo (Peter Copley), si nasconde nella cassapanca del titolo. Mal gliene incoglie perché, durante la festicciola che si tiene la sera stessa, qualcuno lo ammazza riuscendo a non essere visto da nessuno.

L'ispettore capo Japp (Philip Jackson) assume che il maggiore abbia compiuto l'omicidio, Poirot dimostra facilmente come questa ipotesi sia campata in aria e mette le cose a posto.

(*) Nel racconto si sostiene che esistono donne che con il loro comportamento spingono uomini tutto sommato incolpevoli a compiere atti riprovevoli. La legge punisce questi ultimi, ma sembra che la Christie ritenga che moralmente sia responsabilità della donna.
(**) Che pure, nella cronologia televisiva, è appena apparsa in Doppio indizio.