Anything else

Ad occhio distratto (e non solo) potrebbe apparire come un film di Woody Allen quasi indistinguibile da svariati suoi altri, precedenti e anche successivi. Il parallelo con Whatever works, ad esempio, funziona molto bene, per esplicitare sia le comunalità sia le differenze.

Il protagonista è un tipico carattere alla Woody Allen (interpretato da Jason Biggs, che non mi ha fatto fare i salti di gioia), scrive battute per standup comedians, ha relazioni tormentate con le donne e con la psicanalisi. Parla molto in camera, come se ci stesse raccontando personalmente un fatto che gli è accaduto. E' in un periodo di stasi. La sua vita non funziona, e rischia di diventare un fallito, non per mancanza di meriti personali, ma per mancanza di fiducia in sé stesso e di persone che gli diano un supporto. Situazione del resto in cui si ficca da solo, mollando la fidanzata per una pazza scatenata, fra l'altro.

La pazza di cui sopra è interpretata da Christina Ricci, ossessionata dal sesso e incapace di avere una relazione stabile. Ha una madre all'altezza della situazione (Stockard Channing - era giovanetta in Grease, per chi se la ricorda), caotica quanto la figlia.

Il vero Woody Allen interpreta un collega del protagonista, invecchiato nella carriera senza arrivare al successo, sia per mancanza di fiducia - ha preferito mantenere il lavoro di insegnante e fare il battutaro solo part time - sia per vicissitudini complicate.

L'aspetto più interessante della vicenda è, a mio avviso, come il vecchio Woody Allen veda nel giovane sé stesso, capisca che sta correndo il rischio di rovinare la sua vita finendo in un vicolo cieco, e riesca a indirizzarlo verso un cambiamento radicale. Quello che probabilmente era mancato a lui, lo riesce a dare a un altro.

Tra i personaggi minori spicca Danny DeVito, nei panni di un esoso agente, un po' alla Broadway Danny Rose. E Diana Krall nel ruolo di sé stessa.

Amici di letto

Come titolo Friends with benefits suona meglio e, avessero chiesto a me, avrei detto di mantenere l'originale. Ma volendo proprio un titolo italiano non ci si può poi lagnare della scelta.

La storia è quella della soliti due che pensano di avere una relazione sessuale "pura" che non implichi la determinazione di una coppia fissa. All'inizio si divertono da pazzi, ma poi scoprono che la faccenda non funziona. Tema che ultimamente sta diventando di prassi comune, vedi anche Amici, amanti e... e Amore a altri rimedi.

Regista, co-sceneggiatore e co-produttore è Will Gluck, che non definirei un genio.

La sua direzione degli attori mi pare che si limiti a lasciar fare a loro. A riprova di ciò si paragoni la recitazione di Mila Kunis qui e non dico ne Il cigno nero ma anche solo in Non mi scaricare. Justin Timberlake ha mostrato di poter far meglio in The social network, e se non bastasse, c'è pure il paragone impietoso che permette Patricia Clarkson, impegnata in un carattere simile in Whatever works.

Sceneggiatura scarsotta. Una New York da cartolina viene contrapposta ad una altrettanto stereotipata Los Angeles. I newyorkesi maleducati, i californiani super-rilassati.

Il film è diviso nettamente in due parti. Un primo tempo più sbarazzino in cui di due piccioncini si divertono allegramente, un secondo tempo in cui si tirano i fili della vicenda. Quale parte sia "migliore" dipende dai gusti, fatto è che i toni sono così diversi che difficilmente a una singola persona finirà per piacere tutto il film. A me, ad esempio, la prima parte m'è sembrata noiosa (OK, i due stanno bene assieme, ho capito) e inutilmente tirata per le lunghe. In compenso la seconda parte, teoricamente più interessante, m'è parsa un po' tirata via.

Invadente la colonna sonora ma che almeno offre il pretesto per l'unica gag del film che mi ha fatto ridere apertamente. Sui titoli di coda, al momento della presentazione del responsabile della sonorizzazione, una mano abbassa (finalmente!) il volume, ma arriva subito un'altra mano per rimettere la musica a palla.

Coraline e la porta magica

In questo caso tecnica realizzativa e immaginario sottostante seguono via parallele.

Il passo uno è affiancato da grafica computerizzata, creando uno strano ibrido che, grazie allo stato dell'arte della CGI, finisce per dare all'autore un grado di libertà fino a pochi anni fa inimmaginabile. Non che sia necessaria questa aggiunta, dato che il passo uno (tecnica in cui in Italia eravamo maestri) basta ancora per realizzare prodotti eccellenti, si veda ad esempio Mary e Max.

Sull'altro lato, la sceneggiatura e regia di Henry Selick si fonde e scontra con la fantasia di Neil Gaiman che ha scritto il libro originale.

Gaiman è un personaggio eclettico, che opera con successo in diversi campi tra cui fumetti, letteratura per l'infanzia e il fantasy. Facile che uno conosca soprattutto una delle svariate vene produttive di questo autore e frequenti poco le altre. Ad esempio a me appassiona il Gaiman scrittore per adulti (nel senso buono del termine) e poco lo conosco negli altri ambiti. Tutto questo per dire che Coraline non l'ho letto, ma ho comunque riconosciuto la sua mano nella storia narrata dal film.

Di Selick, invece, conosco poco (il burtoniano Nightmare before christmas) e, per dirla tutta non è che mi affascini. Curioso comunque vedere come le sue fantasie si mescolino - a volte con qualche inciampo - con quelle di Gaiman.

Presa alla lettera, è la storia di una ragazzina che inciampa in un mondo parallelo dove tutto è come in quello reale, ma in una versione migliorata. Se non fosse per un piccolo dettaglio (niente occhi, ma bottoni per tutti) e per il fatto l'apparente bellezza di questo altro mondo nasconda un abisso di orrore.

Assumendo che il racconto sia fatto seguendo la prospettiva della protagonista, si legge una vicenda ancor più torbida, alla Amabili resti.

Ineludibile anche il riferimento ad Alice, di cui è recente la versione di Tim Burton, visto che Coraline passa da un mondo all'altro per mezzo di un misterioso tunnel e, in un certo senso, anche per il ruolo del gatto.

Nel finale mi è venuto un mente un altro film, un vecchio horror, La mano, in cui un tale perde la sua mano destra in un incidente, ma questa assume una sua vita e diventa una sorta di alter ego senza freni inibitori del suo ex proprietario. Da notare che questo, pur essendo un B-movie, può vantare sceneggiatura e regia di Oliver Stone (non è un omonimo, è che era agli inizi - questo titolo precede di cinque anni l'accoppiata vincente Salvador-Platoon) e ruolo principale affidato a Michael Caine (non uno dei lavori di cui vada più fiero, sospetto).

Hop

Brutto. E così deludente che mi verrebbe voglia di non aggiungere altro.

Eppure, tecnicamente parlando, l'integrazione tra animazioni al computer e riprese dal vivo è così ben fatta da passare inosservata. Il personaggio principale, il giovane coniglio pasquale che è designato suo malgrado a prendere lo scettro paterno è disegnato e animato così bene che sorprende pensare che non sia un pupazzo animato. Il confronto con un altro famoso film con un coniglio protagonista, Chi ha incastrato Roger Rabbit, spiega molto. Ma anche sul lato negativo di questa produzione, la sceneggiatura. Assolutamente insufficente.

Il giovane coniglio vuole cambiare vita, e diventare un famoso batterista, lascia l'isola di Pasqua, dove si trova la sede operativa del coniglio pasquale (una sorta di Fabbrica di cioccolato alla Roald Dahl), per andare a Hoolywood, dove si imbatte in un bamboccione (James Marsden) in cerca del lavoro ideale che fa per lui. Storia molto cucciolosa e sdolicinata che non ha cattivi veri e propri, però è anche (stranamente) blandamente razzista, così che gli pseudo-cattivi sono un pulcino messicano (?) al soldo del coniglio pasquale che sogna di prendere il posto del suo capo, e la sorella adottiva dello scioperato, di evidente origine orientale. Il resto del cast è praticamente tutto WASP. Si vede che il coniglio pasquale ha successo soprattutto in quella fascia di pubblico.

A proposito di produzione, si tratta di un lavoro della Illumination Entertainment, quelli di Despicable me (Cattivissimo me), come si può intuire dal fatto che molti elementi sono dietro alla realizzazione di entrambi i titoli.

L'ho visto in originale, e così ho avuto il piacere di sentirmi le voci del dottor House, meno noto come Hugh Laurie, nei panni del coniglio pasquale senior, e di Russell Brand che parla da dentro il coniglio pasquale junior (e appare in carne e ossa per pochi secondi).

Mio cugino Vincenzo

Commedia d'ambiente giudiziario che rivedo sempre volentieri, grazie soprattutto all'impagabile alchimia che sprigiona la spumeggiante coppia protagonista (Joe Pesci - Marisa Tomei).

Il titolo, My cousin Vinny, lascia intendere che il punto di vista sia quello del personaggio di Ralph Macchio, ma non è vero, se non nella parte iniziale. In realtà la storia è quella di una coppia di italo-americani da Broccolino che vengono scaraventati nel profondo sud perché lui possa difendere il cugino da una accusa di omicidio causata da una serie di bizzarre coincidenze.

C'è l'ostilità tra campagnoli e cittadini, lo spiazzamento di chi si trova ad operare in un contesto completamente diverso dal suo, la paura di non essere all'altezza di una situazione davvero delicata, e molto altro ancora.

Regista e sceneggiatore hanno momenti non particolarmente brillanti, ma hanno ben chiaro che il cuore del film sta nell'incontro-scontro tra i due personaggi principali, al punto che la scena madre (la Tomei viene chiamata come teste della difesa e Pesci chiede al giudice il permesso di poterla trattare come ostile - e lei chiosa, "se pensi che io sia ostile adesso, vedrai stanotte a letto") viene anticipata da una specie di spassosa prova generale giustificata da un rubinetto che perde.

La banda dei babbi natale

La sceneggiatura è poco più di un pretesto per permettere al trio di Aldo, Giovanni e Giacomo di esibirsi nelle loro solite situazioni comiche. Ma qualche risata me l'hanno fatta fare, e direi perciò che l'obiettivo minimo è stato raggiunto. A mio gusto, il linguaggio è a tratti inutilmente volgare, ma pare che per gli standard dei film natalizi italiani quello che si sente qui sia roba da educande. Avrei anche fatto a meno di un paio di maltrattamenti ad animali (evidentemente fasulli, vedi nota successiva sugli effetti speciali).

Che regia sia stata affidata ad altri (in questo caso Paolo Genovese) direi che è un dettaglio secondario. Difficile pensare che i tre protagonisti abbiano lasciato un qualche spazio creativo ad altri. Peccato, perché una mano più ferma in regia, e una sceneggiatura più sostanzosa, permetterebbero di ottenere un risultato migliore. D'altronde c'è da considerare che il risultato al botteghino viene comunque ottenuto e dunque si capisce come mai la produzione non faccia troppe storie.

Però non fa piacere vedere un buon cast al contorno (su tutti Angela Finocchiaro, poi Massimo Popolizio, Giorgio Colangeli e persino Cochi Ponzoni in un microbico cameo) sprecato così.

Lo stesso dicasi per la sceneggiatura, che accumula una serie impressionante di citazioni e temi anche interessanti, che però vengono utilizzati in funzione di gag senza curarsi troppo di svilupparli in modo più approfondito.

Una nota di demerito agli effetti speciali francamente risibili. La finta nevicata e Aldo in versione Neo - Matrix sono pietosi.

Non male la colonna sonora che, oltre a includere canzoni di Mina (questo sì un effetto speciale imbattibile), viene usata per rafforzare una citazione tarantiniana.

Blood Story

O meglio, come suonava in originale, Lasciami entrare / Let me in. Titolo che forse non è stato utilizzato per non creare confusione con l'originale svedese del 2008, Låt den rätte komma in, che è stato per l'appunto distribuito in Italia con quel titolo.

La storia ha un paio di agganci con Wall-e, che ho appena rivisto. Il cubo di Rubik e l'inversione dei ruoli. Anche qui infatti il protagonista maschile (Kodi Smit-McPhee) è più a suo agio con la lettura di Romeo e Giulietta che con la gestione della violenza, in cui invece eccelle la prima ragazzina (Chloë Grace Moretz, apparsa nello stesso anno in Kick-ass e Diario di una schiappa, e che mi sembra destinata ad una rapida crescita nello star system). Differenza fondamentale è che nel primo è lei a smussare i suoi angoli, mentre qui mi pare che sia lui ad adattarsi alle abitudini sanguinarie della compagna.

Dal poco che conosco dell'originale, mi pare che si tratti di un semplice adattamento per il mercato americano, sospenderei perciò qualunque giudizio sulla sceneggiatura e regia di Matt Reeves, se non per dire che gli effetti speciali, che fanno sembrare la Moretz una sorta di Gollum quando entra in modalità vampiresca, a mio parere potevano risparmiarceli. Bella invece la colonna sonora di Michael Giacchino.

Per la sua componente horror, questa storia di sangue mi ha fatto pensare a Orphan. La sua parte romantica, invece, mi ha ricordato Harold and Maude. Entrambi i confronti sono purtroppo a svantaggio di questo film.

Wall-e

Il robottino Wall-e non può non far pensare a quello di Corto circuito di John Badham, i riferimenti a 2001 di Stanley Kubrick sono molteplici ed evidenti. La critica al nostro modello economico è più che esplicita, nonostante ciò si strizza l'occhio a prodotti Apple. Eccetera.

In seconda visione ho avuto modo di fare più caso ad altri contenuti di questa interessante animazione computerizzata di casa Pixar, scritta e diretta da Andrew Stanton.

Non è una novità che i caratteri dei personaggi siano invertiti rispetto al canone classico della commedia romantica, ma fa comunque una certa impressione vedere come lei sia quella che spara ed è capace solo di pensare alla sua "direttiva", e deve imparare a farlo meno, mentre lui sia quello che è capace di elaborare meglio le sue emozioni, e deve insegnare a lei come farlo.

Guida galattica per autostoppisti

C'è poco da dire su questo film. Per chi conosce la trilogia omonima di Douglas Adams (in sei volumi, di cui uno postumo e apocrifo) si tratta di un opera imprescindibile, nonostante che si tratti di una misera briciola rispetto al variegato immaginario dispiegato su carta. Difficilmente gli altri avranno una reazione paragonabile.

Come il titolo lascia capire, The hitchhiker's guide to the galaxy, è roba di fantascienza. Quel tipo di fantascienza inglese autoironica che ha generato film come FAQ about time travel, con una vena di follia riconducibile ai Monty Python.

È per me una seconda visione, e penso che ne seguiranno altre. La prossima volta vorrei che fosse in inglese, dato che come narratore (che in italiano è il pur bravo Nando Gazzolo - o almeno mi pare) vorrei sentirmi Stephen Fry.

Tra le parti minori ricordo Bill Nighy, che interpreta Slartibartfast, e John Malkovich (Humma Kavula).

Payback - La rivincita di Porter

Cosa può spingere un essere senziente a vedere per due volte nella sua vita questo film non particolarmente significativo? Non certo la regia di Brian Helgeland, più a suo agio nei panni di sceneggiatore non originale (come anche qui, del resto, ma meglio in L.A. Confidential), ma nemmeno Mel Gibson nel ruolo principale (un delinquentello tutto muscoli e poco cervello, interpretato abbastanza bene, ma non lo metterei tra i suoi personaggi più significativi) e neanche la pur fascinosa Maria Bello, che fa più da contorno che altro.

Nel mio caso, è stata la scoperta che trattasi di un remake, o meglio, di una nuova riduzione cinematografica di un romanzo già utilizzato come base per Senza un attimo di tregua nei lontani anni sessanta. Approfittando di essermi quasi completamente dimenticato della prima visione, mi sono visto prima la versione di Boorman, poi quella di Helgeland. E devo dire che i due film, che visti singolarmente non sono poi un granché, visti a distanza ravvicinata guadagnano dal confronto.

Non è solo Point Blank a guadagnarci (bella forza, Boorman batte Helgeland anche a occhi chiusi) ma anche Payback. Vedendolo dopo si apprezzano meglio i cambiamenti nella trama, e assume un suo interesse come variazione su di un tema prefissato. Anche se c'é da dire che non è che mi pare particolarmente riuscita. È più intrigante il personaggio interpretato da Lee Marvin, che viene mosso da un presupposto assurdo, così assurdo che alla fine anche lui lo lascia perdere. Quello di Gibson è invece semplicemente un imbecille graziato da una incredibile fortuna e capacità di incassare botte, pallottole e persino martellate.

Piovono polpette

Geniale reinterpetazione del filone catastrofico (alla The day after tomorrow o 2012, tanto per limitarsi a Roland Emmerich) in chiave mangereccia, rappresenta per la Sony Picture Animation il definitivo segnale ai competitori nel campo della produzione di lungometraggi animati che devono fare i conti anche con loro.

Il disegno è lineare, rinunciando alla verosimiglianza puntando invece ad una fumettosità dei personaggi che, a mio gusto, finisce per essere un punto a favore - sarà perché mi ricorda le animazioni del periodo d'oro italiano.

Brillante la storia, basata su un libro illustrato dallo stesso titolo (originale) del film, Cloudy with a chance of meatballs, ben sceneggiata e diretta da Phil Lord e Chris Miller (affiatata coppia che si è fatta le ossa con la televisione), che può essere letta in numerosi diversi modi, trovando il modo di soddisfare il pubblico più giovane e quello più maturo.

Tra le voci originali dei personaggi segnalo Anna Faris, la metereologa coprotagonista, James Caan, padre del protagonista, e persino Mr.T a dar voce ad un bizzarro poliziotto.

Ipotesi di reato

Cast notevole, storia che, a pensarci sopra, è non banale e degna di ragionarci sopra, eppure il risultato non mi ha entusiasmato. Colpa forse della regia (Roger Michell) non particolarmente ispirata?

Titolo italiano inesplicabile e che distoglie l'attenzione dal vero bersaglio del film, che viene reso meglio dal titolo originale, Changing lanes, che oltre a fare riferimento in senso letterale alla causa scatenante dell'azione, un assicuratore (Samuel L. Jackson) e un avvocato (Ben Affleck) cambiando corsia in una trafficata strada newyorkese cozzano tra loro, allude alla necessità per i due protagonisti di dare un deciso cambio alle loro vite.

L'assicuratore è un ex-alcolizzato che segue le riunione degli alcolisti anonimi (il suo referente è un William Hurt che come spesso gli capita ha un ruolo piccolo piccolo) e ha una causa di divorzio in corso da parte della moglie stufa del costante mettersi nei pasticci. L'avvocato è un sempliciotto che non si accorge che il suo studio è una sorta di palestra per squali, pur essendo sposato alla figlia di uno dei titolari (Sydney Pollack).

Le battute fondamentali vengono curiosamente assegnate ai personaggi minori, è dunque Hurt a notare che il problema dell'assicuratore non è l'alcool quanto la tendenza a complicare le situazioni semplici, cosa che gli aveva detto anche la moglie, facendogli capire come sia necessario un suo cambiamento profondo. E un ragazzetto che vorrebbe diventare avvocato, magnificando la professione con parole che forse il personaggio di Affleck avrebbe sottoscritto solo poche ore prima, gli fanno capire quanto in realtà quella visione sia fasulla.

L.A. confidential

Noir in ritardo di cinquant'anni che fa pensare a titoli come Il mistero del falco o Il grande sonno. Diretto, co-scritto (sceneggiatura non originale basata sul romanzo di James Ellroy), e co-prodotto da Curtis Hanson, che brilla sia per l'adattamento cinematografico di una storia decisamente complicata, come si può aspettare chi apprezza il genere, e nella scelta di un cast non banale, considerando anche che i due protagonisti (Russell Crowe e Guy Pearce) erano praticamente ignoti al pubblico americano.

Tutto ruota attorno ad un massacro in un bar, che viene seguito da tre elementi molto diversi del Los Angeles Police Department. Un giovane ambizioso (Pearce) dalle notevoli capacità investigative ma poco abile nel integrarsi con i colleghi; un muscoloso agente poco brillante (Crowe) ma non scemo; e un disilluso Kevin Spacey che usa il suo ruolo per ritagliarsi vantaggi e notorietà.

Nel ruolo della dark lady una Kim Basinger in uno dei suoi migliori ruoli - piccolo, ma che le lascia il modo di piazzare qualche bella scena; e non trascurabile la presenza di Danny DeVito come giornalista scandalistico che finirà per venir travolto dalla macchina che pensava di usare a suo vantaggio.

Vale la pena notare come i personaggi principali, pur tagliati un po' con l'accetta, sempre come richiede il genere, hanno tutti una loro evoluzione nel corso della vicenda che li rende interessanti.

Il petroliere

Scorrerà sangue (There will be blood) è un titolo decisamente più inquietante e dunque più adatto a questa pellicola in cui (quasi) niente e nessuno si salva. È vero che il protagonista assoluto (un ottimo Daniel Day-Lewis) si è calato nel ruolo del petroliere, ma tutto ciò è accidente. Lo vediamo solitario nel lungo prologo silenzioso - in cui domina la perfetta colonna sonora originale di Jonny Greenwood (integrata con classici, tra cui l'intero primo movimento del concerto opera 77 per violino e orchestra di Brahms sui titoli di coda - che invero mi pare fuori luogo ma, potenza di Brahms, va benissimo anche così) - a scavare argento in una miniera, quasi restarci secco, ma trovare il petrolio e la ricchezza.

Diventa dunque petroliere seguendo quella che è la sua stella fissa: il denaro, ottenerne sempre di più. Confesserà poi al (falso) mezzo fratello che incontrerà, che tutti quei soldi gli sarebbero serviti solo per allontanarsi dagli altri uomini, che disprezza. Come dire, una vita sprecata. Una lunga corsa verso l'autodistruzione. Che poi, a ben vedere, sembra una buona descrizione anche del capitalismo di rapina che viene descritto dal testo (dall'emblematico titolo "Oil!") che è stato la base su cui ha lavorato Paul Thomas Anderson (regia, sceneggiatura, coproduzione).

Ma dicevo che Anderson non si limita a costruire un drammatico quadro dell'esistenza del petroliere, bensì introduce alcuni altri personaggi che vengono indagati con un certo dettaglio. In primo luogo il predicatore (Paul Dano) che in teoria sarebbe all'opposto del petroliere, ma in realtà, seguendone lo sviluppo, scopriamo che i due sono molto simili, praticamente sono due gemelli che seguono strade diverse per ottenere lo stesso scopo. Entrambi passano la loro vita fingendo, e solo per pochi secondi mostrano la loro vera natura. Da notare che il predicatore ha un fratello (gemello vien da pensare, visto che è interpretato dallo stesso Dano, ma nessuno nel film fa cenno alla cosa, se trascuriamo una certa perplessità nel petroliere quando vede il predicatore per la prima volta), che però resta appare solo fugacemente all'inizio e torna solo nei discorsi degli altri personaggi. Secondo il petroliere quello era il vero profeta, ma viene da pensare che stia parlando di sé, e alluda al suo (mezzo) fratello che non riuscirà ad incontrare.

Sembra che tutto sia falso in questo film. Il petroliere, oltre ad avere un falso fratello, ha persino un falso figlio, che "adotta" e usa per rendersi più simpatico presso i bifolchi a cui sottrae i terreni. Ma forse costui riuscirà a salvarsi, in cambio dell'udito e di un abbandono da parte di colui che pensava essere il proprio padre.

Creation

Il tema principale di questo film non è tanto la vita e le opere di Charles Darwin quanto l'elaborazione del lutto di una figlia. Più che una biografia siamo dalle parti de La stanza del figlio, Rabbit hole o Amabili resti. Chi si aspettasse un film anticreazionista resterebbe perciò abbastanza deluso o comunque sorpreso di trovarsi di fronte a un prodotto ben diverso. Beninteso, sempre che lo riesca a reperire visto che, per quel che ne so, si tratta di un film che non è disponibile nel mercato italiano, e anche nel resto del mondo è distribuito con una sorprendente parsimonia. Come se il semplice accenno da Darwin mettesse in imbarazzo i distributori.

Un po' di nomi: scritto (sceneggiatura non originale) e diretto da Jon Amiel, solido regista di scuola BBC che ogni tanto gira un qualche titolo holliwoodiano (tipo Sommersby, quella sorta di riadattamento della vicenda dello smemorato di Collegno), interpretato nei ruoli dei coniugi Darwin dai coniugi Paul Bettany e Jennifer Connelly, la figlia morta è la debuttante Martha West. Toby Jones appare come Thomas Huxley (nonno di Aldous, e personaggione che meriterebbe un film solo per lui - qui ha solo pochi secondi ma anche una battuta fondamentale per la trama anticreazionista). Appropriata la colonna sonora di Christopher Young.

Gli amici premono perché Darwin metta su carta le sue osservazioni, ma lui nicchia, prende tempo, afferma che pochi anni di ricerca aggiuntivi sono nulla rispetto ai milioni di anni su cui opera l'evoluzione. Il fatto è che la amata primogenita è morta, e lui se ne sente responsabile. Non avrebbe dovuto lasciarla giocare nelle gelide acque del mare, non avrebbe dovuto parlarle dell'evoluzione, forse non avrebbe nemmeno dovuto sposare la sua amata Emma, cugina di primo grado.

Huxley gli dice che il suo libro ucciderà dio, affermazione che colpisce al cuore Darwin, che si trova ad avere allucinazioni sempre più frequenti, in cui spesso appare la figlia Annie con cui ha discussioni che si fondono con memorie del passato. La soluzione dell'intricata vicenda sarà quella di confidare nella moglie, parlarle apertamente di tutti i suoi dubbi sul suo ruolo paterno (e scoprire che buona parte dei loro problemi erano dovuti a reciproche false assunzioni), e scrivere L'origine delle specie ma lasciare che sia lei la prima a leggerlo e a decidere se pubblicarlo o no.

Il poco spazio lasciato alla diatriba scienza-religione mi pare sia gestito bene. Viene mostrato adeguatamente come le ragioni non stiano tutte da una parte, e che l'imbecillità alligni in entrambi gli schieramenti. L'esigenza di contrapporre i due coniugi Darwin sul tema fede/ragione, al fine di drammatizzare meglio lo scioglimento finale, mi pare abbia portato a calcare troppo la mano su un anticlericalismo di Darwin che, nei fatti, non è reale. E infatti nei titoli di coda si ricorda che è stato seppellito con tutti gli onori nell'abbazia di Westminster.