Un tuffo nel passato

Tre sfigati quarantenni fanno un balzo negli anni ottanta a causa di un idromassaggio difettoso (da cui il titolo originale Hot tube time machine).

Impossibile sostenere che mi aspettassi qualcosa di sostanzioso, dunque. Puntavo ad un film magari scioccarello ma che mi facesse fare quattro risate. La prima parte delle mie aspettative è stata soddisfatta ma la seconda no. Un paio di mezze risate, di cui una non mi ricordo neanche bene in che occasione.

Che aggiungere? Il regista, Steve Pink, è più noto per aver curato la sceneggiatura di Alta fedeltà (ma bella forza, partendo da un romanzo di Nick Hornby è difficile tirare fuori una porcheria). Come regista, almeno qui, non è che brilli. Protagonista John Cusack, che in passato ha fatto cose egregie (era anche in Alta fedeltà, tra l'altro, e non è nemmeno tra le sue cose migliori, secondo me) ma che mi pare che ultimamente sia messo maluccio. Una particina anche per Chevy Chase. Ah, oltre ai tre amici quarantenni c'è anche un incongruo ventenne (Clark Duke) tirato dentro giusto per cercare di attirare anche pubblico più giovane.

Dalla storia, come si può immaginare dal rapido accenno dato sopra, non ci si può aspettare molto. Una via di mezzo tra una parodia dei film alla Porky e la rimembranza nostalgica del buon tempo andato. Nonostante che gli anni '80 non siano esattamente il periodo migliore da ricordare con nostalgia.

Bizzarro (oltre che essere inesplicabile e insensato) il fatto che i quarantenni vengano visti da tutti (tranne noi e loro) come erano venti anni prima.

Molte citazioni, sparate anche un po' a vanvera. Una delle quali, forse involontaria riguarda Se mi lasci ti cancello: Cusack in piena crisi, sdraiato sul ghiaccio guarda le stelle, una pazzerella (Lizzy Caplan) gli si stende di fianco.

Shutter island

Dovrò rivederlo - tra qualche anno, probabilmente - per decidere cosa ne penso davvero di questo film. Ben girato da Martin Scorsese e ben interpretato da un gran cast, con in evidenza Leonardo DiCaprio, in un ruolo decisamente complicato, Ben Kingsley, antagonista di gran classe e persino Max von Sydow in un ruolo minore ma efficace. Un po' sacrificato Mark Ruffalo in un ruolo che gli dà molti minuti ma poco spazio.

La sceneggiatura mi è sembrata a tratti poco convincente. Tante le questioni che vengono aperte e lasciate lì, a galleggiare a mezz'aria. Forse vale la pena di leggere il libro da cui è tratta per approfondire. C'è da dire che si tratta di un film di produzione, più che di autore. Ovvero Scorsese è stato cercato per dirigere, e non viceversa. Questo può spiegare una certa distanza da quello che è il suo tipico cinema.

Nota di merito per la colonna sonora, mentre non ho capito se il montaggio è intenzionalmente disturbante - con lo scopo di mantenere lo spettatore sulle spine - o si tratta di uno spiacevole accidente.

La sottile linea rossa

Viene generalmente catalogato come film di guerra, ma penso che dovrebbe essere accuratamente evitato da chi è interessato in modo specifico a quel genere. A mio parere Terrence Malick (regia e sceneggiatura non originale) avrebbe fatto meglio a togliere del tutto le scene belliche vere e proprie, lasciando solo il resto - riducendo il film ad una durata di "solo" un paio d'ore.

Del resto la vicenda bellica in sé non è particolarmente interessante: si seguono le gesta di una compagnia USA nella battaglia di Guadalcanal. Il solito ufficiale demente (un notevole Nick Nolte) mette in atto una strategia pressoché suicida con lo scopo di pavoneggiarsi con un brillante risultato. Un subalterno (Elias Koteas) si rifiuta di mandare al massacro i suoi uomini, e per questo verrà sostituito da un altro capitano (John Cusack) che, con un colpo di fortuna inenarrabile, riesce a far fuori un numero spaventoso di giapponesi. A questo essenziale canovaccio si sovrappongono storie minori intepretate tutte da attori di ottimo livello, tanto per non far nomi Sean Penn, Adrien Brody, Jared Leto, Ben Chaplin. Apparizioni anche per John Travolta e George Clooney.

In realtà, come dicevo, la parte militare - con botti e ammazzamenti - potrebbe benissimo essere messa da parte, dato che il vero tema del film mi pare la contrapposizione tra la natura (e i nativi che vivono a contatto di essa) e gli umani "civilizzati". La camera segue spesso i paesaggi e gli animali, che sembrano osservare perplessi quei tipi bizzarri che, non contenti di quanto sia già normalmente complicato stare al mondo, cercano di rendere la breve permanenza ancor più difficile. Alla parte umana (del primo mondo) è dato spazio soprattutto per mezzo dei pensieri di molti dei personaggi (che magicamente possiamo ascoltare).

Superlativa la colonna sonora di Hans Zimmer.

Paul

Ottimo film per passare una serata allegra, a patto di capire di cosa si sta parlando.

La storia è quella di un paio di inglesi (interpretati dagli autori della sceneggiatura, Simon Pegg e Nick Frost) che vanno in vacanza negli USA con lo scopo di andare alla Comic Con di San Diego e da lì partire per un tour delle località classiche dell'immaginario ufologo, inclusa l'area 51.

Tra le particolarità dei due protagonisti c'è la conoscenza del linguaggio Klingon (una delle razze umanoidi di Star Trek - nota che Pegg interpreta Scotty nel reboot), l'essere identificati immediatamente come nerd inglesi, e scambiati per coppia gay.

Inoltre i due lavorano in coppia: uno scrive romanzi di fantascienza, l'altro ne cura la grafica. Si portano dietro il lavoro corrente che viene apprezzato da tutti per la copertina che mostra un'aliena dal triplice seno.

La loro goffaggine tende a metterli nei pasticci senza aiuti aggiuntivi, ma l'arrivo di Paul (che poi è il mitico alieno che il complottismo ufologo vuole che sia precipitato sulla Terra e sia rimasto - vivo o morto - nell'area 51) complica enormemente le cose. Nel doppiaggio italiano si perde il fatto che la voce originale è quella di Seth Rogen, lo stesso che fa la mantide in Kung fu panda (ma pazienza).

Paul sta scappando perché il governo americano lo vorrebbe fare a fette, per poter utilizzare le sue cellule staminali - cosa che evidentemente non gli garba più di tanto. Essendo un disastro ai comandi di un qualunque mezzo di trasporto chiede aiuto ai due. Nella fuga viene coinvolta anche Ruth (Kristen Wiig), figlia di un fondamentalista cattolico che vede Paul ed entra in crisi religiosa (risolta in modo drastico da Paul, dopodiché la fanciulla, dovendo dare un nome finto, sceglierà quello di Charlotte Darwin).

L'azione prosegue frenetica passando anche per una roadhouse, proprio mentre una band locale interpreta il motivetto del bar di Star Wars in chiave country, per arrivare alla resa dei conti finale.

Divertenti i cameo di Steven Spielberg e Sigourney Weaver. Innumerevoli le citazioni di altri film, tra cui (almeno) una completamente fuori contesto. Il superagente che insegue Paul si chiama Zoil, e nel finale scopriamo che di nome fa Lorenzo. E il titolo originale de L'olio di Lorenzo è Lorenzo's oil.

Amore e altri rimedi

Love and other drugs - dunque Amore e altri farmaci sarebbe forse stato un titolo migliore, anche se si sarebbe comunque persa l'ambiguità originaria.

Edward Zwick (regia, sceneggiatura, produzione) affronta, dopo il traffico clandestino di diamanti visto in Blood diamond, un nuovo un tema spinoso: la sanità americana. Anche il modo di trattare il tema principale (se tale davvero è) rimane lo stesso, lo si mescola a numerosi altri, mirando forse a conquistare pubblici diversi.

In entrambi i casi il risultato non mi è sembrato eccezionale. Si ride un po', ci si commuove un po', ci si indigna un po'. Una sfoltita alla sceneggiatura e più decisione nella scelta del bersaglio avrebbe fatto bene al film.

Protagonista un giovinastro (Jake Gyllenhaal che mi pare abbia preso a modello Jim Carrey per questa interpretazione) che, a fine anni novanta, sembra aver deciso di rovinare la propria vita, ma almeno lo fa divertendosi. Piuttosto casualmente finisce per fare l'informatore farmaceutico per conto del Pfizer - fatto che ci dà modo di vedere una presentazione (che temo sia abbastanza realistica) per venditori, con tanto di coreografia basata sulla macarena (nota sulla colonna sonora, è del tipo collezione di canzoni d'epoca, modello nostalgia). Si procede dunque sullo stile della commedia adolescenziale, con tanto di fratello minore del protagonista, informatico d'ordinanza, nerd, grassoccio, incapace di relazionarsi, arricchitosi enormemente e incapace di usare i soldi accumulati (Josh Gad, efficace nella parte).

Il tutto finché non entra in scena lei (una splendida Anne Hathaway) che rifiuta il protagonista (anche lei ha una serie di problemi emotivi, e un grosso problema fisico - un precoce morbo di Parkinson in rapido peggioramento) e finisce per attirare in questo modo la sua attenzione. Si devia dunque sui binari del dramma sentimentale, anche se la sottotrama leggera non viene abbandonata.

Nuova linfa alla sezione su Big Pharma è fornita anche da un convegno a Chicago - e da una parallela un-convention dove seguiamo malati di Parkinson e familiari scherzare (con le lacrime agli occhi) sulla loro terribile malattia.

Tanta roba. E si finisce per trattare con superficialità parti che avrebbero potuto essere affrontate con maggior attenzione.

The hunter - il cacciatore

Titolo non esattamente geniale, visto che esisteranno almeno mille film con un titolo uguale o simile. Per chiarire, però, dovrebbe bastare la specificazione che si tratta di un cacciatore iraniano, scritto, diretto e interpretato da Rafi Pitts (che evidentemente nulla ha a che spartire con Brad Pitt).

A ripensarci dopo un po', non è malaccio, ma devo ammettere che non era questo il mio pensiero al momento della visione.

Un po' come Requiem for a dream, l'azione è divisa in tre parti, e in un certo senso a qui si narra il requiem per un sogno. Solo che qui il tempo in cui le cose vanno bene (sia pur relativamente) non è nemmeno narrato, viene lasciato sottinteso nella foto su cui scorrono i titoli di testa, che solo alla fine di un lungo peregrinare per i suoi dettagli ci viene mostrata nella sua interezza, e scopriamo che rappresenta un gruppo di pasdaran che festeggiano la presa del potere.

Immagino, dunque, che un tema sia il confronto tra le aspettative che si erano fatti gli iraniani al momento della cacciata dello scià con la situazione corrente.

Nella prima parte, comunque, vediamo il protagonista costretto a lavorare nel turno di notte di una fabbrica. Chiede di poter lavorare di giorno, per poter stare con moglie e figlia, ma la cosa gli viene negata per i suoi precedenti (è stato in galera, e non ci si dice il perché). Lo vediamo anche andare solitario a caccia.

Parte seconda, perde tutto quello che ha, ovvero moglie e figlia, forse per colpa della polizia. La figlia per un certo tempo risulta semplicemente scomparsa, e lo seguiamo nella sua vana ricerca in una metropoli iraniana. Poi il cadavere viene trovato, e lui esaurisce la sua speranza.

Parte terza, ammazza un paio di poliziotti e fugge. Nel fuggire capita nella strana situazione in cui si trova isolato in un bosco con due poliziotti che tecnicamente l'hanno arrestato, ma non riescono più a tornare alla civiltà. Si innesca un gioco delle parti tra i poliziotti, che poi include anche il prigioniero, con un finale a sorpresa ma, mi pare, poco soddisfacente.

Così narrata la storia sembra abbastanza interessante (fra l'altro ho lasciato da parte molti elementi che la arricchiscono ulteriormente), fatto è che la narrazione cinematografica non rende, soprattutto a causa di lunghe pause e silenzi, e rischia di far innervosire il pubblico meno paziente.

Requiem for a dream

A me il primo lungometraggio di Darren Aronofsky, Pi, è piaciuto molto, sia per il non banale tema trattato sia per lo stile registico che lasciava presagire un buon futuro per il giovin regista di Broccolino.

Curioso che l'abbia perso di vista, e mi sia ricominciato a mettere in pari con la sua opera prima con Il cigno nero (tra l'altro devo ammettere che ormai m'ero completamente dimenticato che il regista fosse quello di Pi) e ora con Requiem for a dream. Leggendo qualcosetta in giro, ho scoperto su imdb che in Italia è passato direttamente in televisione, due anni e mezzo dopo il suo passaggio a Cannes. Da cui una possibile spiegazione per la mia sbadataggine.

Altro fatto curioso, che mi sia capitato di vedere questo film estremaente cupo, privo di speranze subito dopo I guardiani del destino. Opere completamente diverse ma che condividono il luogo di origine dei protagonisti, entrambi di Brooklin. In un certo senso è una buona accoppiata, finendo uno per bilanciare l'altro.

C'è da dire che Aronofsky è un bel gradino sopra Nolfi. D'accordo che per guardare questo film bisogna arrivare particolarmente allegri, per non farsi prendere da uno scoraggiamento micidiale, ma la varietà di toni utilizzati, e tutti con gran maestria, fanno sembrare il film di Nolfi poca roba.

Storia, dicevo, estremamente drammatica. Incentrata su madre e figlio. Lei (una bravissima Ellen Burstyn) vive sola guardando la tv, mangiando schifezze, e scambiando quattro rare chiacchiere con le vicine. Lui (Jared Leto) si droga. Nella scena iniziale frega la televisione alla madre (per l'ennesima volta) per darla in pegno e avere qualche soldo da bruciare alla svelta. Altri personaggi sono l'amico di colore e la donna del cuore (Jennifer Connelly), a nessuno dei quali dispiace un po' di cocaina (o altro, se capita). Inizialmente le cose sembra che vadano anche in un certo senso bene, in una curiosa versione della realizzazione dell'american dream, ma ben presto le cose prendono una piega disastrosa.

Dei quattro personaggi principali, alla fine, quello che se la cava meglio finisce ai lavori forzati.

Colonna sonora memorabile con il Kronos Quartet che fa la parte del leone.

I guardiani del destino

Il titolo italiano è eccessivamente pomposo e rischia di creare aspettative che non saranno confermate dalla visione del film. Meglio dunque l'originale The adjustment bureau che illustra immediatamente un aspetto bizzarramente burocratico (per l'appunto) della vicenda narrata.

In teoria la sceneggiatura sarebbe tratta da un racconto breve di Philip K. Dick, che però era in realtà completamente diverso, e più giocato su registri umoristici (Adjustment team). In pratica l'idea originale viene adattata all'immaginario di George Nolfi (sceneggiatura, regia, produzione) da cui emerge Isaac Asimov (la psicostoria della Fondazione), Matrix e magari anche un po' di Inception. Per non parlare della altre trasposizioni cinematografiche di lavori di Dick (Minority report, ad esempio). Nonostante tutto ciò, il risultato m'è sembrato sufficientemente originale e godibile, anche grazie al fatto che i fatti vengono narrati secondo l'angolazione inconsueta del romanticismo che non è solitamente molto frequentato nel genere fantascientifico.

Matt Damon sarebbe sul punto di diventare senatore dello Stato di New York, ma viene sonoramente battuto a causa di un intempestivo scoop del New York Post (noto giornale scandalistico del posto). Mentre medita nei bagni del Waldorf sul discorso da dare dopo la sconfitta, incontra Emily Blunt (che lì si nascondeva per sfuggire alla security) e lei gli dà lo stimolo per rivoluzionarlo e fare un colloquio diverso dal solito.

La commedia romantica è già impostata, a questo punto: sappiamo già che ci saranno degli inghippi, ma che alla fine verranno risolti. Quello che non ci aspetteremmo è che l'inghippo è rappresentato da una entità sovrumana (ma comicamente burocratizzata - da notare tra gli addetti una particina per Terence Stamp) che cerca di indirizzare l'umanità seguendo un misterioso piano. Naturalmente il piano non prevede che i due piccioncini stiano assieme. Naturalmente Damon non accetta ciò (e neanche lei, ma senza sbattersi altrettanto), ci mette alcuni anni (!), ma alla fine si arriva alla resa dei conti.

Il tema abbastanza paranoico di una misteriosa entità che ci scompagina l'esistenza facendo accadere fatti improbabili (paranoia che a molti, prima o poi, capita di sperimentare) viene mitigato dal tema contrapposto del singolo che, costi quel che costi, si batte per far valere le sue scelte.

Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba

Se in Lolita l'approccio da commedia per narrare una tragedia è stato preso da Stanley Kubrick dall'opera letteraria originale, qui invece è tutta farina del suo sacco.

E in effetti un approccio comico per una storia da fine del mondo ha i suoi aspetti positivi, tenendo conto anche del tempo in cui uscì il film, in piena guerra fredda, quando l'evenienza di una totale catastrofe nucleare non era così remota come può sembrare adesso.

Impressionante l'interpretazione di Peter Sellers di tre tra i personaggi principali del film (avrebbe dovuto fare anche il pilota Kong del B52).

Lolita

Trasposizione che salva lo spirito del romanzo originario pur apportando dei cambiamenti non indifferenti, sia per ragioni di tempo (la storia del protagonista viene semplificata), sia per ragioni di censura (molto dell'erotismo della vicenda viene solo accennato, o completamente eliminato), sia per sfruttare appieno le caratteristiche degli interpreti. La sceneggiatura mantiene la firma del solo Vladimir Nabokov ma si sa per certo che Stanley Kubrick, oltre alla regia, ne ha curato le molte variazioni, in accordo con l'autore del libro.

La drammatica storia è quella di un professore di letteratura europeo (intepretato da James Mason) che giunge negli USA, prende una cotta per una ragazzina (poco più di una bimba) e piega il resto della sua vita a questa passione, giungendo ad un tragico epilogo. Una tragedia, dunque, ma sia nel libro che nel film la si riesce ad affrontare usando toni lievi da commedia. Nel film l'alleggerimento è operato anche grazie all'espansione del ruolo dell'antagonista, affidato ad un Peter Sellers decisamente in forma.

Il remake del 1997 di Adrian Lyne (Jeremy Irons nei panni del professore) punta invece tutto sull'aspetto della tragedia, e mi pare che dimostri come questo sia un errore.

Interessante la struttura narrativa voluta da Kubrick, dove nella prima scena (in cui, fra l'altro, Sellers cita scherzosamente Spartacus, il precedente lavoro dello regista) si dà via il finale (il professore uccide il suo antagonista) creando quindi un parallelo con Quarto potere e spostando dunque l'attenzione sul personaggio dell'antagonista.

Con gli occhi dell'assassino

Guillermo del Toro torna a produrre un film spagnolo, dopo Il labirinto del fauno, qui però la regia la lascia a Guillem Morales, che si dimostra all'altezza del compito.

Come spesso accade, il titolo italiano è privo di senso - l'originale è Los ojos de Julia, dove Julia è la protagonista (Belén Rueda) e i suoi occhi, che perdono la vista, sono al centro dell'azione. L'assassino ha i suoi problemi, ma non nell'ambito della vista. Per lo meno non della sua.

Film di un genere, thriller su toni horror con omicida psicolabile, che non mi attizza particolarmente. Ma a chi è interessato all'articolo, quelle che a me sono sembrate debolezze risulteranno piuttosto come tratti caratteristi, in cui probabilmente ci si ritroverà con piacere.

Due sorelle gemelle, una muore subito, e secondo la polizia si tratta di un semplice suicidio. Ma noi, aiutati dal prologo, sappiamo che la cosa è più complicata, e pure la sorella superstite ha forti dubbi. Al tema del gemello (appena accennato, invero) si aggiunge quello della cecità - la prima sorella era sul punto di perdere completamente la vista per una malattia degenerativa, e la seconda la sta seguendo a ruota. Nonostante la sua situazione, Julia si mette a indagare sulla morte della sorella, attirandosi le attenzioni dell'assassino.

Piacevoli alcune trovate, come quella di non farci vedere in faccia le persone quando la protagonista non vede, in modo da farci parzialmente entrare nella sua soggettiva.

London boulevard

Estremamente godibile la colonna sonora incongruamente sfasata di una trentina d'anni rispetto all'azione; storia confusa e pasticciata che mi ha fatto appisolare nella parte centrale; buono il cast, anche se in fin dei conti l'azione si affida quasi completamente alla performance di Colin Farrell. Divertente la partecipazione di David Thewlis nel ruolo di un fricchettone stile anni 70.

La storia comincia come una tipica gangster story, Farrell viene rilasciato dalla galera e portato a casa da un antico sodale (Ben Chaplin). Non vuole più tornare dietro le sbarre e il consiglio di Chaplin (non farsi beccare) non gli pare sufficiente. Preferirebbe evitare del tutto la carriera criminale.

Fatto strano, il mega-boss (Ray Winstone) vuole invece che diventi un pezzo grosso dell'organizzazione. Ma Farrell s'è preso una cotta per Keira Knightley, attrice in crisi di produttività, e preferirebbe lei a lui.

Finale tragico con gran spargimento di sangue.

Il riferimento nel titolo a Viale del tramonto (Sunset boulevard) m'è parso fuori luogo. OK, c'è una attrice che non lavora e una situazione romantica che si crea tra lei e un tipo poco affidabile, ma la somiglianza finisce qui, lo sviluppo è completamente diverso e, quel che è peggio per la pellicola in oggetto, poco chiaro. Il lato romantico è appena abbozzato, una serie di vicende minori complicano inutilmente la trama senza darle uno spessore, e la parte di azione risulta addormentata.

Red

Tratto da un fumetto, di cui mantiene la (mancanza di) profondità dei personaggi, è basato sull'idea di coniugare azione, umorismo, e persino un pizzico di romanticismo.

Regge grazie ad un cast stellare, e solo fino ad un certo punto. Un taglio di una mezz'oretta gli avrebbe giovato. Nella seconda parte il film si siede, riprendendo un po' quota solo nel finale (che pure è scontato, ma fa parte del gioco).

La non eccelsa regia è di Robert Schwentke, di cui ho visto il terribile Un amore all'improvviso (in originale The time traveler's wife) ma ho mancato quello che dovrebbe essere il pezzo migliore della sua carriera, Flightplan - Mistero in volo, prima o poi rimedierò.

La storia è insolitamente complessa, disperdendosi in mille rivoli, ma in pratica si risolve in una storia d'amore tardiva tra un agente CIA in pensione (RED starebbe appunto per Retired Extremely Dangerous - Pensionato Estremamente Pericoloso) e la sua referente all'INPS americano, con complotto politico-criminale annesso a giustificare le due ore di pellicola.

Protagonista Bruce Willis, ruoli di supporto per gente del calibro di Morgan Freeman, John Malkovich, Helen Mirren, Karl Urban (il dottor McCoy del reboot di Star Trek) e persino una leggenda vivente come Ernest Borgnine.

Zack & Miri - Amore a... primo sesso

Come spesso gli accade, anche in questo film Kevin Smith (sceneggiatura e regia) non va giù per il sottile. Tanto per dirne una il titolo originale è Zack and Miri make a porno, il che negli USA ne ha reso problematica anche la pubblicità, dato che lì sono piuttosto bacchettoni. I nostri distributori, invece, ci hanno pensato sopra un paio d'anni e poi gli hanno direttamente affibbiato un titolo blandamente insensato.

Se non preoccupa l'uso di termini espliciti, e alcune scene di nudo integrale (in realtà abbastanza deprimenti, e pensate come tali) si tratta di una commedia divertente, a tratti decisamente comica, che offre pure qualche spazio alla riflessione.

La storia si impernia su una coppia di amici dai tempi del liceo, Elisabeth Banks (Moglie galeotta in The next three days) e Seth Rogen (dà la sua voce - in originale - a Mantide in Kung fu panda), che vivono assieme una esistenza molto precaria a Pittsburgh (curioso, la stessa città dove è stato girato anche The next three days).

Noto per inciso che dovrebbero essere coetanei, ma Rogen è in realtà molto più giovane della Banks. Però porta molto male i suoi anni, e dunque la coppia risulta credibile.

Il tracollo finale delle loro finanze, e alcune bizzarre coincidenze, fa venire a Rogen l'idea di puntare sulla produzione di un film porno per risollevare la situazione (e non intendevo fare una allusione impropria). La Banks accetta ma mettendo bene in chiaro che si tratta solo di sesso. Evidentemente a questo punto non può che accadere l'irreparabile: la commedia da sboccata vira in romantica.

Soliti fraintendimenti, i due non si capiscono - nonostante siano amici intimi da un decennio o più - e c'è una rottura. Ben girata, a mio avviso, la scena in cui lei dice una cosa, ma ne intende un'altra, pensando che lui capisca, mentre lui semplicemente non capisce. Sono pochi secondi, nessuna parola, solo sguardi, ma spiegano meglio di un trattato quello che è il problema della comunicazione tra uomo e donna.

Lieto fine d'ordinanza.

Piacevole il cast di personaggi bizzarri, tipicamente in stile Kevin Smith, tra cui il solito Jason Mewes.

Four lions

Il riferimento visto dal bibiofilo a La signora omicidi c'è, e aggiunge gusto a questa visione. Vedersi prima il film con Guinness (in alternativa, non consigliata, ci si può accontentare anche del moscio remake dei fratelli Coen, che ha il pregio di aver mantenuto il titolo originale in italiano: Ladykillers) è una buona idea, anche se qui si segue una via completamente diversa.

Non si tratta solo di una dark comedy molto inglese. Christopher Morris, che ha scritto e diretto il lavoro, è stato molto abile a trasformare quello che poteva essere un film controverso, di quelli di cui tutti parlano ma nessuno va a vedere, in una commedia che sembra fin troppo leggera.

Per l'appunto l'uso del riferimento a La signora omicidi mi pare che vada inquadrato nella strategia di distrarre lo spettatore, facendolo ridere, per fare in modo che il tema principale passi sullo sfondo, in punta di piedi.

Un altro elemento di distrazione e l'uso di modalità tipiche del mockumentary, veniamo inondati da (finto) materiale d'archivio e (altrettanto finte) riprese amatoriali. La camera a mano, le riprese ballerine, le telecamere nascoste a dire il vero a me annoiano, però ammetto che sono funzionali alla narrazione, e probabilmente anche al budget limitato.

A proposito di soldi, vale la pena di notare che Morris abbia fatto una notevole fatica a convincere i produttori a sganciare il grano, proprio per la difficoltà del tema trattato. Alla fine c'è riuscito usando una tecnica che sta diventando comune: il supporto diffuso di tanti piccoli "produttori" che credono nel film rischiando ognuno una piccola somma (poche centinaia, se non decine, di euro o - in questo caso - sterline). Per quanto ne so, in questo modo non si raccoglie molto, tra il 10 e il 20% della somma necessaria, ma lo scopo reale è quello di convincere i "veri" produttori che c'è un bacino sufficientemente ampio interessato al film, e quindi convincerli a fare l'investimento più cospicuo.

Chi sono i martiri islamici dilettanti che, soprattutto in Gran Bretagna ma un po' dappertutto nel mondo, ogni tanto finiscono sul giornale? E cosa li spinge ad agire così? Queste le domande spinose che sono dietro alla sceneggiatura. Come dicevo, il tema è trattato nel modo più lieve possibile, e si finisce solo per mostrare solo l'idiozia e, in fin dei conti, la reale mancanza di motivazioni di costoro.

La star del film è Kayvan Novak (piccolo ruolo in Syriana), il più normale della combriccola: ha una bella famigliola e il desiderio inesplicabile di morire suicida per l'Islam. Non c'è tempo di approfondire le sue motivazioni, e non capiamo come mai la moglie possa accettare che il marito abbia questo hobby (visto quanto è stato difficile fare questo film, mi immagino che una sceneggiatura che indaghi in quella direzione sia destinata ad ammuffire in un cassetto), ma lo seguiamo nella sua catastrofica formazione al terrorismo e nella creazione di una improbabile cellula terroristica.

C'è da notare che l'imbecillità non è limitata ai protagonisti, ma è il tratto caratteristico di gran parte dei personaggi. La polizia, ad esempio, arresta il fratello sbagliato (un mite tradizionalista a cui viene contestato il possesso di una pistola ad acqua), abbatte un maratoneta e un ostaggio (respingendo ogni responsabilità), si mostra, nel complesso, inutile o dannosa.

Dietro la commedia, dunque, c'è una grande amarezza. La risposta alle domande poste dal film sembra che sia che non c'è niente da fare: siamo una torma di sciocchi destinati all'autodistruzione.

La signora omicidi

Il titolo italiano grida vendetta. Già, perché The ladykillers vuol dire qualcosa di simile a Gli ammazzasignore, e non viceversa. Il dettaglio non è secondario, perché la prospettiva del film viene completamente ribaltata. Come dice nel finale il professor Marcus (interpretato da uno strepitoso Alec Guinness che qui sembra fare il verso al professor Moriarty di Sherlock Holmes), ormai sull'orlo della follia, la signora rappresenta il lato umano, che lui, nel suo ingegnoso piano, aveva trascurato.

Un passo indietro. La signora è una arzilla vecchietta un po' svampita che vive sola in una casa isolata (situazione simile ad Arsenico e vecchi merletti), che sembra ideale al perfido professore come covo per una geniale rapina. Vi si installa come pensionante, e si riunisce con i suoi accoliti (tra cui un giovane Peter Sellers e un Herbert Lom più sicuro di sé - i due diventeranno una coppia comica tempo dopo, con la Pantera rosa) fingendo di provare musica da camera. La rapina viene compiuta usando la padrona di casa come mezzo per far sparire i soldi sotto gli occhi della polizia. Lei non si accorge di niente, finché, per un fatal incidente, non vede parte del bottino. C'è solo una soluzione: eliminarla. E qui si spiega il titolo originale. Questi farabutti pronti a tutto, capaci di fregarsi, e persino uccidersi, a vicenda sono del tutto incapaci ad ammazzare una innocua vecchietta. Probabilmente proprio perché basterebbe un grissino per farla a pezzi.

L'idea di fondo, a ben vedere, è la stessa di Rapina a mano armata di Kubrick (che è dell'anno dopo): un piano che sembra perfetto fallisce, perché viene trascurato il fattore umano. Qui si interpreta la vicenda con i toni della commedia, là come tragedia.

La pellicola ha più di mezzo secolo e non è invecchiata benissimo, nonostante la buona regia (Alexander Mackendrick, a me sconosciuto), sia per motivi tecnici sia per alcuni dettagli della storia, che ormai risultano troppo distanti ai nostri occhi. Il remake dei fratelli Coen, però, non riesce a fare un buon servizio alla storia.

Il rito

Buona la prima parte, che affronta il tema in modo non convenzionale. Purtroppo nella seconda parte si finisce per seguire i binari del genere, giungendo ad un finale scontato.

Peccato perché gli ingredienti per un risultato migliore c'erano tutti. Bravo Mikael Håfström alla regia, molto bravo Anthony Hopkins protagonista di fatto (anche se in realtà il ruolo principale è di Colin O'Donoghue), piacevole la colonna sonora di Alex Heffes. Piccoli ruoli per Rutger Hauer, Toby Jones e Maria Grazia Cucinotta.

La storia, almeno inizialmente, è non banale. Un ragazzetto (O'Donoguhe) ha la spiacevole scelta tra diventare becchino o intraprendere la carriera sacerdotale. Sceglie la seconda, con l'idea di usare la chiesa cattolica per pagargli gli studi, e poi cambiare idea. Al momento di lasciare la tonaca, un drammatico incidente gli fa amministrare l'estrema unzione ad una povera disgraziata, e lo dubitare del suo non aver fede. Ci si mette anche il prete che lo segue (Jones), che lo spinge ad andare a Roma a fare un corso per esorcista - in pratica minacciandolo di fargli pagare i costi dell'educazione.

Insomma, abbiamo un esorcista in formazione, con una buona formazione psicologica e molto scettico. Giunto a Roma, fa qualche lezione in Vaticano ma soprattutto viene mandato a seguire un esperto, per quanto poco ortodosso, esorcista (Hopkins). Interessante, fino a questo punto, la contrapposizione tra i due punti di vista, religioso e scientifico, sulla materia.

I casi di possessione diabolica iniziano a fioccare in modo decisamente sospetto. Anche nel corso che il nostro aspirante esorcista segue in Vaticano si sottolinea come solo pochi casi, tra i molti segnalati, sono considerati degni di essere approfonditi. Qui pare che siano tutti indemoniati. Fortunatamente, almeno per un po', Hopkins mantiene un tono lontano dallo stereotipo dei film del genere. Però il caso principale drammaticamente si risolve con la morte dell'indemoniata, e qui il film precipita. Hopkins si demoralizza per il suo fallimento, a O'Donoghue muore il padre (Hauer) e inizia ad avere visioni. E il film sceglie di schierarsi per il lato religioso, con tanti saluti alla spiegazione psicologica.

Avrei preferito una soluzione con i due approcci che si scoprivano non contrapposti ma complementari, e lasciassero semmai allo spettatore libertà di valutazione.

The Italian job

Teoricamente si tratta del remake di Un colpo all'italiana, in pratica ha poco o niente a cui spartire con lui, se non le tre Mini che vengono utilizzate in entrambe le produzioni per compiere il colpo.

A dire il vero anche il protagonista è in entrambi i casi un personaggio che si fa chiamare Charlie Croker, ma sono connotati in modo completamente diverso, e qui, a coprire il ruolo che era di Michael Caine c'è Mark Walhberg (ah ah ah). Altri nomi notevoli nel cast sono Charlize Theron (poco rilevante), Donald Sutherland (dura poco), Jason Statham (in pratica il personaggio è lo stesso di Transporter) e Edward Norton (nel ruolo del supercattivo).

Anche qui c'è un genio del computer, ma meno divertente di quanto fosse Benny Hill, tratteggiato come il solito nerd (interpretato Seth Green) con la peculiarità che crede di aver inventato Napster e che Sean Parker gli abbia rubato l'idea (evidentemente una sciocchezza, ma una buona occasione per citare The social network).

Poco umorismo, molta più azione, molta meno autoironia (la banda originale era un gruppo di disadattati semicatastrofici, qui si tratta di professionisti del crimine - si salva solo una rapida presentazione dell'origine delle loro carriere). E, soprattutto, finale chiuso. I malfattori "buoni" sconfiggono il malfattore "cattivo" e si pappano il bottino.

Colonna sonora da film adrenalinico, dopotutto non male, se si eccettua una versione di Money (non l'originale dei Pink Floyd) che avrei preferito evitare di sentire.

Un colpo all'italiana

Che poi sarebbe, in originale, The italian job, pellicola che ha ispirato il relativamente recente remake proposto senza cercare di tradurre il titolo.

Si tratta di una commedia di ambiente delinquenziale inglese che come punto forte un certo spirito swinging London, una buona dose di umorismo (tipicamente inglese, a tratti un po' datato), una ottima interpretazione da parte di Michael Caine che può contare anche su di un buon cast di comprimari, tra cui Benny Hill (una delle sue poche partecipazioni a lungometraggi) e i nostri Raf Vallone e Rossano Brazzi (invero entrambi non ai loro massimi).

La sceneggiatura è piena di buchi ma lo scopo di farsi quattro risate, accompagnato ad un certo amor di patria (molto inglese, molto ironico), è raggiunto.

Sui titoli di testa vediamo un tale, al volante di una magnifica Lamborghini, che viene ucciso in un "incidente" su una strada di montagna. Cambio di scena, un piccolo delinquente (Caine) esce di galera, e la vedova del tizio appena schiantatosi gli gira un "lavoretto" che il marito stata preparando: un furto da 4 milioni ai danni della Fiat, a Torino. Caine riesce ad ottenere l'appoggio finanziario del mega delinquente inglese (detenuto - ma senza che questo gli complichi la vita più di tanto) grazie al fatto che costui è un nazionalista sfegatato (la sua cella è tappezzata da foto della regina) e percepisce l'Italia come minaccia economica al suo Paese. Si mette assieme un gruppo di mezzi balordi, tra cui Hill, genio del computer con una perversione che gli fa perdere la testa per le donne grassottelle, e si parte per l'Italia. La mafia (rappresentata malamente, uno dei punti deboli della sceneggiatura: pensare a qualche decina di picciotti in giacca e cravatta che aspettano gli inglesi al varco del confine in Val d'Aosta fa ridere, ma per l'ingenuità dell'idea) si oppone, per ragioni di onore, ma gli inglesi son più fighi (ovvero, ci fanno fare la figura dei tontoloni) e riescono lo stesso a fare il colpo.

La realizzazione del colpo implica un mega-ingorgo a Torino e la fuga dalla città per mezzo di tre Mini. In teoria questa dovrebbe essere la parte più eccitante, a me ha fatto sonnecchiare. Simpatica la vista turistica di Torino (anche se viene attraversata in modo del tutto irrealistico) con la Gran Madre, i portici, la Mole, i murazzi ...

Finale in bilico, nel senso letterale del termine. Dopo essere riusciti a scappare con il malloppo i delinquenti, in fuga su un pullman verso il confine, restano bloccati in una situazione di stallo, apparentemente irrisolvibile.

Adeguata colonna sonora di Quincy Jones.

Le quattro volte

In pratica non succede niente. Però Michelangelo Frammartino (regia e sceneggiatura) racconta questo niente con una buona mano, e il film potrebbe piacere a chi è alla ricerca di qualcosa di molto quieto, che lasci spazio alle emozioni.

Seguiamo gli ultimi giorni di vita di un pastore in un paesino calabrese (che in pratica si suicida, prendendo come "medicina" polvere raccolta in chiesa e disciolta nell'acqua - curiosamente finisce per morire proprio quando una casualità gli impedisce di prendere la sua razione di placebo). Quindi l'azione segue un capretto dalla sua nascita alla sua prematura fine sotto un'albero. Tocca ora all'albero, che viene abbattuto, usato come albero della cuccagna, abbattuto di nuovo, fatto a pezzi e trasformato in carbonella. In un'ora e mezza di film poche parole (qualche preghiera, chiacchiericcio sullo sfondo, e poco altro) e pochi movimenti di camera.

In teoria questo racconto minimalista vorrebbe essere una sorta di parabola filosofica, sulla circolarità dell'esistenza (la produzione di carbonella inizia e finisce il film), con un accenno a teorie sulla reincarnazione passando per quattro diversi stadi: umano, animale, vegetale, minerale (il pastore che diventa capra che diventa albero che diventa carbone che diventa polvere che viene assunta dal pastore come "medicina"). Il problema è che vedendolo in questo modo, a mio modesto avviso, diventa del tutto insopportabile.

Kung fu panda

Inizio lento, che fino alla mezz'ora mi ha fatto temere che il film non decollasse. Poi, fortunatamente, si è messo in carreggiata ed è corso via bene fino alla fine.

Consigliata la visione in originale, in modo da potersi gustare le voci di Jack Black, Dustin Hoffman, Jackie Chan etc (Angelina Jolie nei panni della tigre mi pare invece dimenticabile).

Un panda (Black) fuori forma fisica ma grande appassionato di kung fu viene scelto per diventare il guerriero drago, l'unico che potrà salvare la vallata da un rischio incombente. Il problema è che non ci crede lui, il suo maestro (Hoffman), e nemmeno i suoi colleghi (tra cui la tigre Jolie). Tutti quanti dovranno cambiare per poter ottenere il risultato.

Il tratto del disegno non mi ha entusiasmato (il panda non m'è sembrato ben riuscito).

Il figlio della pantera rosa

Ultimo episodio della lunghissima vicenda. Ultimo film di Blake Edwards e di Henry Mancini (che vediamo per un attimo nei titoli di testa, mentre consegna alla pantera la bacchetta per dirigere). Herbert Lom sembra dire a ogni scena che non ne può più di fare Dreyfus, Claudia Cardinale ritorna nella saga cambiando personaggio (diventa Maria Gambrelli, vedi Uno sparo nel buoi), torna anche Graham Stark, che in Uno sparo nel buio era Hercule, l'assistente di Clouseau, ma qui appare come Balls, il venditore di costumi e attrezzistica per l'investigatore antiquato, ruolo che del resto aveva ricoperto anche in La vendetta della pantera rosa.

Al centro della vicenda c'è Roberto Benigni, che si comporta relativamente bene, ma direi che non basta a salvare il film.

Pantera rosa - il mistero Clouseau

Il titolo originale è molto più evocativo, Curse of the Pink Panther: la maledizione della pantera rosa. A questo punto sembra infatti che Blake Edwards sia mosso da una sorta di maledizione, e voglia che dimostrare - magari solo a sé stesso - che la pantera rosa ha un senso anche senza Peter Sellers. Il fatto è che non ce l'ha.

Si tenta una sorta di reboot della vicenda, introducendo un poliziotto newyorkese drammaticamente incapace (Ted Wass - non all'altezza del ruolo), accennando alla possibilità che possa essere un lontano parente di Clouseau, che indaga sulla scomparsa dell'ispettore capo. Più che altro una scusa per introdurlo ai personaggi della saga, l'ispettore capo Dreyfus (un Herbert Lom sempre più stanco), Cato, i Litton del primo episodio della serie (David Niven in finale di carriera, Capucine, e Robert Wagner), Robert Loggia eccetera eccetera.

Il colpo di scena finale è l'apparizione di Roger Moore nei panni dell'ispettore.

L'armata degli eroi

Titolo italiano sbagliato e che rischia di attirare pubblico che non ne apprezzerà i toni. L'originale francese, invece, L'armée des ombres, lascia subito intendere che l'approccio al tema della resistenza francese è ben lontano da quello di una facile contrapposizione tra buoni e cattivi, pavidi ed eroi.

L'azione segue principalmente Lino Ventura, che interpreta un pezzo grosso della resistenza, di cui sentiamo la voce narrante per gran parte del tempo, in una serie di attività in genere tutt'altro che eroiche. Tra gli altri attori segnalo la presenza di Jean-Pierre Cassel (il padre di Vincent), Simone Signoret e, in un piccolo ruolo, Serge Reggiani.

Regia fredda, quasi documentaristica, di Jean-Pierre Melville, che toglie ogni possibili fanfara retorica ai fatti narrati per lasciare invece spazio al tormento interiore dei personaggi.

Mezzogiorno e mezzo di fuoco

Presa in giro dei western, come si capisce dal titolo italiano la cui non aderenza all'originale (Blazing saddles) mi pare questa volta perdonabile.

Scritto e diretto in modo un po' pasticciato da Mel Brooks, racconta una storia vista più volte, ma stravolgendola facendo ricorso anche a incursioni nel demenziale.

Il supercattivo (Harvey Korman), tale Hedley Lamarr (Hedy Lamarr era una bellissima attrice e scienziata molto nota fino agli anni 50), sta costruendo una ferrovia, che deve essere deviata e passare da un paesino. Dunque vorrebbe che tale paesino (abitato praticamente solo da gente che si chiama Johnson) venisse abbandonato per prenderne possesso e arricchirsi a dismisura (Come non pensare a c'era una volta il west?). Per far questo manda i suoi uomini a far danni - tra cui violentar il bestiame e ammazzare lo sceriffo. Come nuovo sceriffo Lamarr fa in modo che arrivi un nero (Cleavon Little) sperando che i paesani, disgustati, lo ammazzino e/o se ne vadano. Ma lo sceriffo riesce a insediarsi, fa amicizia con un pistolero decaduto, Wacko kid (Gene Wilder), e Mongo, un erculeo idiota di buon cuore. Anche il tentativo di farlo sedurre e abbandonare da una specie di Marlene Dietrich (Madeline Kahn) fallirà miserabilmente (sarà lei a innamorarsi non ricambiata) e non resta che cercare di far distruggere la cittadina da una torma di delinquenti di varia estrazione (compresa una squadra nazista).

Il gladiatore

Rivisto nell'edizione extended del 2005, che si è rivelata inutile se non dannosa, dato che non aggiunge praticamente niente all'originale cinematografico (per quanto mi ricordi dopo un decennio) se non un buon quarto d'ora di durata ad un film che era già lungo.

A mio parere questo film è un mistero. Non capisco bene perché la produzione abbia deciso di riesumare un filone che ormai sembrava esaurito, perché un regista come Ridley Scott si sia prestato ad una simile operazione (OK, qualche idea qui ce l'ho, Scott è interessato sia dall'aspetto artistico sia da quello commerciale del cinema, e, comunque andasse, qualcosa per lui qui c'era), ma soprattutto perché mai così tanti spettatore sono rimasti entusiasti di questa pellicola.

La storia non è priva di interesse ma, a mio gusto, viene attutito dall'ambientazione nell'impero romano: un buon uomo (Russell Crowe), che spenderebbe volentieri la sua vita nella sua campagna con la sua famiglia, viene trascinato dagli eventi, diventa il generale prediletto dall'imperatore e da questo candidato alla successione. Il figlio dell'imperatore naturalmente se ne ha a male, ammazza padre e famiglia del generale. Il generale si salva per un pelo, finisce all'inferno (metaforicamente parlando) da cui risorge come gladiatore, trascinato dal desiderio di vendetta.

Risulta evidente che l'ambientazione storica non sia il punto di maggior interesse della produzione (grazie anche a una colonna sonora molto eterogenea - a tratti mi è sembrata più adatta ad un film tipo Pirati dei Caraibi che a un drammone storico come questo), ma a dire il vero non ho capito quale sia l'interesse. Per qualche momento ho pensato ad un qualche parallelo con la realtà americana - ma a parte qualche strizzatina d'occhio non ci ho visto niente di sostanziale nemmeno in questa direzione.

Sulle orme della pantera rosa

Solo per fan dell'ispettore Clouseau interpretato da Peter Sellers (ovvero l'unico Clouseau che valga la pena di vedere) in crisi di astinenza. In pratica si tratta di una collezione di spezzoni, alcuni dei quali qui visibili per la prima volta, e che danno un piccolo interesse storico alla pellicola.

Blake Edwards è un grande regista, l'ha dimostrato in svariate occasioni, ma spesso, beh, non aveva proprio voglia di lavorare.

Hollywood party

Tom e Frank Waldman: mentre altri erano affaccendati con una loro sceneggiatura nel realizzare quel disastro (ig)noto in Italia come L'infallibile ispettore Clouseau, Blake Edwards e Peter Sellers trasformavano un altro loro esile lavoro in un film indimenticabile.

La storia è riassumibile in poche righe: un attore indiano pasticcione (Hrundi V. Bakshi - Peter Sellers) catastrofizza un film, instillando istinti omicidi nel regista e attirandosi l'odio del viscido produttore esecutivo (Gavin MacLeod, che per punizione diventerà noto come capitano di Love Boat) che telefona al capo dello studio perché venga bandito da ogni futura produzione. Caso vuole che invece finisca sulla lista di invitati ad una cena di alto livello.

Ci si può immaginare il risultato ma conviene vederlo per crederci.

La pantera rosa è evidentemente dietro l'angolo, e viene anche riproposta nella colonna eccellente sonora di Henry Mancini con una canzone presente nel primo episodio, ma l'impostazione del film è completamente diversa. C'è più materia su cui pensare, per chi voglia farlo.

La buffa macchinetta che usa Hrundi, una Morgan a tre ruote, non può non far pensare a M. Houlot e lo svolgimento distruttivo della serata ricorda molto la cena di Play Time. Dunque Jacques Tati è tra i numi tutelari del film.

La cena interrotta, e il fatto che praticamente nessuno mangi (l'attenzione al cibo è così bassa che una scarpa di Hrundi può viaggiare inosservata su un vassoio di antipasti fino a raggiungere il suo proprietario) mi ha invece fatto pensare a Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel - che quattro anni dopo porta alle estreme conseguenze la velata (ma non troppo) critica di Edwards.

L'infallibile ispettore Closeau

Quell'anno Blake Edwards e Peter Sellers erano occupati a fare altro, ma Tom e Frank Waldman hanno comunque confezionato una sceneggiatura basata sul personaggio di Clouseau che è stata affidata ad altre mani. Il risultato è a dir poco terribile.

Nei panni di Clouseau c'è un quasi esordiente Alan Arkin, che avrà modo di riscattarsi in seguito (Comma 22, Soluzione sette per cento ...), ma qui piazza una interpretazione assolutamente dimenticabile. Delia Boccardo è all'inizio di carriera e mi pare che sia incolpevole nella catastrofe, come pure Frank Finlay (che come punizione verrà ricordato per il ruolo di protagonista ne La chiave di Brass).

La vendetta della pantera rosa

Più o meno stesso team della sfida a Clouseau - alla sceneggiatura si aggiunge Ron Clark - ma il risultato mi pare inferiore.

Colonna sonora sempre di Henry Mancini, qui in versione molto anni settanta, regia-sceneggiatura-produzione di Blake Edwards, solito cast affiatato con Peter Sellers, Herbert Lom, Burt Kwouk (Cato), a cui si aggiungono la bella di turno (Dyan Cannon) e svariati altri personaggi al contorno, tra cui Robert Loggia (Feech La Manna nei Soprano, Eduardo Prizzi ne L'onore dei Prizzi).

La storia è più solida ma, nonostante la citazione esplicita delle comiche del tempo del muto (un duetto Cato-Clouseau sembra preso di peso da un rullo di Stanlio e Ollio), ci sono meno occasioni per ridere, anche se non mancano apparizioni indimenticabili, come "la turbinosa" (in originale silver hornet - vespa d'argento) - la macchina di Clouseau, una due cavalli truccatissima che ha il difetto di cadere a pezzi (letteralmente) ogni volta che la si vuole usare.

Sorprendente il ritorno dell'ispettore capo Dreyfus, quasi che questo episodio sia in parallelo col precedente e non successivo, ma le meccaniche interne alla storia sono meglio congegnate che in precedenza. Questa volta a volere la morte dell'ispettore capo Clouseau è niente di meno che la French Connection, ovvero la diramazione francese della Cosa Nostra americana, che vuole in questo modo dare un segnale rassicurante alla casa madre, dopo una serie di problemi dati, per l'appunto, dall'inesplicabile Clouseau. Sembra che riescano, di conseguenza Dreyfus guarisce miracolosamente dalla sua follia e viene reintegrato. Ma sarà Clouseau stesso, con l'aiuto della ex-segretaria/amante del capo mafioso, a risolvere il caso.

La pantera rosa sfida l'ispettore Clouseau

La traduzione letterale del titolo originale sarebbe La pantera rosa colpisce ancora, che è però il titolo italiano del precedente episodio.

Qui, finalmente, Blake Edwards decide di puntare tutto sul lato comico, riprendendo lo spirito di Uno sparo nel buio anche se la sceneggiatura (Blake-Waldman) non è alla stessa altezza, e affidandosi completamente alla contrapposizione tra l'ispettore capo Clouseau (Peter Sellers) e il suo ex capo Dreyfus (Herbert Lom), ora decisamente pazzo.

Dicevo che la sceneggiatura non è particolarmente solida, alcune scene sono praticamente slegate dalla storia principale che, di per sé, non è il massimo della plausibilità. Dreyfus, dopo tre anni, starebbe per uscire dal manicomio. Ma Clouseau, animato da buone intenzioni, lo va a trovare facendo esplodere nuovamente la sua follia. Sfumata la possibilità di riprendere il suo posto come ispettore capo, Dreyfus scappa e si dedica a quella che elegge missione della sua vita: eliminare Clouseau. Prova con una bomba (di quelle che esplodono, come spiega Clouseau al suo assistente), fallendo. Decide dunque di creare una organizzazione criminale, reclutando i più pericolosi delinquenti, rapisce un geniale inventore inglese e lo costringe a costruire un'arma finale, capace di far sparir nel nulla il palazzo dell'ONU a New York. Dunque minaccia il mondo intero: o eliminano Clouseau, o distruggerà il mondo. Orde di assassini vengono mandate all'Oktoberfest, dove l'ispettore capo si reca per seguire una labile traccia, ma muoiono tutti, tranne Omar Sharif (agente egiziano che elimina un finto Clouseau e se ne va felice) e la bella agente russa (Lesley-Anne Down) che si innamora di Closeau (per sbaglio, fra l'altro). Il vero Clouseau capisce che Dreyfus si nasconde in un castello della Baviera e va a regolare i conti con il suo arcinemico.

Fondamentalmente una presa in giro dei film di Bond. Dato questo canovaccio vengono aggiunte una miriade di digressioni comiche - il combattimento Cato-Clouseau che si conclude con la distruzione mediante bomba della casa; il pedinamento del maggiordomo dello scienziato rapito che di sera canta en travesti in un locale ambiguo (Victor Victoria arriverà nell'82); il consiglio di Stato nello studio ovale della Casa Bianca, riunito per seguire la partita di football del Michigan ... - che non sono strettamente necessarie alla trama, ma rendono il film indimenticabile.

La pantera rosa colpisce ancora

Episodio piuttosto confuso della saga, a partire dal titolo. Infatti da noi è noto sia come "colpisce ancora" che come "Il ritorno della pantera rosa". Il secondo titolo è la traduzione letterale dell'originale, mentre il primo è dovuto alla fantasia della distribuzione italiana, che però è andata a cozzare con il fatto che l'anno dopo è uscito The pink panther strikes again.

E anche la storia narrata non scherza in quanto a ingarbugliamento. Sono passati dodici anni dal primo episodio, ma nel film si dice che ne sono passati tre da quando il diamantone è stato rubato una prima volta da Sir Charles Lytton (lì interpretato da David Niven, qui da Christopher Plummer), non si cita la seconda puntata, e dunque non sappiamo che fine abbia fatto Maria Gambrelli, però ritroviamo Dreyfus (Herbert Lom) il capo di Jacques Clouseau, anche se qui viene degradato a ispettore capo, mentre nell'episodio precedente era commissario, e pure Kato, il distruttivo domestico dell'ispettore.

Inoltre il fantasma, ladro gentiluomo, qui risulta sposato a una Lady Litton (con la "i" normale) che, a rigor di logica, dovrebbe essere la ex-moglie di Clouseau (lì Capucine, qui Catherine Schell) ma i due fanno come se non si conoscessero.

Siamo dunque di fronte a uno strano miscuglio dei due episodi precedenti. Anche Dreyfus pare parzialmente rinsavito, abbastanza almeno per poter impazzire nuovamente in seguito all'incredibile imperizia del suo sottoposto.

Tutto sommato inferiore a Uno sparo nel buio, anche se alcune scene (il combattimento al rallentatore tra Clouseau e Kato, ad esempio) sono memorabili. Riprende la struttura di La pantera rosa, contrapponendo uno svolgimento classico da commedia sofisticata (qui nella variante esotica, con viaggio nell'immaginario sultanato dove il diamante viene custodito in un museo, pronto per essere rubato con destrezza, dando spazio a citazioni anche per film come Casablanca) alla comica più dissennata.