Visualizzazione post con etichetta 1969. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1969. Mostra tutti i post

Medea

Conviene avere ben presente il mito di Medea e la continuazione che ne fece Euripide per non restare perplessi da quello che succede in questo film di Pier Paolo Pasolini. In particolare nella prima parte che, dopo la divertente introduzione che ci viene servita dal centauro (Laurent Terzieff) che ha allevato Giasone, affida tutto alla visualità e quasi niente alla parola. Più fruibile, anche se sempre non esattamente pensato per le masse, la seconda parte, forse perché PPP ha voluto sottolinearne la derivazione euripidea.

Per motivi complicati, il trono che competerebbe a Giasone è occupato da suo zio Pelia (Paul Jabara), e lui lo reclama solo dopo aver passato tutta l'infanzia con la sola compagnia di un simpatico, per quanto inaffidabile, centauro. Pelia non ha nessuna voglia di cedere il comando, così lo manda a compiere una missione insulsa, giusto per toglierselo dai piedi, il furto del vello d'oro, ovvero la pelle di un caprone considerato miracoloso. Il vello è custodito e adorato da una comunità barbara e dai costumi truculenti, di cui fa parte Medea (Maria Callas), figlia del re locale.

Giasone, con la compagnia di un manipolo di scioperati che si fanno chiamare argonauti, giunge da quelle parti. Medea si innamora istantaneamente di lui, ruba il vello con l'aiuto del fratello che poi fa a pezzi (letteralmente) in modo da rallentare l'inseguimento paterno. Dunque Pelia riceve il suo vello, ma dice che dopotutto ha cambiato idea, e preferisce tenersi il trono. Sembra che tutto finisca bene lo stesso, perché Giasone commenta che ha scoperto di non essere poi così interessato a quel piccolo regno. C'è di meglio al mondo. Ad esempio Medea, che sposa e con cui fa un paio di figli.

Seconda parte. Giasone e Medea sono andati a vivere a Corinto, e tutto andrebbe per il meglio, se non fosse che il re locale, Creonte (Massimo Girotti) vuole che sua figlia Glauce (Margareth Clémenti) sposi Giasone. A Giasone il cambio va bene, a Medea meno. Seguirà il finale da tragedia greca.

Il circo

Uno squattrinato vagabondo (Charlie Chaplin) inganna l'appetito girando tra i padiglioni di un circo. Viene coinvolto suo malgrado in un tentativo di borseggio che lo porta a sfuggire all'arresto con una rocambolesca fuga che passa, tra l'altro, da un labirinto di specchi e dalla pista del circo stesso.

Considerato buffo a sua insaputa dal pubblico, viene assunto dall'antipatico proprietario (una specie di Mangiafuoco) che maltratta tutti, compresa Merna (Merna Kennedy), sua figlia adottiva. Merna e il vagabondo fanno amicizia, una di quelle amicizie sbilanciate, in cui lui è innamorato di lei, ma a lei non viene nemmeno il sospetto dei sentimenti di lui.

E così al povero omarino toccherà una tra le prove più difficili a cui possa essere sottoposto un essere umano, rinunciare alla propria amata senza nemmeno farle sapere quanto questo gli pesi.

Scritto, prodotto, diretto, interpretato, e, nell'edizione fine anni sessanta, musicato (canta anche una canzone sui titoli di testa) da Charlie Chaplin.

La via lattea

Due vagabondi decidono di lasciare Parigi alla volta di Santiago di Compostela, attirati dalla possibilità di guadagnare lì qualche quattrino. Pur senza essere pellegrini, seguiranno il cammino, anticamente chiamato per l'appunto anche Via lattea, nella sua versione Turonense (nel senso che passa da Tours).

Il loro percorso è costellato da incontri misteriosi, prodigiosi e che farebbero rizzare i capelli ai più, ma a loro scivola tutto sopra come acqua fresca.

Gran parte dei dialoghi sono serissime disquisizioni teologiche di cui Luis Buñuel (regia e co-sceneggiatura assieme a Jean-Claude Carrière) mostra l'assurdità per mezzo dell'espediente di metterle in un contesto improbabile. Vedasi ad esempio la scena del duello tra un gesuita e un giansenista, o quella dove il caposala di un ristorante di lusso disquisisce con i sottoposti sulle varie eresie nel cristianesimo sulla natura di Dio.

Apparizione per Michel Piccoli nel ruolo del marchese De Sade.

Prendi i soldi e scappa

Prima vera regia per il grande schermo di Woody Allen [dopo Che fai, rubi? (What's up Tiger Lily?) - in realtà un doppiaggio intenzionalmente sbagliato di un ben poco memorabile film giapponese d'azione] mostra gran parte dei temi che saranno trattati dall'autore newyorkese per tutta la sua lunghissima carriera, con la zavorra di una poca dimestichezza con le tecniche cinematografiche. In pratica quasi tutte le gag sono verbali, e le immagini servono spesso solo per ribadire quello che il narratore racconta.

È strutturato come lo spoof di un documentario sulla vita di un famoso delinquente (e di conseguenza, dei film sui gangster), e la comicità deriva sostanzialmente dal fatto che il protagonista (lo stesso Woody Allen) è un incapace assoluto. Vediamo spezzoni della sua infanza, dove viene maltrattato da tutti, e mostra sin da giovanissimo la sua predisposizione alla catastrofe (cerca di rubare gomme da masticare, ma resta incastrato con le dita nella macchinetta). Subito attratto dall'altro sesso (come racconta una insegnante delle elementari) e dalla cultura (vorrebbe suonare il violoncello in una banda, ma oltre alle difficoltà logistiche ha un orecchio musicale inesistente), finisce ben presto in galera in seguito ad un maldestro tentativo di rapina. E tutto questo prima dei titoli di testa.

Molte le scene che sono diventate mitiche. Ad esempio i genitori accettano di parlare del figlio, ma indossano (entrambi!) travestimenti alla Groucho Marx per non farsi riconoscere. Oppure la rapina in banca risolta in un disastro a causa del biglietto passato al cassiere pieno di errori grammaticali. O anche un colloquio di lavoro che si trasforma in assurdo quiz televisivo.

Il rapporto con la religione viene ribadito dal padre, che dice più volte di aver cercato di spigargli la fede a schiaffoni, ma senza risultato. L'ateismo del personaggio però è evidentemente travagliato, e sotto stress (fa la cavia umana per aver ridotta la sua pena) lo vediamo trasformarsi in un rabbino, con tanto di lunga barba.

L'amore viene raccontato per mezzo dell'incontro con Janet Margolin, nei panni di una lavanderina che il protagonista avvicina per derubarla, anche lei con una infanzia travagliata e con un comprendonio piuttosto limitato (crede che lui suoni il violoncello alla filarmonica, nonostante faccia fatica anche a identificare Mozart). Come tipicamente accade, Allen caratterizza il suo personaggio come attratto dalle donne ma completamente incapace di capirle, e con una capacità amatoria, come dire, piuttosto peculiare.

Anche la psicologia viene affrontata, mostrando la figura di uno psicologo ben poco comprensivo nei confronti dei suoi pazienti, e con idee alquanto eterodosse.

Divertenti le scene che sovvertono gli schemi dei schemi dei film noir introducendo bizzarre variazioni tipo, Allen sottoposto a ricatto, tenta di uccidere la ricattatrice noleggiando una Mini e investendola nel suo soggiorno, oppure per errore spiega il piano di una rapina a due poliziotti invece che ad un collega. Direi che le più riuscite siano quelle in ambiente penitenziario: si organizza una evasione, la data viene cambiata all'ultimo momento, ma solo lui non viene informato; o la parte in cui sconta la pena spaccando pietre, conclusa con una fuga di gruppo che ricorda molto quella di Fratello, dove sei? dei Coen.

Un colpo all'italiana

Che poi sarebbe, in originale, The italian job, pellicola che ha ispirato il relativamente recente remake proposto senza cercare di tradurre il titolo.

Si tratta di una commedia di ambiente delinquenziale inglese che come punto forte un certo spirito swinging London, una buona dose di umorismo (tipicamente inglese, a tratti un po' datato), una ottima interpretazione da parte di Michael Caine che può contare anche su di un buon cast di comprimari, tra cui Benny Hill (una delle sue poche partecipazioni a lungometraggi) e i nostri Raf Vallone e Rossano Brazzi (invero entrambi non ai loro massimi).

La sceneggiatura è piena di buchi ma lo scopo di farsi quattro risate, accompagnato ad un certo amor di patria (molto inglese, molto ironico), è raggiunto.

Sui titoli di testa vediamo un tale, al volante di una magnifica Lamborghini, che viene ucciso in un "incidente" su una strada di montagna. Cambio di scena, un piccolo delinquente (Caine) esce di galera, e la vedova del tizio appena schiantatosi gli gira un "lavoretto" che il marito stata preparando: un furto da 4 milioni ai danni della Fiat, a Torino. Caine riesce ad ottenere l'appoggio finanziario del mega delinquente inglese (detenuto - ma senza che questo gli complichi la vita più di tanto) grazie al fatto che costui è un nazionalista sfegatato (la sua cella è tappezzata da foto della regina) e percepisce l'Italia come minaccia economica al suo Paese. Si mette assieme un gruppo di mezzi balordi, tra cui Hill, genio del computer con una perversione che gli fa perdere la testa per le donne grassottelle, e si parte per l'Italia. La mafia (rappresentata malamente, uno dei punti deboli della sceneggiatura: pensare a qualche decina di picciotti in giacca e cravatta che aspettano gli inglesi al varco del confine in Val d'Aosta fa ridere, ma per l'ingenuità dell'idea) si oppone, per ragioni di onore, ma gli inglesi son più fighi (ovvero, ci fanno fare la figura dei tontoloni) e riescono lo stesso a fare il colpo.

La realizzazione del colpo implica un mega-ingorgo a Torino e la fuga dalla città per mezzo di tre Mini. In teoria questa dovrebbe essere la parte più eccitante, a me ha fatto sonnecchiare. Simpatica la vista turistica di Torino (anche se viene attraversata in modo del tutto irrealistico) con la Gran Madre, i portici, la Mole, i murazzi ...

Finale in bilico, nel senso letterale del termine. Dopo essere riusciti a scappare con il malloppo i delinquenti, in fuga su un pullman verso il confine, restano bloccati in una situazione di stallo, apparentemente irrisolvibile.

Adeguata colonna sonora di Quincy Jones.

L'armata degli eroi

Titolo italiano sbagliato e che rischia di attirare pubblico che non ne apprezzerà i toni. L'originale francese, invece, L'armée des ombres, lascia subito intendere che l'approccio al tema della resistenza francese è ben lontano da quello di una facile contrapposizione tra buoni e cattivi, pavidi ed eroi.

L'azione segue principalmente Lino Ventura, che interpreta un pezzo grosso della resistenza, di cui sentiamo la voce narrante per gran parte del tempo, in una serie di attività in genere tutt'altro che eroiche. Tra gli altri attori segnalo la presenza di Jean-Pierre Cassel (il padre di Vincent), Simone Signoret e, in un piccolo ruolo, Serge Reggiani.

Regia fredda, quasi documentaristica, di Jean-Pierre Melville, che toglie ogni possibili fanfara retorica ai fatti narrati per lasciare invece spazio al tormento interiore dei personaggi.