Kung fu panda 2

Nonostante alcune debolezze, il Kung fu panda originale mi aveva soddisfatto. Lì si narrava del passaggio alla maturità del protagonista (un panda ciccioso affascinato dal kung fu, basato su Jack Black, che dà la voce originale al personaggio). Il sequel, tutto sommato non all'altezza, è focalizzato sulla ricerca delle origini (viene risolto un "mistero" che era emerso nel primo episodio, in cui il panda veniva mostrato come figlio di un oca) e della calma interiore.

Anche qui la prima parte mi è sembrata scarsa, sembra quasi che l'avvio lento sia un tratto caratteristico di questo franchise - e intendo "lento" nel senso di avanzare nello sviluppo nella storia, fornendo elementi sostanziali, perché qui si fa ancora più baccano che nell'originale.

Spicca per la bellezza del tratto il pavone (cattivissimo e basato opportunamente su Gary Oldman). Da notare un altro nome noto presente nel cast, Jean-Claude Van Damme, il cui personaggio di riferimento, un coccodrillo, ha un piccolo ruolo.

Wristcutters - Una storia d'amore

Visto dopo aver letto quanto ne dice Moderatamente ottimista nel suo blog.

Da notare la potenza della lingua inglese che permette di riassumere in una sola parola il concetto di persona che tenta il suicidio tagliandosi le vene dei polsi.

In realtà la storia raccontata è relativa al superamento della fine di un amore, quello del protagonista (Zia, interpretato da Patrick Fugit, il ragazzino protagonista di Quasi famosi), che lascia spazio ad una nuova storia. Le due storie d'amore vengono appena accennate, e il fuoco della vicenda è tutto sul periodo intermedio. La vicenda si apre mostrandoci Zia che entra d'ufficio nella categoria dei wristcutter, e come tale guadagna l'accesso ad un mondo parallelo molto simile al nostro, ma in peggio. Un eterna periferia degradata dove nessuno riesce a sorridere.

Primo lungometraggio scritto (sceneggiatura basata su un racconto di Etgar Keret) e diretto dal croato Goran Dukic, è non banale, divertente e interessante, anche se discontinuo.

Disseminato di elementi secondari comunque degni di attenzione. Ad esempio: cosa può trattenere una persona che capiti in un simile incubo da suicidarsi per una seconda volta? Il terrore di finire in un mondo ancor peggiore. E chi può essere così scemo da da non farsi intimorire da una simile atroce prospettiva? Solo un santone, fondatore di una insulsa religione che già si era suicidato una prima volta credendo in questo modo di connettersi alla sua divinità.

La storia mi ha ricordato quella di Interstate 60, quello fa valere una produzione più ricca, un cast di maggior peso e direi anche una sceneggiatura e regia più solida, questo ha dalla sua Tom Waits in un ruolo minore (e che direi che avrebbe potuto essere sviluppato meglio) e una colonna sonora più interessante.

L'uomo che venne dalla Terra

Pellicola sgranata; doppiaggio a volte fuori sincrono (e sto parlando della visione in lingua originale); colonna sonora che spesso litiga col parlato; produzione evidentemente a basso costo, non solo per quanto appena scritto ma anche perché l'intera azione si svolge in un unico ambiente, una casa di campagna, con la macchina da presa che solo raramente indugia in scene esterne; sceneggiatura un po' pretenziona e basata esclusivamente su di una lunga chiacchierata tra il protagonista, in partenza verso ignota meta, e i suoi amici e colleghi insegnanti universitari che lo salutano.

Ma non si tratta di un film europeo (dell'est ai tempi del comunismo, magari, o francese, come il gran parlare potrebbe far pensare) bensì americano, sceneggiato da un californiano (Jerome Bixby - Viaggio allucinante), diretto da un newyorkese (Richard Schenkman) e con un cast di personaggi abbastanza noti (soprattutto televisivamente parlando).

La storia è alla Star Trek (Bixby ha collaborato alla serie originale, dopotutto) o Ai confini della realtà (anche lì ha messo il suo zampino), ed è basata sull'idea che i Cro Magnon non sarebbero completamente estinti, almeno uno di loro è giunto fino a noi, opportunamente fermando il suo invecchiamento corporeo ad una età apparente di una quarantina d'anni (essendo il protagonista David Lee Smith). L'idea è quella di esplorare la reazione di una piccola comunità di individui acculturati a questa notizia, con un finale riservato al lato umano della vicenda.

Risultato curioso.

Amici, amanti e ...

Commedia sentimentale leggera che centra a meraviglia lo scopo principale (far cassa) con il minimo dispendio di energie.

Di per sé la storia (Elizabeth Meriwether) non è da buttare, e gravita attorno al rapporto tra un'affascinante tipetta (Natalie Portman) che ha problemi a stabilire relazioni durature e un bolso giovanotto (Ashton Kutcher) angustiato da un tormentato rapporto col padre (Kevin Kline). Però è sviluppata male. Da un lato si punta ad una impostazione rivoluzionaria (per il cinema americano di cassetta) in cui i due protagonisti fanno sesso come ricci e senza nemmeno avere all'orizzonte uno straccio di rapporto stabile (No strings attached, come recita il titolo originale), dall'altro ci sono situazioni da sit-com anni sessanta.

Girato bene da Ivan Reitman, si appoggia su una buona colonna sonora e su un cast professionale - sprecati la Portman e Kline (periodaccio per lui, conto molto nel ritorno di Kasdan, per un film che dovrebbe uscire tra pochi mesi con lui protagonista assieme alla Keaton).

Source code

Molti anni fa ho letto un breve racconto di fantascienza in cui il protagonista era un militare che combatteva una lunga guerra in un futuro remoto. Una guerra così lunga che a un certo punto cominciarono (o cominceranno) a scarseggiare i soldati per combatterla. Il problema viene (mostruosamente) risolto dagli alti papaveri riportando in vita i propri morti per tornare a farli combattere. Purtroppo non ricordo più autore e titolo dell'opera - il lettore di passaggio che mi possa aiutare a rinfrescare la memoria è pregato di lasciare un commento.

Poi c'è Brazil, film dell'immaginifico Terry Gilliam (e, se non bastasse, Tom Stoppard co-sceneggia assieme a Charles McKeown), dove nel finale il protagonista si crea un'universo parallelo in cui sfuggire.

In Rabbit hole, invece, un ragazzino utilizza il concetto teorico di universi paralleli per tener viva la speranza che un qualche suo "lui" alternativo, in un altro universo, viva una vita migliore, grazie al cambiamento di un qualche accadimento.

Ricomincio da capo ci mostra un universo "inceppato", in cui un intervallo temporale viene ripetuto indefinitamente, e in cui la ciclicità apparentemente infinita viene interrotta solo quando il protagonista scopre cosa è davvero importante per lui.

Ci sarebbe pure Deja vu, di Tony Scott, che tratta una storia di bombe, distorsioni temporali e cambiamento del passato ma è basato su di una sceneggiatura che direi insoddisfacente (del Terry Rossio che è tra i colpevoli della saga dei Pirati dei Caraibi, e di Bill Marsilii) e perciò forse non sarebbe male far finta di non ricordarsene.

Visto (e letto) tutto ciò, il materiale trattato da Ben Ripley (sua la storia) non è che sia dei più freschi, ma viene qui trattato con buon equilibrio, grazie anche alla ottima regia di Duncan Jones, e ne esce un film tutto sommato godibile. Se si è disposti a lasciar correre alcune incongruenze nella storia.

Un soldato (Jake Gyllenhaal) si trova assegnato ad una assurda missione, che comporta la ripetizione degli otto minuti che hanno preceduto l'esplosione di una bomba nei panni di un insegnante di storia in viaggio su di un treno pendolare diretto a Chicago. Tra una iterazione e la successiva, si relaziona quasi esclusivamente con un ufficiale (Vera Farmiga) che è visibilmente in difficoltà nello spiegargli la situazione al contorno. Il povero disgraziato scopre di essere in una situazione praticamente disperata, che la sua missione non può aver successo (nel senso che lui vorrebbe), e per di più si innamora della donna (Michelle Monaghan) con cui "lui" (in quanto insegnante di storia) sta viaggiando in treno. Nonostante tutto, in qualche modo ne riesce a uscire fuori bene - fatto salvo l'insegnamento che ci arriva da Brazil.

Nota incidentale. Noi vediamo il soldato con le fattezze di Jake Gyllenhaal, ma tutti gli altri lo vedono come davvero è. Noi seguiamo il punto di vista del protagonista, e vediamo il vero insegnante solo quando il militare va in bagno e vede il suo riflesso, come succede in Un tuffo nel passato, anche se a me è venuto prima in mente La guerra lampo dei fratelli Marx, e per un attimo ho sperato in una inattesa deriva comica.

Non lasciarmi

Il tema dei cloni umani, e quanto essi vadano considerati persone a tutti gli effetti, è molto trattato nel genere propriamente fantascientifico, basti pensare a Blade runner, Gattaca o, se proprio ci si vuole fare del male, persino a The island.

Più raro che venga trattato da uno scrittore come Kazuo Ishiguro. Vero che la sceneggiatura è scritta da Alex Garland, che però ha mantenuto il film fuori dai canoni del genere. Visto che correntemente non esistono cloni umani, a uno scrittore dovrebbe venire più che naturale ambientare la storia nel futuro, ma Ishiguro ha pensato bene di creare una distopia nel nostro passato prossimo, eliminando così ogni necessità di appoggiarsi a fantasie tecnologiche e focalizzandosi invece sul rapporto tra umani e quasi (?) umani.

Il risultato è, a mio avviso, sconvolgente. Ci si chiede quanto noi (cosiddetti) umani siamo disposti a mettere il silenziatore ai nostri buoni sentimenti se questo ci è utile. E la risposta è realistica e sconfortante. Interessante (per non dire raccapricciante) anche la risposta che viene data al dubbio che sorge spontaneo, ovvero, come fare "stare buoni" i cloni in attesa del loro destino? Basta educarli come subumani - niente di drammatico, si intende. Semplicemente non spiegandogli come fare a relazionarsi con il resto dell'umanità. E se manca quello, cosa può fare un povero diavolo?

La regia è stata affidata a Mark Romanek che mi pare abbia svolto bene il suo compito, lasciando parlare la storia e veicolando con i colori (come aveva già fatto in One hour photo), qui quasi assenti, il suo punto di vista. Anche la bella colonna sonora (musiche originali di Rachel Portman) fa la sua parte nel creare un ambiente emotivo appropriato.

La vicenda segue la breve vita di tre cloni, che da adulti sono interpretati da Carey Mulligan, Andrew Garfield e Keira Knightley (da notare che la Mulligan e la Knightley si erano già incontrate in Orgoglio e pregiudizio, ma qui è la Mulligan ad avere il ruolo principale), a partire da quando vanno ad una sorta di scuola privata (diretta con fiero cipiglio da Charlotte Rampling) fino al loro epilogo.

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni

Meglio il titolo originale, You will meet a tall dark stranger, che mostra l'adattabilità di chi si rivolge a un chiromante rispetto alla profezia che lo riguarda.

L'azione gira infatti intorno ad una stonata signora ormai anzianotta (Gemma Jones) che, mollata dal marito (Anthony Hopkins) colto da improvvisa paura della morte e relativa negazione della sua situazione anagrafica, tenta prima il suicidio, poi un supporto psicologico, per poi trovarsi a suo agio con una fattucchiera che la spenna dandole in cambio messaggi consolatori.

Oltre a seguire le vicende dell'ex marito, che finisce per sposare una giovane prostituta (Lucy Punch) con conseguenze facilmente immaginabili, il film segue anche la figlia della coppia (Naomi Watts) e marito (Josh Brolin). Lui è uno scrittore in crisi, mentre lei trova lavoro presso una galleria d'arte diretta da un fascinoso Antonio Banderas.

Le vicende si svolgono come ci si può aspettare in una classica commedia di Woody Allen, con alcune variazioni minori. L'azione si svolge a Londra; l'umorismo è meno marcato del solito; nessuno dei personaggi maggiori sembra avere un lieto fine. Al limite si potrebbe dire che il personaggio della Jones sia quello che ne esce meglio, ma a che prezzo? In pratica finisce per essere plagiata da una imbrogliona che le vieta persino di prestare soldi alla figlia, e anche sul lato affettivo direi che non sia messa meglio.

Molti personaggi, ognuno cerca di ottenere un po' di felicità seguendo modi diversi, nessuno di loro ha successo.

Orphan

Visto per curiosità nata dalla visione di Unknown, thriller diretto anch'esso da Jaume Collet-Serra, catalano di cui non sapevo nulla.

Questo è un horror, e io non sono un gran frequentatore del genere, ma mi pare che possa piacere a chi interessi l'articolo.

Una terribile orfana viene adottata in una famigliola ben messa economicamente ma con notevoli problemi pregressi. Che ci sia qualcosa che non va nella bimba (Isabelle Fuhrman) lo spettatore lo capisce ancora prima di vederla, e più la storia procede più risulta incomprensibile come i genitori, soprattutto il padre (Peter Sarsgaard - non nel suo ruolo migliore), non si rendano conto della catastrofe incombente. Ma credo sia un meccanismo standard dell'horror, per far meglio "assaporare" allo spettatore la tragedia in arrivo. Altro modello che credo sia tipico del genere è quello che segue la protagonista (Vera Farmiga - come al solito molto brava), che capisce - con una certa lentezza - quello che sta capitando ma scopre (con orrore, mi verrebbe da dire) che nessuno le dà retta. Più raccoglie indizi che comprovano la sua intuizione, più viene isolata e trattata come se fosse lei ad avere problemi.

C'è da dire che, prima del colpo di scena che spiega la vera natura della bimba, sembra veramente improbabile che a otto anni un essere umano sia capace di tanto (e, a dire il vero, anche dopo la spiegazione non è che la storia diventi molto più ragionevole), e dunque non si possono dare tutti i torti a chi non crede alla versione della madre adottiva. Nonostante questo, bisogna notare che la psicologa a cui la povera disgraziata si appoggia è di una incapacità stupefacente; il marito ha la testa fra le nuvole; la madre di lui è semplicemente scema; l'istituto adottivo si mostra incapace di tenere una documentazione adeguata sulle adottande; e l'orfana stessa risulta esageratamente troppo dotata artisticamente e intellettivamente.

Ma, per quel poco che conosco del genere, mi pare che tutti questi che a me sembrano punti deboli nella narrazione vengano visti con una certa benevolenza.

I ragazzi stanno bene

Commedia sulla crisi di metà percorso di una famiglia della media borghesia californiana. I figli sono grandicelli, la maggiore sta per lasciare il nido per andare all'università, i genitori hanno lasciato diventare l'amore abitudine, e il passato ne approfitta per presentare i conti, nelle vesti di un piacente scapolone che possiede un ristorante, una tenuta agricola alla moda e viaggia prevalentemente su una magnifica BMW (nel senso di moto - segui il link per un paio scatti rubati al film) di annata. È così piacente che piace davvero a tutti, tranne al capofamiglia. Ma quando risulta evidente che la famiglia è sull'orlo di sfasciarsi, una rivolta generalizzata espelle l'intruso permettendo la ricomposizione dell'unità iniziale.

Quello che rende il film interessante è che i genitori sono due donne (in effetti poco sopra avrei dovuto scrivere "la capofamiglia", alludendo al personaggio interpretato da Annette Bening - Julianne Moore è la sua compagna), e che il terzo incomodo (Mark Ruffalo) entra in gioco essendo stato il donatore dello sperma che ha portato alla nascita dei due figli (partoriti a distanza di tre anni l'una dall'altro dalle due genitrici, e quindi tecnicamente solo fratellastri), contattato dalla maggiore su pressione del minore. Il tema dell'omosessualità genitoriale viene usato per un paio di scene divertenti senza risultare forzate o sguaiate, per il resto viene lasciato sullo sfondo, necessario per lo svolgimento dell'azione ma senza che risulti invadente.

Lo sconfitto della vicenda è il padre naturale, che si è goduto la gioventù andando fuori tempo massimo, senza accorgersi che nel far ciò si è fregato l'età matura.

Film ben scritto e diretto (da Lisa Cholodenko), vicenda non banale, piacevoli tocchi umoristici, buona l'attenzione anche per i personaggi minori, colonna sonora appropriata che si fa ascoltare volentieri.

Toy story 3 - La grande fuga

Meglio del secondo capitolo della saga, che però si conferma come una produzione che non apprezzo particolarmente. Da notare che il resto del mondo la pensa diversamente da me, visto che questo titolo è uno di quelli che maggiori soddisfazioni hanno dato a chi campa di cinema.

La storia mi sembra fin troppo complessa, anche se parte da un assunto molto semplice: Andy, il proprietario dei giocattoli, è ormai un giovane adulto, sta lasciando casa per andare all'università, e dunque il distacco dalla sua infanzia è ormai necessario. A complicare il tutto arrivano incomprensioni e il cattivo di turno, un abbraccevole orsacchiotto profumato (ispirato da Ned Beatty che gli dà anche la voce in originale), supportato da una serie di giocattoli traviati, tra cui un Ken (Michael Keaton) disposto a dare molto spazio alla sua componente femminile.

Le bizzarre variazioni poco politically correct dei personaggi mostrano come un decennio non sia passato inutilmente dall'episodio precedente. Lo stesso dicasi per la qualità dell'animazione.

Toy story 2 - Woody e Buzz alla riscossa

Alla fine del primo episodio i due protagonisti erano riusciti a trovare un buon equilibrio, che però qui cede con uno strappo, con Woody che viene suo malgrado allontanato e Buzz che cerca di riportarlo a casa.

Non mi pare che aggiunga molto al succo vicenda. Abbiamo un nuovo cattivo (un collezionista di giocattoli a fine di lucro) e alcuni nuovi personaggi minori, e qualche divertente citazione esterna (Guerre stellari, soprattutto).

Neanche la qualità dell'animazione mi pare che migliori in modo significativo.

Toy story - Il mondo dei giocattoli

Interessante da un punto di vista storico, è il primo lungometraggio sviluppato usando esclusivamente animazione computerizzata, ma non mi ha mai convinto. È anche il primo lungometraggio Pixar-Disney il che, con il suo grande successo commerciale, ha spianato la strada a produzioni successive, attirando notevoli capitali in quest'area.

La storia è co-scritta e diretta da John Lasseter che, fulminato sulla via di Damasco dalla visione di Tron, era stato tra i fondatori di Pixar proprio per cercare di sviluppare meglio le possibilità dell'animazione computerizzata.

Si tratta di un buddy-movie tra due giocattoli, un cow boy (Tom Hanks voce originale ed evidente ispiratore del personaggio) e ranger spaziale, che imparano a conoscersi e apprezzarsi a vicenda. L'idea era quella di minimizzare lo spazio dedicato a personaggi del mondo reale e concentrarsi su figure più semplici da rendere con i mezzi del tempo, relativamente modesti. In effetti gli umani, e soprattutto il cane, presenti nella storia sono quasi raccapriccianti visti con gli occhi di oggi (e anche ai tempi ricordo che non mi fecero un gran effetto).

Into the wild - Nelle terre selvagge

Ben scritto e diretto (Sean Penn), due ore e passa che scorrono bene, grazie anche ad una appropriata colonna sonora che commenta adeguatamente le immagini, ma non capisco dove vada a parare.

Un ragazzetto (Emile Hirsch) scopre che la sua famiglia (soprattutto il padre, William Hurt) è lontana dall'essere ideale. Reagisce abbandonando tutto, compreso la sua identità, per rinnegare la società umana e vivere nella natura. Ma la natura non ammette improvvisazioni, è un ambiente caotico dall'equilibrio delicato, in cui è facile perdere anche il ruolo di super predatore, come finirà per scoprire il protagonista.

Sembra una sorta di racconto di formazione, dove il formato pare che impari un paio di lezioni fondamentali, ovvero l'importanza dell'autenticità (chiamare tutto con il suo vero nome) e della rete sociale per l'essere umano (non c'è una vera felicità se questa non viene condivisa). Però tutto il film si svolge illustrando la posizione opposta, di una persona in fuga dalla socializzazione, che scivola su rapporti interpersonali, evitando accuratamente da farsene invischiare.

Babylon A.D.

Con una certa fatica, ragionandoci sopra, credo di essere riuscito trovare un senso della sceneggiatura, che però viene diluito fino a quasi scomparire nel film.

Una storia decisamente complessa ambientata in un futuro distopico non troppo lontano. Non si capisce bene cosa sia successo, ma vediamo la Russia quasi a livelli di Mad Max e seguiamo torme di migranti che cercano di andare negli USA (beh, questo succede anche oggi). Abbiamo modo di sbirciare per qualche minuto una New York futuribile che sembra sotto il controllo di una papessa (Charlotte Rampling, particina miserrima) di una fumosa neoreligione contrastata da un partito avverso che forse (la cosa non mi è chiara) è capeggiato da un ex sodale della papessa. I due hanno generato (per via tecnologica) una figlia e adesso se ne contendono l'uso - cosa che mi pare richiami Il flauto magico.

La madre (diciamo così) paga un tipaccio russo (Gérard Depardieu, parte trascurabile) per trovargli un marcantonio capace di scortargli la figlia, che aveva fatto vivere a lungo in un monastero in Mongolia (non ho capito perché), a New York. Viene scelto un mercenario dall'eloquio poco sciolto (Vin Diesel) che in cambio di un adeguato pacco di soldi e della promessa di poter tornare al suo paese (deve averne fatta una troppo sporca ed è ora indesiderabile negli USA) farebbe questo e altro. La piccola (Mélanie Thierry) viene scortata da una "suora" (Michelle Yeoh) che sembra un agnellino ma sappiamo già che non è esattamente mansueta come il lanoso animale.

Nel corso del viaggio ci saranno vari ammazzamenti, tra cui quello di un caro amico del mercenario (Mark Strong) che li aveva aiutati a passare lo stretto di Bering ma che stava per tradirli, ma alla fine si arriva alla meta, giusto in tempo per la parte più ingarbugliata della storia.

Rapido riepilogo fino a metà dell'opera: abbiamo una catastrofe planetaria (non spiegata); una nuova religione (non spiegata) che (forse) domina gli USA che (inspiegabilmente) non hanno risentito della suddetta catastrofe; una papessa che misteriosamente manda in esilio la "figlia" in una zona ad alto rischio, e che per farla tornare a casa, invece di mandare un battaglione, si appoggia (inesplicabilmente) ad un mafioso russo.

La natura della "figlia" è così inverosimile che ci toccherà seguire lo spiegone che farà il padre al mercenario (non si capisce bene a che scopo, dato che il livello intellettivo del tale non deve essere di molto superiore a quello di una lumaca) per averne una idea.

Il finale, in compenso, mi pare abborracciato e poco soddisfacente.

Considerando che la sceneggiatura (co-scritta da Mathieu Kassovitz, che è anche regista e pure co-produttore) è basata su un corposo librone, mi viene il dubbio che le molte lacune siano nate dalla necessità di mantenere la storia in tempi filmici. Inoltre, ho letto da qualche parte che originariamente il film avrebbe dovuto avere una durata quasi doppia rispetto ai 90 minuti effettivi, e che sia stato pesantemente sforbiciato al montaggio nonostante l'opposizione del regista. C'è anche il fatto che Vincent Cassel avrebbe dovuto essere il protagonista, ma poi la produzione ha imposto Diesel al suo posto.

Possibile che con un diverso protagonista, e un maggior minutaggio, il risultato sarebbe potuto essere migliore?

Monty Python: il senso della vita

Più che un film sul senso della vita, è una analisi di cosa rende la vita penosa, oltre che insensata. Pur essendo organizzato in una serie di sketch, la struttura tiene, offrendo allo spettatore il modo di farsi un buon numero di (amare) risate, oltre che a fornire materiale per meditare sulla condizione umana.

Jabberwocky

Regia e cosceneggiatura di Terry Gilliam, in una prova ancora immatura. È il suo primo film non esplicitamente pitoniano, uscito due anni dopo Monty Python e il sacro graal di cui mantiene, fra l'altro, l'impostazione di massima.

In un medioevo straccione e favolistico, seguiamo le avventure di Michael Palin, figlio di un bottaro che, morto il padre, si reca in città in cerca di fortuna. Scoprirà che il merito serve a poco, ma è il caso che decide chi vive e chi muore, chi ha successo e chi deve tagliarsi un piede (anzi, due) per sopravvivere.

E ora qualcosa di completamente diverso

Più che un film, si tratta di un condensato di un paio di stagioni del Monty Python's Flying Circus - mitica trasmissione seriale della BBC che ha dato una bella scrollata al modo di fare comicità televisiva.

Per sua stessa natura si tratta di materiale eterogeneo e il collegamento tra i vari sketch è praticamente illusorio. Il tipo di umorismo, tipicamente inglese, potrebbe lasciar perplesso lo spettatore mediterraneo.

Intrigo a Berlino

Si parte con filmati d'epoca che mostrano l'amabile Berlino ridotta ad un ammasso di rovine, e si continua con un bel bianco e nero che mantiene lo spirito della cinematografia di una sessantina di anni fa.

Ennesimo esercizio di stile di Steven Soderbergh che ha girato (oltre che fotografato e montato) questo noir come se fosse una produzione dell'immediato dopoguerra. Evidenti i richiami a classici come Casablanca e Il terzo uomo, ma non mancano alcuni tocchi decisamente personali. Ad esempio capita che siano tre i personaggi che si alternano nel ruolo dell'io narrante. Inizia Tobey Maguire (in pieno periodo Spider-Man e qui poco probabile) in un ruolo che sarebbe stato interpretato con gusto da Peter Lorre, una sorta di viscida nullità che apprezza la guerra in quanto occasione che gli permette di diventare quello che davvero è (una viscida nullità, per l'appunto). Poi seguiamo prevalentemente George Clooney, giornalista embedded che si trova coinvolto in una trama che non riesce a comprendere (anche perché lo tocca personalmente), che lasciamo momentaneamente per una parentesi in cui la parola passa a Cate Blanchett, dark lady in un ruolo recitato alla Marlene Dietrich (e, ahimè per la Blanchett, in paragone non regge) che mi ha fatto pensare a Testimone d'accusa.

Piacevole visione, anche se l'enfasi è tutta sulla tecnica, e la sceneggiatura risulta quasi accessoria al gioco del regista.

Shrek - E vissero felici e contenti

Quarto, e a questo punto spererei ultimo, episodio della saga di Shrek. Alla fine della terza puntata, l'orco era tornato nella sua palude con orchessa e orchetti e si apprestava ad avere una felice vita matrimoniale, con frequenti visite di amici (gatto con gli stivali, ciuchino e draghessa con bizzarri figlioletti misti).

Cosa può accadere a questo punto se non una crisi di mezza età? Ed è proprio questo il tema della sceneggiatura. Shrek finisce per rimpiangere la sua vita da scapolo, e si ingabola con un patto faustiano con il perfido Tremotino. Viene sparato in una realtà parallela avendo un solo giorno di tempo per far sì che la Fiona di quel mondo si innamori di lui.

La sceneggiatura regge con fatica e anche se il film porta alla fine a casa il risultato, non viene da chiedere il bis.

The fall

Più che un film, un esercizio di stile. Remake di Yo ho ho, film bulgaro che ha ottenuto una certa visibilità solo oltrecortina (è del 1981), che viene arricchito visualmente a scapito della scorrevolezza della storia (per quanto sono riuscito a trovare sulla sceneggiatura originale di Valeri Petrov).

Si racconta di una bimba in ospedale per un braccio rotto nella California dell'inizio del secolo scorso che fa amicizia con uno stuntman rimasto paralizzato in seguito ad un numero poco riuscito. Lui le racconta una storia che si sviluppa usando agganci della realtà e dei desideri della piccola, che però viene finalizzata a fare in modo che lei gli fornisca (inconsapevolmente, si intende) gli strumenti per permettergli di suicidarsi. Il piano dell'uomo va orribilmente male, e la bambina rischia di morire. Lui si convince definitivamente di essere un buono a nulla, ammazza ad uno ad uno tutti i personaggi della sua storia (a partire da un piumoso Charles Darwin con la sua saggia scimmia) per esporre alla fine la sua nullità nello scontro finale tra il suo alter ego e il supercattivo. Fortunatamente si tratta di una commedia, e nonostante la situazione sembri disperata c'è ancora spazio per il lieto fine.

È il secondo film diretto da Tarsem Singh, dopo The cell, anche quello un film che si sviluppa su due livelli. Qui passiamo tra realtà e fantasia, lì tra realtà e subconscio di un criminale, in una sorta di strano incrocio tra Il silenzio degli innocenti e Matrix. Mi ha fatto pensare anche a I soliti sospetti, per come la storia di fantasia all'interno del film viene creata appoggiandosi ad elementi trasfigurati della realtà. Ma qui la sceneggiatura mi pare più interessante, perché ho apprezzato la crescita del protagonista, che riesce, grazie alla bambina (che nonostante le apparenze finisce per essere il personaggio più maturo) a superare la sua crisi. E naturalmente anche a Being John Malkovich (Spike Jonze ci mette il nome nei titoli di testa assieme a David Fincher).

Musicalmente parlando si va sul sicuro, appoggiandosi alla settima sinfonia di Beethoven; visualmente si sfruttano le bellezze naturali e architettoniche di quasi tutto il mondo, creando una sorta di brochure in stile National Geographic per la Terra ad uso e consumo di un alieno in visita sul nostro pianeta. O di memorandum per tutti quanti noi su quanta bellezza ci sia nel nostro mondo.

Falstaff

In originale il titolo include anche un sinistro Campane a mezzanotte (Chimes at midnight) che dà un bell'indizio di dove il regista, sceneggiatore, protagonista (Orson Welles) vuole andare a parare.

È l'ultimo lungometraggio diretto da Welles, dopo di questo riuscirà a trovare fondi solo per documentari o corti, e anche questo lavoro è stato strangolato da una evidente mancanza di soldi. Per riuscire arrivare alla fine si sono fatti salti mortali: si tratta infatti di una composita produzione ispanico-franco-svizzera con set basato in Spagna e post produzione in Francia. Nel cast brillano Jeanne Moreau, Fernando Rey e, in un piccolo ruolo, Walter Chiari. Il montaggio e il sonoro sono sorprendenti (nel senso che succedono cose inaspettate); contrariamente alle abitudini del regista, i primi piani abbondano, lasciando pensare ad una scelta economica più che stilistica.

Eppure ci sono scene degne di un colossal. La battaglia, ad esempio, una decina di minuti di violenza insensata, punteggiata da inquadrature di Falstaff, inscatolato in una gigantesca armatura, che scappa di nascondiglio in nascondiglio. La maestosa incoronazione di Enrico V, con il suo scambio di battute con Falstaff. E in altre scene Welles riesce a rendere l'isolamento di Enrico IV, o l'esagerato trasbordare fisico di Falstaff, semplicemente mettendo la macchina da presa al punto giusto.

La storia è tratta praticamente alla lettera da Shakespeare, ma cambiando radicalmente il punto di vista. Falstaff è infatti un personaggio minore che appare in Enrico IV, Enrico V, e ne Le allegre comari di Winsdor, qui viene trasformato nel protagonista assoluto, e tutta la vicenda viene letta in sua funzione. Da figura tragicamente comica a comicamente tragica. Compagno di crapula del principe di Galles, quando questi sale al trono come Enrico V, invece di riconoscere la sua amicizia, lo allontana rinnegandolo.

Dunque è un film sul tradimento dell'amicizia. Ma va pure considerato che Falstaff non è certo un agnellino, anzi. Lo vediamo mentire, tradire, rubare, farsi prepotente con chi non si può difendere, ma scappare non appena vede il rischio di una mala parata. E allora è anche un film sul mistero dell'animo umano. Enrico V tradisce la sua amicizia con Falstaff perché in quel momento non è più sostenibile, lo metterebbe in posizione di inferiorità nei confronti dei suoi nemici interni. Ma allora non fa altro che seguire gli insegnamenti di Falstaff. E allora, per logica, Falstaff dovrebbe rendersi conto che è stato lui a vincere, Enrico V è un suo degno allievo. Il fatto è che noi umani non siamo logici.

Diario di una schiappa 2: la legge dei più grandi

Rispetto al primo episodio cambia la regia, ora affidata a David Bowers, e la sceneggiatura punta ad un bersaglio più consistente, e meglio esplicitato dal titolo originale Diary of a wimpy kid: Rodrick rules, dove Rodrick è il fratello rocchettaro del ragazzino protagonista, ora giunto a quella che credo sia paragonabile alla nostra seconda media.

Dunque si parla principalmente della tempestosa relazione tra i due fratelli, lasciando in secondo piano la vicenda scolastica e anche il rapporto tra i due amici coetanei. Un tema che darebbe molto da dire, ma che mi pare sviluppato in modo poco soddisfacente, ricorrendo a situazioni già viste (tipo una festa di liceali in una casa lasciata vuota dai genitori) e lasciando lunghe pause nello sviluppo dell'azione.

Il film vira verso la commedia adolescenziale, risultando meno naive, e lasciando più spazio alla famiglia del protagonista. Purtroppo i genitori (Rachael Harris e Steve Zahn) non risultano adeguati quanto i figli (Zachary Gordon e Devon Bostick).

Diario di una schiappa

Buona l'idea originale, una sorta di diario di Bridget Jones ma tenuto da un bambino/ragazzetto alle prese con la dura vita scolastica di quell'età. Piacevole la regia fumettosa di Thor Freudenthal. Non sono rimasto particolarmente soddisfatto dalla sceneggiatura, che mi è parsa priva di un obiettivo chiaro nella narrazione. Forse avrebbe giovato agli autori la visione di qualcosa di François Truffaut.

Gli adulti hanno parti di rincalzo (e poche scene in cui si possono far valere). Il giovanissimo protagonista (Zachary Gordon) deve sostenere quasi da solo la baracca, ma se la cava bene, come pure Chloe Moretz qui in una particina. Interessante per la Moretz il paragone con Kick-ass, film dello stesso anno, ma qui sembra decisamente più matura.

Lassù qualcuno è impazzito

Che sia il seguito di Ma che siamo tutti matti? lo si capisce meglio dal titolo originale, The gods must be crazy II. Anche in questo caso mi vien da pensare che la distribuzione italiana non abbia capito il senso del titolo e abbiano semplicemente cercato un qualcosa di simile, privato del riferimento esplicito al divino.

L'impostazione è molto simile a quella del primo episodio, non per nulla sono entrambi scritti e diretti da Jamie Uys. Una commedia traslata in Africa che viene stravolta dal passaggio di un boscimano, sempre N!xau, impegnato in una sua peculiare missione, questa volta più semplice s spiegarsi: la ricerca di due suoi figli che sono finiti nel camion di bracconieri passato dal loro territorio.

Più complicata la commedia occidentale. Una donna d'affari newyorkese (Lena Farugia) è in resort africano per un convegno. Una guida in cerca di avvenenti turiste da abbordare le offre un giro su di un buffo aeroplanetto. A metà viaggio la guida scende e lascia il posto ad un biologo. Tra i due c'è immediata antipatia, e la comicità nasce dalla contrapposizione dei due caratteri (e sappiamo bene che ci sarà il lieto fine). Causa maltempo i due si perderanno nel deserto, verranno separati, lei incontrerà due soldati di opposte milizie che cercano di arrestarsi a vicenda - ma sarà lei ad arrestare entrambi. Riuniti grazie all'intervento di N!xau, incapperanno nei bracconieri di cui sopra. Segue una certa concitazione, ma poi tutto andrà per il meglio.

Apprezzabile l'ambientazione africana e l'umorismo molto leggero.

Ma che siamo tutti matti?

Probabile che il titolo originale, The gods must be crazy, sia stato considerato troppo blasfemo per il mercato italiano. Però almeno si sarebbe dovuto tenere il punto di vista alieno, e usare qualcosa come Ma siete tutti matti? che avrebbe reso meglio il concetto.

Infatti si narra una tipica storia da comica in bianco e nero (vedi Buster Keaton) traslata in Africa, seguendo il punto di vista di un boscimano (interpretato da N!xau, dove il punto esclamativo nel nome sta per un buffo suono, una sorta di click, tipico della lingua boscimana) che è impegnato in una missione tangenziale alla vicenda dei bianchi che incontra.

La vicenda comica è quella di una giovane donna che decide di abbandonare la vita di una metropoli africana (europeizzata) per andare a fare la maestrina in mezzo al nulla africano. Lì incontra un biologo estremamente impacciato con le donne, a cui lei evidentemente piace molto, e questo lo porta ad essere ancora più impacciato e disastroso. Terzo incomodo, un fascinoso operatore turistico. Il cattivo della vicenda è un rivoluzionario da strapazzo che rapisce la bella e la sua classe per guadagnarsi una via di fuga.

La vicenda boscimana è invece quella di un clan familiare che incappa nella civiltà occidentale sotto forma di bottiglia della cocacola lanciata da un aereo di passaggio. Inizialmente ne apprezzano la versatilità, ma finisce per causare più problemi che vantaggi. Dunque chi l'ha trovata decide di partire per la fine del mondo e gettarla. Nel suo viaggio incontra strani individui (che inizialmente pensa essere dei, data la loro alterità) che si comportano in modo bislacco.

Certamente, forse

Terribile titolo per una molto newyorkese piacevole commedia sentimentale ben scritta e un po' meno bene diretta da Adam Brooks. Incolpevole la distribuzione italiana, visto che si tratta della traduzione letterale dell'originale Definitely, maybe - un riferimento al primo album degli Oasis, sembra, anche se non ne vedo il motivo. Forse una di quelle canzoni doveva far parte della colonna sonora (molto ricca) e poi è mancato l'accordo con la produzione? Misteri.

Ottimo il cast, tranne il protagonista (Ryan Reynolds) che mi è sembrato una pallida copia di Ben Affleck. Ruoli minori per Derek Luke e Kevin Kline (che, detto per inciso, ha un paio di scene con Reynolds e lo fa letteralmente scomparire dalla scena). Lato femminile ben servito da Isla Fisher, Rachel Weisz, Elizabeth Banks e la piccola (ma tosta) Abigail Breslin.

La storia inizia con Reynolds che riceve per posta il documento per completare la pratica di divorzio, esce dal suo ufficio in midtown Manhattan e si fa una piacevole passeggiata primaverile fino alla scuola della figlioletta, nell'Upper East Side (insomma, ha fatto il grano), con cui passerà una giornata. Parte un lungo flash back in cui il protagonista racconta alla figlia la sua complicata storia sentimentale, cercando di spiegarle come mai si sta arrivando alla rottura. Divertente il fatto che la figlia (e lo spettatore) viene sfidata a scoprire quale sia la madre tra le molteplici donne che incrociano la vita del padre. Nonostante il fatto che sappiamo sin dall'inizio che c'è un divorzio in corso, la storia ad avere una sorta di happy ending.

Il gioco di Ripley

Si da per scontato che uno sappia chi mai sia Ripley, e quindi prima di vedere questo film co-scritto e diretto da Liliana Cavani conviene vedersi Il talento di Mr.Ripley o leggersi i romanzi della Highsmith che stanno alla base della vicenda. Altrimenti bisogna accontentarsi del breve prologo in cui vediamo Ripley (interpretato qui da un ottimo John Malkovich) in azione a Berlino, per capire quanto sia pazzo, pericoloso, e acculturato.

L'azione parte qualche anno dopo, quando Ripley viene scovano nel suo dorato esilio in Veneto dal suo vecchio compagno di malefatte (un divertente Ray Winstone) che gli chiede di ammazzare un tale per fargli un favore. Caso vuole che il giorno stesso Ripley si sia sentito insultato da una affermazione di un vicino (Dougray Scott, scarsotto) che notava la mancanza di gusto del ricco americano. E bisogna dire che sarà stato scortese ma non menzognero, a Ripley manca la capacità di appassionarsi, può dunque vedere la differenza tra un capolavoro e una crosta, ma riesce solo ad essere molto competente. Fatto sta che Ripley decide di cortocircuitare i due fatti, e fare in modo che il suo vicino, persona mite, diventi un assassino a pagamento.

Non sono rimasto entusiasta della regia, per lunghi tratti mi è sembrato di vedere un poliziesco anni 70, e nemmeno dei migliori, fortuna che ci sono un paio di scene davvero ben fatte, e mi sembra il caso di dire che questo è uno di quei film che viene salvato da un buon finale.

Essere John Malkovich

La scena che da sola vale la visione del film è quella in cui John Malkovich viene sparato, per mezzo di un inesplicabile meccanismo che è il fulcro della storia, in un assurdo mondo in cui tutti (uomini, donne, bambini) sono John Malkovich e l'unica parola pronunciabile è Malkovich.

Regia piacevole di Spike Jonze, storia sorprendente di Charlie Kaufman, entrambi al primo lungometraggio. Meglio non entrare nei dettagli di quel che succede perché, svanito l'effetto sorpresa, la prima visione perde molto. Anche se c'è da dire che l'ottimo cast permette di godersi anche le visioni successive.

Un tale (John Cusack) che per vocazione sarebbe puparo, cosa che perfino a New York non offre molti sbocchi occupazionali, è sposato a una ingrigita e dimessa Cameron Diaz. Su pressione di lei si cerca un lavoro alternativo, e lo trova come archivista in un ufficio che si trova al settimo piano e mezzo di un bizzarro palazzotto in Manhattan. Lì incontra un'altra donna (Catherine Keener) da cui viene irresistibilmente attratto, nonostante lei gli faccia capire di non avere praticamente il minimo interesse per lui - o forse proprio per questo.

Questa che sembra una normale commedia metropolitana, vira improvvisamente su un piano metafisico/psicologico, tirando in ballo temi non indifferenti quali il senso della vita, la morte, il concetto di "essere", di individualità, e altre bazzecole del genere, ma sempre restando nei canoni della commedia sentimentale leggera. A ben vedere, la storia in quanto tale è una sciocchezza magistrale, e non sono nemmeno ben sicuro di cosa voglia dire. Però offre un paio d'ore di bizzarro divertimento.

Simpatica la partecipazione di Charlie Sheen, anche lui, come Malkovich, nei panni di sé stesso.

Le relazioni pericolose

La maledizione del primo film americano, secondo cui un regista europeo a Hollywood ottenga un risultato ben al disotto delle sue possibilità, è stata disattesa da Stephen Frears, che con Dangerous Liaisons ha realizzato uno dei suoi film più belli. Sarà forse perché invece di lasciarsi incantare dai meccanismi produttivi di oltreoceano è riuscito a usarli a dovere, in modo da ottenere un cast lussuoso e i mezzi economici non indifferenti che richiede un film in costume, quando lo si voglia fare a modo.

La sceneggiatura è adattata dall'omonimo romanzo epistolare di fine settecento che rappresenta ottimamente una storia di vanità e di scontro di personalità che potrebbe essere traslata in qualunque periodo - ricordo la versione anni cinquanta di Roger Vadim che, pur spostando il baricentro dell'azione sul rapporto tra sesso e amore, manteneva comunque un suo interesse.

La storia narra di due libertini, il visconte di Valmont (John Malkovich) e la marchesa di Merteuil (Glenn Close), già amanti, e che coltivano una relazione disincantata, mirante a soddisfare le reciproche lussurie. In realtà si amano, ma non sanno come dirselo, o forse reputano che ne andrebbe del loro prestigio se lo ammettessero.

La marchesa vorrebbe tirare un brutto tiro ad un altro suo ex amante, e fare in modo che la sua promessa sposa (una giovane Uma Thurman) non giunga propriamente immacolata al matrimonio. Chiede aiuto a Valmont che però nicchia. La ragazzetta è un bersaglio troppo semplice per la sua reputazione. Vuole invece conquistare una borghese (Michelle Pfeiffer) nota per il suo rigore morale. La marchesa storce il naso, e passa al piano B, cercando di fare in modo che un ragazzetto (Keanu Reeves al primo ruolo significativo) la concupisca.

I toni sono da commedia, solo nel finale si rivela che stiamo assistendo ad una tragedia che si porterà via i tre (bravissimi) interpreti principali.

Ombre e nebbia

Uno dei titoli più europeizzanti dal catalogo di Woody Allen. Basato di su un suo precedente pezzo teatrale, e la cosa mi pare venga pagata con una certa lentezza dell'azione in alcuni punti. La storia mette insieme atmosfere da sogno (che spesso virano in incubo), analisi psicologica e sociale, e altre bazzecole come il senso della vita, l'amore, la morte e sicuramente qualcos'altro che al momento mi sfugge.

L'azione si svolge presumibilmente in una città europea dell'inizio del secolo scorso, immersa in un notte nebbiosa fotografata impeccabilmente da Carlo Di Palma. Un povero disgraziato (Woody Allen) viene svegliato da una ronda di vigilantes che vogliono che lui partecipi ad un piano - che nessuno gli spiega - per catturare un serial killer che ha già strangolato e sgozzato varia gente. Riluttante, esce nella notte e vive varie vicende che lo porteranno nel finale ad essere inseguito dalla polizia, da una torma urlante che vuole impiccarlo sul posto, e dal maniaco omicida. Ma dopotutto è una commedia e il nostro eroe riuscirà a cavarsela, passando lo specchio come Alice.

Le citazioni sono innumerevoli. Visualmente l'atmosfera è quella dell'espressionismo tedesco, richiamato soprattutto con un magnifico uso delle ombre; l'impostazione della storia è tipicamente kafkiana, con il protagonista che deve partecipare ad un piano che nessuno gli sa spiegare e che vede sin dall'inizio che non gli porterà niente di buono; musicalmente ci si appoggia su una base fornita da Kurt Weill, e le tematiche sociali di Brecht fanno capolino con discrezione. Il bersaglio grosso mi pare comunque sia Ingemar Bergman, di cui vengono riprese tematiche, modalità di ripresa (vedi la scena con le prostitute che raccontano le loro esperienze), e anche uno dei finali del film. Abbiamo infatti anche qui, come ne Il settimo sigillo, alcune vittime predestinate che sfuggono alla morte, in un modo tutto sommato simile.

Alla città viene contrapposto il circo (e qui c'è un bel rimando a Federico Fellini), di cui non viene data una immagine edulcorata - al contrario, la sua prima apparizione fa pensare piuttosto a Freaks - ma ne viene sottolineata comunque l'alterità rispetto alla grigia vita cittadina.

A dir poco incredibile il cast. Nel circo abbiamo Mia Farrow, mangiatrice di spade che convive con il clown John Malkovich. Il terzo incomodo è Madonna (nel senso della signora Ciccone) trapezista di facili costumi. Sul finale entrerà in azione anche il mago, un deus ex machina pasticcione interpretato da Kenneth Mars, caratterista scomparso di recente.

Altro centro nevralgico dell'azione è il bordello, dove cercheranno rifugio prima la Farrow e poi Allen, che è popolato da attrici del calibro di Jodie Foster e Kathy Bates, e che ha tra i suoi clienti più assidui lo studente John Cusack.

Interessante notare che i cittadini sono interpretati da personaggi secondari, a sottolineare che l'interesse della storia è altrove. Spicca in questo contesto il personaggio del medico (il sempre impressionante Donald Pleasence), che rappresenta l'uomo di scienza che perde il contatto con la realtà e finisce per dare alla razionalità uno spazio maggiore di quanto le competa. Quasi più una curiosità che altro l'apparizione di John C. Reilly tra i poliziotti.