Lo stagista inaspettato

Ben (Robert De Niro) aveva due passioni nella vita, il suo lavoro e sua moglie. Adesso è un danaroso settantenne vedovo che vive a Brooklyn, pratica tai chi con risultati non entusiasmanti e incontra i suoi amici prevalentemente ai vari funerali che si susseguono con un ritmo allarmante. Per sua fortuna una web startup modaiola a due passi da casa decide di offrire uno stage ad ultrasessantaciquenni come modo di rendersi più simpatica alla clientela.

A capo della azienda c'è Jules (Anne Hathaway), una trentenne rampante disposta ad impegnarsi al cento per cento per la società che ha creato dal nulla e chi è in vertiginosa crescita. Il problema è che le ore di una giornata sono quelle e lei non riesce materialmente a stare dietro a tutto quello che succede, oltre ad essere sposata e ad avere un bimba. Il marito (Anders Holm) ha mollato il suo lavoro per lei, ma non sembra che la situazione possa reggere ancora a lungo.

Nonostante la gran pressione che deve gestire, Jules, che è una control freak, non gradisce che Ben venga assegnato a lei, e lo lascia senza nulla da fare. Ben, che non è certamente un pivello, sa bene come sopravvivere al mobbing passivo, si cerca lui cose da fare, riuscendo, sia pure con gran lentezza, ad entrare nelle simpatie di Jules. Nel processo, Ben si fa benvolere dai colleghi, e riesce pure ad imbastire una relazione con la non più giovane ma ancora procace massaggiatrice aziendale (Rene Russo).

Più la storia prosegue, più si addensano i rischi di catastrofe per Jules, il suo matrimonio, la sua leadership aziendale, persino la relazione con sua madre, sembrano tutte destinate al naufragio. Ma Ben, con l'aplomb di un novello Jeeves, finisce per aiutarla a prendere sempre la decisione giusta che la salva.

Ad un certo punto Ben rischia di entrare in collisione con la segretaria particolare di Jules, Becky (Christina Scherer), e la scena mi ha richiamato quella simile in Il diavolo veste Prada con la Hathaway che prende il ruolo che era di Meryl Streep, De Niro in quello che era della Hathaway e la Scherer al posto di Emily Blunt. E questo mi ha fatto vedere questo film come una versione bonacciona di quell'altro. Già, perché se là erano tutti con il coltello (*) in mano, qui invece si vogliono tutti bene, ogni possibile conflitto è spento sul nascere e, perdinci, tutti alla fine vivono per sempre felici e contenti.

Il risultato è tutto sommato piacevole, anche se ben poco memorabile. La scena più divertente credo sia quella in cui un commando di colleghi, con a capo Ben, si recano a casa della madre di Jules per accedere il computer di lei e cancellare una affilata mail che ella non deve vedere. Per il resto l'azione si svolge con una dolcezza forse intenzionale (**) ma che mi è sembrata eccessiva.

(*) Metaforico ma neanche troppo.
(**) Mi viene da pensare che Nancy Meyers abbia deciso di iniziare e finire il racconto su un esercizio di Tai Chi proprio per sottolineare il tono dello sviluppo narrativo.

Tommy

Adattamento cinematografico di Ken Russell dell'omonima opera rock di Pete Townshend, quarto album degli Who. La storia narrata cambia in alcuni dettagli non secondari, ma resta in entrambe le versioni piuttosto confusa, al punto che forse sarebbe meglio guardarsi il film come un lungo videoclip senza badare troppo al senso.

Tommy viene concepito dai genitori (Robert Powell e Ann-Margret) in un pacifico laghetto di montagna mentre altrove impazza la seconda guerra mondiale. Nascerà il giorno del ritorno della pace, dovendo fare a meno del padre, caduto in battaglia. Anni dopo, la madre si è trovata un altro uomo, Frank (Oliver Reed), che il piccolo Tommy considera come uno zio. Una notte, sorpresa delle sorprese, torna il padre, ma Frank lo ammazza (*). Tommy assiste alla scena e lo shock è tale che diventa muto, sordo e cieco. Più probabilmente, la seconda morte del padre è simbolica, sembra piuttosto che Tommy abbia assistito ad una scena di sesso tra sua madre e lo "zio", e questo tradimento della figura paterna, che la stessa madre gli aveva idealizzato, lo deve aver portato a rinchiudersi in un isolamento autistico. Sia come sia, Tommy non reagisce più ad alcuno stimolo esterno, e cresce in un mondo tutto suo.

Passano gli anni, e Tommy è diventato grande (Roger Daltrey). La madre in cerca di miracoli lo porta alla funzione di un santone (Eric Clapton) che venera Marilyn Monroe e distribuisce agli adepti droghe e alcolici. Il patrigno invece lo affida alle cure di una rinomata prostituta, La regina dall'acido (Tina Turner). Entrambe le cure falliscono, anche se la seconda sembra avere effetti psichedelici non trascurabili sul soggetto. I due genitori si rassegnano, e vivono la loro vita, affidando Tommy di tanto in tanto a parenti quando vogliono svagarsi. Il cugino Kevin (Paul Nicholas) lo sevizia, lo zio Ernie (Keith Moon) lo violenta. Misteriosamente Tommy scopre di essere un asso al flipper, riuscendo a battere il precedente campione (Elton John), ottenendo da ciò enormi somme di denaro che fanno la gioia dei genitori.

I soldi non fanno la felicità, ma permettono l'accesso a cure mediche migliori. Così Tommy viene portato da uno specialista (Jack Nicholson) che analizza per bene il soggetto (**) e deduce che l'origine del blocco è psicosomatico, non c'è niente che lui possa fare. La madre, che aveva già da tempo notato la fissazione di Tommy per la sua immagine riflessa dallo specchio, causa un nuovo shock al suo pargolo che ha l'effetto di sbloccarlo.

Il che sarebbe un bene, se non che Tommy si mette in mente di essere un novello redentore, e pensa che tutti, per essere felici debbano seguire il suo percorso, rinunciare vedere, udire, parlare, giocare a flipper, fino a trovare l'illuminazione. E il peggio è che un gran codazzo di gente gli dà retta, finché non si accorgono della balordaggine che stanno facendo. Altro shock per Tommy, che perde il suo stato di Eletto, e pure i genitori. Ma tutto questo, chissà come mai, lo aiuta a fare l'ultimo passo in avanti, e trova la vera felicità.

La prima parte è indigesta. Mi pare che Ken Russel abbia voluto scandire il passare del tempo abbracciando i diversi stili del cinema inglese col passare dei decenni. Idea simpatica, ma m'è parsa macchinosa. Meglio la seconda parte, anche se molto discontinua.

(*) In originale, era il padre ad uccidere l'amante della madre.
(**) E forse fa sesso con la madre, o almeno i due ci vanno molto vicini.

Doctor Who 9.6: The woman who lived

Non è propriamente un episodio a se stante, visto che al centro della storia c'è Ashildr (Maisie Williams) che era la ragazza che morì (*) nella puntata precedente. Ma il legame è abbastanza debole da permettere di vedere le due puntate separatamente, senza troppi patemi.

Sono passati alcuni secoli da allora, Ashildr ne ha passate di tutte i colori, e per motivi suoi non ben specificati ora vive dalle parti di Londra. Annoiandosi brutalmente, si è creata una vita parallela, e deruba i ricchi per il proprio tornaconto sotto il nome di Knightmare, che suona come Nightmare (incubo) ma gioca con il termine Knight (cavaliere). Inoltre non si riconosce più nel suo nome da vichinga, ma si fa chiamare, piuttosto autisticamente, Lady Me. Il fatto è che la mente umana non è fatta per una esistenza così lunga, e la poverina ha fondamentalmente perso il concetto di sé, finendo per dubitare persino di avere una qualche empatia nei confronti degli altri esseri umani.

Il Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi) la reincontra praticamente per caso, seguendo il segnale di un suo bizzarro apparecchio, un curioscanner, e il cui scopo è seguire i segnali emessi da oggetti curiosi. Il bersaglio, guarda caso, è ambito anche da Lady Me. Lui lo vuole esaminare perché ne teme l'origine extraterrestre, lei ha motivi suoi, che scopriremo essere legati a un buffo, ma molto pericoloso, alieno con sembianze leonine.

Nella concitazione che segue gli avvenimenti, un brigante da strada, tale Sam Swift (Rufus Hound) potrebbe aver acquisito anche lui una qualche forma di prolungamento degli anni a disposizione, o magari anche no. Il Dottore cita anche il capitano Jack Harkness, e sembra sorpreso che Lady Me non l'abbia ancora incontrato, trattasi forse di aggancio per una possibile ripresa di Torchwood?

Brilla per la sua assenza Clara (Jenna Coleman). La vediamo solo nel finale, giusto per ricordarci che c'è (ancora).

(*) Ma che tornò pure in vita, diventando potenzialmente immortale.

L'incredibile avventura di Mr. Holland

Chissà se Age e Scarpelli si sono ispirati intenzionalmente a questo film per il loro La banda degli onesti (*), o è lo spirito dei tempi che a quei tempi soffiava nella direzione di storie in cui gente tranquilla si metteva nei pasticci per rincorrere un sogno di ricchezza che poi, a ben vedere, non gli apparteneva nemmeno. Di sicuro Charles Crichton ha ampiamente citato questa pellicola nel suo ultimo lavoro, Un pesce di nome Wanda.

Mr. Holland (Alec Guinness), è in un ristorante di Rio de Janeiro e, mentre inizia a raccontare la sua storia ad un altro inglese, regala mazzi di soldi a conoscenti passano di lì (**). Inizia così un lungo flashback, in cui ci viene spiegato che ha lavorato per tutta la vita per la Banca d'Inghilterra, e il suo compito principale era quello di sovraintendere al trasporto di lingotti d'oro dalla zecca alla banca. Nel corso degli anni ha maturato l'idea di un piano perfetto per rubare un carico e farla franca, gli mancano solo alcuni dettagli, come fare ad esportare l'oro, che in patria non sarebbe commerciabile, e come reclutare la manovalanza per il colpo.

Per sua dubbia fortuna conosce Pendlebury (Stanley Holloway), artista nell'animo, ma che campa commerciando orribili souvenir, e pensa di trasformare l'oro in piccole repliche della Tour Eiffel, spedirle a Parigi, e lì piazzarle sul mercato nero. Con un assurdo stratagemma, i due attirano due piccoli criminali nella loro banda, e preparano il colpo. Che, nonostante una serie di contrattempi, riesce.

Ma negli anni cinquanta il crimine al cinema non pagava, e così quella che sembrava la parte più semplice del piano, si rivelerà essere irta di difficoltà.

(*) Il titolo originale, The Lavender Hill mob, fa pensare proprio ad una banda di onesti, basati come sono in un tranquillo quartiere londinese.
(**) Tra gli altri, anche una leggiadra fanciulla riceve un bel malloppo, tale Chiquita, interpretata da niente meno che Audrey Hepburn ad inizio carriera. Una sola battuta per lei, ma riesce ad essere memorabile anche solo così.

Ritorno al futuro parte III

Dopo la parentesi della parte due, si torna alla struttura della parte uno, in cui l'azione si svolge nel presente (1985) e nel passato, con la variazione che al passato relativamente prossimo (1955) si aggiunge il più remoto 1885. Per conto mio è meglio così, mi pare che alla base del racconto di Bob Gale e Robert Zemeckis ci sia la nostalgia per la loro infanzia, per i favolosi anni cinquanta, e anche il racconto del vecchio west è evidentemente filtrato dal cinema di quei tempi, e in particolare lo spaghetti-western di Sergio Leone (*), con le ripetute citazioni alla sua trilogia del dollaro, e in particolare a Per un pugno di dollari (**).

Alla fine dell'episodio 2, i protagonisti erano stati separati da un inatteso colpo di fulmine. Marty (Michael J. Fox) nel novecento, Doc (Christopher Lloyd) nell'ottocento, con la DeLorean inutilizzabile. Doc riesce a rimandare la macchina a Marty, spiegandogli come ripararla e invitandolo a tornarsene nel suo presente, lasciandolo lì, in quel tempo, che ci si trova bene. Il Doc anni 50 lo aiuta a rimettere in sesto il mezzo usando la tecnologia del tempo, ma Marty, avendo scoperto che il "suo" Doc corre un mortale pericolo nel far west, contravviene al suggerimento e va in suo soccorso.

A causare tutti i problemi è Mad dog Tannen (Thomas F. Wilson), un poco di buono da cui discenderà il Biff che tanto fastidio aveva dato ai McFly nei precedenti episodi. A complicare il tutto, Doc si innamorerà di una bella maestrina, Clara Clayton (Mary Steenburgen), che ha una passione per la scienza e pure per la fantascienza, creando una tensione tra ragione, che lo vorrebbe far tornare al suo tempo lasciando lì la sua bella, e sentimento.

(*) Che gli americani credono sia roba loro.
(**) Che a dire il vero è del decennio successivo, quando i due autori erano più grandicelli e potevano guardarli.

Ritorno al futuro parte II

A mio parere, il bello della trilogia sta nel come Robert Zemeckis & Bob Gale raccontano il passato. Sono andato a rivedermi il lapidario commento che avevo scritto su questo episodio della serie, e scopro che i quattro anni e mezzo passati dalla precedente visione non mi hanno fatto cambiare opinione. La rappresentazione del futuro, che nel frattempo è diventato presente, continua a non dirmi molto, al contrario del ritorno agli anni cinquanta, che questa volta si complica ancora di più, visto che ci sono ben tre Marty McFly (Michael J. Fox) e altrettanti Doc (Christopher Lloyd) che cercano di operare sullo stesso continuum spazio-temporale.

Il Doc anni ottanta torna a prendere il McFly coevo per risolvere un impiccio nel 2015 che coinvolge il figlio del suo giovane amico. Ma questo causa un altro impiccio, causato da Biff (Thomas F. Wilson) che dal 2015 torna al 1955 per dare a se stesso la possibilità di arricchirsi e sposare Lorraine (Lea Thompson). Dunque Doc & Marty tornano a loro volta nel 1955 per ristabilire la storia a vantaggio dei McFly.

Nel finale, però, Doc finisce a causa di un incidente ancora più indietro nel passato, ai tempi del selvaggio West, lasciando il Marty degli anni ottanta negli anni cinquanta. La terza parte di occuperà di sistemare anche questa anomalia, chiaro, no?

Ritorno al futuro

Per errore Marty McFly (Michael J. Fox), che doveva semplicemente documentare l'esperimento del suo amico Emmett "Doc" Brown (Christopher Lloyd), viene sparato nel passato a bordo di una DeLorean modificata. Lì rischia di sabotare il matrimonio dei suoi, e quindi di cancellarsi dalla storia. L'unico che lo può aiutare è lo stesso Doc, che proprio quel giorno aveva avuto l'idea seminale che gli avrebbe permesso, dopo trent'anni di duro lavoro, di realizzare una macchina del tempo.

Nel rimediare al suo pasticcio, Marty finisce per far superare un paio di problemi caratteriali al padre (Crispin Glover) e alla madre (Lea Thompson), con conseguente aggiustamento della vita di tutta la famiglia. A farne le spese è Biff (Thomas F. Wilson), il bullo che aveva passato la sua intera esistenza ad angariare McFly senior.

Come capita spesso nelle storie che usano viaggi nel tempo, occorre mettere da parte la logica, non badare troppo ai paradossi, e godersi lo svolgimento senza farsi troppe domande. Molto anni ottanta il finale che mostra cosa si intendeva ai quei tempi per famiglia felice - tanti soldi che girano, il fratello che fa un lavoro probabilmente nel campo della finanza più o meno creativa, un pickup molto tamarro.

La sceneggiatura (*) e la regia di Robert Zemeckis brilla per una lunga serie di trovate comiche che sfruttano a dovere le capacità dei due protagonisti, e per l'affettuosa ricostruzione degli anni cinquanta.

(*) A quattro mani con Bob Gale.

The lobster

David (Colin Farrell baffuto e con pancetta) è piuttosto depresso, causa la fine del suo matrimonio. E per lui è peggio di quel che possiamo immaginare, perché nel suo mondo gli adulti possono vivere nella città solo se hanno un partner. Chi non ce l'ha viene mandato per un mese e mezzo nell'albergo, dove dovrà cercare di riformare una coppia. Il fallimento viene punito con la trasformazione in un animale a propria scelta. David pensa che l'aragosta sia una buona scelta, da cui il titolo del film.

La perfida direttrice dell'albergo (Olivia Colman) fa di tutto per metterlo a suo disagio. Non è che ce l'abbia con lui, è che proprio non capisce come una persona possa essere single. Avrà la sua redde rationem, è solo questione di tempo. David fa amicizia con un paio di altri disgraziati, un tale che zoppica (Ben Whishaw) da quando è stato assalito da un branco di lupi nel tentativo di identificare sua madre, e un'altro che parla con la zeppola (John C. Reilly). I tre cercano di beccare con le single, ma non riescono proprio ad entusiasmarsi per nessuna delle presenti, anche perché sembra che tutti quanti trovino naturale fare coppia solo con chi abbia una qualche caratteristica comune. Lo zoppicante così pensa di imbrogliare, fingendo che abbia perdite di sangue dal naso (*) per farsi accettare da una (EmmaEdel O'Shea) che ha questo problema. David, decidendo che è troppo faticoso fingere di avere sentimenti che non prova, decide di fingere di non avere sentimenti che prova, utilizzando questa falsa mancanza di empatia per agganciare una donna senza cuore (Angeliki Papoulia), che però è molto sospettosa e davvero priva di qualunque sentimento, così che alla fine coglierà in castagna la sua presunta anima gemella.

Scoperto, per evitare di essere trasformato in un animale che nessuno sceglierebbe mai come punizione per la sua malefatta, David fugge dall'albergo e si unisce ai ribelli. Single impenintenti che vivono nel bosco, fuori dalle regole della società. Purtroppo per lui, costoro sono matti almeno quanto la società dominante. La loro leader (Léa Seydoux) è feroce quanto la burocrazia da cui è scappato, e ogni violazione della vita solitaria viene punita duramente. Capita così che David trova una possibile anima gemella (Rachel Weisz), miope quanto lui. I due iniziano una pericolosa relazione clandestina, che però verrà scoperta, con tragiche conseguenze.

La società descritta da Yorgos Lanthimos (**) è abbastanza folle da permetterci di guardare il film con il sufficiente distacco che ci permette di ridere delle disavventure dei suoi personaggi ma non abbastanza aliena da non lasciarci il sospetto che la nostra non sia, dopotutto, poi così diversa da permetterci di dormire sonni tranquilli. L'effetto è ottenuto anche grazie ad una superba colonna sonora che include musica spesso inquietante, a volte melanconica, raramente consolatoria di Alfred Schnittke, Igor Stravinsky, Dmitri Shostakovich, Richard Strauss, Ludwig Van Beethoven, a fianco di brani relativamente più leggeri quale in particolare la bella Where the wild roses grow di Nick Cave e i Bad seeds, più Kylie Minogue.

Questo è il primo film di Lanthimos che vedo, e sono rimasto impressionato sia dalle sue capacità tecniche che narrative. Bella la fotografia, che mi ha fatto pensare al Maestro Stanley Kubrick o a Wes Anderson; affilata la satira sulla nostra società, degna di Luis Buñuel, anche se il pessimismo di fondo, e la demente burocrazia, vira più verso Kafka; la fredda rappresentazione della violenza mi ha ricordato Michael Haneke.

Eccessiva la durata di due ore, credo che una buona sforbiciata nella seconda parte avrebbe migliorato l'equilibrio del racconto.

(*) Si autoinfligge legnate pazzesche per ottenere il risultato.
(**) Con la collaborazione di Efthymis Filippou alla sceneggiatura.

Doctor Who 9.5: The girl who died

Finalmente un episodio che regge per conto suo, dopo le due coppie iniziali che ci hanno lasciato appesi per una settimana chiedendoci come sarebbe andata a finire (*). A dire il vero i titoli di coda sono preceduti da un to be continued verso il 9.6, The woman who lived, dove credo scopriremo il destino di Ashildr (Maisie Williams).

Succede infatti che il Dottore (Peter Capaldi) e Clara (Jenna Coleman), dopo aver sbrigato un complicato caso che ci viene accennato in pochi secondi, fanno tappa sulla Terra, vengono catturati da una banda di vichinghi (**) e portati al loro villaggio. Lì scoprono che un Mire (***) impersona Odino per far messe di guerrieri vichinghi (°). Ashildr e Clara scoprono l'arcano, e se la seconda era riuscita a far ragionare il Mire e convincerlo a lasciare in pace il nostro pianeta, la prima, mossa dall'orgoglio vichingo, lo sfida ad uno scontro armato. Il Mire non vive per altro, e dunque accetta volentieri, concedendo anche una intera giornata al villaggetto per prepararsi al massacro.

I villici scartano l'opzione della fuga come ingloriosa, e preferiscono una morte onorevole. Il Dottore riesce ad elaborare uno stratagemma che potrebbe evitare la catastrofe, anche se include la sospetta presenza di anguille elettriche. Non è chiaro, o per meglio dire è decisamente strano, che dei vichinghi abbiano quei pesci a portata di mano. Pesci elettrici sono noti sin dall'antichità, è noto che i romani ne facessero uso medico, ma si trattava di torpedini e pesce gatto africani. Le anguille elettriche sono sudamericane. Questo anacronismo avrebbe dovuto far rizzare le antenne al Dottore. In quel villaggio c'è qualcosa che gli sfugge. A sua discolpa possiamo dire che sta cercando un piano per sconfiggere un mortale Mire senza TARDIS e senza occhiali sonici, e che è anche distratto da Ashildr, che gli ricorda qualcosa che non riesce a mettere a fuoco, forse qualcosa che non è ancora accaduto.

Già prima che il Dottore passasse di lì, c'era qualcosa di strano in Ashildr. Lei si sentiva diversa, faceva strani sogni, e aveva la capacità di pensare storie che a volte diventavano realtà. Forse aveva la capacità di presentire almeno parzialmente il futuro, e magari anche quella di influenzarlo. Chissà. Fatto sta che il Dottore, per rimediare ad una brutta piega che stavano prendendo gli eventi, farà qualcosa che gli sarebbe preclusa dalle leggi stesse che governano la realtà. Lo fa perché sente che è quello che deve fare, anche se si rende conto per questo sembrerà ad Ashildr inizialmente una benedizione ma poi, con il passare del tempo, una maledizione.

La decisione del Dottore viene stimolata anche da un ricordo molto potente. Sono due anni che tutti gli whoviani si chiedono come si spiegherà che il Dodicesimo Dottore ha la sembianza di Peter Capaldi, che nell'episodio della quarta stagione Le fiamme di Pompei, era Lucius Caecilius Iucundus, scampato alla catastrofe grazie all'intercessione di Donna Noble (Catherine Tate) che aveva convinto il Decimo Dottore (David Tennant) a fregarsene per una volta delle regole, e a salvare chi, teoricamente, non avrebbe modo di farlo. Quando il Dodicesimo Dottore ha scoperto di avere quella faccia, ha pensato che doveva esserci un motivo, ma è solo adesso che capisce che si trattava di un memento che lui stesso aveva lasciato per ricordarsi che, almeno qualche volta, poteva stropicciarsene delle regole.

C'è da dire poi che quello che fa, rende Ashildr un ibrido, parola che dice incupendosi. Un po' forse perché un umano-mire è preoccupante di per sé, ma credo di più che sia perché non ci possiamo dimenticare che anche Clara, grazie a Missy, è diventata un ibrido, e pare proprio che il Dottore a questo non voglia nemmeno pensarci.

(*) Con Missy e Clara che sembrano morire nello scontro con Davros e i suoi Dalek tra primo e secondo, e lo stesso Dottore che sembra morire, lasciando Clara in una situazione disperata nello scontro con una specie di Alien tra il terzo e il quarto episodio.
(**) Che distruggono gli occhiali sonici del Dottore. Ormai sembra chiaro che il Dodicesimo abbia deciso di fare a meno del cacciavite, che io continuo a preferire, per questa più evoluta interfaccia sensoriale.
(***) I Mire sono mercenari galattici, che fanno un vanto della loro capacità bellica. Questo specifico Mire sembra gradire la solitudine, facendosi accompagnare solo da sgherri a lui evidentemente inferiori per quanto riguarda l'intelletto, anche se dotati di notevoli capacità distruttive.
(°) Per estrarre da loro testosterone, di cui è ghiotto. Vista l'indole dei Mire, viene da chiedersi perché non li ammazzi brutalmente senza utilizzare questi mezzucci. Forse i Mire sono dei burloni, o forse la sproporzione tecnologica tra loro e i vichinghi è tale che non sarebbe dignitoso usare armi in questo contesto. A meno che non ci sia una provocazione.

Gunga Din

La prova attoriale dei trio di protagonisti (Cary Grant, Douglas Fairbanks Jr., Victor McLaglen) è tale da giustificare anche oggi la visione di questo film, nonostante la sceneggiatura sia davvero un pasticciaccio brutto. La regia è di George Stevens e, pur non essendo tra le sue cose migliori (*), mostra come fosse capace di gestire sia star sia masse di figuranti.

In teoria la storia dovrebbe essere basata sul poema omonimo ed eponimo di Rudyard Kipling, ma in realtà narra una storia completamente diversa, se non che entrambi i Gunga Din sono portatori d'acqua indigeni dell'esercito britannico in India, ed entrambi muoiono nel finale. Il racconto è estremamente irrispettoso nei confronti degli indiani (dell'India) e sembra una versione alternativa di uno scontro tra esercito americano e indiani (di America), che ricorda vagamente la battaglia del Little Bighorn ma con finale favorevole ai bianchi.

Tre sergenti sono molto amici. Cutter (Grant) ha la fissazione di trovare un tesoro, rubarlo, e usarlo per aprire un bar in patria. Al momento non ha trovato niente, ma ha causato un sacco di guai a tutti e tre. Cosa di cui gli altri due non si lamentano, perché si divertono un mucchio a ficcarsi in situazioni balorde. Ballantine (Fairbanks) vorrebbe sposarsi con Emmy (Joan Fontaine), che vorrebbe che lui lasciasse il servizio militare e avesse un lavoro meno rischioso. Lui è combattuto tra l'amore per lei e il maschio cameratismo con i suoi compagni di avventure. MacChesney (McLaglen) è il più militaresco tra i tre, anche se non disdegna di piegare il regolamento alle necessità del momento.

Un gruppo di indiani, capitanati da un guru (Eduardo Ciannelli), tenta di far rivivere il mito dei Thug, e dà filo da torcere agli invasori. I tre sergenti e Gunga Din (Sam Jaffe) vengono catturati e usati come esca per attirare un battaglione avversario in una trappola. Ma Gunga Din sacrifica la sua vita per avvertire il suo generale, e come premio ottiene l'inclusione postuma nell'esercito col grado di caporale.

Il successo di questo film è stato tale, in particolare negli USA ma un po' in tutto il mondo, che riemerge come citazione in altri film. Vedasi in particolare Holliwood party. Il film a cui lavora Hrundi V. Bakshi (Peter Sellers) lo ricorda molto, al punto che il suo personaggio ha una scena molto simile a quella che nell'originale era altamente drammatica ed eroica, però virata al comico.

(*) Il periodo migliore di Stevens credo siano stati gli anni cinquanta, quando ha diretto cose come Il gigante.

Tomorrowland - Il mondo di domani

Lavoro a quattro mani di Damon Lindelof e Brad Bird (*), basato su alcune idee interessanti, e realizzato, almeno a tratti, con molta forza, anche grazie alla potenza economica e immaginaria degli studi Disney. Mi è sembrato però un po' latitante sul versante della coesione interna. Forse non è stata una idea geniale mettere due personaggi dalla personalità così marcata alla cabina di comando. Fra l'altro anche la colonna sonora di Michael Giacchino mi è sembrata poco coerente. Ne ho comunque apprezzato i passaggi in stile (post)minimalista.

Il target è quello dei ragazzetti molto giovani, e questo spiega come mai non si veda una sola goccia di sangue in tutte le due ore della pellicola, anche se non ci viene risparmiata una pletora di ammazzamenti inutili di cui avrei fatto volentieri a meno. Abbiamo così che i due adulti piuttosto stagionati, Frank (George Clooney) e Nix (Hugh Laurie) sono solo a supporto delle vere protagoniste, la giovane Casey (Britt Robertson) e la giovanissima (**) Athena (Raffey Cassidy).

La storia è che il mondo sta per finire. E, quel che è peggio, a nessuno gliene importa niente. Non proprio a nessuno, a dire il vero, Casey, ad esempio, non si capacita di tutta la rassegnazione che vede, e cerca di fare qualcosa. Anche se il suo modo di opporsi ai tagli al bilancio della NASA è decisamente poco ortodosso e, a ben vedere, persino più dannoso che utile. Succede però che Athena mette gli occhi su di lei, e la fa entrare in contatto con Frank, che una cinquantina di anni prima la pensava come lei, ma che oggi è solo un vecchio brontolone che vuole essere lasciato in pace.

Le circostanze faranno sì che lo strano terzetto coopererà e riuscirà, forse, a raddrizzare la baracca.

(*) Ma la regia è firmata dal solo Bird.
(**) Almeno apparentemente.

Tavola dell'amore - Mahlzeiten

Primo lungometraggio di Edgar Reitz, che diventerà famoso solo una ventina di anni dopo con lo strabordante Heimat. La mano non è quella di un debuttante, e infatti su IMDB sono riportati una quindicina di corti (*) prodotti in un decennio, e il risultato è stato premiato a Venezia come miglior opera prima.

Il titolo originale è piuttosto criptico, e non ha nulla a che fare con quello scelto dai distributori italiani. Letteralmente si potrebbe tradurre I tempi in cui si mangia, che però non ha senso. Mahlzeit è il saluto che i tedeschi si scambiano all'ora di pranzo, invece di dire ciao. Forse si può pensare che Reitz intendesse dire che il film vuole raccontare la quotidianità dei suoi personaggi. Insomma, ci si aspetti un peso specifico di tutto rispetto. Sottolineato anche dal fatto che la pellicola è in bianco e nero.

Elisabeth (Heidi Stroh) è un tipo sull'artistico, Rolf (Georg Hauke) ha deciso sin da piccino che avrebbe fatto il medico. Si incontrano che sono universitari, si piacciono, si sposano, si mettono a produrre una serie di bimbi. Lui abbandona gli studi, poi entra in crisi e abbandona la famiglia, torna, ma a questo punto è lei che abbandona la famiglia, torna, lui cerca un lavoro, entra nuovamente in crisi, cambia lavoro, ha un certo successo. I due però hanno qualcosa che rode loro dentro. Lei trova consolazione nella religione, e convince anche il marito, così che i due diventano mormoni. Lui però continua a non sentirsi a posto, e chiude la partita. Lei ci resta male, ma in breve trova un mormone americano che la sposa, si accolla l'intera numerosa famiglia, e tutti quanti se ne vanno in America.

Lo stile narrativo è un curioso incrocio tra la freddezza simil-documentaristica tipica di alcuni autori mitteleuropei (**) e lo spontaneismo della nouvelle vauge alla Jean-Luc Godard.

(*) Un paio di titoli forse sono relativi a pellicole storie più estese, Varia Vision e Unendliche Fahrt - aber begrenzt (Viaggio senza fine - ma confinato), di cui però non ho trovato nessuna informazione, nemmeno la durata.
(**) La crudezza di certe scene mi ha fatto pensare a Michael Haneke, vedasi ad esempio Il settimo continente.

X-Men le origini - Wolverine

Nonostante mi sia sparato X-Men, X2 e Conflitto finale senza stare troppo a sottilizzare sull'implausibilità di quel che vi succedeva, ho dovuto prendermi una pausa di qualche giorno prima di decidermi ad affrontare la seconda visione di questo capitolo che è veramente eccessivo. E questo, ribadisco, viene detto da uno che si è visto e rivisto i primi tre capitoli della saga degli X-men senza fiatare.

Conviene dire subito che non è vero che questa sia la quarta puntata di una quadrilogia, come dice il cofanetto DVD che ho comprato (*). Si tratta di una trilogia, che più o meno fila, più uno spin-off disgraziato fatto per capitalizzare il successo della serie. D'altronde il titolo mette bene in chiaro che il protagonista è Wolverine (Hugh Jackman), gli altri mutanti sono solo al contorno. Il Professor X (Patrick Stewart) fa solo una comparsata nel finale, Magneto è del tutto assente.

Si racconta che Logan, prima di diventare Wolverine, ha passato un paio di secoli in compagnia del fratello Victor (Liev Schreiber), per i conoscitori della saga Sabertooth (**). Come passatempo i due si sono impegnati in tutte le guerre americane che sono capitate. E verrebbe da chiedersi perché mai, visto che sono canadesi. Victor, col passare del tempo, diventa sempre più sanguinario, al punto che Logan, al suo confronto, finisce per sembrare un mollaccione. Durante la guerra del Vietnam, Victor esagera, i due vengono inutilmente fucilati per tradimento, dopodiché Stryker (***) li recluta per la sua squadra che si dedica ad affari molto sporchi.

Gli affari sono così sporchi che dopo un po' Logan si stufa, e torna in Canada a fare il boscaiolo. Stryker lo lascia in pace per qualche tempo, poi ordisce un piano, che sarebbe diabolico se non fosse così inutilmente complicato da farlo sembrare più che altro demente, per spingere Logan a farsi iniettare adamantio (°) nel corpo, allo scopo di renderlo indistruttibile. Nell'occasione Logan assume il nome d'arte di Wolverine, in omaggio alla donna che ama, Silverfox, che gli ha raccontato una triste storia indiana che ha per protagonista per l'appunto quel simpatico orsetto che noi chiamiamo ghiottone (°°).

Le cose si complicano ancora di più quando Stryker decide di tirare un (altro) tiro birbone a Wolverine, che però questa volta non ci casca, e si mette a spaccare tutto quello che incontra, deciso ad ammazzare prima Victor e poi Styker. Non riuscirà nel suo intento, ma farà tanti e tali danni da non passare inosservato. Tra l'altro, causerà la distruzione di una torre di raffreddamento di una centrale nucleare a Three miles island, giusto per gradire.

(*) Era in saldo ad un prezzo così basso che mi sono lasciato convincere.
(**) E nei fumetti non si capisce bene che legame abbia con Logan. L'ipotesi che i due siano fratelli non gode di gran considerazione.
(***) Ringiovanito e ingentilito nella forma al punto da essere interpretato da Danny Huston
(°) Lega metallica inesistente ma estremamente resistente.
(°°) O anche volverina. E lo so che non è parente degli orsi, bensì un mustelide.

In the name of the king

Fino all'altro giorno non sapevo chi fosse Uwe Boll. Personalità eclettica, ha fatto il pugile, studi economici e si è guadagnato una laurea in lettere. Ma è noto soprattutto per essere un terribile film-maker. Una cosa al livello di Ed Wood (*), tanto per intenderci. Ma, attenzione, almeno in questo caso il tipo di bruttezza non è quello che fa ridere quanto annoiare.

Il titolo italiano è monco della parte finale, A dungeon siege tale, che spiega come la sceneggiatura prenda spunto dal mondo immaginato da Chris Taylor per il suo omonimo videogame RPG. Chi non conosce il gioco non si preoccupi, casomai viene in mente più volte Il signore degli anelli, e il riferimento a Dungeon siege mi sembra avere l'unico scopo di evitare discussioni sui diritti d'autore.

Un contadino contento del suo lavoro a tal punto da farsi chiamare semplicemente Fattore (Jason Statham) vive la sua semplice vita agreste in compagnia della bella moglie Solana (Claire Forlani), del figlioletto, e del vicino Norick (Ron Perlman), che in passato gli aveva fatto da papà. Già, perché Fattore ha un passato oscuro, e non si sa chi siano i suoi veri genitori.

Come da stereotipo del genere, arrivano i cattivi, che qui chiamiamo krug ma ricordano molto gli orchetti di Tolkien, e spaccano tutto. Variazione che non mi aspettavo, Solana sopravvive, così che il nostro eroe non debba restare per sempre con il rovello di non averle detto di amarla (**). E dunque la molla che spinge Fattore a scoprire chi sia il Sauron di turno è sia la vendetta sia la voglia di riprendersi la sua donna, che è stata rapita per lavorare come schiava.

Fattore ci mette un po' a scoprirlo, ma noi sappiamo subito che il supercattivo è Gallian (Ray Liotta), uno dei due soli maghi restati in questa terra, essendo l'altro Merick (John Rhys-Davies), che serve fedelmente re Konreid (Burt Reynolds). Gallian vuole diventare un re-stregone, e per far questo ha circuito l'inetto nipote del re, duca Fallow (Matthew Lillard), e la figlia di Merick, Muriella (Leelee Sobieski), scontenta di come il padre non la consideri.

Se lo spettatore ha dubbi sostanziali su come andrà a finire questa storia, vuol dire che non ha fatto i compiti. Prima di perdere il tempo con filmetti come questo, si riveda i classici del genere.

E il problema non è tanto nella mancanza di sorprese, quanto nella piattezza della sceneggiatura che brilla anche per l'assenza di battute degne di questo nome e nella regia che spesso e volentieri sbaglia i tempi, indugiando in parti inutili, non sviluppando personaggi interessanti (***), facendo calare una gran noia su tutto il racconto.

(*) Vedasi il film biografico-fantastico che ne ha fatto Tim Burton per dettagli.
(**) Egli è infatti un rude agricolo dal cuore d'oro, e pensa che basti l'atto fisico ad esprimere l'amore per la sua gentil signora.
(***) Esagero, non ci sono personaggi interessanti. Però magari si poteva fare qualcosa per non lasciarli così desolatamente vacui.

Tirate sul pianista

Il timido e depresso Charlie (Charles Aznavour) suona il piano in una immonda bettola parigina. Una sera gli piomba nel camerino suo fratello Chico (Albert Rémy), che non vedeva da anni, e che gli chiede aiuto per liberarsi di due tipacci che lo inseguono. Malvolentieri, anche perché sa bene che razza di amici e nemici ha Chico, glielo dà. Questo lo fa entrare in una tipica trama hitchcockiana, dove l'innocente si trova invischiato suo malgrado in un pasticcio più grosso di lui. Con una importante variazione, Charlie in realtà è un famoso pianista classico, Edouard Saroyan, ritiratosi tempo prima dalle scene in seguito al suicidio di sua moglie Thérèse (Nicole Berger). Nel suo nuovo misero contesto nessuno sa del suo passato, se non Léna (Marie Dubois), la cassiera del localaccio, che lo ama segretamente, a sua volta concupita dall'orrido barista. Grazie ai due delinquenti che cercano Chico, Charlie e Léna rompono gli indugi e si mettono assieme, ma tutto sembra complottare contro di loro. Riusciranno a coronare il loro sogno d'amore?

Nonostante che François Truffaut usi a piene mani toni comici nel narrare questa storia (*), siamo dalle parti dell'hard boiled, e infatti deriva da un racconto di David Goodis. Così che Léna è una dark lady, sia pure molto atipica, e il finale non può essere lieto.

Si tratta del secondo lungometraggio di Truffaut, dopo il folgorante esordio de I quattrocento colpi, e tra i motivi per la scelta del soggetto c'è stato il desiderio di non lasciarsi inscatolare in una rigida definizione. Anche se rimane ben visibile l'attenzione del geniale regista francese al mondo dell'infanzia, meglio se un po' delinquenziale, nella figura di Fido, il pepato fratellino del protagonista.

L'omaggio ai noir di oltreoceano è evidente nella complicazione della trama, con personaggi che entrano ed escono accennando ad elementi che non portano da nessuna parte, come ad esempio il passante che, subito all'inizio, aiuta Chico, gli racconta tutti i suoi fatti più personali, saluta e se ne va.

La profondità del personaggio principale è invece tipicamente europea, il suo rapporto con Thérèse, descritto nel lungo flashback centrale, ha una drammaticità che mi ha fatto pensare a Ingmar Bergman. E che dire poi della voce narrante che ci esplicita i suoi pensieri, con effetti sia comici, come quando, dopo lungo meditare, decide di rompere gli indugi con Léna, sia tragici, quando vediamo che lui sa benissimo cosa dovrebbe fare con Thérèse per risolvere la loro crisi ma l'esitazione di un attimo lo porta alla rovina.

(*) Al punto che il fratello di Charlie/Edouard si chiama Chico in omaggio al fratello Marx.

Doctor Who 9.4: Before the flood

Nel primo doppio episodio di questa annata, il Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi) ha correttamente indotto da una curiosa anomalia nel comportamento dei Dalek (*) che Davros ha avuto nel passato una esperienza molto forte che lo ha portato ad avere in sé un briciolo di empatia nei confronti a chi è altro da lui.
Il problema è che il Dottore sa fin troppo bene che è lui quello che avrebbe dovuto insegnare con l'esempio al giovane Davros questo sentimento ma, sapendo cosa avrebbe fatto da grande, non se l'era sentita. Sfruttando la sua capacità di viaggiare nel tempo, rimedia al suo clamoroso errore e, a ben vedere, salva, oltre a Davros, anche se stesso. Resta da chiedersi cosa sarebbe successo senza questo viaggio. Davros avrebbe comunque commesso quello che dal punto di vista dei Dalek è un errore? Come avrebbe fatto a sopravvivere Davros alle temibili mine-mano? Ma soprattutto, perché il Dottore non si è fatto ridare il suo cacciavite sonico?

In questo secondo doppio episodio, il Dottore si ficca in un altro paradosso temporale. Questo è ancora più complicato, al punto che la seconda parte è preceduta da una breve introduzione in cui il Dottore ci illustra con un esempio (**) il tipo di illogicità con cui si finisce ad avere a che fare viaggiando nel tempo. La prima parte ci aveva lasciato con Clara (Jenna Coleman) nella base sommersa nel presente narrativo (***), mentre il Dottore se ne è andato nel passato, 1980, a cercare le radici di quel che è successo.

E qui succedono un sacco di cose a ben vedere incomprensibili. Conviene seguire il suggerimento che il Dottore ci ha dato nell'introduzione, lasciar perdere la logica, e seguire lo sviluppo per divertirci con l'azione. D'altronde nel finale il Dottore guarderà in camera e ci farà capire con lo sguardo che lui ce l'aveva detto che sarebbe stato impossibile capirci qualcosa.

Scopriamo comunque che alla radice di questo pasticcio c'è un mostriciattolo spaziale che deve essere un parente alla lontana di quelli di Alien, come è giusto che sia, visto che quel film è decisamente tra le fonti di ispirazione principali per la prima parte del racconto. Costui, che si fa chiamare The fisher king, il re pescatore (°), ed è l'esponente di una razza piuttosto violenta che ha pensato un approccio molto involuto per attaccare e sottomettere il nostro mondo. Ma la cosa che fa più arrabbiare il Dottore è che abbia deciso di interferire con le leggi naturali che regolano la vita e la morte nell'universo per i propri fini. Bisogna ricordarsi che il Dottore è un gran teppista ma ha ben chiaro che ci sono alcuni limiti che non vanno travalicati. Certo, c'era anche l'instinto protettivo che ha nei confronti di Clara, ma viene da chiedersi se quello sarebbe bastato a fargli superare la sua ritrosia nel manipolare il passato.

(*) La cosa è più complicata, perché chi nel finale del secondo episodio chiede pietà non è un vero Dalek, ma ne usa forzatamente i circuiti di interazione col resto del mondo, che sono stati disegnati da Davros.
(**) Che resterà negli annali della serie non tanto per la spiegazione in sé, quanto per la sua conclusione. Visto che da modo al Dottore di farci un'altra bella schitarrata rocchetara che finisce per influenzare la sigla iniziale, reinterpretata per l'occasione in versione metallara.
(***) Per noi spettatori futuro, un secolo in là.
(°) Nulla a che fare con La leggenda del re pescatore, gran bel film di Terry Gilliam.

Città di carta

Pare che il progetto di far diventare film l'omonimo romanzo di John Green fosse nell'aria da anni, e non si sia concretizzato prima per i dubbi di chi ci avrebbe dovuto mettere i soldi. L'interesse del pubblico per una storia tra ragazzetti a cui manca il lieto fine, e che non abbonda nell'uso di parolacce e scurrilità miste sembrava dubbio. Poi è arrivato Colpa delle stelle, sempre basato su un libro di Green, che a fronte di un budget modesto ha incassato centinaia di milioni nel mondo, e ha dimostrato che per i produttori vale la pena rischiare anche in quella direzione.

Il personaggio principale è Quentin (Nat Wolff), ragazzino imbranato sin dalla nascita, follemente innamorato di Margo (Cara Delevingne) sin da quando questa si è trasferita con la sua famiglia nella casa di rimpetto. I due hanno passato qualche anno da bimbi amici, dopodiché hanno preso vie diverse. Ora i due sono appena maggiorenni, la scuola superiore sta per finire, è il momento in cui da ragazzi si diventa giovani adulti, almeno per le consuetudini americane.

Margo trascina Quentin, con cui non parlava da anni, in una specie di goliardica missione punitiva nei confronti di chi, secondo lei, l'ha ferita, e il giorno dopo sparisce nel nulla. Quentin decide che la deve ritrovare, trascina nell'avventura i suoi amici, e riesce effettivamente a trovarla. Scoprirà però che era più importante il percorso della la meta del suo viaggio.

Da un certo punto di vista capisco cosa John Green voleva dire con questa storia, e ne apprezzo il senso. Spesso succede che una persona che ci sembra eccezionale in realtà lo sia molto meno. Bisognerebbe cercare di mantenere un certo distacco, almeno per quanto possibile, anche nelle questioni di cuore. D'altro canto, non sono così sicuro che Quentin abbia fatto la scelta migliore. Chissà cosa ne penserà lui qualche anno dopo.

Il film non è riuscitissimo, probabilmente Green avrebbe dovuto seguire le orme di Stephen Chbosky (*) e impegnarsi più direttamente nella sua realizzazione.

(*) Vedasi Noi siamo infinito, sempre in area young adult e decisamente superiore come risultato.

X-Men - Conflitto finale

Nonostante il titolo, e la carneficina che si consuma, lo spettatore più attento (*) noterà che gli astuti sceneggiatori hanno lasciato la porta aperta a possibili sviluppi (**). Si segue la linea tratteggiata dalle prime due puntate, con il Professor X (Patrick Stewart) e Magneto (Ian McKellen) che si contrappongono proponendo diverse ricette per risolvere la questione sul come gestire il rapporto tra mutanti e semplici umani.

Altro polo della vicenda è Jean Grey (Famke Janssen) che era stata data per morta, e che invece scopriamo che non solo è sopravvissuta ma ha pure un problema di sdoppiamento di personalità, dove la sua versione amorale, Phoenix, è dotata di enormi poteri che fanno impallidire quelli degli altri personaggi. Sommato al fatto che continua ad essere combattuta tra l'amore per Cyclops (James Marsden) e Wolverine (Hugh Jackman) otteniamo che la poveretta è una mina vagante pronta ad esplodere.

La battaglia finale di Alcatraz tra umani, mutanti della confraternita e gli X-Men, rivela che Magneto ha scarse capacità strategiche, ed è pure un pessimo scacchista. E mi è sembrata pure piuttosto noiosa, oltre che fin troppo rumorosa. Non male però la dichiarazione di amore che Wolverine fa a Jean Grey.

(*) E paziente, che alla fine dei titoli di coda c'è una breve scena che aggiunge una importante informazione.
(**) Che però non verranno utilizzati nei successivi episodi.

Inside out

La storia sarebbe di una semplicità disarmante se non fosse per il sorprendente punto di vista da cui viene raccontata. Abbiamo infatti una famigliola piuttosto stereotipata, padre, madre, figlioletta di undici anni, che si muove dalla provincia (il Minnesota) alla grande città (San Francisco). I genitori sottovalutano l'impatto emotivo che questo brusco cambiamento ha sulla piccola Riley, la quale va nel pallone e arriva sul punto di decidere di scappare dalla nuova casa, che lei non riesce ad accettare come tale, per tornare ad essere felice. Succede però qualcosa di inaspettato, la bimba diventa una ragazzina, impara da sola, in un solo momento, che le cose non sono così semplici come pensava sino a quel momento, che la felicità, da sola, non basta. Bisogna essere capaci di emozioni più complesse, se non si vuole vivere in una bella bolla di sapone.

L'idea chiave di Pete Docter (*) è raccontarci questa vicenda dall'interno di Riley, seguendo i suoi sentimenti, che ci vengono mostrati come se fossero omuncoli che ci guidano, ognuno seguendo quello che è la propria caratteristica. Vediamo così che la bimba è dominata da Gioia che vede la sua nemesi, Tristezza, come fumo negli occhi, e lascia spazio agli altri sentimenti solo quando non ne può fare a meno. Non che debba imporsi molto, perché sono comunque tutti concordi nel lasciare a lei il comando. Arriva però il momento che Gioia non basta più. Riley deve diventare capace di gestire la complessità, accettare che Tristezza prenda il sopravvento, che si mescoli a Gioia, creando emozioni nuove, più adulte.

(*) Tra i principali sceneggiatori/registi di Pixar, premio Oscar per Up.

X-Men 2

Il titolo originale, X2, deve essere sembrato troppo criptico alla nostra distribuzione, che ha preferito mettere ben in chiaro che si tratta del seguito dell'X-Men di tre anni prima. Stesso cast, con alcune new entry, e pure stesso regista, Bryan Singer, che qui mostra di essere cresciuto nel ruolo, confezionando un prodotto che mi è piaciuto di più.

I mutanti sono arrivati ad una tregua non dichiarata, anche perché Magneto (Ian McKellen) è in gattabuia, opportunamente plasticosa. Succede però che una specie di diabolico essere capace di teletrasportarsi, tale Kurt Wagner (*), attenta alla vita del presidente americano. Entra così in scena uno scienziato pazzo in forza all'esercito, William Stryker (Brian Cox), che ha carta bianca nell'interrogare Magneto, usando metodi non propriamente garantisti, e nell'usare le informazioni ottenute per attaccare la scuola del professor X (Patrick Stewart). Le due contrapposte schiere di mutanti dovranno combattere unite contro di lui per evitare la disfatta, anche se manterranno posizioni ben distinte.

Nel campo dei "buoni" abbiamo la contrapposizione tra Wolverine (Hugh Jackman) e Cyclops (James Marsden), che si contendono i favori della bella Jean Grey (Famke Janssen), la quale tentenna fino all'ultimo. Ma Wolverine è concupito anche da Mystique (Rebecca Romijn) e da Rouge (Anna Paquin), anche se quest'ultima fila con Iceman (Shawn Ashmore), e ha una relazione piuttosto travagliata con Yuriko Oyama (Kelly Hu), che risulta essergli in un certo senso molto simile, ma i due finiranno per non legare.

(*) Personaggio evidentemente tedesco, che chissà come mai è interpretato dallo scozzese Alan Cumming.

X-Men

Primo episodio della saga basata sulla omonima serie di fumetti, di cui sono entrato in possesso comprando il cofanetto relativo ai primi quattro film. L'avevo già visto ai tempi, e nemmeno allora mi aveva entusiasmato, ma non ho saputo resistere al prezzo stracciato dell'offerta.

A mio gusto, la parte migliore è la brevissima introduzione, in cui viene mostrata la genesi di Magneto (Ian McKellen), avvenuta durante la seconda guerra mondiale, quando Erik Lehnsherr, ragazzetto ebraico, subisce lo shock di venire separato dai genitori in un campo di sterminio. Il resto del film è troppo fumettoso, con troppe uccisioni inutili, gente che vola a destra e a manca, evidentemente sostenuti da cavi resi invisibili in post-produzione, e altri effetti pensati per un pubblico più giovane di quanto io sia.

Non è terribile nemmeno il confronto tra Magneto e Charles Xavier - Professor X (Patrick Stewart), grazie più alle capacità degli attori che di Bryan Singer, regista che non mi ha mai convinto, nemmeno ne I soliti sospetti, dove poteva contare su una solida sceneggiatura e un cast eccellente.

E anche qui il cast non è certo da buttare, anche se la maggior parte degli attori mostrano di essere ancora in rodaggio. Vedasi in particolare Hugh Jackman, che interpreta Logan - Wolverine, che pure fa un buon lavoro, risultando credibile nella parte.

La storia è presto detta. I mutanti "buoni", capeggiati da Professor X, vorrebbero una integrazione pacifica con gli umani normali. Magneto, che ha sperimentato la follia del nazismo sulla sua pelle, pensa che non ci sia spazio per una trattativa, e preferisce lo scontro diretto. Un senatore piuttosto babbeo (Bruce Davison), che vorrebbe cavalcare un'ondata di odio xenofobo nei loro confronti, fa una fine atroce. Le due fazioni di mutanti si scontrano, sembra che i "cattivi" prevalgano, ma alla fine il bene trionfa. Anche se si lascia aperto uno spiraglio per i prossimi capitoli.

Doctor Who 9.3: Under the lake

Tra cento anni, in una base subacquea posta sul fondo di un lago artificiale, un gruppetto di umani trova una navetta spaziale completamente vuota. Unica particolarità, una scritta incomprensibile al suo interno. Uno strano incidente causa la morte del capo spedizione, che però riappare subito dopo, mutato in quello che sembra un fantasma, e in compagnia di quello che sembra lo spirito di un tiviano, quella razza di alieni estremamente codardi di cui avevamo già conosciuto un esemplare ne Il complesso di dio, episodio della stagione 6 come questo firmato da Toby Whithouse.

Tre giorni dopo, la TARDIS porta di sua iniziativa il Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi) e Clara (Jenna Coleman) sul luogo del misfatto. La TARDIS non è per niente a suo agio, e sembra combattuta tra la necessità di essere presente in questo momento in questo posto e il desiderio di non esserci. Questo rende il Dottore molto nervoso, mentre Clara, almeno inizialmente, sembra non percepire la tensione nell'aria. La situazione richiama molto Alien e a me, che non sono un fan del genere horror, mi si sono rizzati i capelli più di una volta nello svolgersi degli avvenimenti.

Anche questa volta siamo alle prese con un doppio episodio, e il finale di questo ci lascia letteralmente appesi in attesa di scoprire come il Dottore riuscirà trovare una via di uscita ad una situazione che pare non averne.

Yes man

La storia, a ben vedere, non è poi male. Avrebbe dovuto però essere sviluppata meglio di quello che hanno fatto gli sceneggiatori e il regista (Peyton Reed). Invece mi sembra che abbiano preferito appiattirsi su una riedizione di Bugiardo bugiardo, un buon successo commerciale di dieci anni prima di Jim Carrey.

Si narra di Carl (Carrey, per l'appunto), depresso da anni in seguito al fallimento del suo matrimonio. Anche il suo migliore amico, Peter (Bradley Cooper), fa una gran fatica a non abbandonarlo a se stesso. Per sua dubbia fortuna, finisce per partecipare ad uno di quei corsi motivazionali molto americani, in cui una specie di santone propone ricette miracolose per migliorare la propria vita. Nel caso specifico Terrence Bundley (Terence Stamp) propone una ricetta semplicissima, dire di sì a tutto. Carl decide di provare, anzi pensa di avere una specie di maledizione che gli impedirà ora in avanti di dire di no anche alle domande più strampalate.

Curiosamente questo, invece di portarlo alla rapida rovina, lo porta a risultati positivi, anche se a volte seguendo percorsi complicati. In particolare conosce Allison (Zooey Deschanel), una affascinante fanciulla che canta e suona in un gruppo folle, dall'inquietante nome di Munchausen by proxy (*), e insegna l'attività combinata di jogging e fotografia.

Quando alla fine i nodi vengono al pettine, Carl scoprirà che c'è un sì che non riesce proprio a dire, e sarà proprio quel mancato sì a salvarlo.

Tra i personaggi secondari c'è anche Fionnula Flanagan, sprecatissima nel deprimente ruolo della anziana dipendente da sesso, e una Ducati Hypermotard, anch'essa utilizzata malamente.

(*) Mi hanno fatto pensare ai Soronprfbs di Frank

Gli equilibristi

Giulio (Valerio Mastandrea) ha una bella famiglia e un lavoro sicuro. Anche sua moglie Elena (Barbora Bobulova) ha un buon lavoro, così la famiglia riesce a condurre una vita dignitosa anche se la figlia adolescente Camilla (Rosabell Laurenti Sellers) e il piccolino di tanto in tanto richiedono spese che mettono alla prova il budget familiare.

Poi fa quella che Giulio stesso chiama "una cazzata", ovvero ha una breve storia di sesso con una bella collega. Elena non gliela perdona, e si arriva rapidamente alla separazione. Che però è una cosa per ricchi, e Giulio ricco non lo è. Così che rapidamente scivola nella povertà, e sembra che la via imboccata non abbia ritorno.

Come dice anche Giulio, c'è poco da ridere in una situazione come questa, anche se Ivano De Matteo ci grazia nel finale con un possibile salvataggio per il rotto della cuffia.

Tra i vari incontri di Giulio nella sua parabola discendente, c'è anche quello con il serbo Goran, interpretato da Damir Todorovic al suo ultimo ruolo.

Il responsabile delle risorse umane

Eran Riklis questa volta usa una sceneggiatura basata sul romanzo omonimo di Abraham B. Yehoshua, che è stato molto spolpato, ha subito qualche aggiustamento, ma che tutto sommato mantiene lo spirito originale. La protagonista sarebbe Yulia (*), che però muore orribilimente prima dell'inizio dell'azione. Il racconto viene fatto perciò seguendo prevalentemente la prospettiva del responsabile delle risorse umane (Mark Ivanir) di un noto panificio israeliano, che si trova per le mani la patata bollente del suo caso. Yulia è infatti morta quando era ufficialmente una dipendente della sua azienda, anche se in realtà era stata licenziata. Un giornalista da quattro soldi monta un caso sulla faccenda, e la dirigenza del panificio, per evitare un danno di immagine, incarica il protagonista di riportare i resti di Yulia al suo paese natio.

Il viaggio diventa sempre più complicato, con un accumulo di situazioni che oscillano tra il tragico e il comico, fino a che non ci si rende conto che è inutile, almeno dal punto di vista di Yulia. Per il responsabile diventa invece una occasione per dare un senso alla sua vita che, forse, potrebbe da quel momento diventare migliore.

(*) Straniera, ma di nazionalità non specificata. Nel film si sottintende che sia romena.