Everybody's fine - Stanno tutti bene

Remake americano del film di Tornatore del '90. Lì il protagonista era Marcello Mastroianni qui Robert De Niro. La regia di Kirk Jones vira un po' più sui toni drammatici (con lieto fine obbligato), ma tutto sommato si può dire che lo spirito della scenggiatura originale viene mantenuto.

In un certo senso ricorda un po' A proposito di Schmidt, protagonista rimasto vedovo che fa i conti con la sua vita e che praticamente ruba la scena a tutti gli altri (lì a primeggiare era Nicholson). Essendo la sceneggiatura originale italiana, qui il peso della famiglia è però maggiore.

Resto del cast adeguato (Drew Barrymore, Kate Beckinsale, Sam Rockwell), piacevole colonna di Dario Marianelli con un notevole extra firmato (e cantato) addirittura da Paul McCartney in chiusura del film.

La zona grigia

Debolmente basato sul racconto della propria esperienza da parte di un medico ungherese di origine ebrea che ha collaborato con Mengele agli esperimenti nei campi di sterminio nazista. Tim Blake Nelson (più noto come attore, era Delmar in Fratello, dove sei? dei Cohen) ne ha tratto prima un pezzo teatrale e poi la sceneggiatura al film di cui parlo qui, che ha pure diretto.

Come ci dice nella featurette allegata al DVD, Blake Nelson ha avuto l'idea da Primo Levi, che appunto parlava di zona grigia e del problema di come molti si adattino al male, anche solo per avere una piccola speranza di vita, quando il resto viene a mancare.

Pur essendo un tema molto interessante, lo sviluppo filmico non mi pare dei migliori. Vedendolo, e ancora all'oscuro della sua origine, mi veniva da pensare che avrebbe reso meglio a teatro. Volendolo proprio portare sullo schermo, avrei visto bene una messa in scena più estremista, alla Dogma 95, e a dire il vero, per gli standard americani, mi sembra quasi che siano andati abbastanza in quella direzione - in particolare la colonna sonora è praticamente assente (spesso sostituita da un cupo rumore di fondo), i colori sono molto sbiaditi, gli effetti speciali ridotti al minimo.

Il cast, non strepitoso ma accettabile, include il più piccolo degli Arquette (David), Mira Sorvino, Steve Buscemi e un Harvey Keitel sottotono (non ho capito bene di chi sia stata l'idea di farlo recitare con un bizzarro accento pseudotedesco - ma chiunque l'ha avuta, ha sbagliato).

Don Juan De Marco

Al titolo originale, Don Juan DeMarco, i distributori italiani hanno aggiunto "maestro d'amore" di cui si sarebbe potuto volentieri fare a meno.

Scritto e diretto da Jeremy Leven, più portato alla scrittura che alla regia (fra l'altro sta per uscire la sua opera seconda come regista - Girl on a bycicle - dove il protagonista dovrebbe essere Vincenzo Amato, spero che nel frattempo abbia migliorato le sue capacità nel campo) si avvale di un cast da favola: Johnny Depp, Marlon Brando, Faye Dunaway e persino Jo Champa (vabbè, scherzo, una particina da sultana per lei).

La storia non è male, ambientazione contemporanea, Depp si crede Don Giovanni e inscena un tentato suicidio per attirare attenzione sul suo caso, Brando è lo strizza sull'orlo del pensionamento che lo convince a scendere dal cornicione, e lo prende in cura. La Dunaway è la moglie (piuttosto trascurata) di Brando. Il film alterna la realtà alla fantasia di Depp - che parla con uno spiccato accento spagnolo. Una regia migliore avrebbe reso un miglior servizio al film. E se ne avessi avuto modo, avrei pure suggerito di cambiare la colonna sonora.

Legame assolutamente casuale con Out of sight, che ho visto ieri: lì protagonista JLo, qui particina per Selena. Nel 1997 JLo intepreta Selena nel film omonimo.

Out of sight

Divertente commedia dai toni piuttosto movimentati che però ha qualcosa, che non riesco a ben definire, che non va.

La storia è di Elmore Leonard (da suoi scritti derivano anche Get Shorty e Jackie Brown) ed è stata trasformata in sceneggiatura da Scott Frank che ci ha appiccicato un finale holliwoodiano per far felice la produzione - come narrato nella piacevole featurette allegata al DVD.

La regia è di Steven Soderbergh che, come spesso accade, esagera un po' nel metterci un tocco personale. Fermi immagine, flash back, cambi di scena inaspettati. Tutto OK, ma forse se li usava con più parsimonia il risultato era migliore. Bizzarra la lunga scena in cui i due protagonisti, George Clooney e Jennifer Lopez, fanno conoscenza nel bagagliaio di una macchina.

Clooney è un rapinatore di banche e di cuori femminili - ruolo che gli calza a pennello; JLo una poliziotta - meno credibile ma sufficientemente affascinante. Si piacciono ma sono irreparabilmente su diverse sponde. E il finale (vero) è la fine della loro storia. Fortuna che per il pubblico amante dell'happy ending c'è il post-finale di cui si accennava sopra in cui si lascia spazio alla speranza.

Buono il cast, alternanza di temi che tiene desta l'attenzione, si viaggia dalla calda Miami (dominata dal giallo) alla fredda Detroit (in blu), brevi apparizioni di Michael Keaton, nei panni di un agente FBI a basso livello intellettivo, e di Samuel L.Jackson galeotto uso all'evasione.

Il paradiso può attendere

Gli anni settanta trasudano da ogni bit di questo DVD. Ad esempio la colonna sonora (e qui il responsabile è Dave Grusin) mi fa pensare a Charlie's Angels. E questo nei suoi momenti migliori.

Il film è costruito attorno a Warren Beatty, che cura la regia (assieme a Buck Henry - nessuno dei due con gran esperienza nella materia, e si vede), produzione, ha scritto la sceneggiatura (assieme a Elaine May - per me indimenticabile nel ruolo di Enrichetta in E' ricca la sposo e la ammazzo) ed è il protagonista del film. In realtà il protagonista, secondo i piani di Beatty, sarebbe dovuto essere Mohamed Ali, ma dato che non aveva tempo da dedicare al cinema, Beatty alla fine decise di rivoluzionare la sceneggiatura e pigliarsi lui il ruolo principale.

Già, perché si tratta del remake di un film degli anni 40, L'inafferrabile signor Jordan (Here comes Mr. Jordan) che era ambientato nel mondo del pugilato. Il titolo originale, invece, è lo stesso di una commedia di Lubitsch basato su una storia completamente differente. Questa strana coppia di film, accumunati solo dal titolo, m'è tornata in mente vedendo Hostage, film in cui delle informazioni vengono messe in un CD e occultate dentro la copertina di un DVD di Heaven can wait. E dato che quella collezione di DVD contiene entrambi i titoli si crea una ambiguità.

La storia, a ben vedere, è basata su uno dei canoni tipici del cinema americano: se il protagonista vuole ottenere qualcosa, non ci piove, prima dei titoli di coda lo raggiunge. Anche se, come in questo caso, deve morire un paio di volte per farcela. Però la sceneggiatura è ben scritta e le parti sono ben recitate, il che dà al film qualche cosa in più di altri che, a ben vedere, sono molto simili.

A parte Beatty, ad una delle sue ultime interpretazioni, il cast include Julie Christie (che per me sarà sempre Andromeda, personaggio chiave di una vecchissima serie televisiva inglese - qui nella parte poco rilevante della donna che fa innamorare il protagonista), Charles Grodin e Dyan Cannon, nella ben disegnata parte di una coppia di amanti fedifraghi, Buck Henry stesso, nella parte di una sorta di angelo custode (imbrazzantemente chiamato "escort" in originale - altri tempi), Jack Warden, l'allenatore del protagonista, che finisce per essere un elemento di raccordo nella intera vicenda, e per finire James Mason (il cattivissimo di Intrigo internazionale) qui nella parte del supervisore allo smistamento di quella che è la strana idea di paradiso che si è immaginato Harry Segall chi ha scritto il soggetto originale.

Antwone Fisher

Vagamente riconducibile ad una vicenda reale che, nel gergo di Hollywood si traduce con "una storia vera".

Primo film alla regia per Denzel Washington, che si tiene pure il ruolo di coprotagonista. Una buona regia media, niente di sensazionale, niente di terribile. La scena finale è un po' involontariamente umoristica, molto suona già visto (che me lo sia effettivamente già visto e dimenticato? possibile anche questo), ma mi pare apprezzabile il tentativo di dare uno spessore universale ad una storia che poteva rischiare di diventare for black only.

Primo ruolo importante per Derek Luke, nei panni di Fisher. La prima donna è Joy Bryant, a cui resta naturalmente ben poco spazio.

Sceneggiatura scritta dallo stesso Antwone Fisher, che si è preso molte libertà nel narrare la sua drammatica vicenda. Il succo però lo ha tenuto: ha avuto una infanzia terribile, e si è salvato dal diventare un delinquente anche grazie all'incontro con uno strizza (Washington) che è riuscito a fare bene il suo lavoro.

Tra le cose interessanti del film, va segnalata la notazione del fatto che lo strizza dice che il lavoro che ha fatto su Fish (come viene soprannominato il protagonista) è andato anche a suo vantaggio - aspetto questo che in genere viene trascurato.

Hostage

Dimenticabile. Infatti l'ho preso essendomi dimenticato di averlo già visto. Però la sua parte più memorabile sono proprio i titoli di testa e quindi mi sono accorto subito del mio errore.

Tutto sommato si tratta di un buon prodotto medio, alla regia c'è Florent Emilio Siri (ha fatto e penso farà di meglio) che, come spesso accade agli europei al loro primo film americano, credo sia stato fagocitato dalla macchina produttiva e per questo sia il motivo per cui ha messo poco di suo nel lavoro. Protagonista Bruce Willis che lascia ben poco spazio al resto del cast - tra cui Kevin Pollak, sottoutilizzato, e Ben Foster, in un ruolo che avrebbe dovuto essere sviluppato meglio.

Credo che il grosso problema del film stia nel fatto che lo sceneggiatore (Doug Richardson - Die hard 2, Bad boys) si è trovato davanti il lavoro improbo di ridurre un romanzo dalla struttura molto complessa e non sia riuscito a fare i tagli dolorosi ma necessari per tirarne fuori una storia che potesse essere narrata in un paio d'ore. Risultato: personaggi solo abbozzati, e situazioni semplificate al punto da diventare improbabili.

La storia principale è quella di Willis, un negoziatore della polizia di Los Angeles che, lo vediamo nei primi secondi del film, se la tira in maniera pazzesca e che deve essere molto in gamba. Solo che fa un errore di valutazione, probabilmente proprio perché se la tira troppo, e due ostaggi ci lasciano la pelle. Scoppia come la rana della favola, abbandona LA per un paesino inesistente (Bristo Camino) nell'interno - per la gioia della famiglia e soprattutto della figlia adolescente - dove si trova un posto come capo della monotona polizia locale.

Poi c'è la storia di una famigliola di Bristo, il padre (Pollak) ha una lussuosa casa da paranoico in un contesto selvaggio da favola e un mucchio di soldi di provenienza poco chiara.

La terza storia è quella di due fratelli, uno buonino, l'altro delinquentello, che viaggiano su uno scassato pickup. Il delinquentello fa amicizia con un natural born killer (Foster) che viaggia con loro.

Una quarta storia è quella di una potente organizzazione delinquenziale che usa Pollak come riferimento per riciclare i propri guadagni illeciti.

Le storie si intersecano lasciando una lunga scia di sangue sul terreno.

Con un tal materiale si sarebbe potuto pensare ad una serie televisiva, e forse il risultato sarebbe stato migliore.

Guida per riconoscere i tuoi santi

Opera prima, e autobiografica, di Dito Montiel, che ha scritto la sceneggiatura, basata sul suo precedente romanzo, e diretto questo film che colpisce dritto allo stomaco e al cuore.

E' praticamente una confessione. Dito, nato nel Queens - sobborgo Astoria, a due passi dalla sciccosissima Upper East Side ma, soprattutto a quei tempi, con un carattere ben diverso - dopo la serie di vicende che ci vengono narrate nel film, scappa in California, lasciando tutto e tutti. Solo 15 anni dopo trova la forza di tornare, per cercare di convincere il padre ad andare all'ospedale.

Consigliata la visione in DVD, dato che tra il materiale tagliato e qui reso disponibile si trovano molti spunti interessanti. Ad esempio un personaggio (Giuseppe) che si lamenta del fatto che il regista racconta di lui, ma dice cose che non sono vere. Magari sono "vere" per Dito ma non per Giuseppe. Sarebbe stata utile come contrappasso allo stile documentaristico del film.

Il cast è davvero notevole. Pare che il colpo di fortuna sia stato che Robert Downey Jr. abbia letto il copione, se ne sia innamorato, e abbia deciso di investire un bel gruzzoletto (e farne investire a Sting) nella sua produzione, a patto di interpretare il protagonista. Bravissimi i due attori che interpretano i genitori di Dito, Chazz Palminteri e Dianne Wiest, come pure Dido da giovane, Shia LaBeouf, e Rosario Dawson (interpreta quella che era la ragazza di Dido, vista al suo ritorno ad Astoria - particina ma che resta nel cuore).

Ottimi attori e ottima intepretazione, peccato solo che, a mio avviso, sarebbe stato opportuno fregarsene della vera storia di Dido e riscrivere la sceneggiatura in base alle loro caratteristiche. In particolare Palmintieri come nicaraguegno risulta poco credibile, fortuna che la cosa lasciata nel vago, per cui finisce per sembrare uno splendido (nel senso della recitazione) padre italoamericano. Anche se per tutto il film mi sono chiesto come mai un italoamericano avesse chiamato suo figlio Dito (Orlandito).

Kiss kiss bang bang

Riuscita commedia nera, piuttosto difficile da descrivere per i continui cambiamenti di tono operati dalla sceneggiatura e dalla regia - entrambe nelle mani di Shane Black che, se per la regia è un nome nuovo (e non ha ancora fatto altro) per la sceneggiatura è un nome noto, avendo scritto Arma letale. Titolo che del resto ha molto in comune con questo. Stessa atmosfera scanzonata, stessa contrapposizione tra due caratteri maschili - Robert Downey Jr. nei panni di un piccolo delinquente newyorkese (d'adozione) e Val Kilmer investigatore privato gay che lavora a Hollywood. Non diventa un buddy movie per l'intervento di Michelle Monaghan che dà un tocco rosa all'azione.

La storia è decisamente complicata, improbabile, e ricca di colpi di scena, inutile riassumerla. Potrebbe ricordare un intreccio tipico dei film hard boiled tipo Il grande sonno, ma aggiornato a tempi moderni - più azione, e più umorismo, anche macabro. Piacevole la colonna sonora.

Experiment - Fuga dalla perfezione

Da non confondere con The Experiment del 2010, remake di Das Experiment del 2001: questo è Experiment, senza articolo e con un ingiustificato e ingiustificabile sottotitolo italiano - in quanto non c'è alcuna perfezione e nemmeno una vera e propria fuga.

"Uno dei migliori film di fantascienza che sia mai stato realizzato!", diceva la copertina del DVD (del tutto assente materiale aggiuntivo, fra l'altro) e già questo era bastato a farmi capire che si trattava di una ciofeca. Pensavo però che si trattasse di una ciofeca densa di umorismo involontario, un po' alla Ed Wood per intendersi. Ahimé, nemmeno una sghignazzata, invece.

Sceneggiatura fumettistica nel senso negativo del termine, personaggi monodimensionali e storia ampiamente prevedibile. Recitazione nel migliore dei casi quasi accettabile. Colonna sonora dimenticabile. Effetti speciali risibili, ma questo faceva parte del gioco (il film è davvero a basso costo e lo dimostra a ogni passo).

Responsabilità principale della catastrofe attribuibile al regista-sceneggiatore Dan Turner.

Un tizio (John Hopkins - sua la recitazione non pessima) e una tizia così evidentemente inglesi che tutti si rivolgono a loro nella loro lingua natia, si ritrovano a Praga, senza memoria e in preda a incubi misti. Sono vittime di una macchinazione infernale e, per di più, senza capo né coda. Seguendo la loro avventura sconclusionata scopriremo che sono sposati e che hanno pure una figlia, anch'ella vittima della congiura. Finiranno tutti male.

Cattivissimo me

Il titolo suona meglio in inglese, Despicable me, soprattutto quando detto dai minion, come succede nello spot qui a seguire:

Storia non nuovissima ma condita con una serie di trovate estremamente divertenti. Il protagonista, Gru, è un supercattivo che ha rubato anche la statua della libertà (anche se si tratta della versione di Las Vegas, non dell'originale) ed è alla ricerca del colpo che lo renderà finalmente famoso. Vari inghippi, e nel finale scoprirà che cos'è che voleva veramente. E per ottenerlo sarà anche disposto a dar via la Luna.

La cosa che mi fa più imbizzarrire è che, evidentemente, i film di animazione capaci di vendere in tutto il mondo si fanno dappertutto, tranne che in Italia. In questo caso si tratta di una idea francese prodotta con soldi americani.

L'infernale Quinlan

Ieri mi son visto Professione: Reporter che finisce con un piano sequenza da togliere il fiato, e oggi è toccato ad Orson Welles, con il notevole piano sequenza che apre L'infernale Quinlan (in originale un titolo molto più adeguato: Touch of evil - Il tocco del male).

Per gli standard di Welles, e per il mio gusto, direi che si tratta di una catastrofe. Forse il problema è dovuto alla trama, piuttosto complicata, al montaggio a tratti scombinato (è stato rimontato una prima volta dai produttori, scontenti del risultato ufficiale, e una seconda volta in tempi relativamente recenti seguendo, per quanto possibile, le indicazioni che Welles stesso aveva dato alla produzione, quando questi si erano lamentati del prodotto), all'improbabilità di alcuni personaggi (Charlton Heston nei panni di un messicano? Akim Tamiroff boss del narcotraffico messicano?), o non so che. Fatto è che proprio non ci entro in sintonia. Oltre alla scena iniziale ci sono altri pezzi di bravura, come uno si può legittimamente aspettare da Welles, ma mi paiono quasi annegare in un marasma poco convincente.

Banalizzando, la storia è quella di Charlton Heston, sbirro messicano della narcotici, che incappa in un omicidio originato in Messico ma realizzato negli USA (da cui il lungo piano sequenza iniziale che segue la macchina dal parcheggio, al lento movimento per le vie della cittadina messicana, e il passaggio del confine) mentre è sul posto con la moglie appena sposata (una sfavillante Janet Leigh). Arriva sul luogo dei fatti anche Orson Welles, l'infernale capitano di polizia Hank Quinlan, e i due iniziano immediatamente a beccarsi. Il superpoliziotto americano capisce in un baleno come sono andate le cose, e in quattro e quattr'otto scopre il colpevole. Solo che, dato che spesso le prove sono difficili da trovare, ha deciso di semplificare la via della giustizia fabbricandosele. L'antipatia per il poliziotto messicano farà sì che si avvicini al Tamiroff, mafioso a cui Heston ha creato problemi, per cospirare contro di lui. Soluzione tragica.

C'è inoltre una particina per Marlene Dietrich, in una delle sue ultime apparizioni, nel ruolo della gestrice di un locale equivoco che ha un legame non ben chiarito con Quinlan. E a proposito di legami non chiariti, anche quello tra Quinlan e il suo vice non è dei più cristallini.

Parte abbastanza irrilevante per Dennis Weaver, attore da telefilm (Uno sceriffo a New York), che qui fa un portiere di notte non molto in sé.

Si vede per qualche secondo anche la mitica Zsa Zsa Gabor.

Professione: reporter

Una noia fenomenale, verrebbe da dire. Se non fosse che i dieci minuti finali sono a dir poco fantastici sia dal punto di vista emotivo sia tecnico - dominati come sono da una lunghissima sequenza dove la cinepresa, pur muovendosi con una lentezza inizialmente quasi esasperante, piroetta in modo improbabile da una stanza d'albergo alla piazza antistante per poi tornare, dopo aver seguito l'azione sullo spazio pubblico, nel privato della stanza.

La lentezza dell'azione nel paio d'ore del film si spiega con il fatto che, perdinci, è funzionale ai temi narrati. La difficoltà di comunicare, di relazionarsi, i dubbi sull'identità, tutta roba che difficilmente si riesce a rendere in un film dai ritmi più sbarazzini. C'è anche da dire che nel secolo scorso ci si poteva aspettare che il pubblico più avveduto reggesse comunque ad una simile gestione dei tempi. Oggi un po' meno.

Chissà, forse potrebbe aiutare vederlo un paio di volte. La prima un po' distrattamente, lasciando correre la pellicola in background fino a che arriva il gran finale. Del resto ci sono tanti elementi che cercano di spiazzarci. Tanto per dirne una, la scena iniziale è girata con taglio documentaristico - e fa temere per il peggio. Poi la camera si stabilizza, ma l'azione viene spesso interrotta da flash back o da proiezioni di interviste effettuate dal protagonista, il reporter, che poi è Jack Nicholson. I grandi silenzi uno se li dovrebbe aspettare, conoscendo Michelangelo Antonioni, anche se spesso si tratta di silenzi per modo di dire dato che il rumore di fondo è spesso molto alto. C'è poi il fatto che la protagonista femminile, Maria Schneider (visione dedicata a lei, riposi finalmente in pace) appare per un secondo a Londra nella prima ora del film, per poi riapparire senza alcun legame logico a Barcellona, fra l'altro negando che era lei quella che abbiamo visto.

Da notare che il titolo inglese, The passenger, è stato scelto da Antonioni, a creare un ulteriore elemento destabilizzante, immagino. Non sappiamo chi sia il passeggero (o la passeggera) del titolo. Verrebbe da dire la Schneider, che pure non è, a vedere il minutaggio, il personaggio principale - forse avrebbe senso guardare il film dal suo punto di vista, di studentessa (?) francese in visita in Spagna che incappa in un tipo bizzarro di cui forse si è innamorata ma che non può dire chi davvero sia. O se è Nicholson il passeggero, si potrebbe arguire che è un passeggero nella vita, perché finisce per lasciarsi portare al tragico epilogo, senza poi prendere particolari decisioni. Si lascia affascinare dalle coincidenze, come accenna a un certo punto il personaggio.

La storia sarebbe quella di un reporter di origine inglese ma formazione americana, Nicholson per l'appunto, che in Africa ha l'opportunità di scambiare identità con un tale morto per cause naturali e a lui vagamente simile. Lo fa per noia, voglia di cambiar vita o, come si suol dire, crisi della mezza età. Per noia finisce per seguire quella che era la vita del suo doppio, che si scopre essere un mercante d'armi. Finisce a Barcellona, per caso entra in una casa di Gaudì e incontra la Schneider, che aveva visto, o credeva di averla vista, quando aveva fatto un salto a Londra già con la nuova identità, per tirar su qualche soldo. Gente legata al mercante d'armi non è particolarmente contenta di lui, lo scova e lo elimina.

Nella scena finale, la polizia arriva che lui è stato appena freddato, presenti la moglie inglese e la Schneider. Curiosamente la moglie nega di riconoscimento. Se mente non si capisce perché, visto che ha mosso mari e monti per ritrovarlo. Se non mente, tutto quello che abbiamo visto non quadra. Ha mentito Nicholson per tutto il film? D'altronde il trafficante era sconosciuto a tutti e, fatto bizzarro, non vediamo in faccia il reporter morto alla fine del film. E' tutto un grande inganno? Quién sabe?

Invasion

Per dirla tutta, non ho seguito bene quello che succede del film per un paio di motivi. In primo luogo mi sono reso conto piuttosto rapidamente che si trattava di un remake de L'invasione degli ultracorpi (Invasion of the body snatchers) e di conseguenza il mio interesse nella trama si è rapidamente affievolito. E secondariamente Nicole Kidman tende a distogliere la mia attenzione dalla trama a prescindere. Grazie al cielo qui non ha subito modifiche nasali come in The others.

La storia credo sia ben nota a tutti - un organismo extraterrestre sbarca sul nostro amato pianeta, gli umani vengono in un qualche modo mutati in altro, pur mantenendo l'apparenza precendende. In genere vista come metafora dei "cattivi" che invadono silenziosamente il nostro territorio tagliandoci, come si suol dire, l'erba sotto i piedi. Roba abbastanza paranoica, per dirla tutta.

Regia di Oliver Hirschbiegel, noto come regista televisivo (commissario Rex) prima di passare al grande schermo e realizzare un lavoro decisamente molto interessante come La caduta. Sin dall'inizio non ho capito bene che sostanze si fosse inoculato prima di iniziare le riprese, dato che lo stile di questo film non mi sembrava in linea con il suo solito operare, poi, bighellonando per la rete, ho scoperto che i produttori, ritenendo il risultato non in linea con le aspettative del pubblico americano, hanno pagato fior di quattrini ai fratelli Wachowski per dargli un ritmo più incalzante. Risultato: né carne né pesce. Catastrofe al botteghino.

Praticamente non li ho visti, ma per amor della realtà dei fatti accenno al fatto che la Kidman, protagonista assoluta nei panni di una strizza divorziata con figlio a carico, è affiancata da Daniel Craig, di lei innamorato (e quindi odioso), in una pausa da James Bond e Jeremy Northam, nel ruolo dell'ex marito (e dunque nemmeno lui particolarmente simpatico), che non ha modo di fare molta vera recitazione, dato che viene pizzicato dal virus spaziale praticamente subito.

Extra nel DVD non eccezionali (ovvero solo pochi secondi di presenza per la Kidman).

Sette anime

Seconda regia americana di Gabriele Muccino, dopo il più fortunato La ricerca della felicità.

Bisogna aver molta pazienza con la storia, perché il chiarimento arriverà solo nel finale. Nella prima mezz'oretta si ha l'impressione che il protagonista (Will Smith) sia sul fuori di testa andante, poi si capisce come vanno le cose, la sceneggiatura prosegue per una buona ora a completare il quadro e, alla fine, dopo questa estenuante preparazione, arriva la mezz'ora finale che giustifica le due ore complessive della produzione.

Togliere una mezzoretta alla parte centrale avrebbe reso l'attesa del finale meno estenuante.

Ottima produzione, buona regia, interpretazioni (Rosario Dawson principale ruolo femminile) all'altezza di un film che, in fin dei conti parla quasi esclusivamente di morte - un tema non particolarmente appetibile.

Come spesso accade, il titolo non rende l'originale (Seven pounds - sette libbre, tre chili e mezzo) perdendo la citazione dal Mercante di Venezia e spostando l'enfasi da una carnalità quasi brutale ad una spiritualità di cui non c'è traccia nella pellicola.

Ottimo il DVD, con molti contenuti extra interessanti che mi sto ancora guardando. Particolarmente divertenti i pezzi dove parla Muccino in un inglese dalla marcata impostazione italiana.

Lo sceicco bianco

Dopo tutti questi anni resta ancora una piacevole commedia. D'altronde il soggetto è scritto da Michelangelo Antonioni, Federico Fellini e Tullio Pinelli - e per la sceneggiatura s'è aggiunto pure Ennio Flaiano. La regia di Fellini, pur al suo primo lavoro in solitario, è già quella che apprezzeremo nei capolavori che seguiranno, anche se l'espressività dei personaggi mi è sembrata fin troppo marcata, quasi da cinema muto. Alberto Sordi recita la parte dello sceicco con una verve da Rodolfo Valentino del litorale romano, Giulietta Masina ha una particina piccina ma luminosa. La colonna sonora è già di Nino Rota.

La storia è quella di due sposini novelli che vengono a Roma dal loro paesino. Lui sul pignolesco e con l'idea di usare il parente relativamente influente per far carriera, lei persa nei suoi sogni da fotoromanzo. Le loro strade si dividono e noi abbiamo modo di vedere il percorso di lei in quella sorta di mondo paracinematografico ormai scomparso e di lui in una sorta di incubo piccolo borghese.

Nella mente del serial killer

Una sorta di incrocio tra Dieci piccoli indiani e Seven.

Un gruppo futuri cacciatori di serial killer per l'FBI (detti Mindhunters, come da titolo originale) vanno su un'isoletta a fare la loro prova finale, che li qualificherà o meno per il lavoro. In più si aggiunge all'ultimo momento un investigatore della polizia. Qualcuno, però, inizia a far strage di loro, creando una sorta di contrappasso con il loro carattere. Chi non riesce a staccarsi dalla propria pistola, ad esempio, morirà a causa di essa.

Regia industriale di Renny Harlin, poca enfasi sulla capacità di recitazione degli attori, tra cui Val Kilmer e Chirstian Slate (curioso, ho appena visto un suo film di una quindicina di anni prima, California Skate) che però hanno solo pochi minuti a disposizione.

Le morti sono in genere piuttosto cruente.

Jarhead

Come dice Jake Gyllenhaal (anche qui nel ruolo di un tizio un po' lontano dalla realtà, come era stato pure in Zodiac e in Donnie Darko) tutte le guerre sono diverse, ma sono anche tutte anche uguali. In Jarhead c'è molto di già visto, sia per l'addestramento dei militari americani (come non pensare a Full metal jacket?) sia per il teatro di guerra irakeno (Three kings - ad esempio).

Il protagonista (Gyllenhaal), in questo caso, finisce a fare il marine per tradizione familiare, se ne pente, ma non può far altro che seguire il flusso. Viene spedito in Arabia, passa mesi nel deserto in attesa di una guerra che non arriva, con i soliti avvenimenti da caserma. Le ostilità si risolvono in una spiacevole passeggiata con i problemi più grossi dato dal fuoco amico e intemperanze tra commilitoni. Torna a casa e scopre che la sua vita non c'è più. E' diventato un veterano, che agirà in funzione di quel nulla che ha fatto per quel breve periodo della sua vita.

Buona la regia (Sam Mendes), piacevole la colonna sonora (a un certo punto si sentono i Doors e Gyllenhaal protesta che quella non è la musica della "loro" guerra), affiatato il cast e a proprio agio nei loro ruoli (Jamie Foxx, Chris Cooper e Peter Sarsgaard tra gli altri).