Mia madre

Margherita (Margherita Buy) è un regista cinematografico che assomiglia in modo inquietante a Nanni Moretti, con i suoi dubbi, improvvisi scatti di ira, incomprensibili consigli che dispensa ai suoi attori. Sta girando un improbabile film in cui un americano, interpretato da una star italo-americana, tal Barry Huggins (John Turturro), compra una azienda italiana e inizia un duro confronto con i dipendenti.

Margherita è divorziata, avrebbe un nuovo compagno, un attore che è anche nel film che sta girando, ma lo lascia subito. Ha anche una figlia, di cui però non è che sappia molto, un fratello, Giovanni (Nanni Moretti), e soprattutto Ada (Giulia Lazzarini), sua madre, che sta morendo.

Il tema di fondo è tragico, seguiamo Ada che si affievolisce, smarrisce la memoria e il senso; i suoi figli sembrano non sapere cosa stanno facendo, anche Giovanni, che pure sembra così razionale e pratico, in realtà non ha idea di cosa sarà di lui il giorno dopo; e persino Barry, sempre pronto allo scherzo, alle bizze da star, alle memorie che non si sa quanto siano vere e quanto inventate, non ne può più della sua vita che vede come un gigantesco bluff. Eppure c'è una gran dolcezza di fondo, e il finale ci offre un barlume di speranza.

Curioso che Moretti abbia fatto interpretare il suo alter ego alla Buy, e che abbia riservato per se la parte del fratello di Margherita, che fa un po' da versione migliore di lei. In alcune scene mi è sembrato quasi che Giovanni fosse una versione di Damiel, l'angelo de Il cielo sopra Berlino interpretato da Bruno Ganz, che cercasse di farsi sentire da Margherita. Oppure la impersonificazione dell'astruso consiglio di Margherita ai suoi attori, l'attore che sta a fianco al carattere.

Northern soul

Da noi ha saltato completamente la distribuzione cinematografica per uscire direttamente in DVD. Del resto ha corso lo stesso rischio anche in patria, dove però è stato graziato, forse dalla presenza di Steve Coogan (*), sia pure in un ruolo minore, gli è stato concesso di uscire in un piccolo numero di sale. L'inaspettato successo è stato tale che è seguita una distribuzione più ampia.

Per dirla tutta la storia non è che sia particolarmente rimarchevole, però Elaine Constantine (**) riesce a portare bene sullo schermo le atmosfere degli anni settanta nella periferia inglese, e in particolare quelle del bizzarro movimento musicale del northern soul. E visto che esiste una piccola fetta della popolazione inglese che continua ad amare quel tipo di musica (***) il relativo successo della pellicola non è poi inspiegabile.

John (Elliot James Langridge) è un timido ragazzetto che non sa bene che fare della sua vita, tampinato da tutti, persino dal burbero professor Banks (Steve Coogan), ha come unico amico il nonno (Ricky Tomlinson), che però muore subito. Nel frattempo John ha però trovato qualcosa che lo interessa, in northern soul, per l'appunto, complice Matt (Josh Whitehouse), altro ragazzetto dalla vita complicata. Tra i due si crea una forte amicizia che rischia di interrompersi per una serie di circostanze, come la differenza di classe (Matt viene dal basso, vive da solo, ha modi molto rozzi), droghe e relativi problemi di ordine poliziesco.

Strepitosa invece la collezione di canzoni che fa da colonna sonora. Non conosco praticamente nessuno, l'unica volta che viene citato un nome noto, Marvin Gaye, è quando John mette su un suo disco e Matt gli fa notare quanto poco potente sia in confronto alla roba che mettono su di solito.

(*) E famiglia. In ruoli ancor più piccoli è presente il fratello Martin, più noto per il suo contributo alla scena musicale (qualcuno conosce i Mock turtle?), sua moglie Kate a tanti piccoli Coogan-ini.
(**) Questa è la sua opera prima, di cui ha curato sia scenggiatura sia regia. Prima era nota per il suo lavoro nella fotografia.
(***) Ci sono anche da noi estimatori del northern soul, ma evidentemente non sono stati considerati abbastanza numerosi da convincere i nostri distributori cinematografici.

Il prigioniero di Amsterdam

Avendo appena visto il Charlot di Attenborough, non ho potuto fare a meno di notare la somiglianza tra il finale di questo, che è il secondo film americano di Alfred Hitchcock (*), con Il grande dittatore di Chaplin. L'uscita quasi contemporanea delle due pellicole mi fa pensare che tra gli europei che avevano attraversato l'oceano fosse diffusa l'esigenza di scuotere gli americani dal loro torpore isolazionista.

Curiosa la storia della sceneggiatura. Nata come trasposizione delle vicende autobiografiche di un giornalista americano, ha subito così tanti trattamenti da diventare irriconoscibile prima che venisse presentata a Hitchcock. Questi avrebbe voluto Gary Cooper per il ruolo principale, che però rifiutò, come aveva rifiutato la parte offertagli da John Ford in Ombre rosse. Joel McCrea, pur non disprezzabile, non mi sembra all'altezza del ruolo.

John Jones (McCrea) è un corrispondente di cronaca nera dalla bassa produttività e alta capacità di mettersi nei guai. Il direttore del suo giornale, l'inesistente New York Globe, vuole dare una scossa alle notizie che arrivano dall'Europa che, pur essendo sull'orlo della guerra, sono molto fiacche. Manda perciò costui, proprio perché completamente estraneo all'ambiente, come inviato speciale a Londra. Tra le cose bizzarre, dato il nome molto piatto, lo costringe a farsi chiamare Huntley Haverstock.

Il nostro Huntley Haverstock/John Jones riesce a mettersi rapidamente nei guai, conoscendo una bella fanciulla, Carol Fisher (Laraine Day), che diventa immediatamente il suo interesse principale, distogliendolo dalla conferenza di pace che dovrebbe seguire. Per sua fortuna, il padre di lei è un esponente politico inglese che ha organizzato l'evento, inoltre, per puro caso, finisce pure per conoscere un olandese, Van Meer (Albert Bassermann), che è un personaggio chiave delle trattative. Tra gli amici di Carol c'è poi un giornalista inglese piuttosto peculiare, Scott ffolliott (George Sanders), che tornerà anche lui molto utile nel dipanarsi dell'intricata vicenda.

(*) Titolo originale Foreign correspondent, come spesso accade trasformato con gran fantasia ingiustificata dalla distribuzione italiana.

Under the skin

La sceneggiatura di Walter Campbell e Jonathan Glazer (*) ha scarnificato e modificato a tal punto il romanzo omonimo di Michel Faber da rendere praticamente incomprensibile gran parte della vicenda. Credo ci siano dunque un paio di possibilità per poter apprezzare il film. Leggere prima il libro, oppure avere tanta pazienza e attenzione. Anche perché le battute che si scambiano gli attori sono ridotte al minimo.

Una misteriosa organizzazione sguinzaglia un suo elemento, che ha assunto le sembianze di Scarlett Johansson, per le strade della Scozia con lo scopo di adescare uomini solitari, senza solidi legami. Costoro vengono fatti sparire, non si capisce bene perché. A spalleggiare la protagonista c'è un tizio in motocicletta a cui è riservato il lavoro sporco, ripulire le tracce, coprirle le spalle.

Inizialmente Lei vede le sue vittime come esseri inferiori (**) ma poco alla volta alcuni fatti apparentemente secondari la muovono verso un interesse compassionevole. Arriverebbe forse a fare un salto della barricata se non fosse che non è proprio destino.

Ah, beh, c'è anche da dire che i cacciatori sono extraterrestri, ma questo, tutto sommato, è solo un dettaglio. Credo sarebbe stato meglio rendere più chiaro che lo scopo della caccia è quello di procurarsi un tipo di cibo che dalla loro parti è considerato una leccornia. In effetti c'è una scena che mi ha ricordato la produzione di Soylent green in 2022: i sopravvissuti, ma forse non è abbastanza.

Il romanzo aveva un finale a suo modo più riconciliante con l'umanità. Qui la morale mi sembra sia conflittuale, indicando come in fin dei conti ognuno abbia il suo predatore.

Ardua ma interessante la colonna sonora firmata da Mica Levi, nota anche come Micachu.

(*) Di Jonathan Glazer è anche la regia.
(**) Nella scena iniziale vediamo come sia più interessata ad una formica.

Charlot

E' stato Richard Attenborough a prendersi l'improbo compito di portare sullo schermo la vita di sir Charles Spencer Chaplin, finendo ovviamente per scontentare qualcuno, come ad esempio che tuttora vede in lui un pericoloso sovversivo, chi gli preferisce Buster Keaton, o magari anche chi lo ritiene semplicemente uno sporcaccione. A me non è sembrato male, anche grazie ad un grande Robert Downey Jr., che pare non abbia ottenuto l'Oscar per motivi personali, ovvero era insopportabile al punto da alienarsi il voto di gran parte di quelli che lo conoscevano.

Non mi ha convinto appieno la struttura del film, strutturato a matrioska. Scopriamo infatti alla fine che è tutto un sogno di Chaplin (Downey), appisolatosi mentre pensava cosa rispondere all'Academy che gli ha offerto l'Oscar alla carriera che gli verrà consegnato nel 1972. Nel sogno rivive una discussione che avrebbe avuto dieci anni prima con George Hayden (Anthony Hopkins), personaggio che nella finzione filmica è stato l'editor che ha seguito la pubblicazione della sua autobiografia, a proposito della struttura generale dell'opera. Il che è un ottima scusa per ripercorrere tutta la vita di Chaplin, ma paga il prezzo di una certa artificiosità.

Nonostante quello che lascia intendere il titolo italiano (*), l'enfasi non è tanto sul suo personaggio più famoso, quanto sulla sua vita privata, dalla miseria di quand'era bambino, al successo americano, conseguente scontro con il terribile J. Edgar Hoover, con tutto quello che ne consegue. Le scene con Charlot sono comunque tra le più belle, quella iniziale, con il personaggio che si strucca per diventare persona è molto potente. A proposito, la bravura di Downey Jr. nella parte è tale che Attenborough può permettersi di mostrarci il vero Chaplin in azione senza che questo faccia sfigurare l'interpretazione moderna.

Anche se gran parte del tempo l'attenzione è su Chaplin, notevole è il cast al contorno, che include Geraldine Chaplin nei panni di sua nonna, ovvero Hannah, la madre di Charlie; Dan Aykroyd come Mack Sennett, il famoso produttore di comiche che portò Chaplin nel mondo del cinema; Kevin Kline come Douglas Fairbanks, grande attore e amico del nostro; Milla Jovovich prima moglie; Marisa Tomei come Mabel Normand, regista dei primi film di Charlot; eccetera.

Particolare importante che mi era sfuggito. La vita sentimentale di Chaplin è stata a dir poco complicata. Innamoratosi a prima vista di Hetty Kelly quando era ancora a Londra, la perde di vista causa il suo successo americano, ne cerca copie in tutte le altre donne che incontra, fallendo miserabilmente, finché non troverà Oona O'Neill, ultima donna che sposa e a cui resterà legato fino alla morte. La Kelly e la O'Neill sono interpretate da Moira Kelly.

(*) Il titolo originale è Chaplin.

Il presidente - Una storia d'amore

Meglio non dar troppo retta al sottotitolo italiano, quello originale è un più sobrio The American president, sì, c'è la storia d'amore, ma le cose sono molto più complicate e l'aspetto politico della vicenda non è per niente secondario. Buona la scelta della produzione di affidare la regia a Rob Reiner, che non fa nessuna fatica a combinare le diverse anime del racconto, aggiungendoci anche una componente favolistica che non ci sta per niente male, ottima la scelta del cast, in particolare Annette Bening è sfavillante. Consiglierei cautela solo allo spettatore che si sente vicino alle posizioni del partito repubblicano americano, che qui non fa una bella figura.

Andrew Shepherd (Michael Douglas) è il corrente presidente degli Stati Uniti, vicino alla scadenza del primo mandato. Da buon democratico vorrebbe presentarsi alle urne con risultati concreti in linea con le aspettative del suo elettorato, preme dunque per l'approvazione di un paio di leggi restrittive, una nei confronti delle emissioni di biossido di carbonio, l'altra per le armi private. I numeri sono tirati, ma con un tira e molla un qualche risultato positivo il suo staff, in cui spiccano A.J. (Martin Sheen) e Lewis (Michael J. Fox), pensa di riuscire a portarlo a casa (*).

Succede però un inghippo. Incappa in Sydney Ellen Wade (Annette Bening), una lobbista di una potente associazione ecologista, e si innamora immediatamente di lei. Pessima idea, i sondaggi vanno immediatamente a picco, anche perché il senatore repubblicano Bob Rumson (Richard Dreyfuss), candidato avverso per le prossime elezioni, lancia una campagna molto sporca e personale contro la anomala coppia presidenziale.

Andrew potrebbe rispondere per le rime ma c'è qualcosa che lo blocca. Il sospetto che viene è che vorrebbe che l'elettorato si dimostrasse maturo e non badasse a pettegolezzi sulla vita privata, e questo non tanto per stima nei confronti dei votanti quanto per esigenza di essere rassicurato. Dopotutto la sua prima elezione è arrivata sull'onda emotiva della morte di sua moglie, e forse vorrebbe bilanciare il conto, presentandosi questa volta in condizione sfavorevole.

Le cose vanno di male in peggio, i sondaggi mostrano quanto poco ci si possa aspettare dall'opinione pubblica, e una azzardata manovra di sottobosco politico sembra portare anche alla rottura tra Andrew e Sydney.

Comunque alla fine tutto andrà per il meglio. O almeno, così possiamo sperare. In fin dei conti è una favola, no?

(*) La sceneggiatura è di Aaron Sorkin, e dimostra un ottimismo eccessivo. Anche oggi il fronte negazionista nei confronti del riscaldamento globale è abbastanza forte da impedire politiche coerenti negli USA in questo campo. E meglio non parlare del peso che continua ad avere la National Rifle Association.

Istantanee

Primo film di Jocelyn Moorhouse (*) che è recentemente tornata alla regia con The dressmaker, con una uscita prevista verso fine anno. Il cast include Kate Winslet, Liam Hemsworth e Hugo Weaving, lasciando prevedere una distribuzione di un certo livello.

Questo primo lavoro aveva un budget sicuramente molto più modesto, e se il protagonista è ancora Hugo Weaving e il secondo ruolo maschile è affidato a Russell Crowe bisogna considerare che entrambi ai tempi erano degli illustri sconosciuti, praticamente al debutto sul grande schermo.

Martin (Weaving) è cieco dalla nascita. Non è questo il suo handicap peggiore, bensì la sua insicurezza, la necessità di avere sempre e comunque una prova (Proof è il titolo originale) della sincerità di chi gli parla. Per far ciò, fa molte foto e verifica il suo contenuto chiedendone la descrizione a vedenti, paragonandola con quello che gli avevano detto e quello che aveva percepito.

Celia (Geneviève Picot) gli fa da governante, ma i rapporti tra i due sono molto tesi. Lei è innamorata cotta di lui e spera che un giorno o l'altro lui ricambi. Lui mantiene con lei un atteggiamento ambivalente. Evidentemente gli fa comodo essere così al centro dell'attenzione, ma non ha alcuna intenzione di ricambiare in alcun modo. Un gioco molto pericoloso che non si sa come potrebbe andare a finire.

Andy (Russell Crowe) è un ragazzotto simpatico ma evanescente, che non sembra sapere che farsene della sua vita. Il caso vuole che incontri Martin in circostanze curiose e i due facciano amicizia. Martin apprezza la sua spontaneità e lo recluta per avere descrizioni delle foto che prende, sarebbe anche disposto a pagare per il servizio. Ovviamente Celia si indispettisce nel vedere che Martin ha trovato qualcun altro che gli dia retta, e fa di tutto per sabotare la relazione rivale, spingendo Andy a dire una menzogna a Martin.

Fortunatamente questo tradimento della fiducia serve a Martin per capire come le sue pretese di assoluta sincerità degli altri siano eccessive, e lo spingono a riconsiderare il suo approccio alla vita, imparando a fidarsi maggiormente degli altri, lasciando perdere il suo ossessivo bisogno di riscontri oggettivi.

Brava la Moorhouse a trattare un argomento così spinoso senza cadere in patetismi o eccessi drammatici. Grazie anche ad alcuni siparietti comici che alleggeriscono lo sviluppo, come quando Martin simula di essersi dimenticato di essere cieco dalla nascita per evitare problemi con la polizia.

(*) Secondo IMDB ci sarebbe un misterioso Pavane risalente a un decennio prima, ma nulla ho trovato sul suo conto.

Baciami, stupido

Billy Wilder non era molto soddisfatto del risultato, e consigliava piuttosto L'appartamento che, a suo dire, era abbastanza simile nell'impostazione generale. E visto che ha scritto (*) e diretto entrambe le pellicole, conviene tenere a mente le sue parole. Anch'io nel mio piccolo ho notato svariate debolezze, alcune strutturali, dovute forse al fatto che si tratta dell'adattamento di un pezzo teatrale che è stato stravolto nell'ambientazione e circostanze, il che ha causato la perdita di senso di alcuni passaggi. In particolare il lieto fine viene raggiunto a martellate.

Curioso notare come alla base di tutto ci sia L'ora della fantasia di Anna Bonacci, una specie di pochade all'italiana, addomesticata per i gusti locali, che era già stata portata sullo schermo da Mario Camerini nel 1952 con il titolo Moglie per una notte e un cast decisamente interessante. Nella versione di Wilder, di italiano rimane poco. Un protagonista italo-americano, Dino, un cantante-attore interpretato da Dean Martin come se prendesse in giro se stesso, che gira su una bella convertibile italo-americana, una Chrysler Dual-Ghia che pare fosse di proprietà di Dean Martin. E una buffa (**) Fiat 600 che appare nel finale.

Dino è uno show-man piuttosto popolare, anche se già in fase calante. E' dipendente da alcol, sesso e successo. Per il momento tutto gli va bene, ma viene da chiedersi che ne sarà di lui nel giro di pochi anni. Mentre torna a Hollywood da Las Vegas, un capriccio del caso lo porta in un paesino dimenticato dal mondo, dove vivono due amici, Barney (Cliff Osmond), benzinaio sovrappeso, e Orville (Ray Walston), musicista incompreso. Barney ha il sogno di diventare ricco e famoso grazie alle orribili canzonette di cui scrive i testi e che vengono musicate, senza troppa convinzione, da Orville (***). Il quale non sembra essere preoccupato di dover campare con le lezioni di piano che offre a ragazzetti non particolarmente dotati, il suo vero cruccio è la moglie, Zelda (Felicia Farr), che lui percepisce essere troppo bella e giovane per lui. In assoluto gli si darebbe ragione, ma nell'economia della storia ha torto marcio. Zelda non ha occhi che per lui.

Dino arriva in paese, Barney decide che questa è l'occasione che stava aspettando, sabota la Dual-Ghia e, millantando un problema a reperire i pezzi di ricambio per una vettura italiana (§), lo trattiene per una notte. Il suo diabolico piano è di ospitarlo a casa di Orville e offrirgli Zelda in cambio della sua disponibilità a cantare le loro canzoni. Doppia difficoltà aggiuntiva, si vuole sostituire a Zelda una professionista (§§), la appariscente Polly (Kim Novak), ma senza che questa sia al corrente dell'intrigo. Altre complicazioni: Zelda è una fan sfegatata di Dino sin dai tempi della scuola, Polly sarebbe per vocazione una estetista e sognava una quieta vita accanto ad un ometto tranquillo. E' finita a prostituirsi nel mezzo del nulla a causa della sua eccessiva fiducia nel prossimo.

Pare che la sceneggiatura fosse stata scritta pensando a Jack Lemmon per Orville e Marilyn Monroe per Polly. Il primo non è riuscito a far quadrare i tempi con i suoi impegni (o forse non voleva essere monopolizzato da Wilder), la seconda non era già più. Prima della Novak si era pensato a Jayne Mansfield, mentre Orville sarebbe dovuto essere Peter Sellers. E in effetti le riprese partono con Sellers e la Novak. Si trovano ancora in rete articoli in cui giornalisti visitano il set e raccontano che Sellers funziona a meraviglia nel meccanismo. Però il cuore non gli regge e deve sospendere le riprese (§§§), da cui la sostituzione con Walston.

Ci si è messa pure la National Legion of Decency, organizzazione cristiana che controllava la produzione cinematografica dell'epoca, a mettere i bastoni tra le ruote cercando di ottenere un cambiamento della sceneggiatura per evitare sconvenienti allusioni sessuali. Non si vede praticamente nulla, ovviamente, ma si capisce che entrambi nella coppia sposata finiranno per tradire, sia pure solo per una notte. Wilder era abbastanza forte per poter dir di no, ma questo a causato comunque una serie di problemi.

(*) Assieme al fido I.A.L. Diamond.
(**) In particolare per i canoni tecnici ed estetici americani.
(***) Le melodie sono opera di George Gershwin, fondi di magazzino che aveva scartato. Il fratello Ira le ha completate con rime bizzarre.
(§) La meccanica era completamente americana, solo la carrozzeria era italiana.
(§§) La storia è ambientata in Nevada, dove la prostituzione è legale, l'originale italiano era relativo al tempo quando anche da noi tale pratica lo era.
(§§§) Ho letto anche in giro che c'erano screzi tra Sellers e altri, il problema fisico però è certo.

El empleo

Cortometraggio animato, prima regia dell'argentino Santiago Bou Grasso. Racconta di un inquietante mondo parallelo in cui gli esseri umani svolgono lavori letteralmente disumanizzanti.

La domanda nascosta è se davvero il nostro mondo sia meno drammaticamente ridicolo di quello qui raccontato.
Gli uomini-sedia mi hanno ricordato un dettaglio secondario della saga di Dune, firmata da Frank Herbert, dove animali erano stati geneticamente modificati per essere usati come sgabelli.

L'uomo che verrà

Martina (Greta Zuccheri Montanari) ha avuto la sfortuna di nascere alla metà degli anni trenta del secolo scorso in una famiglia contadina sulle pendici del Monte Sole, nel bolognese. Come se questo non bastasse, gli è pure morto tra le mani un fratellino neonato, causandole un comprensibile shock che si è tradotto in un ostinato mutismo che nulla sembra riuscire a vincere.

La già difficile lotta per la sopravvivenza è resa ancor meno sopportabile dalla guerra in corso. I tedeschi requisiscono quello di cui hanno bisogno, per che decidono sia un giusto prezzo, i partigiani non sono da meno, segnando quello che prendono con la promessa di pagare a tempo debito. La famiglia di Martina si arrabatta come può, gli uomini vorrebbero andare a cercare lavoro altrove, a Bologna, Milano, magari nella mitica America, ma sono legati alla terra da rigidi regolamenti governativi. Le donne avrebbero più libertà di movimento, e la zia Beniamina (Alba Rohrwacher) ogni tanto ne approfitta per andare a Bologna, cosa che sua madre vede molto male. I genitori di Martina, Lena (Maya Sansa) e Armando (Claudio Casadio), la seguono come possono, ma la piccola passa gran parte del tempo per conto suo, osservando dal suo punto di vista tutti gli strani accadimenti che le si parano davanti.

Nell'autunno del '44 le arriva un nuovo fratellino, che lei sembra vedere come un modo per riscattare la morte dell'altro, però arriva anche l'operazione militare tedesca che verrà ricordata come eccidio di Monte Sole o, più comunemente, come strage di Marzabotto. Il mondo sembra essere completamente impazzito, e viene da pensare che non ci sia più un futuro più degno di questo nome. Ma Martina non sembra d'accordo, e riesce a trovare ancora una fiammella di speranza.

E' il primo film di Giorgio Diritti che vedo, più noto per Il vento fa il suo giro. Mi avevano detto di tenere a mente il riferimento con Ermanno Olmi, e in effetti ci ho visto la stessa attenzione quasi-documentaristica alla storia narrata, seguendo tematiche minori, per quanto, come in questo caso, si vadano a legare a fatti di conoscenza generale.

The water diviner

Obbligatorio il double bill con Gli anni spezzati di Peter Weir, per chi non lo abbia presente. Se quello infatti esplorava la tragedia di Gallipoli dal punto di vista di chi ci era andato, questo lo affianca seguendo la prospettiva di chi era a casa.

Prima guerra mondiale, australiani e neozelandesi vengono inquadrati in un corpo d'armata denominato ANZAC (*), che poi è rimasto come nomignolo affibiato a chi abbia una origine inglese e venga dall'altra parte del mondo, e spediti a combattere contro l'impero ottomano, considerato punto debole dello schieramento avverso. L'idea era invadere i Dardanelli, spezzando in due il difensore, constringerlo ad una resa separata, accerchiare i rimanenti imperi centrali, e risolvere la guerra rapidamente. Le cose andarono diversamente. I turchi, pur avendo un esercito decisamente malmesso, si difesero con le unghie e con i denti. L'attacco fu preparato male ed eseguito anche peggio, trasformando Gallipoli in una catastrofe per ambo le parti.

Connor (Russell Crowe) è un agricoltore australiano. I suoi tre figli sono partiti per la guerra e non sono più ritornati. Solo il diario di uno di loro è stato trovato e riconsegnato, dando qualche indizio su cosa sia successo, ma nessuna certezza. In particolare la madre (Jacqueline McKenzie) non regge e, dopo qualche anno, finisce per suicidarsi. Connor decide di chiudere i conti col passato andando a Gallipoli per cercare quel che resta dei suoi ragazzi.

Lì scopre che il suo nemico non sono i turchi, che hanno ben altri problemi a cui pensare, avendo perso la guerra e dovendo fare ora i conti con lo spirito di rivalsa dei greci, quanto la burocrazia militare britannica, che cerca di tenerlo lontano dai luoghi della strage. Grazie all'insperato appoggio dell'albergatrice, Ayshe (Olga Kurylenko) e di suo figlio, riesce a giungere a Gallipoli, dove l'ufficiale (Jai Courtney) incaricato di dare una forma umana al quel che è rimasto del disastro, dopo una prima titubanza, finisce per accettare la sua presenza. Un aiuto più puntuale arriva da un sergente (Cem Yilmaz) e un maggiore (Yilmaz Erdogan) turco, che finiscono per instradare Connor nella giusta direzione.

Dopo svariate peripezie, Connor troverà un nuovo equilibrio, e potrà dunque dedicarsi ad una nuova fase della sua vita.

La storia ha il suo interesse, e non solo per gli australiani. Ci sono però notevoli problemi di sceneggiatura e regia (*) che finiscono per inficiare il risultato finale. La trama da commedia rosa che vede l'avvicinamento tra il rude contadino e la bella e raffinata locandiera è poco approfondita e finisce per essere poco plausibile. Non per colpa della Kurylenko, quanto per la stonatura con il resto del materiale. In una particina secondaria vediamo di sfuggita pure Megan Gale.

Più interessante la trama principale che esplora le relazioni umane e belliche tra turchi, inglesi, australiani e greci. Anche se inglesi e greci finiscono per avere un ruolo miserrimo, in particolare il travagliato rapporto tra greci e turchi, roba di millenni di storia, viene liquidato brutalmente in pochi secondi.

Ah, il titolo, che avrebbe potuto essere tradotto come Il rabdomante, allude al fatto che Connor, vivendo in un ambiente molto poco ospitale, è uso cercare l'acqua usando le notorie bacchettine. Vediamo nella scena iniziale come ottenga un successo, però poi confessa che spesso scava un gran buco senza trovare niente. L'idea, molto stiracchiata, è che adoperi questa sua presunta capacità anche per ritrovare i suoi figli.

Buona la colonna sonora di David Hirschfelder integrata da composizioni di Ludovico Einaudi e altri.

(*) Australian and New Zealand Army Corps
(*) E' la prima volta che Crowe si prende una responsabilità di questo tipo, e si vede.

La scatola di cartone

Nonostante sia quasi Natale, Sherlock Holmes (Jeremy Brett) non ha nessuna intenzione di venire a patti col suo caratteraccio. Da un lato combatte con Mrs Hudson (Rosalie Williams) la battaglia, persa in partenza, contro gli addobbi di stagione, dall'altra caccia in malo modo una possibile cliente, Susan Cushing (Joanna David), colpevole di avergli presentato un caso poco interessante.

Sia il Natale che la Cushing si prendono la loro rivincita. Il primo spingendolo a comprare un regalo (orribile) per il dottor Watson (Edward Hardwicke) e a partecipare al veglione natalizio di Scotland Yard, su invito dell'ispettore Hawkins, la seconda vedendosi comparire in casa il consulting detective, sempre via Hawkins.

Ci sono ben tre sorelle Cushing. Susan è la più attempata e, dopo la morte dei genitori, ha fatto da capofamiglia al terzetto. Piuttosto rigida di carattere, non riesce a mediare con i diversi caratteri delle altre due. Sarah (Deborah Findlay) ha anche lei un carattere deciso, che la porta necessariamente in rotta di collisione con Susan. Spirito indipendente, pare sia l'unica delle tre a lavorare, ha una spiccata tendenza a mettersi nei pasticci per questioni di cuore. Mary è la più giovane, ed è il vaso di coccio del lotto. Sfuggita fisicamente alla famiglia via matrimonio con Jim Browner (Ciarán Hinds), non riesce a sottrarsi ai giochi di potere delle sorelle.

Susan si è rivolta a Holmes perché non riesce a contattare Mary, e alla polizia perché ha ricevuto per Natale un pacchetto, la scatola del titolo, contenente due orecchie mozzate. Lei crede si tratti di uno scherzo scemo dell'inquilino che ha sbattuto fuori di casa in quanto scandalosamente troppo affettuoso con Sarah. Hawkins sembra d'accordo, ma c'è di mezzo un caso di cadaveri trafugati, nel quale ha già coinvolto Holmes, e pensa bene di continuare la collaborazione in questo possibile sviluppo.

Il racconto di Conan Doyle è stato cambiato in alcuni dettagli, i fatti erano avvenuti in piena estate, ad esempio, ma sostanzialmente si segue la linea originale. Brett è estremamente provato, ma riesce a dare ancora una buona interpretazione in questo ultimo episodio della serie, alternando toni comici e tragici. Memorabile il breve monologo finale, in cui Holmes si dichiara sconcertato dalla pochezza dell'animo umano. Nel cast al contorno, come al solito di ottimo livello, una menzione di merito va a Hinds che riesce a dare uno spessore al suo personaggio nonostante il poco tempo a disposizione.

La pietra di Mazarino

Ecco, questo deve essere il peggiore episodio delle avventure di Sherlock Holmes tra tutti quelli prodotti dalla Granada. A parziale discolpa della produzione bisogna tener conto che il crollo psico-fisico di Jeremy Brett ha causato un repentino aggiustamento della sceneggiatura, e abbiamo così che Mycroft Holmes (Charles Gray) si vede costretto ad abbandonare la sua comoda poltrona al Diogenes Club per seguire una delicata indagine che sarebbe toccata al fratellino, se questi non avesse abbandonato Londra in cerca della tranquillità sulle Highlands.

Però il problema è molto più profondo, ha le sue radici nel racconto di Conan Doyle, debole e poco originale, conversione di uno dei rari tentativi (non riusciti) di Conan Doyle di portare il suo personaggio più noto sulla scena teatrale. Per dargli maggior sostanza si è scelto di fondere nella sceneggiatura un altro racconto, L’avventura dei tre Garrideb, che però non è nemmeno lui un granché, evidente rielucubrazione sul tema che era già stato meglio sviluppato ne La lega dei capelli rossi.

Ci sono parti simpatiche, come la bizzarra famiglia Garrideb che rischia di far diventar matto il dottor Watson (Edward Hardwicke), ma ne sconsiglierei la visione a chi non abbia già avuto modo di vedere qualche altra decina dei precedenti episodi.

Il perfido conte Sylvius (Jon Finch) ruba una pietra preziosissima che era stata promessa alla Francia, legittima proprietaria. Una crisi diplomatica è dietro l'angolo, e Sherlock dov'è? Irraggiungibile in vacanza. Mycroft ha un per niente caratteristico sprazzo di attività e in breve identifica il malfattore. La pietra però, dove sia nessun lo sa. Inoltre Sylvius, sententosi il fiato sul collo, tenta di scatenare una trama alternativa che dovrebbe distogliere l'attenzione del sostituto detective. Succede così che un americano, tal James Winter (Gavan O'Herlihy) si spacci per John Garrideb e convinca Nathan Garrideb (Richard Caldicot) che se riescono a trovare un terzo Garrideb (*) potranno dividere tra loro una fantastica eredità di un ricco Garrideb d'oltreoceano. Storia evidentemente farlocca, ma si sa che la speranza gioca strani scherzi.

(*) Rigorosamente maschio, e quindi le sue due sorelle non fanno testo.

Il cerchio rosso

Il racconto originale, tratto dalla raccolta L'ultimo saluto (*), non è tra i più brillanti della produzione di Conan Doyle. In questa versione della Granada si è perciò pensato di aggiungere un personaggio, tal Firmani (Joseph Long), che sarebbe in buoni rapporti con Sherlock Holmes (Jeremy Brett). Però Jeremy Paul (sceneggiatore) di questo Firmani non ha proprio idea di cosa farsene, e dunque lo fa rapidamente morire. La storia rimane perciò fiacca, e in più c'è questa figura che non si capisce che senso abbia.

Holmes fa pochissimo, in pratica segue lo svolgimento dell'azione. Watson causa involontariamente un disastro, attirando l'attenzione delle forze del male su Firmani, anche se non è che la correlazione mi sia sembrata chiarissima. A svolgere le indagini sono l'ispettore Hawkins (Tom Chadbon) di Scotland Yard e un poliziotto americano (Kerry Shale) giunto sulle tracce del pericolosissimo Gorgiano (John Hallam), che finiscono per lasciare poco spazio ai nostri.

La storia ruota tutta attorno ad una coppia di piccioncini italiani, Emilia (Sophia Diaz) e Gennaro (James Coombes), che hanno lasciato l'Italia in quanto in patria il loro sogno d'amore era contrastato dal padre di lei. Giunti a New York, Gennaro è stato contattato da Gorgiano, un brutto soggetto appartenente ad una società segreta definita come "carbonara", nonostante che i carbonai fossero estinti da svariati decenni, che ha, come da titolo, il nome di Cerchio rosso. Ma il racconto non segue un crinale complottesco-delinquenziale, succede bensì che Gorgiano si innamori della bella Emilia, e tenti di eliminare il concorrente con tutti i mezzi a sua disposizione.

I due fuggono a Londra, non volendo dare nell'occhio montano una complicata messinscena che li rende visibilissimi, con tutto quello che ne consegue.

(*) His last bow, nonostante il titolo non è l'ultima collezione dei racconti di Sherlock Holmes.

I pince-nez dorati

Terzo episodio dell'annata, che pare però sia stato il primo ad essere prodotto. Questo spiega la miglior forma fisica di Jeremy Brett, che ebbe un tracollo in quello che è stato trasmesso come prima puntata. Il motivo del rimescolamento non è solo la tendenza della produzione Granada a rimescolare le acque (*) ma anche un modo per dissimulare l'assenza di Edward Hardwicke, giunto in ritardo sul set in quanto occupato a farsi dirigere da Richard Attenborough in Viaggio in Inghilterra.

La mancanza del dottor Watson è una delle variazioni principali operate dalla sceneggiatura sulla trama originale. L'altra direi che sia la morte del "cattivo", che nella versione doyliana la feceva franca. A sostituire il dottore, che Mrs Hudson (Rosalie Williams) ci dice sia trattenuto dal suo lavoro, abbiamo Mycroft Holmes (Charles Gray) che si trova dal fratellino per discutere di storia medioevale quando irrompe l'ispettore Hopkins (Nigel Planer) per chiedere l'aiuto di Sherlock su un omicidio che gli pare privo di movente.

Scopriamo rapidamente che il pur volenteroso Hopkins ha trascurato una marea di dettagli, e i due Holmes riusciranno rapidamente a chiarire meglio la personalità del deceduto, non del tutto priva di lati oscuri, e soprattutto quella del suo datore di lavoro, tal professor Coram (Frank Finlay), che nasconde un passato poco onorevole.

Ad esempio, nel canone firmato da Conan Doyle, questo racconto breve è inserito nella raccolta Il ritorno di Sherlock Holmes. Granada invece ha chiamato questo blocco Le memorie di S.H., che in originale è precedente di un decennio al titolo in questione e raccoglie i racconti che terminano con il confronto con Moriarty.

Paddington

Un po' come in Up, gli eventi di cui siamo testimoni sono la conseguenza delle azioni di un ardito esploratore, in questo caso il londinese Montgomery Clyde (Tim Downie), che intraprende un avventuroso viaggio alla scoperta di remote plaghe sudamericane.

Clyde ha i tipici difetti del britannico tipo in stile impero, civile è solo quello che si conforma alla sue aspettative, e quando parla della sua amata Londra ricorda solo gli aspetti positivi. Però è tutto sommato una brava persona e se è vero che, giunto nel profondo Perù, quando incontra una coppia di orsi, il suo primo istinto è quello di sparare e trasformarli in trofei, una volta superata questa fase si dimostra essere disponibile all'interazione costruttiva.

I due orsi, a cui dà nome Lucy e Pastuzo (*), sono di una specie sconosciuta all'uomo che ha alcune peculiari caratteristiche, tra le quali spiccano la facilità di apprendere e parlare correttamente inglese e la passione per la marmellata di arance.

Una quarantina di anni dopo, ai nostri giorni. Lucy e Pastuzo sono molto invecchiati, e hanno con loro un orsetto pasticcione che pare essere loro nipote. Un terremoto causa la distruzione del loro habitat, per cui Lucy decide di andare nella locale casa di riposo per orsi mentre il nipotino parte alla scoperta della mitizzata Londra. Che risulta essere più fredda (in tutti i sensi) e umida di quanto si potesse aspettare.

Per sua fortuna incappa nella bizzarra famigliola Brown che, nonostante la riottosità del capofamiglia Henry (Hugh Bonneville), lo accoglie temporaneamente a casa loro. In particolare è la signora Brown (Sally Hawkins) che prende a cuore la sorte del povero orsetto, ed è lei che gli dà il nome di Paddington, visto che è proprio in quella stazione che si incontrano.

Paddington vorrebbe trovare Clyde che, andandosene, aveva invitato gli orsi a ricambiare la visita, ma su questo percorso ci sono alcuni ostacoli. Come ad esempio un vicino dei Brown, Mr. Curry (Peter Capaldi), un gran brontolone che ama criticare tutto ciò che sfugge dalla sua inquadratura, e Millicent (Nicole Kidman), una perfida tassidermista che sembra avere un inesplicabile odio per il nostro orsetto. Fortuna che, oltre a i Brown, Paddington può contare su alcuni alleati, tra cui Mrs. Bird (Julie Walters) e Mr. Gruber (Jim Broadbent).

Il target principale è quello dei ragazzini molto giovani. Comunque anche il pubblico più cresciutello può trovare svariati motivi di interesse. Ad esempio la Kidman in versione supercattiva, che un po' fa ricordare la sua Marisa Coulter ne La bussola d'oro, ma molto più sopra le righe.

(*) Meglio non indagare troppo sui motivi che gli hanno fatto scegliere il secondo nome.

Third person

Il cinema è una bizzarra combinazione tra arte e industria. Un artista se ne può fregare del riscontro immediato del pubblico. Anzi, se vuole fare qualcosa che duri nel tempo se ne deve fregare. Un produttore può, di tanto in tanto, permettersi il lusso di buttare i suoi soldi in un progetto che gli piace ma per cui dubita esista un pubblico che possa garantirgli un rientro rapido del suo investimento.

Questo è uno di quei film. Paul Haggis (regia e sceneggiatura) ha dovuto accettare qualche compromesso produttivo, ma neanche tanti, a quanto ho letto. In pratica ha accettato di ridurre il metraggio della pellicola, così da farla restare nelle due ore o poco più, tagliando un'oretta di roba che, spero, verrà recuperata nell'uscita in DVD.

Già, perché mi è capitato di guardare l'orologio durante la proiezione, ma perché speravo che la mia percezione del tempo fosse distorta e ci fosse ancora abbastanza tempo per i personaggi per cambiare direzione alle loro storie. Come dire, l'intreccio, almeno per me, ha funzionato benissimo.

Consiglio però una buona dose di cautela a chi voglia guardare questo film. L'intreccio è piuttosto complesso, bisogna fare attenzione a quello che succede, tener conto di svariati dettagli, e lasciare che le trame si sviluppino per qualche tempo prima di avanzare ipotesi su quello che stiamo vedendo.

Credo che non sia un grosso spoiler, e che aiuti a seguire l'azione, sapere in anticipo che, nonostante il gran turbinio di personaggi e location (*), ci sono solo due personaggi reali, Michael (Liam Neeson) e Elaine (Kim Basinger). Lei, fra l'altro, ha pochissimo spazio, tutto il gioco è nelle mani di lui.

Abbiamo dunque Michael, famoso scrittore americano alle prese con il suo nuovo romanzo. Ha una serie di grossi problemi, il suo primo lavoro è stato un successo, ma da allora in poi la vena gli si è andata progressivamente inaridendo. E' in crisi con la moglie, e si è rifugiato in Europa per trovare le energie necessarie. Ha una mezza consapevolezza di non essere un grande scrittore, si vede piuttosto come un imbroglione che succhia dagli altri quello che poi rielabora e trasforma in racconti. Si sente terribilmente in colpa per qualcosa che è capitato di recente e deve pure avere un lontano trauma che gli rende difficile esprimere i suoi sentimenti. Il trucco che adopera per non tenersi tutto dentro è quello di usare la terza persona, persino nel suo diario.

La trama di Michael e Elaine racconta dunque del tentativo di lui di elaborare quello che gli è successo per cercare una via d'uscita. Essere uno scrittore lo aiuta, nel senso che traduce quello che è dentro di lui in storie che sono accadute ad altri.

Julia (Mila Kunis) è una newyorkese non particolarmente brillante. Sposata con Rick (James Franco), noto artista, lo ha riempito di corna fino all'inverosimile, probabilmente ricambiata, ma non è questo il problema. E' accusata di aver causato un incidente che ha rischiato di causare la morte del figlio, un ragazzino viziato dall'evidente assenza dei genitori e relativo loro senso di colpa. Questo ha portato al divorzio, affido della giovane peste al padre, rovina economica e sociale di lei. In un certo senso la catastrofe ha fatto bene a Julia che ora sembra molto più sensata di quanto deve essere stata in passato. Ma, come spesso accade, il destino infierisce su chi è in difficoltà e, grazie anche al fatto che Rick è rimasto carogna quanto doveva essere anche prima, le cose le vanno di male in peggio.

Scott (Adrien Brody) è un americano in trasferta a Roma per rubare segreti industriali nel mondo della moda. Odia l'Italia e gli italiani, per questo entra in un locale infimo che però si chiama Bar Americano, pensando che sia un ritrovo di espatriati. E' invece un tugurio gestito da un barista insolente (Riccardo Scamarcio) frequentato da umanità mista. Tra la clientela spicca Monika (Moran Atias) una affascinante rom. Tra i due inizia un gioco pericoloso, in bilico tra verità e menzogna, dove non si capisce più cosa sia vero e cosa sia falso.

Anche Michael ha una sua storia, che lo vede misurarsi con Anna (Olivia Wilde), che se ho capito bene dovrebbe essere una giornalista televisiva basata a New York. Lo raggiunge a Parigi, con un volo che lui le ha comprato con i punti, con la scusa di chiedere il suo parere su un suo lavoro di fiction. Tra i due c'è una storia d'amore piuttosto contrastata sia per il caratterino di entrambi sia per un grosso buco nero che Anna ha dentro di sé senza essere capace di farne i conti.

Come dicevo, la sceneggiatura è molto complessa. Le note sopra servono solo a dare una idea degli sviluppi. Altissimo il livello del cast, basti vedere i nomi che ho elencato. E mi stavo dimenticando di citare Maria Bello. Applauso per la regia che riesce a tenere assieme un intreccio e un cast di questo livello. Ottima la colonna sonora del solito Dario Marianelli.

(*) New York, Parigi, Roma e Taranto.

Il detective morente

Molto meglio riuscito del precedente episodio, anche se il trucco su Jeremy Brett fa accapponare la pelle. La storia è piuttosto aderente all'originale, con piccoli cambiamenti che sembrano avere lo scopo di vedere se siamo stati attenti.

Un tal Victor Savage (Hugh Bonneville), nonostante la vita fortunata che include una bella villa, una rendita interessante, una moglie innamorata (Susannah Harker) e due bei bambini, sente che qualcosa gli manca. Vorrebbe essere un poeta ma proprio non ha l'ispirazione. Suo cugino, Culverton Smith (*), lo spinge ad una serie di comportamenti rischiosi che dovrebbero aiutarlo a trovare una vena, mentre in realtà sono un pretesto per portarlo ad una rapida fine.

La signora Savage subdora l'inghippo e cerca aiuto in Holmes ma, ohimè, è troppo tardi. Il diabolico piano del dottor Smith è già nella sua fase finale. Il dottor Watson (Edward Hardwicke), che è come sempre molto sensibile al fascino femminile, vorrebbe comunque aiutare la tapina, nonostante Holmes rimarchi che Smith è certamente colpevole, ma ha congegnato le cose in modo che nessuna giuria possa mai condannarlo. Però, sentendosi ancora in colpa per le botte che il suo amico ha preso nella puntata precedente, Holmes accompagna Watson ad un incontro tra Smith e la vedova Savage. E qui l'incredibile accade. Holmes si impietosisce alla sorte dei Savage e gioca una rischiosa carta, attirandosi l'ira del perfido Smith.

La scena finale, con la piccola Savage che, molto titubante, si avvicina al burbero Holmes per ringraziarlo, gli dà la manina, ottiene in cambio uno di quei folli e brevissimi sorrisetti che sono uno tra i tratti distintivi dello Sherlock secondo Brett, e tra il perplesso e il felice lo ricambia, basta da sola a giustificare la visione di questa puntata.

(*) Jonathan Hyde, che riesce benissimo nel ruolo di carogna, al punto che la sceneggiatura è stata adattata per permettegli di recitare in questa parte. Nell'originale il cattivo era lo zio.

I tre frontoni

Ultima blocco della lunga serie Granada dedicata alle avventure di Sherlock Holmes, a cui è stato dato il titolo di Le Memorie di S.H., continuando la pratica di mescolare le carte rispetto agli originali di Conan Doyle. Una sola stagione di soli sei episodi, quando c'era da scegliere ancora tra una ventina di storie originali. In particolare è restato fuori dalla serie Uno studio in rosso, primo racconto in cui si è creata la coppia Holmes-Watson. Purtroppo la ragione è da ricercarsi nella salute di Jeremy Brett, che già era declinante nelle ultime annate ma che in questa ultima serie è da spavento. Nonostante questo, grazie anche alle sceneggiature che vengono adattate per ridurre il carico di lavoro del protagonista, il risultato è accettabile e, in certi casi, ammirevole. Anche se resta il dolore nel vedere Brett così evidentemente affaticato.

L'avventura trattata in questa puntata, che da noi è nota anche col nome originale, che poi è il nome della villa al centro dell'intrigo, Three Gables, sarebbe centrato sulla bizzarra richiesta di un ignoto che vorrebbe comprare la proprietà, incluso tutto quello che contiene. La proprietaria, che in questa versione è una gentil vecchietta (*), immagina che ci sia qualcosa di losco e chiede lumi a Sherlock Holmes. Costui, che nel frattempo era stato minacciato da un pugile uso ad arrotondare eseguendo pestaggi per conto terzi (Steve Toussaint), affinché non si impegnasse in casi che lo portassero in quella zona, non può che darle ragione.

Un minimo di indagine gli basta per capire che la richiesta è legata alla morte del nipote della sua cliente (**), che in effetti, prima di morire, stava scrivendo un romanzo scandalistico, teoricamente di fantasia ma che chi era al corrente della vita londinese avrebbe fatto ben poca fatica a ricondurre a personaggi reali.

Causa i sopradescritti problemi, si è deciso di aumentare a dismisura il tempo dedicato all'antefatto, e dunque prima dell'inizio dell'indagine noi già sappiamo che il cattivo di turno è una donna, e che donna, una avventuriera che si fa chiamare Isadora Klein ed è interpretata da Claudine Auger, già Bond girl in Thunderball. Il che rovina un po' l'equilibrio del racconto.

Il povero Watson (Edward Hardwicke) viene picchiato di santa ragione, però in compenso la figlia (dell'attore, non del personaggio, Emma Hardwicke) ha modo di apparire in un ruolo minore.

(*) Mary Ellis, ultranovantenne. Dopo quest'ultima fatica si è ritirata dalle scene, per spegnersi solo dopo un decennio.
(**) In originale era il figlio. Probabilmente la produzione ci teneva a dare il ruolo alla Ellis, e così si è adattata la sceneggiatura alla attrice.

Wild

Difficile sfuggire alla tentazione di paragonare questo film a Into the wild anche se i due si assomigliano solo esteriormente. Basta scendere un pochino in profondità per accorgersi che seguono percorsi opposti. Là Sean Penn narrava di Chris, un ragazzetto in fuga dalla sua vita, in una direzione che, ohimè, non possiamo dire con certezza quale fosse. Qui invece si racconta di tale Cheryl Strayed che, scoprendo di aver metaforicamente barattato la diritta via per una selva oscura, decide di seguire un tortuoso percorso, il Pacific Crest Trail, amichevolmente conosciuto come PCT, per circa mille miglia. E non in auto, bensì a piedi.

Chris sembra avere un rapporto apocalittico con il nostro stile di vita, Cheryl è al contrario ben integrata. Il viaggio le serve per riorganizzarsi le idee e far riprendere alla sua vita la direzione che sua madre avrebbe voluto avesse. Nel finale ci dice che di lì a qualche anno si sarebbe (ri)sposata, e avrebbe avuto un paio di marmocchi. Non ci dice che poi scriverà un libro sulla sua storia e che questo diventerà il film che abbiamo appena visto, ma questo lo dovremmo sapere da soli.

Il film è stato fortemento voluto da Reese Witherspoon, che l'ha prodotto e che si assicurata che nessuno le scippasse il ruolo di Cheryl. A dire il vero avrebbe qualche annetto di troppo, come si nota dal fatto che Laura Dern interpreta la madre, ma possiamo convincerci che siano stati gli stravizi del personaggio a farla sembrare più matura di quello che effettivamente è. Già, perché Cheryl prende il PCT come cura per la dipendenza da sesso e droga in cui è caduta in seguito alla precoce dipartita della madre.

A dirigere è stato chiamato Jean-Marc Vallée che, vista la situazione, non deve aver avuto moltissima libertà creativa. A trasformare il libro in sceneggiatura ci ha pensato Nick Hornby, a cui penso sia dovuto il taglio autoironico e divertito di un paio di scene, che sono quelle che mi sono piaciute di più.

Into the woods

Attenzione, trattasi di musical, come il fatto che alla regia ci sia il recidivo Rob Marshall (*) può far sospettare. Chi si recasse al cinema senza avere questa fondamentale informazione e lì dichiarare il proprio sconforto durante la visione non farebbe una buona figura. E garantisco che è successo a più d'uno.
Magari sarebbe opportuno informarsi un minimo prima di scegliere che film vedere, e non lasciarsi guidare dal titolo e da qualche nome in cartellone. Almeno guardarsi il trailer, nel quale si scopre anche che le canzoni sono state lasciate in originale con sottotitoli:

La sceneggiatura è basata sull'omonima produzione teatrale firmata da James Lapine e Stephen Sondheim, questo porta ad un paio di ulteriori problemi. La produzione cinematografica è infatti della Disney, e qualche spettatore ha pensato che questo volesse dire una storia per bimbi. Non è proprio così. O almeno, non è una storia per giovinetti come la pensava il vecchio Walt. Cattivi da una parte, buoni dall'altra, e a vincere sono i secondi. Qui le cose sono più complicate, e i riferimenti al sesso sono più espliciti di quanto ci si potrebbe aspettare. Sono stati fatti tagli e semplificazioni, sia per ammorbidire i toni, sia per limitare la lunghezza dello spettacolo, ma restiamo comunque fuori dagli standard del genere.

La storia è una fusione di svariate favole dei fratelli Grimm, in particolare Raperonzolo (**), Cappuccetto rosso, Jack e il fagiolo magico e Cenerentola. La strega di Raperonzolo (Meryl Streep) aveva gettato una maledizione sulla famiglia dei rapinatori del suo orto. Ora, passati molti anni, è pronta a toglierla e si reca dal panettiere (James Corden) e sua moglie (Emily Blunt) che dovranno portarle alcuni ingredienti, ovvero una mucca bianca, come quella di Jack (Daniel Huttlestone), un vestito rosso, con cappuccio (Lilla Crawford) o senza non è un problema, una scarpetta dorata, quella di Cenerentola (Anna Kendrick) va benissimo, e dei capelli biondi. Questo porta ad una curiosa interazione tra i diversi personaggi delle favole.

Ah, già, altri spettatori (in genere spettatrici) si aspettavano una parte più consistente per Johnny Depp, che però, nella pelle del lupo, non ha chance contro l'agguerrita nonnetta di Cappuccetto rosso.

(*) Vedasi Chicago e il meno riuscito Nine.
(**) I più giovani la conoscono come Rapunzel.

Il nobile scapolo

Lo scenario produttivo deve essere stato molto simile a quello del precedente episodio. Se il risultato mi pare superiore, credo che sia perché T.R. Bowen ha avuto più tempo a disposizione di Jeremy Paul per sviluppare una sceneggiatura che potesse far raggiungere i cento minuti richiesti. C'è da dire che Bowen ha avuto anche l'intuizione di riciclare un altro racconto di Conan Doyle (*), unito ad elementi provenienti da diverse fonti (**). C'è perfino una fulminante battuta di Oscar Wilde adattata per la situazione.

Holmes (Jeremy Brett) è messo molto male. Un incubo ricorrente, e l'assenza di casi che lui possa reputare alla sua altezza, gli stanno rovinando la vita. Succede però che il matrimonio tra Henrietta Doran (Paris Jefferson), una ereditiera americana, e Lord Robert St. Simon (Simon Williams) prende una piega inaspettata, con la scomparsa della sposa subito dopo la cerimonia.

Seguendo il suo metodo, Holmes ricostruisce la situazione in cui il fatto è avvenuto, scoprendo dettagli che non sono forse considerabili strettamente pertinenti con il caso, ma finiscono per avere un interesse molto superiore.

Raccomando una buona dose di pazienza allo spettatore futuro. La prima parte non è riuscita molto bene, molto lenta e ripetitiva, sembra che il suo scopo principale sia quello di occupare quanto più tempo possibile. Passati i primi cinquanta minuti, la qualità del prodotto torna ad essere quella tipica della serie Granada.

Jeremy Brett è fuori forma quanto il suo personaggio, nonostante questo riesce a dare una ennesima ottima interpretazione. Edward Hardwicke e il suo dottor Watson guadagnano un po' più di spazio e pure alcune pungenti battute che sembrerebbero più nello spirito sherlockiano.

(*) L’avventura dell’inquilina velata da Il taccuino di Sherlock Holmes
(**) Vedasi in particolare quello che in Jane Eyre di Charlotte Brontë è il personaggio di Bertha Mason

Il vampiro del Sussex

La sceneggiatura (Jeremy Paul) è stata scritta in fretta e furia, allo scopo di adattare l'omonimo racconto (*) di Conan Doyle alle impreviste esigenze del momento. Che poi sarebbero quelle di produrre un episodio doppio, cento minuti invece dei soliti cinquanta, senza però sovraccaricare di lavoro Jeremy Brett, la cui salute era, ohimè, declinante. Considerando la base di partenza e le circostanze, il risultato non è poi terribile.

Pur mantenendo gran parte degli elementi originali, la scelta è stata quella di aggiungere un personaggio, John Stockton (Roy Marsden) che rende la struttura più complessa e ambigua. Lasciando allo spettatore la possibilità di accettare la soluzione razionale di Sherlock Holmes (Brett, ovviamente), o propendere per una via sovrannaturale.

In questa versione, Holmes e il dottor Watson (Edward Hardwicke) vengono chiamati nel Sussex dal locale curato che è preoccupato da una serie di accadimenti che la popolazione locale imputa allo Stockton, che si pensa essere un vampiro, in seguito ad una leggenda del posto che ha tracce in una tragedia di un secolo prima.

Holmes interviene più con l'idea di evitare un linciaggio che per esplorare un caso di vampirismo. Però scopre che lo Stockton ci marcia sulla credulità popolare, per fini suoi. Al punto che Holmes alla fine si convince che sia effettivamente una specie di vampiro, anche se in un senso ben diverso da quello che vuole la tradizione.

(*) L'avventura del vampiro del Sussex, inclusa ne Il taccuino di Sherlock Holmes. Un caso piuttosto semplice e per nulla paranormale.

Charles Augustus Milverton

Milverton (Robert Hardy) è proprio una brutta persona. Se va ad un ballo il suo sguardo passa in rassegna tutte le donne presenti, ma focalizzato sui gioielli che indossano. La sua professione sarebbe quella del mercante d'arte, in realtà i soldi li fa comprando lettere compromettenti, e chiedendo cifre spropositate a chi di dovere. Un ricattatore, anzi il peggior ricattatore attivo nella Londra di fine ottocento. Da cui il titolo originale di questo episodio speciale (The master blackmailer). La storia non giustificherebbe il raddoppio del tempo, ma Jeremy Paul (sceneggiatura) e Peter Hammond (regia) hanno fatto in modo di usare i cento minuti al meglio, operando una modifica rispetto al racconto, come scritto da Conan Doyle, per affrontare un lato poco sviluppato del carattere sherlockiano, ovvero la sua relazione fisica con le donne.

Sappiamo infatti che Sherlock Holmes (Jeremy Brett) ha sviluppato una passione platonica per Irene Adler, e niente di più tangibile. Succede però che in questo racconto (*) si traversta da idraulico per entrare nella casa di Milverton e studiare da quel punto di vantaggio la situazione. Per acquisire maggiori informazioni, circuisce Agatha (Sophie Thompson - sorella di Emma), arrivando vicino addirittura a fidanzarsi. Nella versione Granada si dà molto spazio a questa sottotrama, modificando anche il finale per mostrare come alla fine Holmes si renda conto di essersi comportato in modo riprovevole.

La puntata è molto ricca anche dal punto di vista musicale. Eliminata la sigla iniziale, il cui tema viene proposto solo molto in avanti, e pesantemente rielaborato (**), largo spazio viene lasciato a musiche d'epoca o classiche, con brani dal Mikado di Gilbert & Sullivan, Debussy, Offenbach, eccetera.

(*) L'avventura di Charles Augustus Milverton, da Il ritorno di Sherlock Holmes
(**) Le musiche originali sono sempre di Patrick Gowers