Difficile sfuggire alla tentazione di paragonare questo film a Into the wild anche se i due si assomigliano solo esteriormente. Basta scendere un pochino in profondità per accorgersi che seguono percorsi opposti. Là Sean Penn narrava di Chris, un ragazzetto in fuga dalla sua vita, in una direzione che, ohimè, non possiamo dire con certezza quale fosse. Qui invece si racconta di tale Cheryl Strayed che, scoprendo di aver metaforicamente barattato la diritta via per una selva oscura, decide di seguire un tortuoso percorso, il Pacific Crest Trail, amichevolmente conosciuto come PCT, per circa mille miglia. E non in auto, bensì a piedi.
Chris sembra avere un rapporto apocalittico con il nostro stile di vita, Cheryl è al contrario ben integrata. Il viaggio le serve per riorganizzarsi le idee e far riprendere alla sua vita la direzione che sua madre avrebbe voluto avesse. Nel finale ci dice che di lì a qualche anno si sarebbe (ri)sposata, e avrebbe avuto un paio di marmocchi. Non ci dice che poi scriverà un libro sulla sua storia e che questo diventerà il film che abbiamo appena visto, ma questo lo dovremmo sapere da soli.
Il film è stato fortemento voluto da Reese Witherspoon, che l'ha prodotto e che si assicurata che nessuno le scippasse il ruolo di Cheryl. A dire il vero avrebbe qualche annetto di troppo, come si nota dal fatto che Laura Dern interpreta la madre, ma possiamo convincerci che siano stati gli stravizi del personaggio a farla sembrare più matura di quello che effettivamente è. Già, perché Cheryl prende il PCT come cura per la dipendenza da sesso e droga in cui è caduta in seguito alla precoce dipartita della madre.
A dirigere è stato chiamato Jean-Marc Vallée che, vista la situazione, non deve aver avuto moltissima libertà creativa. A trasformare il libro in sceneggiatura ci ha pensato Nick Hornby, a cui penso sia dovuto il taglio autoironico e divertito di un paio di scene, che sono quelle che mi sono piaciute di più.
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