L'arte di vincere

Non mi ha convinto. Le scene che mi sono piaciute di più sono state quelle di repertorio, nonostante che di baseball io ne capisca davvero poco, sono riuscite ad emozionarmi. A parte questo dettaglio (in realtà sono davvero pochi i minuti dedicati al gioco) non sono riuscito ad entrare in sintonia con la vicenda.

Il titolo, come spesso accade è sbagliato. Meglio l'originale Moneyball, che ha preso solo la prima parola del libro su cui è basata la sceneggiatura, Moneyball: the art of winning an unfair game. Volendo prendere solo la seconda parte, la distribuzione italiana avrebbe dovuto tenere la frase completa L'arte di vincere un gioco non equo. Già, perché nel baseball, come molti giochi di squadra, è impossibile vincere se non si ha un munifico proprietario disposto a sborsare ingenti quantità di denaro.

La storia è una versione romanzata di una vicenda realmente accaduta (cosa che penso sia la maggiore debolezza del film, dovendo seguire fatti reali, finisce per disperdersi in aspetti secondari) in cui un tale, il general manager (Brad Pitt) di una squadra di medio-alto profilo (Oakland Athletics) che si accorge di non avere possibilità contro squadre super-ricche (in particolare i New York Yankees). E allora pensa che deve cambiare modo di giocare, incrocia fortunosamente un ragazzotto che ne capisce poco di sport (Jonah Hill) ma è affascinato dalle statistiche sportive. E si chiede, perché spendere cifre esagerate per star fenomenali, quando si può ottenere lo stesso valore medio percentuale con due-tre giocatori mediocri e quindi molto più economici?

Ragionamento che non fa una grinza e pure funziona a meraviglia, se si gioca con le figurine. Nella realtà, quando si ha a che fare con umani, è una sciocchezza immane, come ci mostra la prima metà del film. Non bastano i numeri, bisogna considerare anche il lato umano. L'allenatore (Philip Seymour Hoffman) potrebbe non gradire di dover eseguire ordini altrui, che gli suonano assurdi, perdipiù. I giocatori potrebbero non fare squadra, e non funzionare al meglio.

Seconda parte, Pitt capisce dove ha sbagliato e, con le buone o con le cattive, rimedia al guaio.

Questa direi che è la vicenda principale, a cui vengono sommati i fatti privati di Pitt, divorziato con figlia canterina, e con un fallimentare passato di giocatore, qualche accenno alle vite dei giocatori, e altre cosettine secondarie.

Avrei preferito una maggior snellezza narrativa, due ore abbondanti mi sono sembrate eccessive. In certe inquadrature la somiglianza tra Pitt e Robert Redford (dei tempi d'oro) m'è parsa persino eccessiva. Regia di Bennett Miller, che non mi ha entusiasmato, come nel precedente Truman Capote - A sangue freddo dove P.S.Hoffman era protagonista.

Una poltrona per due

Una storia alla Il principe e il povero, due personaggi molto diversi che scambiano il proprio posto (il titolo originale è più esplicito, Trading places), scoprono quanto non sapevano sul mondo dell'altro, e dovrebbero alla fine della vicenda essere più maturi.

La differenza è che qui i due protagonisti il cambiamento lo subiscono. Sono i diabolici fratelli Duke (Don Ameche e Ralph Bellamy), che mi hanno ricordato i vecchietti del Muppet Show, che pensano di poter cambiare il destino dell'erede designato del loro impero economico (Dan Aykroyd) con quello di un delinquentello da strada (Eddie Murphy).

L'ambiente è quello della finanza, e direi che il film funziona bene in parallelo con Wall street di Oliver Stone.

Altro riferimento ineludibile è Le nozze di Figaro di Mozart, sia perché la sua ouverture è usata (benissimo) nella sequenza iniziale (e citata altre volte più avanti, con Aykroyd che a un certo punto ne fischietta un aria) sia per un certo parallelo nella storia. Chi sta sopra pensa di poter disporre della vita degli altri a suo piacimento, ma chi sta sotto riesce con l'astuzia a spuntarla.

Nel bene e nel male si sente il tocco alla regia di John Landis, i Blues Brothers sono proprio dietro l'angolo. Qualche caduta di tono nella sceneggiatura, con un finale posticcio comune a molte commedie (i protagonisti, dopo aver a lungo tribolato, si ritrovano ricchi su una spiaggia tropicale, vedi ad esempio Getta la mamma dal treno).

La battuta chiave del film è affidata al maggiordomo (Denholm Elliott) che suggerisce a Murphy che sta per assumere il nuovo ruolo di continuare ad essere sé stesso, che è l'unica cosa che non gli potranno togliere.

Ottima la scelta del cast, con Aykroyd e Murphy che se la intendono alla perfezione, e che include anche Jamie Lee Curtis (prostituta di buon cuore), Frank Oz (poliziotto corrotto, e altro aggancio al Muppet Show e ai Blues brothers), James Belushi (travestito da gorilla). Particina minuscola per Giancarlo Esposito (in galera con Murphy).

The big bang theory - Prima stagione /1

Mi aspettavo di più. Vagamente simile a The IT crowd, perde il confronto su tutta la linea. Per la serie inglese la ventina di minuti di un episodio mi sembravano pochi, qui invece se fossero più lunghi non li reggerei. I personaggi mi paiono interpretati troppo sopra le righe, mancano di naturalezza.

Mi sono visto la prima mezza dozzina di episodi, un terzo circa della stagione. La cosa migliore sono i titoli, e ogni tanto ci scappa qualche battuta divertente.

1 - Pilot. Come dice il titolo, si tratta dell'episodio pilota che presenta i personaggi. Due nerd-geek (Leonard e Sheldon) che condividono un appartamento e lavorano alla stessa università, un paio di loro amici (Howard e Rajesh), anch'essi scienziati, uno dei quali indiano. Vicina dei due personaggi principali una giovine donna "normale" (Penny). Si ride (poco - credo di aver solo sorriso qualche volta) dello scollamento dalla realtà degli scienziati, e della difficoltà di interazione con la vicina. Il più normale (o meno anormale) dei due si innamora di lei, una di quegli amori impossibili che verranno tirati il più a lungo possibile, in attesa di qualche idea degli sceneggiatori.

2 - The big bran hypothesis. L'ipotesi del cervellone, in italiano, ma in inglese suona più come L'ipotesi della grande crusca, che per noi non vuol dire niente, ma è un gioco di parole con cervello (brain) e un allusione alla collezione di cereali per la colazione di Sheldon, che mantiene in ordine di contenuto calorico.

3 - The Fuzzy Boots Corollary. Tradotto Il corollario del gatto, perdendo il perplimente originale Il corollario degli stivali pelosi, che sarebbe parte del nome che Leonard vuole dare a un gatto che vorrebbe prendere per superare la delusione amorosa nei confronti di Penny.

4 - The Luminous Fish Effect. L'effetto del pesce luminoso, che sarebbe poi un esperimento a cui lavora Sheldon quando si trova a casa, licenziato per aver dato dell'idiota al suo nuovo capo (un idiota). Interviene la madre di Sheldon, una terribile estremista cristiana creazionista che in qualche modo riesce a convivere con la passione per la scienza del figlio, e riesce pure a fare annullare il licenziamento (dandola via all'idiota, si lascia ipotizzare).

5 - The Hamburger Postulate. Il postulato dell'hamburger, dato che i pasti al fast food dove lavora Penny hanno un ruolo importante in questa puntata. Leonard ha una veloce relazione di puro sesso con la collega Leslie (che l'aveva rifiutato nel terzo episodio).

6 - The Middle Earth Paradigm. Il paradigma della Terra di Mezzo, in seguito al travestimento scelto da Leonard per la festa in costume di Halloween da Penny. Sheldon si veste da effetto Doppler (nessuno lo capisce, e nessuno nemmeno sa cosa sia), Howard da Robin Hood (ma viene scambiato per Peter Pan) e Rajesh da Thor. Quest'ultimo, grazie al suo mutismo nervoso con le donne, fa una conquista molto chiacchierina che apprezza le sue capacità di "ascoltatore".

La talpa

Bella regia (Tomas Alfredson, quello di Lasciami entrare, poi rifatto come Let me in, e noto da noi come Blood story) e cast strepitoso (Gary Oldman, Mark Strong, Colin Firth, John Hurt, Toby Jones, Tom Hardy, ...).

La storia però non mi ha preso. Basata su un romanzo di John le Carré (che è anche tra i produttori e ha pure una particina), è una storia anni settanta della guerra spionistica tra i due blocchi contrapposti del tempo. Basata con molta libertà sulla vicenda di personaggi di alto livello del servizio segreto inglese che in realtà lavoravano per i sovietici. Molto grigiume, trame contrapposte, mosse e contromosse da scacchisti ma, francamente, non sono riuscito ad appassionarmi.

Protagonista assoluto Oldman, in una parte che avrei visto bene affidata a Michael Caine, ma una ventina di anni fa. Bravo in un ruolo molto misurato, dove gran parte del senso dell'interpretazione viene dato muovendo millimetricamente pochi muscoli.

Il titolo originale, Tinker Tailor Soldier Spy, deriva da una filastrocca usata per far la conta (tipo Anghingò, tre civette sul comò - o Sotto il ponte di Baracca), evidentemente intraducibile.

Carnage

Visto ad un cineforum frequentato da pubblico variegato che direi che è rimasto soddisfatto. Da cui consegue la riflessione sul fatto che (almeno a volte) il cinema d'autore ha una diffusione minore di quella che potrebbe essere, più per pregiudizio che per un reale difficile fruibilità del prodotto.

Forse molti l'avranno pure presa per una semplice commedia paradossale ma, anche se fosse davvero così, non ci vedrei niente di male.

Il lavoro teatrale di Yasmina Reza (il dio del massacro) è stato convertito in sceneggiatura dalla stessa autrice e dal regista, Roman Polanski. Solido impianto teatrale, dunque, ottimamente trasposto cinematograficamente, grazie anche al poker di star che lo interpretano, due coppie formate da Jodie Foster e John C. Reilly, padroni di casa, e Kate Winslet e Christoph Waltz, ospiti.

Tutta l'azione si consuma in un bell'appartamento newyorkese (Brooklyn - ma è finzione). Nonostante gli ospiti cerchino più volte di andarsene, non ci riescono. E questo non può non farmi pensare a L'angelo sterminatore, anche se Polanski si tiene lontano dagli eccessi surrealisti di Buñuel. Impossibilità di uscire da un ambiente ristretto, deterioramento fisico e morale, ribaltamento degli schemi. Più ci penso e più mi pare che i due titoli abbiano davvero molto in comune.

E che burlone è Polanski. Chissà che voglia avrebbe di farsi quattro passi per Manhattan, e riesce a prendersi in giro facendo un film in cui i protagonisti sono a New York, ma Manhattan la riescono a vedere solo dalle finestre.

L'illusionista

Stavo blaterando su Componente instabile di quanto il muto non sia poi disprezzabile al cinema, e che io, se fossi un produttore (in my wildest dreams) ci farei pure un pensierino sull'investire in film dove il chiacchiericcio fosse limitato al minimo, o anche escluso del tutto. Certi racconti, argomentavo, si reggono benissimo anche così. Anzi, forse pure meglio. A quel punto Sailor Fede ha notato che in effetti un film come L'illusionista del parlato se ne fa poco o niente. Perdinci, L'illusionista! Me lo ero dimenticato. Uscito in Italia nel dicembre 2010, da me clamorosamente mancato sul grande schermo, segnatomelo come da recuperare appena possibile, me lo sono ricordato grazie al revival del muto.

Fare attenzione che si tratta de L'illusionista del 2010, diretto da Sylvain Chomet, animazione. E non L'illusionista del 2006, diretto da Neil Burger (a sua volta bello, direi sottovalutato probabilmente a causa di uno di quegli incidenti che ogni tanto capitano, qui nelle sembianze di The prestige, stesso anno, tema simile ma diretto da Christopher Nolan).

Sapevo vagamente di cosa si trattava, una sceneggiatura originale di Jacques Tati adattata e diretta da un talentuoso francese (Chomet) di cui sentivo parlar bene che non avevo praticato. Per me Tati è uno dei geni assoluti del cinema, e dunque anche se la trasposizione fosse stata mediocre, la sceneggiatura mi bastava come garanzia del risultato.

Non penso di riuscire a rendere con le parole quello che ho provato vendendo già solo le prime battute della pellicola. Protagonista un anziano illusionista, copia conforme animata di Jacques Tati in persona. E chi ha presente il personaggio di M.Hulot, vedasi ad esempio le sue Vacanze o Play Time, si rende ben conto che non è cosa facile.

Un film a dir poco eccezionale, per chi apprezzi il genere. Chomet ha assorbito alla perfezione lo spirito originale e lo ha reso da maestro in una animazione classica (ma che non disdegna l'uso di moderne tecnologie). Da notare che l'equazione animazione = bambini qui non vale. Tempi lenti, grossa attenzione ai dettagli e alle emozioni, qualche parola in francese, qualche parola in inglese, e anche un po' di incomprensibile (almeno a me) scozzese.

Il protagonista è un buffo ma bravo illusionista (che si fa chiamare con il vero cognome di Tati, Tatischeff) che non riesce più a far presa sul pubblico. Lo si vede accettare contratti sempre meno prestigiosi, accompagnato da un coniglio dispettoso che più che trucco del mestiere è compagno di vita. Incontra una ragazzetta, pura di cuore ma sciocchina, che pensa che lui sia un mago, nel senso potteriano del termine. I due prendono a girare assieme, legati da un affetto padre/figlia (più chiaro in lui, forse meno in lei). Giungono ad Edimburgo, dove lui esercita con scarso successo in teatro, e cerca di raggranellare soldi anche con lavoretti extra, anche lì con risultati scarsi. Un giorno si accorge che lei non è più una ragazzetta, è diventata una donna, e si sta innamorando di un giovanotto (nel momento della rivelazione, per non farsi vedere dalla coppia, Tatischeff entra in un cinema dove stanno proiettando Mio zio, e così per qualche secondo abbiamo Hulot e Tatischeff nella stessa scena). E capisce che è giunto il momento di staccarsi da lei, per lasciare che faccia la sua vita.

La rapina perfetta

Una banda scalcagnata rapina una banca con la tecnica de I soliti ignoti, o meglio di Criminali da strapazzo, visto che passano da sotto. La parte complicata viene dopo. Di perfetto c'è ben boco (e infatti il titolo originale è un neutro The Bank Job).

Sotto molto punti di vista mi è sembrato inferiore al paragonabile Ocean's eleven, ma si salva nel paragone per una sceneggiatura più interessante, approssimativamente basata su fatti e personaggi reali anche se, dato che poco si sa di come siano davvero andate le cose, la fantasia degli autori (Dick Clement e Ian La Frenais) ha avuto modo di galoppare indisturbata. Cade nel finale con un banale happy ending, ma regge per un'ora e mezza nonostante un complicato gioco ad incastri che coinvolge un leader nero che posa alla Malcom X ma nasconde traffici da gangster, una principessa dai costumi molto leggeri, poliziotti corrotti, servizi segreti, piccoli e grossi delinquenti e altro ancora.

Strana regia di Roger Donaldson che mi pare poco ferma nella prima mezz'ora, quasi come se questa parte fosse originariamente più lunga e al montaggio sia stata accorciata sforbiciando a destra e a manca. Molto più sesso di quanto ci si aspetti da una pellicola del genere, giustificato dall'ambientazione nei primi anni settanta. Curiosa la parte in cui i delinquenti raggiungono il covo dopo la rapina, ricorda vagamente la stessa fase de Un pesce di nome Wanda.

Protagonista Jason Statham, non al massimo, nel ruolo del capobanda più per caso che per vocazione, Saffron Burrows ha il ruolo della bella (che le si addice), Daniel Mays fa il simpatico che finisce male.

The conspirator

Una vicenda che, essendo storica, ha dell'incredibile. Una tipa che viene sottoposta a un processo militare farsa, si sa sin dall'inizio che verrà condannata, e che molto probabilmente la sentenza sarà capitale, per il motivo fondamentale che non si riesce a trovare il di lei figlio, "Dobbiamo condannare un Surratt, se non si trova il figlio, mi va bene la madre".

Dramma storico ambientato un secolo e mezzo fa, centrato sulla cospirazione che portò all'omicidio di Abramo Lincoln. Il punto del film è che in risposta a quell'attacco non fu giustizia ma una rapida vendetta, orchestrata dal ministro della difesa (Kevin Kline) che si trovò ad avere in mano il potere. La signora Surratt (ottima Robin Wright) viene arrestata come cospiratrice nonostante le scarse prove, e un paio di testimonianze che sembrano, come fa giustamente notare il suo avvocato difensore (James McAvoy), per lo meno poco attendibili.

Buona la regia di Robert Redford che resta in bilico tra il dramma storico filologico e la meditazione quasi filosofica sul diritto ad un equo processo per chiunque.

Notevole il cast che include anche Tom Wilkinson (senatore del sud a cui sarebbe originariamente assegnata la difesa, ma che la passa a McAvoy - eroe di guerra - per questioni di opportunità) e Evan Rachel Wood (altro elemento della famiglia Surratt).

Molti i film che mi sono venuti in mente durante la visione, Il buio oltre la siepe per la figura dell'avvocato che prende le difese di un accusato considerato indifendibile; Mio cugino Vincenzo per la teatralità del pubblico ministero; Il verdetto per la relazione conflittuale tra avvocato e assistito; e anche L'asso nella manica, per il coraggio del regista a trattare un tema decisamente impopolare.

L'asso nella manica

Mezzo secolo ma non lo dimostra. Prodotto, co-scritto e diretto, con una asciuttezza da manuale, da Billy Wilder, narra di Chuck, un giornalista (Kirk Douglas, in una delle sue molte eccellenti interpretazioni) di belle speranze ma scarsi risultati.

Se non fosse che i titoli di testa corrano su una musica dalle tonalità decisamente drammatiche, le prime scene farebbero pensare che si tratti di una commedia. Chuck fa il suo trionfale ingresso ad Albuquerque, New Mexico su un'auto guasta trainata dal carro attrezzi. Si fa scaricare al giornale di città, e racconta la sua storia al direttore. È un newyorkese che ha lavorato in tutte le principali metropoli dell'Est. Scacciato per il suo comportamento dissoluto, cerca l'occasione giusta per tornare in pista. Nella sede di quel giornale fanno bella mostra di sé copie di un quadretto all'uncinetto che avvertono "Dì la verità", ma non sembra che su di lui abbiano un gran effetto.

Purtroppo per Chuck, Albuquerque non è città che offre molte possibilità di farsi notare per un giornalista, e quello che nelle sue idee avrebbe dovuto essere una breve parentesi nella sua carriera si protrae per un anno intero. Finché un giorno si imbatte nel curioso caso di un disgraziato che, cercando argento nelle viscere di una montagna sacra agli indiani, dal nome evocativo di Sette Avvoltoi, finisce mezzo schiacciato da una trave. Sarebbe relativamente semplice tirarlo fuori, ma così non farebbe abbastanza notizia. E, anche se Chuck afferma di non far succedere cose, ma solo di scriverne, finisce per aggiustare la realtà in modo che si adatti a quelli che sono i suoi interessi.

Del resto vediamo che non è solo lui a preferire che le cose vadano per le lunghe. Alla moglie del povero diavolo (Jan Sterling) poco importa della salute del marito, e visto che hanno un piccolo ristorante con stazione di servizio, usa la tragedia per fare soldi sui curiosi che vengono a sbirciare. Lo sceriffo locale approfitta della vicenda per farsi pubblicità, in vista delle prossime elezioni. La stampa monta il caso e si costruisce una sorta di disneyland attorno alle operazioni di soccorso.

C'è qualche piccolo segnale di resistenza a questo squallore, ma è davvero poca roba. Solo nel finale Chuck si rende conto di aver sbagliato tutto nella sua vita, aver voluto correre ma senza chiedersi in che direzione stava andando (come gli fa notare il direttore del giornale locale). Non c'è un vero e proprio lieto fine, se non questa presa di coscienza.

The IT crowd - quarta serie

Pare si tratti dell'ultima stagione, anche se si rumoreggia a proposito di un mega episodio finale che dovrebbe uscire quest'anno (2012 - dunque in un certo senso la profezia terminatrice ci avrebbe azzeccato).

Struttura invariata, nessun cambiamento sostanziale rispetto al passato.

1 - Jen the Fredo. Jen, nonostante tutti gli dicano di non farlo, chiede di fare l'entertainment manager, ovvero quello strano personaggio aziendale che porta a spasso grossi clienti/fornitori aziendali. Per farla desistere le si ricorda che era quello che faceva Fredo ne Il padrino. Purtroppo le conoscenze cinematografiche di Jen non sono all'altezza della citazione. A dire il vero anche Moss confonde Fredo con Frodo (de Il signore degli anelli). Dunque ottiene il lavoro (vincendo la resistenza di Douglas che continua ad avere problemi per il suo sessismo) e si trova a dover badare a tre idiotoni.
Nel contempo Roy è in una profonda crisi, in seguito al termine di una relazione a lungo termine (almeno per i suoi standard). La cosa che più lo ha lasciato male è che lei se ne sia andata senza dirgli nemmeno addio.
A risolvere l'impiccio è Moss, che ha creato un gioco di ruolo e trascina nell'avventura i tre clienti, che ottengono così l'intrattenimento estremo che cercavano, e pure Roy, che supererà il suo trauma affettivo.

2 - The final countdown. Moss partecipa ad un gioco televisivo, tipo scarabeo, e vince strepitosamente facendo parole come Tnetennba. I campioni di questo gioco fanno parte di un club esclusivo (8+) che ha una serie di bonus - tra cui un gran numero di affascinanti grupie. Sfidato dal bullo locale, Moss dovrà batterlo in una specie di incrocio tra paroliamo e fight club. Roy viene scambiato da un suo ex compagno di scuola per un lavavetri, per tutta la puntata cerca di chiarire l'equivoco. Jen, viene esclusa dal meeting settimanale che odiava, e naturalmente ora fa di tutto per rientrarci.

3 - Something happened. Douglas diventa adepto di Spaceology, una di quelle religioni parascientifiche newage spillasoldi, diretta dal un santone che si fa chiamare Beth Gaga Shaggy. Jen si prende una cotta per un tasterista (piuttosto mostruoso) di una band. Roy ha un terribile mal di schiena, va da un bizzarro massaggiatore, che alla fine dell'opera lo bacia su una chiappa. Spaceology è nemica giurata dei massaggiatori, e supportano Roy fino a portare in tribunale il baciator cortese.

4 - Italian for beginners. Roy è in una nuova relazione, con una bella ragazza ma che ha un mistero nel suo passato, l'inesplicabile morte di entrambi i genitori in un incendio in un parco acquatico durante lo spettacolo dei leoni marini. Jen dice di conoscere l'italiano per impressionare Douglas, e si propone come interprete per un colloquio di affari con un genio della finanza italiano. Moss si mette in una situazione molto imbarazzante cercando di "vincere" un IPhone.

5 - Bad boys. Moss e Roy bigiano dal lavoro, con conseguenze disastrose. Si perdono un meeting a cui, in loro onore, era stato invitato George Lucas! Moss, eccitato dal rompere una regola, diventa ingestibile. Jen, in disperato bisogno dei colleghi assenti, chiama un supporto telefonico, ma risponde un tale dall'accento francese incomprensibile.

6 - Reynholm vs Reynholm. La moglie di Douglas, che si pensava fosse morta, è viva, torna, si rimette assieme al marito, che dopo due settimane non resiste e chiede il divorzio, lei chiede una somma spaventosa e si va davanti al giudice.

L'angelo sterminatore

In Midnight in Paris il protagonista, nostro contemporaneo che passa le notti nella Parigi degli anni 20, si toglie la soddisfazione di suggerire a Luis Buñuel di fare questo film suggerendogli in modo essenziale la trama: un gruppo di persone, dopo aver cenato a casa di uno di loro, non riescono più ad abbandonare la sala. Buñuel non capisce, sembra quasi oltraggiato da tale insensatezza. Chiaramente il vero Buñuel non avrebbe mai reagito in quel modo, ma nel contesto del film la scenetta è molto divertente.

Non vedevo questa pellicola da decenni, e ne avevo un ricordo piuttosto sbiadito. Al punto di non notare come la scena della cena in Hollywood party sia chiaramente debitrice della cena di questo film. Avevo invece miglior memoria di un altro capolavoro buñueliano, Il fascino discreto della borghesia, e ho invertito le dipendenze.

Buñuel ha una limpida impostazione postmoderna e quindi non se ne avrà a male se leggo il suo lavoro a mio modo. Io ci ho visto una critica al nostro modello economico, con un evidente accenno alla crisi corrente. La compagnia alto-borghese siamo noi, ricco occidente, che ci siamo scollati dalla realtà, diciamo e facciamo cose assurde. Non capiamo bene come, ma finiamo in una situazione che sembra disperata. Ma in modo ancor più inesplicabile ne usciamo. Impariamo qualcosa? Buñuel ne dubita.

Il punto debole di questa interpretazione è che il film risale a mezzo secolo fa. Ma per un surrealista del calibro di Buñuel, non mi pare questo sia un problema sostanziale.

Tra le bizzarrie del film ce n'è una, involontaria, che difficilmente può essere percepita dallo spettatore che non sia italiano e con qualche anno di troppo sulle spalle. Il periodo in cui il gruppo di protagonisti resta bloccato nella sala è delimitato nel tempo dalla duplice esecuzione dell'allegro dalla sesta sonata del Paradisi:

Nota ai più come "la musichetta dell'intervallo della RAI".

Il lungo addio

La colonna sonora consiste quasi di un solo brano con lo stesso titolo del film, The long goodbye, scritta da John Williams e Johnny Mercer (chi sia Williams credo la sappiano anche i sassi, a qualcuno potrebbe sfuggire Mercer ma dovrebbero bastare un titolo, Moon river, per chiarire la faccenda) e riarrangiata in una mezza dozzina di modi diversi. Spunta nei momenti più assurdi, accendi un autoradio e te la becchi, entri in un bar e un pianista la strimpella cercando di impararla, vai a trovare un gangster e lo becchi che la sta canticchiando, vai in Messico, passa un funerale e la banda accompagna la salma su quelle dolenti note. Sempre se ti chiami Philiph Marlowe, tutto questo.

A ben vedere, oltre a Mercer c'è un altro punto di contatto con Colazione da Tiffany, il gatto. Già, perché qui Marlowe, contrariamente alla iconografia ufficiale ha un gatto. E che gatto. Sveglia il suo procacciatore di cibo (chiamarlo padrone mi pare decisamente fuori luogo) alle tre del mattino, rifiuta di mangiare la strana miscela che gli viene proposta, costringe Marlowe ad uscire per comprargli cibo per gatti propriamente detto ma, nonostante i sotterfugi dell'astuto investigatore, subdora che gli si vuole gabellare una marca non corretta di scatoletta e dunque abbandona sdegnosamente l'appartamento.

E si potrebbe anche azzardare un parallelo tra Holly Golightly e questo Marlowe (Elliott Gould). Entrambi inseriti in un ambiente che pullula di personaggi a dir poco bizzarri, entrambi svagati, ma con una loro morale in un mondo in cui tutti sono disposti a calpestare tutto e tutti per ottenere il proprio scopo.

Un Marlowe così non s'era mai visto, è come se fosse stato trasportato di peso dagli anni cinquanta del soggetto originale (un romanzo di Raymond Chandler, naturalmente) negli anni 70 del film, e questo salto temporale lo avesse come ingentilito, ma lasciandogli la sua essenza originale. Unico rimasto a fumare come nei noir del suo tempo, quasi in tutte le scene si accende una sigaretta, spesso sfregando la sigaretta su superfici incongrue. Merito di Robert Altman, che ha modificato in più parti la sceneggiatura (Leigh Brackett) per rendere il suo Marlowe spiazzante.

Lavoro che ha coinvolto anche i personaggi al contorno, ad esempio abbiamo un boss della mala (Mark Rydell, più noto come regista), che per minacciare Marlowe spacca la faccia alla sua amante - se faccio così a lei, che amo teneramente, figurati cosa potrei fare a te, che manco mi stai simpatico, è il suo ragionamento.

Come sta nei canoni del genere, la storia è assurdamente complicata e piena di lati oscuri, ma non è questo il punto. Un omicidio, o forse più, soldi che viaggiano tra gli USA e il Messico, o forse fanno solo poche miglia, mariti e mogli infedeli, ma forse anche no.

Fa' la cosa sbagliata

Ma che razza di titolo è Fa' la cosa sbagliata? Evidente citazione di Fa' la cosa giusta di Spike Lee con cui non c'entra praticamente nulla. D'accordo che il titolo originale, The wackness, è praticamente intraducibile, ma è così impensabile mantenere l'originale? Per il curioso non incline all'anglicismo: Wack è un termine gergale solitamente dal significato poco lusinghiero. Wackness potrebbe voler dire Essere mediocri. In effetti non sembra un titolo pensato per attirare le masse.

Si tratta di una sorta di bizzarro buddy movie, ambientato a New York nella metà degli anni '90, che narra le vicende di un ragazzetto (Josh Peck) che si sta facendo un gruzzolo spacciando erba, con l'idea di finanziarsi l'università, e uno psichiatra anzianotto (Ben Kingsley) che non disdegna l'assunzione delle più diverse sostanze. Apparentemente molto diversi, i due sono in realtà molto simili, a partire dai deludenti risultati della loro vita sentimentale. Il giovane si piglierà una cotta per la figlia adottiva (Olivia Thirlby) dello strizza, così i due potranno ottenere il bel risultato di venir scaricati quasi contemporaneamente da madre e figlia, rispettivamente.

Scritto e diretto da Jonathan Levine, mi pare debole soprattutto nella parte della costruzione dei personaggi, che risulta lenta e ben poco coinvolgente. E' un peccato perché l'ultima mezz'oretta è decisamente piacevole. Kingsley inaspettato in un ruolo da fricchettone regge ottimamente la parte. Peck soccombe nel confronto.

The believer

Produzione americana a basso costo e alta tensione morale. La storia (scritta e diretta da Henry Bean) sembra assurda, infatti è basata su fatti reali. Un ebreo newyorkese diventa neo nazista, infiamma gli ambienti dell'estrema destra antisemita, finché un reportage sul New York Times espone il suo paradosso.

In pratica tutto il film si regge su Ryan Gosling, ottimo protagonista, che è ben supportato da un cast tra cui spicca Theresa Russell nel ruolo dell'anima nera di un gruppuscolo fascisteggiante.

Simile ad American history X ma diverso in quanto il travaglio del protagonista è tutto interiore. Non c'è una vera contrapposizione tra lui e una società distratta, ma piuttosto una lotta tra due diverse anime nella stessa persona.

I flash back che mostrano il ragazzetto a scuola di religione, ricordano in modo preoccupante le versioni di Woody Allen sullo stesso tema, mi aspettavo da un momento all'altro qualche battuta fulminante. Ma non è un film in cui si rida.

Direzione a tratti incerta, sceneggiatura che pare voglia fare domande più che offrire risposte.

Rio

Non all'altezza del franchise simbolo della Blue Sky Studios (L'era glaciale, si intende) ma tutto sommato un'oretta di guardabile, con qualche minuto ben riuscito. Il problema principale direi che è la scarsa originalità della storia narrata, che sembra un puzzle derivato da innumerevoli titoli precedenti, trasportato in Brasile usando come protagonisti pappagalli invece di pesci, cani, gatti, pinguini e altri animali.

In originale le voci dei due protagonisti sono quelle di Jesse Eisenberg e Anne Hathaway, e c'è pure Jamie Foxx in un ruolo secondario.

Tra le note positive il fatto che di Rio de Janeiro non venga data (solo) un'immagine da cartolina, merito evidente di Carlos Saldanha. Niente di sensazionale, ma per un animazione a target familiare è forse il massimo che ci si può attendere.

Harry Potter e i doni della morte: parte 2

E arriva finalmente la resa dei conti. Si spacca tutto, si chiariscono molte cose, si scopre che i buoni a volte non sono sempre buoni, e che non è che si riesca a capire sempre chi siano i buoni o i cattivi.

Buon lavoro di David Yates, anche se vale lo stesso discorso della parte 1, ma ribaltato. Là era difficile uscirne bene, si trattava di una minestra molto allungata, qui era difficile uscirne male, grazie all'imponente carico emotivo accumulatosi con il passare del tempo.

Menzione onorevole per Ralph Fiennes che non solo ha interpretato terribile Lord Voldemort, ma lo ha dovuto fare senza naso. Una bella seccatura. Finalmente in questo episodio ha spazio, anche se al suo personaggio non è dato spiegare i suoi motivi, come invece riescono fare altri. Chissà, forse i produttori non volevano confondere troppo quegli spettatori che vogliono caratteri più monodimensionali, mentre alla Rowling piace confondere sommamente le acque.

Gran lavoro anche per Alan Rickman, a cui è toccato il personaggio più complesso della serie, e che qui è protagonista di una lunga sequenza in flash back, il cosiddetto "spiegone" che solitamente corrisponde alla parte più noiosa e spiacevole di un film mentre qui mi pare gestita al meglio. OK, probabilmente chi non ha letto i libri ci avrà capito poco, ma se uno è arrivato a quel punto o si è già rassegnato ad avere solo una pallida idea di quello che succede, o sta dormendo.

Ritorna John Hurt per una breve sequenza ma ben interpretata; Helena Bonham Carter intrepreta Bellatrix in doppia modalità con la consueta verve (e finale esplosivo); c'è il tempo per una apparizione di Kelly Macdonald, qualche battuta per Michael Gambon e Gary Oldman, e una comparsata per Emma Thompson.

Harry Potter e i doni della morte: parte 1

Interessante che il titolo italiano non traduca correttamente l'originale inglese. Hallows, in italiano, sarebbe reliquie e non doni. Per il resto, citando Sandra Mondaini, che barba, che noia, che barba. Ah, non è esattamente vero, ci sono anche parti divertenti, ma si poteva togliere una buona ora e non scontentare nessuno, tranne i potteriani estremisti che avrebbero voluto una trasposizione riga per riga del romanzo. E allora perché spezzare l'ultimo romanzo in due parti? Un miliardo di buone ragioni, se le contiamo in dollari.

Tra i comprimari di lusso fanno un breve ritorno John Hurt e Imelda Staunton, rapida apparizione per Bill Nighy, parte più consistente per Rhys Ifans, padre di Luna sciroccato come la figlia.

Harry Potter e il principe mezzosangue

Toni ancor più oscuri, azione che latita. I due partiti avversi si stanno preparando per lo scontro finale dell'ultimo libro (e ultimi due film). Tutto sommato si potrebbe fare a meno di vederlo e passare tranquillamente oltre, se non fosse che o lo si guarda dopo aver letto i libri, e allora prevale la curiosità di vedere come venga resa cinematograficamente la storia, o lo si guarda dopo aver visto i precedenti e in attesa del successivo, e allora non vederlo renderebbe la visione degli ultimi due titoli ancor più problematica. Vederlo "impreparati" direi che è una pura perdita di tempo.

David Yates alla regia fa il suo meglio per interpretare lo spirito del libro, colori che si spengono, fino a quasi al bianco e nero, toni drammatici a tratti quasi da horror, alternati alle vicende di cuore dei tre maghetti ormai quasi maggiorenni.

Principale nuovo ingresso nel cast artistico è Jim Broadbent, nel ruolo di un pavido professore, un po' alla don Abbondio, che sa qualcosa del Signore Oscuro che potrebbe tornare utile al partito di Potter. Alan Rickman ha qualche spazio in più, Helena Bonham Carter continua a interpretare la fuori di testa Bellatrix che spacca tutto con gran gioia.

Harry Potter e l'ordine della fenice

La serie di Potter si divide in due parti, i primi episodi diretti e/o prodotti da Columbus, e gli ultimi, a cominciare da questo, diretti da David Yates. In mezzo c'è il Calice di fuoco che fa storia a se.

Qui abbiamo il solito problema, il librone originale della Rowling che mal si adatta alla riduzione cinematografica, ma mi pare che la sceneggiatura (Michael Goldenberg) e la regia abbiano fatto miracoli (o magie) per far funzionare il tutto il più linearmente possibile. Ho apprezzato anche la colonna sonora (Nicholas Hooper) che direi segue bene l'azione, anche con opportuni e improvvisi silenzi.

Tra le new entry nel cast artistico si fanno notare soprattutto Imelda Staunton, nei panni di una ottusa, per quanto magica, burocrate e Helena Bonham Carter, che interpreta Bellatrix Lestrange, una maga completamente fuori di testa che ha scelto la parte oscura. Menzione per Evanna Lynch che non capisco sia evanescente di natura o per dovere contrattuale.

Harry Potter e il calice di fuoco

Chissà come sarebbe venuto fuori questo episodio se alla regia fosse rimasto Cuarón. Forse non sarebbe cambiato poi molto, visto che comunque la storia è quella, e guai a cambiarla, ci sarebbero torme di potteristi pronti alla rivoluzione. Ricordo che anche solo l'introduzione del gigantesco orologio (sempre ne Il prigioniero) aveva destato qualche perplessità. Però Mike Newell non mi sembra che qui abbia fatto un buon lavoro, la trama è più confusa - ma forse è "colpa" della Rowling e della complessità della vicenda, definitivamente poco adatta per essere trasposta in un film - e siamo tornati ad un punto di vista decisamente da minorenni. Che a ben vedere non è nemmeno sbagliato, visto che il trio di protagonisti ha qui soli 14 anni.

Solita girandola di personaggi, che su carta hanno modo di essere raccontati, ma qui rischiano di passare sotto gli occhi così velocemente da quasi non lasciar traccia. Robert Pattinson attraversa la serie come una meteora, per finire dritto dritto nella saga di Twilight; Brendan Gleeson ha più spazio, e lo vedremo anche in un paio di altri episodi; una breve fiammeggiante apparizione per Gary Oldman.

Harry Potter e il prigioniero di Azkaban

Columbus passa il timone ad Alfonso Cuarón che continua l'opera di maturazione della serie. Dalle atmosfere disneyane siamo passati in un ambito che direi vicino a Tim Burton. Anche la colonna sonora, sempre di John Williams, contribuisce a modificare la percezione dello spettatore nella stessa direzione.

Il trio di protagonisti cresce, e l'avventura assume un non so che da Signore degli anelli, con Potter (Daniel Radcliffe) sempre più novello Frodo che si trova ad essere al centro dell'attenzione, sviando lo sguardo dei nemici dal gran lavoro fatto da tutti gli altri. Più che Rupert Grint (nei panni di Ron Weasley), ho notato come Emma Watson stia rapidamente abbandonando l'infanzia per portare il personaggio di Hermione Granger nell'età adulta.

A dire il vero è un po' mostruosa questa saga che lega gli attori per così lungo tempo ad un ruolo fisso. Dolorosa eccezione per Richard Harris che viene sostituito da Michael Gambon.

Entrano in gioco nuovi comprimari, David Thewlis in particolare, poi Gary Oldman, che ha l'occasione per un duetto con Alan Rickman, Emma Thompson sopra le righe in un personaggio al limite del fuori di testa. Particina per Julie Christie, e quasi una apparizione per Timothy Spall, in un altro personaggio molto da Signore degli anelli, come verrà meglio evidenziato nei prossimi episodi.