La bellezza del somaro

Commedia generazionale centrata su un nucleo di amici sulla cinquantina, sui loro problemi, in particolare il rapporto con i loro figli. La storia originale non è male (Margaret Mazzantini), la versione cinematografica (Sergio Castellitto, sceneggiatura e regia) pecca a mio parere di una mancanza di approfondimento e di una mancanza di fuoco. Se qualcuno me lo chiedesse, suggerirei ai Mazzantini-Castellitto di allargare il team creativo lasciando entrare un bravo regista.

Al centro della storia c'è una coppia benestante, lui architetto di successo (Sergio Castellitto) lei psicologa in una struttura pubblica (Laura Morante). Poco ci viene detto della loro vita privata, forse perché non ne hanno. Lui ha un paio di amici, un medico (Marco Giallini) attratto in modo patologico dalle donne, ma incapace di mantenere una relazione, e un manager (Gianfelice Imparato) assorbito dal suo lavoro, unico ambito in cui (forse) funziona. Il medico ha un paio di ex mogli (tra cui Lidia Vitale, artificialmente invecchiata, giornalista d'assalto inacidita dal suo lavoro), Castellitto ha una amante (la prorompente Lola Ponce) e la Morante ha un paio di pazienti (tra cui Barbora Bobulova che ha una attrazione per lei, bizzarramente sublimata).

Le inevitabili tensioni all'interno di questa compagnia vengono allo scoperto in seguito alla decisione della figlia della coppia (Nina Torresi) di mollare il precedente fidanzato per ... non si sa chi.

Lo si scoprirà quando i due inviteranno nella loro casa di campagna l'intera brigata per il ponte dei morti, scoprendo che la ragazzina si è infatuata di un settantenne (Enzo Jannacci, alla sua ultima apparizione in un film). Segue esplosione che porterà, dopo alcuni accadimenti, al raggiungimento di un nuovo equilibrio.

La scelta della figlia ha un suo senso. Alla sua età non può che cercare di differenziarsi dai genitori, ma come creare un conflitto se loro sono incapaci di dire un singolo no anche alle prese di posizioni più strane? L'unica possibilità è colpirli nel loro punto debole, il terrore dell'invecchiamento (che nasconde ovviamente quello per la morte). Il personaggio di Jannacci è invece pacificamente vecchio, non finge di avere qualche decennio di meno, è conscio che la morte lo aspetta di lì a breve, ma non lascia che l'oscura signora gli rovini i suoi ultimi anni. La citazione (anche esplicita) è ovviamente per Harold e Maude.

Colonna sonora non particolarmente interessante (Arturo Annecchino) ma ravvivata da qualche canzone, tra cui Una miniera dei New Trolls, cantata da Castellitto e amici alla sua festa di compleanno, e Dreams dei The Cranberries.

The International

Classico film di inchiesta mescolata all'azione, tipo Blood diamond, misteriosamente accolto con disinteresse un po' in tutto il mondo, nonostante la solida regia (Tom Tykwer) e l'interessante sceneggiatura (Eric Singer).

Non che sia un film perfetto, in particolare le due anime (inchiesta e azione) non si sposano benissimo, e sembra quasi di assistere a un double bill che ha un tema comune ma una realizzazione diametralmente opposta. Leggo che la produzione sarebbe intervenuta a giochi fatti premendo per un maggior tasso di azione, questo ha probabilmente creato una scena superlativa (la distruzione del Guggenheim di Manhattan a schioppettate) ma a discapito della chiarezza dell'inchiesta. A proposito, il Guggenheim che vediamo distruggere è finto, ricostruito con ammirevole perizia nel mitologico Studio Babelsberg di Potsdam.

La storia ricalca, con notevoli licenze e variazioni, quella di una famigerata banca privata, la BCCI (Bank of Credit and Commerce International) che nel film diventa IBBC (International Bank of Business and Credit), ufficialmente chiusa a forza all'inizio degli anni '90 per una serie di irregolarità da far rizzare i capelli, ma che ha continuato ufficiosamente ad operare per almeno un altro decennio.

Diversamente da altri film (Cosmopolis, Margin call, Wall Street 2, ...) le attività finanziare investigate qui sono quelle tipiche del secolo scorso. Bei tempi in cui i banchieri manigoldi per lucrare illecitamente si sporcavano le mani con traffici d'armi e amicizie pericolose con organizzazioni delinquenziali, servizi segreti, sovversivi. A quei tempi era relativamente facile capire cosa succedeva, poi il capitalismo ha messo il turbo, e la finanza è diventata autoreferenziale, stampandosi i soldi da sé, ed eliminando la seccatura di dover avere a che fare con personaggi spiacevoli per fare affari.

Qui, dunque, il senso generale dell'azione è abbastanza chiaro. La IBBC fa affari sporchi, un agente inglese (Clive Owen) cerca di incastrarli con l'aiuto di una investigatrice americana (Naomi Watts - sottotono). Il problema è che la IBBC è un boccone troppo grosso per loro, e ogni volta che si avvicinano ad ottenere qualche prova, la banca risponde approfittando delle debolezze di un sistema giurisprudenziale disegnato per un mondo che ormai non esiste più (oltre che ammazzando a destra e a manca).

L'agente riuscirà infine a trovare un punto debole nella mostruosa istituzione, il capo della sicurezza (Armin Mueller-Stahl), un ex-comunista (era un generale della Stasi) passato al capitalismo ma, giunto in finale di partita, alla ricerca di una redenzione. Ma per ottenere la sua vittoria dovrà accettare di stravolgere il proprio senso della morale. Per poi scoprire che sarebbe stato forse meglio mantenersi negli ambiti della legalità.

In linea con le produzioni del genere, l'azione si svolge in mezzo mondo, e così abbiamo modo di dare un'occhiata a Berlino, Milano e laghi, Istanbul, e New York.

Da notare che Tykwer ha partecipato anche alla colonna sonora, con un risultato non disprezzabile.

Shoot 'em up - Spara o muori

Film di azione eccessivo, che ricorda un po' cose di Robert Rodriguez (El mariachi, ad esempio) o Luc Besson. L'influenza dai cartoni animati è dichiaratissima (vedi i titoli di coda) e va tenuto ben presente per non soccombere all'elevato grado di improbabilità della vicenda.

Il pregio fondamentale della sceneggiatura e regia (Michael Davis) è l'autoironia che pervade ogni singola scena, i difetti sono nella scrittura spesso poco curata e nella bassa attenzione del regista nei confronti degli attori. I due antagonisti (Clive Owen e Paul Giamatti) mi sono sembrati lasciati troppo a loro stessi, e direi che se la sono cavata più per mestiere che per indicazioni registiche. La cartina di tornasole è Monica Bellucci, primadonna della pellicola, che ha solo qualche secondo di presenza scenica convincente.

Da notare la colonna sonora adrenalinica, con brani degli AC/DC, Motorhead, Motley Crue, e persino un brano della strana accoppiata Iggy Pop - Green Days (Private hell).

Un tale (Owen) che assomiglia inspiegabilmente a Bugs Bunny (per tutto il tempo sgranocchia carote, tanto per dirne una) vorrebbe starsene per i fatti suoi, ma si trova suo malgrado malgrado a dover badare a un neonato che un lucido psicopatico (Giamatti che imita Elmer Fudd) vuole eliminare a tutti i costi. Il nostro eroe solitario (alla spaghetti-western di Sergio Leone) ammazza cattivi a decine con una agilità e assurdità alla John Woo, ma non può farcela da solo. Ricorre quindi a una prostituta di buon cuore (la Bellucci) che bada al pupo, anche ricorrendo a mezzi impropri per ottenere i soldi necessari.

Ci sarebbe anche una specie di messaggio anti NRA (la National Rifle Association che tanto fa per difendere il diritto degli americani a comprare armi) ma è quasi impossibile accorgersene, dato il gran baccano e la saturazione da accadimenti incredibili/impossibili.

Alta tensione

Un famoso psichiatra (Mel Brooks) accetta un lavoro come direttore in una clinica californiana. Ad attirarlo sono i soldi, che lo convincono prendere l'aereo nonostante l'altezza lo getti in un patologico stato di ansia (da cui il titolo originale High anxiety). Scopriamo subito (lui è più tardo) che c'è qualcosa che non va, e che nell'istituzione il vero potere lo detiene la sadica infermiera Diesel, che fa spavento a prima vista (Cloris Leachman - era Frau Blücher in Frankenstein Junior). Succedono infatti cose strane, e chi si oppone fa una tragica fine.

Il buon dottore si deve però assentare per andare ad un convegno a San Francisco, dove conosce la figlia di un degente (Madeline Kahn, era la fidanzata di Frankenstein che finiva per sposare il di lui mostro) che gli dà modo di scoprire (finalmente!) che c'è del marcio a Los Angeles. Un diabolico piano per screditarlo, e poi eliminarlo, fallirà miserevolmente, e il protagonista sconfiggerà il male, trovando pure una moglie di suo gusto.

Trama invero abbastanza leggerina ma è poco più di un pretesto per cucire assieme una serie di scene tratte principalmente da film di Alfred Hitchcock (a cui il film è dedicato). Oltre al Maestro, il regista e co-sceneggiatore (alludo sempre a Mel Brooks) si diverte a tirare in ballo anche Blow-up di Michelangelo Antonioni, in una scena in cui la foto che dimostra l'innocenza dello strizza viene ingrandita oltre misura.

Tra i temi ricorrenti del film, la presa in giro dei temi musicali drammatici che vengono sentiti non solo da noi, ma anche dagli attori. Trovata non nuova (già usata dallo stesso regista in Mezzogiorno e mezzo di fuoco e prima ancora da Woody Allen in Bananas), ma la filarmonica losangelina che si esercita in autobus val bene una ripetizione.

Alla scrittura ha collaborato anche Barry Levinson che appare anche in un ruolo secondario (è il nervosissimo fattorino dell'albergo che appare nella scena clone di Psyco).

Per favore, non toccate le vecchiette

Prima regia di Mel Brooks, e uno tra i suoi titoli di maggior successo, al punto da reincarnarsi in uno dei musical di maggior successo della storia di Broadway, che a sua volta è diventato un film nel 2005 (non per la regia di Brooks) noto da noi con il titolo originale The producers.

Un impresario teatrale (Zero Mostel) ha un glorioso passato, ma è correntemente ridotto a circuire le vecchiette citate dal titolo italiano per finanziare produzioni dalla vita molto breve. Il commercialista gli manda un impiegatuccio (Gene Wilder al primo ruolo importante, l'anno prima era apparso nella Gangster story - Bonnie and Clyde di Arthur Penn, quello con Beatty e la Dunaway) che scova una magagna nei suoi libri e, senza averne l'intenzione, gli dà l'idea per una colossale truffa.

I due decidono di cercare il copione più orribile, affidarlo al regista più fuori di testa, scegliere il cast più improbabile, gonfiare enormemente le spese, e godersi il tracollo dell'impresa.

Acquistano dunque i diritti di Primavera per Hitler da un ex (?) nazista a cui è andato quasi completamente in pappa il cervello, lo affidano a Roger De Bris ("debris" in inglese significa detriti, rottami, quel che resta dopo la distruzione - evidente allusione all'incapacità artistica del soggetto), e prendono come protagonista Lorenzo St.Dubois, per gli amici LSD (e non per il suo nome).

Sembra che tutto vada per il meglio, ovvero il peggio, ma non hanno considerato quanto possa essere inesplicabile il successo di un'opera teatrare. O di una qualsiasi manifestazione culturale, o di una qualunque attività umana.

Cena tra amici

Impossibile sfuggire al confronto con Carnage di Polanski, al punto che ne consiglierei la visione abbinata. E poi che ognuno scelga il suo preferito.

Entrambi si basano su un pezzo teatrale, e ne mantengono la struttura quasi claustrofobica (per gli standard cinematografici), anche se i francesi alleggeriscono introducendo una scena iniziale e una finale fuori dall'appartamento.

Scritto e diretto da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, interpretato da quasi lo stesso cast teatrale (con in più Charles Berling - il professore), sfruttano la consuetudine con il testo per mitigare il confronto con il cast stellare del competitore. Al punto che direi che per decidere il vincitore finirà per contare più il gusto dello spettatore che reali meriti oggettivi della pellicola. Carnage è più amaro, a ben vedere, mentre Le prénom (Il nome) è più ottimista, ma il punto di entrambe le storie è comunque molto simile.

Qui si narra di una coppia, il professore sposato ad una insegnante delle medie (Françoise Fabian), il fratello di lei (Patrick Bruel) con sua moglie (Judith El Zein), e un amico di lunga data, affermato trombonista classico (Guillaume de Tonquedec). Il fratello è un gran burlone, uso a passarla liscia nonostante i suoi scherzi non siano dei più raffinati, e questa volta esagera. A poco a poco usciranno allo scoperto una serie di magagne, alternando momenti comici ad altri drammatici.

Il finale ricuce un equilibrio per questa specie di famiglia allargata.

The words

Ho la strana sensazione che la vicenda del protagonista di questo film sia il proseguimento di quella della protagonista della mia precedente visione, Margaret. Mi rendo conto che l'accostamento è molto stiracchiato, eppure ha il suo senso.

Se in Margaret si segue il percorso di una ragazzina viziata (che mi sembra non abbia tratto nessun insegnamento da quel che le succede), qui si parte con il protagonista appena un po' più grandicello, che ha grandi aspettative su di sé, che si rivelano prive di ogni fondamento. Anche a lui, evidentemente, nessuno ha spiegato come stanno le cose, e deve fare la scoperta da solo. Purtroppo per lui, nel scoprire come funziona la vita, finisce per rovinarsela. Morale, meglio sarebbe stato se gliel'avessero spiegato da piccolo.

Scritto e diretto dai quasi esordienti Brian Klugman e Lee Sternthal (dal reparto sceneggiatura di Tron legacy), credo che abbia il principale difetto di essere esageratamente complicato nella sua struttura, il che può distrarre e indisporre lo spettatore meno flemmatico.

Abbiamo dunque uno scrittore famoso (Dennis Quaid) che legge estratti dal suo prossimo romanzo ad una attenta platea, in cui spicca una giovane e attraente donna (Olivia Wilde) che pare troppo interessata al romanzo e allo scrittore per non nascondere qualche secondo fine (spoiler inessenziale: niente di particolare, solo una fissazione da grupie per gli autori noti).

Il libro racconta di un giovinastro (Bradley Cooper) che vorrebbe diventare scrittore, ma non ce la fa, e non per un complotto del mondo editoriale, ma perché non ha niente di particolare da dire. Cose che succedono. Nonostante la cosa gli paia inconcepibile, col tempo se ne fa una ragione, finisce per accettare un lavoro qualunque, sposa la sua bella (Zoe Saldana), vanno in luna di miele a Parigi, e si adatta ad una vita normale.

Gli succede però di entrare in possesso di un manoscritto anonimo di quelli che non si possono leggere e restare indifferenti. Per una curiosa serie di eventi, succede che il manoscritto si trasforma nel suo primo romanzo pubblicato, che riscuote un ottimo successo di critica e pubblico (storia abbastanza comune, vedi ad esempio Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, ma non è questo il problema).

Capita però che il vero autore del libro, ormai decisamente vecchio (Jeremy Irons, il migliore in campo), gli si sieda a fianco in una panchina del Central Park e gli racconti la storia del libro, come l'ha scritto, come l'ha perso, come tutto ciò gli abbia rovinato la vita. Per farlo si apre una ulteriore parentesi con Ben Barnes che interpreta Irons da giovane.

Abbiamo dunque una storia, in una storia, in una storia. A fare la dovuta attenzione, il finale chiude adeguatamente tutte le parentesi aperte in precedenza, e connette pure molti fili che sembrano pendere desolatamente per gran parte del tempo. Però il tutto avviene negli ultimi minuti e non mi sembra astuto parlarne qui.

Spenderei invece qualche parola sulla colonna sonora di Marcelo Zarvos, che accompagna bene l'azione.

Margaret

Una particolarità del film è che tra la produzione e la distribuzione è passata una mezza dozzina d'anni. Nato come costoso film indipendente (una quindicina di milioni), si è trasformato in un incubo distributivo per un paio di buone ragioni: la lunghezza esagerata (3 ore) e una sceneggiatura poco focalizzata.

Credo che il problema stia nella troppo alta opinione di sé che aveva Kenneth Lonergan (sceneggiatura e regia). E forse ha tutt'ora, visto che, piuttosto di piegarsi alle logiche del mercato, ha preferito abbandonare il cinema. Se ho capito bene, ora si dedica a tempo pieno al teatro.

Il film mi ha ricordato certa produzione europea anni sessanta, in cui lo scopo era disturbare lo spettatore al fine di scatenare una reazione. O forse la pellicola era solo un prodotto secondario, e i veri interessi del cast erano altri - passare del tempo assieme, fare cose, vedere gente. Il risultato era magari anche molto artistico (in un qualche senso) ma non era ben chiaro se ci fosse sotto un qualche significato, magari anche solo incidentale.

Qui si narra la storia di una ragazzina che pensa di essere al centro del mondo. Capita spesso che un(a) adolescente abbia idee del genere, e Lisa (Anna Paquin) ha anche la scusante di essere una ricca (o almeno benestante) newyorkese che vive nell'Upper West Side di Manhattan. Difficile con questo background controllarsi, però sembra proprio che Lisa faccia di tutto per essere indisponente.

L'accadimento principale è che Lisa, per futili motivi, distrae un autista di autobus (Mark Ruffalo) al punto che il povero disgraziato non si accorge che scatta il rosso ad un semaforo, e finisce per travolgere e uccidere una signora. Lisa, che ha un sussulto di empatia e si rende conto di essere almeno concausa dell'incidente, mente alla polizia dichiarando che il semaforo era verde, così da non rovinare la vita all'autista.

Poi però cambia idea, visita l'autista non si capisce bene a che scopo, contatta la "vedova" della vittima, decide di ritrattare la sua dichiarazione, e infine spinge perché si faccia causa, insistendo che vuole che Ruffalo vada in galera per quello che ha fatto. Non riuscirà nel suo intento, ma la cugina della morta (a cui importava davvero poco della faccenda) riceverà un sontuoso risarcimento per l'incidente. Solo in quel momento, nel dare sfogo alla sua ennesima crisi nervosa, ammetterà (ma di passaggio, senza che nessuno ci faccia molto caso) di essere lei la responsabile dell'incidente, e di volere che qualcuno (o meglio, qualcun altro) paghi per quello che è successo.

In parallelo seguiamo anche il percorso della madre (J. Smith-Cameron), divorziata, attrice teatrale, di cui si innamora un buon uomo (Jean Reno) che dolcemente, con gran pazienza, le fa una tranquilla corte. Mal gliene incorrerà, al poveretto, che la madre è fatta della stessa pasta della figlia, solo più trattenuta, causa dell'età, che smussa le asperità maggiori, immagino.

Il resto del tempo è assorbito dai passatempi di Lisa, che vediamo litigare a scuola con chi non la pensa come lei, maltrattare i suoi coetanei, stabilire una relazione con il suo insegnante di matematica (Matt Damon), rifiutare la corte di un ragazzino normale, e farsi sverginare da un mezzo tossico mezzo scemo, per poi far sesso una volta anche col prof (giustamente terrorizzato dalla sciocchezza in cui è stato trascinato).

Il film finisce con la riconciliazione tra madre e figlia.

Ma che senso ha tutta questa vicenda? Forse che Lisa è il prodotto del suo ambiente? OK, ma non c'è un'aperta condanna del suo comportamento infantile. Gli sconfitti del film sono i personaggi che cercano di mantenere la calma (il fidanzato della madre, il detective che segue il caso, lo stesso autista, che pure non è certo un santo), sembra invece che per vincere si debba essere arroganti e sfacciati.

La frode

Nel solco del filone sulla speculazione finanziaria, che si interroga su che tipo di persone possano vivere in tale ambiente (vedi ad esempio Wall street e il suo sequel, Margin call, Cosmopolis), il primo lungometraggio di Nicholas Jarecki (sceneggiatura e regia) sposta maggiormente l'enfasi sulla vita privata del protagonista (Richard Gere decisamente in forma) e mette più in ombra l'aspetto economico della vicenda.

Il signor Miller è uno squalo newyorkese come tanti, che possiede una sua finanziaria con cui compie i soliti maneggi più o meno oscuri che l'hanno portato a pensare quotidianamente nell'ordine dei milioni di dollari. Ha una casa da favola a Manhattan, una bella moglie (Susan Sarandon) e figlia (Brit Marling) e compie sessant'anni proprio all'inizio del film. Già che c'è ha pure una splendida amante francese (Laetitia Casta) con velleità artisticheggianti (e si lascia intendere che la sua attenzione per il gentil sesso non si limiti a lei).

Nonostante l'apparente idilliaco quadretto c'è qualcosa che non quadra, e in pochi minuti scopriamo la magagna. Sta infatti cercando di vendere la baracca per una cifretta nell'ordine di mezzo miliardo di dollari a una grossa banca, nascondendo a tal fine un gigantesco buco (quattrocento milioni abbondanti) che un affare sballato ha generato. Se non riesce a vendere nel giro di pochi giorni, gli azionisti potrebbero scoprire che la loro quota non vale più nulla e rivalersi, anche penalmente, su di lui. Qualche anno di galera non glielo leverebbe nessuno.

Come se non bastasse, causa colpo di sonno al volante, uccide l'amante, non chiama i soccorsi (per evitare uno scandalo che potrebbe rallentare l'accordo di vendita), e torna in città alla chetichella, facendo finta che non sia successo niente.

Capita che però ad occuparsi del caso sia un poliziotto che ha un certo fiuto (Tim Roth) e poche remore morali, che capisce in un baleno chi guidava l'auto e cerca di incastrarlo.

Il nostro deve trovare una via di uscita dal garbuglio in cui si è ficcato. Come dice il titolo originale (Arbitrage) deve valutare la sua posizione, quella delle altre parti in gioco, e arbitrare un risultato che soddisfi, per quanto possibile un po' tutti. Ritagliandosi, ovviamente, la sua fetta.

Verrebbe da dirsi, OK per il versante economico della storia, ma che senso ha cercare di arbitrare un omicidio, per quanto colposo? Il fatto è che Mr.Miller non è capace di ragionare in altro modo. L'amante è nervosa? Compra un paio di quadri dalla sua galleria. Ha bisogno di una copertura per la sua debole posizione legale? Mette sul piatto qualche milione.

Però c'è da dire che nel suo campo sa il fatto suo, e che i soldi sono un fattore che finisce per avere il suo peso anche dove non avrebbe molto senso usarli. E dunque potrebbe essere che il finale finisca per premiarlo. Ma ha davvero calcolato tutto? Sono davvero i soldi l'unica unità di misura utilizzabile nella sua vita? Se ci fosse qualcuno che non li reputasse poi così fondamentali, ci potrebbe essere un impiccio.

C'è qualche punto debole a livello di sceneggiatura, e la regia non è particolarmente brillante, ma penso che Jarecki abbia dimostrato di saperci fare. Forse sarebbe stato meglio dare un po' meno spazio a Gere, non perché non regga il peso (al contrario), ma perché il cast al contorno ha davvero poco tempo per poter incidere sostanzialmente nella trama. Che poi, a ben vedere, è in linea con il carattere del protagonista, un accentratore dispotico che pensa che tutti debbano fare riferimento a lui.

Ben curata la colonna sonora con Just one more chance cantata da Billie Holiday in un momento topico e I see who you are di Björk sui titoli di coda. Entrambe sottolineano a dovere l'azione, e la seconda (Vedo chi sei) spiega bene cosa succede negli ultimi minuti.

The karate kid - La leggenda continua

Non basta un quarto di secolo e una ben più ricca produzione (con parte dei capitali dalla Cina) perché l'originale risulti inferiore a questa versione.

La sceneggiatura è poco più di un adattamento della storia al cast e alla location principale, con altri piccole variazioni che, spesso, finiscono per rendere meno chiara la vicenda. Il protagonista non è più un ragazzino italo-americano ma poco più di un bambino afro-americano (Jaden Smith), e il trasloco è sulla rotta Denver-Pechino. La madre (Taraji P. Henson) ha un poco più di spazio, ma mi è risultata indisponente. Nonostante il titolo, l'arte marziale diventa il kung fu, e ad istruire il pivello arriva Jackie Chan. Per la regia è stato chiamato Harald Zwart, a suo agio nelle produzioni danarose, e che direi ha seguito le istruzioni dei produttori senza stare a farsi troppi problemi. A contare ho l'impressione che siano stati i produttori, tra cui Will Smith (il che spiega il mini protagonista) e Jerry Weintraub (produttore anche di tutti i precedenti karate kids).

Anche in questo Karate kid si ripete spesso che il bilanciamento è importante, eppure i produttori non si sono fatti scrupolo di sbilanciare drammaticamente la sceneggiatura ringiovanendo il protagonista che, a dodici anni, non può ragionevolmente avere una storia di amore adolescenziale. Questo causa a catena che la fidanzatina non può aver mollato il bambino che la tampina, e che dunque non si capisce perché ce l'abbia così tanto con il piccolo Smith.

Non si capisce nemmeno perché il perfido istruttore sia così fuori di testa. Nell'originale era un ex militare, che poteva aver sbarellato a causa di una overdose di disciplina, ma qui non si avanza nessuna possibile spiegazione.

Sull'altro piatto della bilancia, la qualità complessiva del prodotto è decisamente superiore, ed è sempre un piacere vedere Jackie Chan all'opera. A proposito del quale, c'è però da notare che nell'originale, una mezza dozzina di ragazzotti cercano di malmenare Pat Morita (che dopotutto sembra un innocuo vecchietto), qui abbiamo bambini che pensano di avere una qualche possibilità contro Jackie Chan! In questo caso, la guardabilità della scena sta tutta nel vedere Chan che cerca di non fare male ai suoi assalitori.

Ricapitolando, Jaden Smith perde nettamente contro Ralph Macchio, Jackie Chan batte ai punti Pat Morita, la produzione 2010 batte agevolmente quella originale, aiuta la sceneggiatura fornendole il modo (stiracchiato) di tirare in ballo notevoli attrazioni cinesi, ma la sabota costringendole a fare i salti mortali in alcuni passaggi.

Il risultato finale è, per me, un sostanziale pareggio, con una leggera prevalenza ai punti della versione 1984.

Per vincere domani - The karate kid

Tipico film americano anni ottanta, ha riscosso laggiù un notevole successo al botteghino (quinto successo dell'anno), causando una evitabile trilogia, un terribile reboot, e un recente remake. Noi siamo stati molto più freddini nell'accoglienza al cinema, accogliendo comunque la storia nel nostro immaginario per via televisiva.

Pur avendo una lunga serie di difetti strutturali, mi pare una pellicola interessante, e ha generato almeno una frase famosa, "dai la cera, togli la cera". Tra i difetti ci metterei:

Una colonna sonora veramente bruttina, di cui il principale responsabile è Bill Conti (quello di Rocky) e in cui spicca Cruel summer delle Bananarama (come sarebbe a dire "chi sono le Bananarama?").

Una sceneggiatura (Robert Mark Kamen agli inizi) che introduce una gran messe di personaggi e situazioni, lasciandoli quasi tutti poco più che abbozzati. Meglio sarebbe stato focalizzarsi su alcuni elementi, togliendo spazio ad elementi più deboli, come l'amoretto contrastato alla Giulietta e Romeo (tema non disprezzabile, ma che se trattato a dovere porta via tutto il tempo a disposizione).

La regia di John G. Avildsen che ha dato troppo spazio alle analogie della sceneggiatura con il suo precedente Rocky, facendone quasi una versione per minorenni, invece di sfruttare meglio le altre direzioni. In compenso Avildsen è riuscito a tirare fuori il meglio dai due protagonisti maschili su cui la storia è incentrata, anche se poco resta per tutti gli altri (inclusa Elisabeth Shue, che farà cose migliori nel decennio successivo).

Daniel (Ralph Macchio) e la madre, italo-americani, lasciano il New Jersey per la California su una macchina che sembra sul punto di tirare gli ultimi, eppure non solo li porta sull'altra costa, ma arriverà viva (per quanto ne sappiamo) ai titoli di coda. Lui sarebbe voluto restare nel suo ambiente, lei cerca nuove possibilità. Per qualche tempo la storia tratta lo spinoso rapporto tra i due, poi lei scompare quasi completamente, forse assorbita dal suo nuovo lavoro.

Daniel, detto Karate Kid per una passione non ricambiata con la disciplina orientale, fa prima amicizia con un vicino ispanico, che sparisce rapidamente nel nulla, e poi con una biondina (la Shue) dei quartieri alti. L'inghippo sta nel fatto che lei ha mollato di recente Johnny, uno spasimante benestante e piuttosto abile, guarda la coincidenza, nell'uso delle tecniche del karate.

I genitori di lei fanno il tifo per Johnny, ed è forse proprio questo che fa sì che lei preferisca Daniel, il quale però è isolato, non riesce a fare amicizie (non si capisce bene come mai, a dire il vero), e subisce il veto che Johnny pone su chi voglia avvicinare la sua ex.

In questa situazione complicata fa il suo ingresso Pat Morita (che sarebbe poi l'Arnold di Happy days), che agisce come un misto tra Obi-Wan Kenobi e Yoda di Guerre stellari, facendo da mentore, amico paterno, e istruttore di Daniel. Segue la lunga formazione del discepolo, che ha uno svolgimento così atipico da far pensare a questi di essere preso per il naso, da cui la scena chiave in cui il maestro mostra come quello che può sembrare una inutile perdita di tempo possa essere invece fondamentale.

Finale alla Rocky.

Contact

Ho trovato una serie di difetti in questo film, che in altri mi avrebbero indisposto, spinto a guardare l'orologio, borbottare tra me e me per le incongruenze. Invece me ne sono stato buono fin (quasi) alla fine, senza riuscire ad interrompere la visione (pensavo di spezzarla in due, visto la lunghezza non indifferente).

Merito della storia, che nonostante debolezze e un pesante debito nei confronti di 2001: Odissea nello spazio, m'ha affascinato (Carl Sagan), della regia (Robert Zemeckis) che riesce a creare pathos anche in una scena dove una scienziata corre in macchina ad un centro di controllo di un osservatorio radio-astronomico dove non succede niente di più drammatico che l'allineamento rispetto una certa coordinata delle antenne (che in mano ad altri sarebbe stata solo noiosa), e soprattutto della protagonista (Jodie Foster) che riesce ad umanizzare il personaggio della suddetta scienziata, che pure segue un percorso piuttosto peculiare.

Si tratta di fantascienza "dura", come si suol dire, ovvero con una aderenza alla scienza piuttosto alta (nonostante qualche svarione e licenza cinematografica), in cui si narra la vicenda di una ricercatrice del SETI che riesce ad intercettare un segnale extraterrestre. Combatte contro la burocrazia e frange estremiste religiose che non riescono ad immaginare come possa esistere vita su altri pianeti, e fa di tutto per riuscire ad incontrare questa intelligenza aliena. Se ci riuscirà o meno, è il punto fondamentale del film (e a dire il vero è pure questionabile), e dunque rimando alla visione della pellicola per maggiori dettagli.

Gran parte della scena è presa dalla Foster, spazi secondari restano per Bill Clinton (nei panni di sé stesso presidente), John Hurt (miliardario eccentrico che ha qualche peccato da farsi perdonare), James Woods (burocrate impegnato a salire la scala del potere), Larry King e Jay Leno (in televisione, come compete loro).

Coprotagonista dovrebbe essere Matthew McConaughey, nei panni di un predicatore che non ho capito esattamente bene cosa voglia e dove stia, ma che comunque risulta totalmente dimenticabile (gli andrà meglio con la parte del quasi-protagonista in Killer Joe di Friedkin).

Il punto principale del racconto è una sorta di apologia del progetto SETI (ricerca di intelligenza extraterrestre) che era l'interesse principale di Sagan, a cui si mescola una meditazione, non troppo profonda, mi spiace dirlo, sui rapporti tra scienza e religione, razionalità e sentimento.

Memorabile la carrellata all'indietro iniziale (quasi degna di Hitchcock, vedi Frenzy), in cui si lascia la Terra e si sale su su, lasciando il sistema solare, poi la Via Lattea, per perforare una Nube di Magellano, e fuggire via tra milioni e milioni di galassie.

Jerry Maguire

La prima parte m'è sembrata un po' debole. Stavo quasi per chiedermi come mai avevo un così buon ricordo del film quando è decollato ed è tornato ad essere quello che era nella mia memoria.

La storia, scritta e diretta da Cameron Crowe, è quella di un agente sportivo, uno di quei tizi che rappresentano atleti, cercano loro ingaggi e campano con le percentuali dei loro clienti, Jerry Maguire (Tom Cruise) che, arrivato alla mezza età viene colpito dalla consapevolezza di fare un lavoro inutile per uno scopo inutile, per dei clienti che tratta come merce, e a cui non dispiace il trattamento, basta che sia ben retribuito.

In un impeto di buona fede, scrive una relazione sull'insensatezza di tutto ciò, propugna il ritorno ad un rapporto meno fasullo tra rappresentanti e rappresentati, anche a costo di ridurre i profitti. Tutto questo sarebbe bello e giusto, se non fosse che il buon Jerry non lavora in proprio, ma per conto di una grande azienda. Dunque riceve molte lodi per la sua franchezza, e viene licenziato in tronco.

La frenetica lotta per mantenere il portafoglio di clienti ha il magro risultato di assicurargli Rod (Cuba Gooding Jr.), giocatore di football americano medio livello, non più freschissimo e con un problema caratteriale, oltre che una parlantina davvero esagerata.

Lasciando l'ufficio cerca di convincere altri (ormai ex-) colleghi a seguirlo. Anche qui trova un solo seguace, Dorothy (Renée Zellweger), impiegata della contabilità, madre di un turbolento bimbo, vedova da alcuni anni. Risulta chiaro che a Dorothy Jerry interessa più come uomo che come datore di lavoro, nonostante lui sia fidanzato, e pure in procinto di sposarsi.

A questo punto si vira verso la commedia romantica, riuscirà Jerry a capire che lo scopo della sua vita non è fare soldi ma avere una vita propriamente detta? Sembra di sì, poi sembra di no, poi ...

Come succede nei film di Crowe, anche qui la colonna sonora è composta quasi completamente da una playlist di canzoni scelte accuratamente dal regista. Cose come gli Who, Tom Petty, Bob Dylan.

Il lato positivo - Silver linings playbook

Meraviglia di concisione, in un paio di minuti ci viene spiegato il passato, presente e quale sia l'aspettativa per l'immediato futuro (il titolo originale suona come La strategia dell'ottimismo) di Pat (Bradley Cooper). Il nostro è in un ospedale psichiatrico (ma non prende i farmaci prescritti, un po' come Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo), la moglie - di cui è disperatamente innamorato - l'ha mollato, ma lui è convinto di poterla riconquistare.

Scopriremo più avanti che gli è stato diagnosticato un disturbo bipolare, e dunque non dovremmo fidarci troppo della sua convinzione, come del resto non ne sembrano convinti i genitori, che pure fanno di tutto per il figlio, come convincere il tribunale ad assegnare a loro la sua custodia.

La strategia della madre, a cui aderisce malvolentieri il padre (Robert De Niro in ottima forma), è quella di trovare una amica al figlio che gli faccia dimenticare la moglie. La scelta cade su Tiffany (Jennifer Lawrence - Oscar), sorella della moglie del miglior amico di Pat, recente vedova, e anche lei con notevoli problemi mentali.

C'è da dire che anche il padre ha un problema. È talmente ossessionato dagli Eagles, la squadra di football americano di Philadelphia, da non poter andare allo stadio (picchiava regolarmente i tifosi avversari), segue le partite in televisione attrezzato con una serie di riti propiziatori, e ha una fiorente attività di scommettitore accanito.

Per motivi che non sto a spiegare, i due piccioncini (nonostante la pesante intromissione di malattie mentali, si tratta di una commedia romantica) si trovano a lavorare duramente per una manifestazione di ballo, e arriveremo al gran finale in cui allo stesso tempo c'è l'ultima partita di campionato e l'esibizione danzereccia.

I ringraziamenti sui titoli di coda del film iniziano ricordando Sydney Pollack e Anthony Minghella. I due pensavano di dirigerlo e produrlo anni fa, prima che il destino decidesse diversamente. Il progetto è stato ripreso da David O. Russell, che ha riscritto la sceneggiatura, basata sul romanzo di Matthew Quick, e curato la regia, mantenendo la difficile via di mezzo tra dramma e commedia, trattando la malattia mentale senza banalizzare il soggetto. In più occasioni, durante lo svolgimento della vicenda, vien da pensare che non ci siano differenze sostanziali tra i presunti sani e i presunti matti, solo che a questi ultimi è stata affibbiata un'etichetta che li rende più visibili.

Particine per Paul Herman (amico del padre), Chris Tucker (amico d'ospedale) e Shea Whigham (fratello). La bella colonna sonora curata da Danny Elfman include una variegata scelta di canzoni (ad esempio, My cherie amour di Stevie Wonder, che gioca un ruolo importante) - a quella sui titoli di coda ho dedicato un post a se stante.

In amore niente regole

Parte del filone dei film sportivi, un po' come Moneyball o Ogni maledetta domenica di Oliver Stone, dai quali si distacca per l'ambientazione (ruggenti anni venti) ma soprattutto per i toni. Si tratta infatti a tutti gli effeti di una screwball comedy, con Lui (George Clooney) che prende ispirazione da Jimmy Steward, Cary Grant, Gary Cooper (eccetera), mentre Lei (Renée Zellweger) recita con bene in mente, tra le altre, Katharine Hepburn e Claudette Colbert.

Come regia non è che Clooney sia al suo meglio, e anche la sceneggiatura avrebbe bisogno di una bella riscrittura, ma il risultato finale non è disprezzabile.

George Clooney è Dodge (che si può tradurre scansare, ma anche ingannare) un giocatore professionista di football americano ai tempi in cui tale disciplina esisteva quasi solo a livello dilettantistico. La sua scalcagnata squadra, come molte altre, è sull'orlo del baratro, e pochi minuti dopo l'inizio del film ci casca dentro, causando la chiusura anticipata della stagione.

Renée Zellweger è una giornalista, e sta cercando il colpo grosso che la renda famosa. Il suo capo ha per le mani uno scoop, che lei potrebbe finalizzare. Un giovanetto (John Krasinski) è l'idolo del momento. Ha ricevuto una medaglia per il suo comportamento eroico in guerra, è giovane, bello, sta studiando con successo in una prestigiosa università, in cui è anche il giocatore di punta della squadra di football americano. Ma c'è un ma. Sembra che l'atto di eroismo sia inesistente, e dunque la sua notorietà sarebbe costruita sul nulla. Scopo della giornalista è verificare come siano andate davvero le cose.

Dodge invece lo vuole nella sua squadra, perché ha un idea geniale: inventare il football professionistico. Usare la fama dell'eroe per attirare pubblico alle partite, e dunque fare abbastanza incasso per tirare avanti.

A complicare la situazione ci sono altri due fatti. Gli interessi economici del bersaglio dei protagonisti li cura Jonathan Pryce, cattivello e intenzionato a fare più soldi possibile dalla situazione. E poi si crea una tensione romantica tra Krasinski, che si prende una cotta per la più matura Zellweger, a sua volta nelle mire del più attempato Clooney.

I protagonisti dovranno scegliere quali sono le priorità della loro vita, e prendere di conseguenza delle decisioni non facili. Ma è una commedia, e il finale premierà un po' tutti.

Amici miei atto II

Sette anni dopo, Mario Monicelli rimette assieme la vecchia banda di scapestrati e dà un seguito alle loro avventure. Visto che la prima parte terminava con la dipartita del Perozzi (Philippe Noiret) è gioco forza alternare zingarate nel presente storico del film con flash back che lo riportino in vita, anche se c'è da dire che l'attendibilità dei fatti narrati, e soprattutto della loro cronologia, sembra essere l'ultima delle preoccupazioni della sceneggiatura. Del resto abbiamo anche che il Necchi cambia misteriosamente la figura, mutando da Duilio Del Prete in Renzo Montagnani, e riprendendosi la voce che il Montagnani aveva prestato al Noiret nel doppiaggio italiano. Ma visto che le vicende sono narrate in prima persona dai protagonisti, e questi non brillano certo per affidabilità, aspettarsi un racconto coerente sarebbe veramente fuori luogo.

Sin dall'incipit si mette bene in chiaro che il pubblico di riferimento è quello che ha già conosce la storia (viene riproposta la mitica sessione di schiaffoni in stazione) e vuole qualche dettaglio aggiuntivo. E così viene mostrata un'altra disastrosa avventura sentimentale dell'architetto Melandri (Gastone Moschin), che questa volta cerca di circuire una prosperosa attivista cattolica (Domiziana Giordano al primo film), fallendo nell'opera a causa dell'alluvione di Firenze, nientemeno. Alluvione che causa anche la definitiva separazione del Perozzi dalla moglie, e nell'occasione ci viene spiegato anche il motivo del caratteraccio del Perozzino. Tra le zingarate più citate c'è quella in cui la brigata si presenta ad un serissimo concorso canoro con una canzonaccia da osteria (Nota ai cultori come "Ma vaffanzum"). Tra le guest star appaiono Alessandro Haber, nei panni di un vedovo inconsolabile che subisce uno scherzo atroce da parte del primario Sassaroli (Adolfo Celi) e Paolo Stoppa (in finale di carriera) che interpeta un antipaticissimo usuraio che ha preso di mira il conte Mascetti (Ugo Tognazzi). Solito spazio striminzito riservato alle donne, il Mascetti ha una moglie (Milena Vukotic) e una figlia che ricordano stranamente la famiglia di Fantozzi dall'episodio dell'80 ("contro tutti) in avanti. Ma d'altronde gli sceneggiatori sono sono quelli (a mettere la firma in entrambe le serie sono Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi) e la Vukotic ha il dono dell'ubiquità.

Vita di Pi

La struttura del romanzo originale viene semplificata nel film, che direi punta più sull'impatto visuale che sull'approfondimento della storia. Gli Oscar hanno colto lo spirito della produzione premiando la regia di Ang Lee, la sontuosa fotografia di Claudio Miranda, gli effetti speciali e la colonna sonora di Mychael Danna che ben commenta l'azione. Belle immagini, dunque, ma la carenza di azione nella parte centrale mi ha pericolosamente portato vicino al punto di guardare l'ora.

Come da titolo, si racconta la vita di Pi, un indiano nato a Pondicherry, ex colonia francese. Portato all'esperienza religiosa, finisce per abbracciare con entusiasmo, oltre al nativo induismo, anche il cristianesimo e l'islamismo. Contemporaneamente. Meraviglie del sincretismo. Il personaggio del libro sarebbe anche più complesso, visto che non disdegna nemmeno l'ateismo. E che non rinuncia alla sua libertà di esercitare più religioni (e a-religioni) contemporaneamente, neanche quando i suoi maestri spirituali scoprono questa sua peculiarità e cercano di convincerlo a fare una scelta, essendo ognuno di loro certo di essere l'unico depositario della verità. Tutto questo viene molto compresso nella pellicola, al punto che sentiamo parlare solo il prete cristiano (che poi è il nostro Andrea Di Stefano).

Altra caratteristica del giovane Pi è quella di vivere in uno zoo, ambientazione strumentale alla parte centrale del film, ma che ha offerto in destro ad Ang Lee per mostrare, in modo un po' disneyano, colori e movimenti bellissimi - aiutato anche dalla location, l'India è quasi eccessiva con i suoi colori sgargianti.

Succede infatti che il padre di Pi decide di vendere baracca e burattini e migrare in Canada. Si imbarcano quindi tutti su un cargo giapponese (con uno scontroso cuoco francese, Gerard Depardieu) che però naufraga pochi giorni dopo. Passano lunghi mesi e Pi viene raccolto, più morto che vivo, su una spiaggia messicana.

Cosa è successo nel frattempo? Pi racconta una storia incredibile, nel senso letterale del termine, con lui che si trova a condividere l'unica scialuppa scampata al disastro con una zebra, una iena, un orango (o meglio, una orango) e, orrore, la tigre del Bengala. Rapidamente gli altri animali fanno una brutta fine, resta solo Pi e Richard Parker (il nome della tigre, che porta con sé un brutto presagio). I due condividono una serie di avventure (più dettagliate nel libro) fino allo sbarco finale.

È questo veramente quello che è successo? Basta insistere un po' per ottenere da Pi una variante alternativa, che spiega drammaticamente le metafore con cui Pi si protegge dalla terribile avventura che ha vissuto.

Ma cosa preferite, chiede Pi, il racconto metaforico o la cruda realtà?

Argo

Peccato per il primo finale (è uno di quei film che non finisce mai di finire), fino a quel momento sceneggiatore (Chris Terrio) e regista (Ben Affleck) erano riusciti a bilanciare commedia e azione, realtà e fantasia, patriottismo e disillusione, in un cocktail ben riuscito. Mi pare che il cliché dei cattivi che all'ultimo momento scoprono il piano diabolico e (quasi) riescono a neutralizzarlo sia troppo logoro per essere utilizzato con soddisfazione. Per il resto direi che tutto fila bene.

Si narra, come credo il lettore già sappia, dell'operazione della CIA che portò fuori dall'Iran la mezza dozzina di dipendenti dell'ambasciata americana che erano riusciti ad evitare di essere catturati dalla folla inferocita ai tempi della fuga dello scià. Come mostrano le foto sui titoli di coda si è cercato, per quanto sia possibile in un film hollywoodiano, di mantenere una certa aderenza ai fatti.

Il punto chiave della vicenda è che un agente (lo stesso Affleck) esperto nel tirar fuori persone da situazioni come quella di partenza, non sapendo che pesci pigliare, crea a copertura della missione un finto film di fantascienza (Argo, per l'appunto) che prevede scene girate in Iran. Ghiotta occasione per offrire uno spaccato sia del mondo dell'intelligence sia del cinema americano.

Riassumendo, Ben Affleck è regista, protagonista e anche produttore (assieme a George Clooney, tra gli altri) del film. Non mi stupisce che agli Oscar sia stato premiato solo nel terzo ruolo perché, a ben vedere, è quello che ha fatto meglio. La regia mi è parsa poco incisiva, l'unica scena che direi interessante è quella della presentazione del falso film, presentata in montaggio alternato con le notizie della storia degli ostaggi che continuava alle spalle. Però è più un lavoro di montaggio (che ha fruttato a William Goldenberg l'Oscar) che di regia. Anche come protagonista non è che Affleck sia particolarmente memorabile. Dunque, complimenti al ragazzotto, che ha dimostrato di essere cresciuto (dopo le note traversie) e di essere capace di sacrificarsi nei ruoli più appariscenti per vincere la sfida più importante.

Mi viene naturale fare un parallelo con Zero Dark Thirty, che tratta una storia simile. USA contro il resto del mondo, bin Laden in Afghanistan da una parte, Khomeini e l'Iran dall'altra. Per uno spettatore americano (e non solo, temo) deve essere difficile notare la differenza.

A livello di regia la Bigelow vince senza problemi. Affleck si salva con una battuta (anche una scimmia scema potrebbe fare il regista) che sottolinea come spesso il lavoro di regia sia sopravvalutato. È importante, ci mancherebbe, ma non può essere fine a sé stesso.

Anche come protagonisti tra la Chastain e Affleck non c'è gara, mentre come resto del cast darei un pareggio. Qui brillano due comprimari di quelli usi ad apparire in qualunque film e in qualunque parte riescano a strappare, il faccione di John Goodman (le cose migliori le ha fatte con i fratelli Coen) e la pelata di Alan Arkin (qui nominato all'Oscar, che non gli è scappato per quel gioiellino di Little Miss Sunshine).

A vincere con distacco dalla parte di Argo è, a mio gusto, la sceneggiatura e l'impostazione data alla storia. Nonostante la drammaticità dei fatti narrati, qui si dà comunque spazio al lato comico della vicenda. Il protagonista, pur essendo agente CIA, non ammazza nessuno, non ci pensa nemmeno, non è la sua missione. E non è monodimensionale come il suo corrispettivo in ZDT. Ha i suoi problemi personali, ma riesce a usarli positivamente, per dargli quell'idea sballata (dicono che ci sono solo pessime idee, ma questa è la migliore del lotto) che permetterà di salvare la giornata.

Da notare che la colonna sonora è in entrambi i casi di Alexandre "prezzemolino" Desplat.

Upside down

C'è qualcosa in questo film che mi fa pensare a In time. Per dirla tutta, usando le parole di Stanlio e Ollio ne I figli del deserto, mi sembrano proprio due piselli nel baccello. Per cui ne consiglierei la visione solo a chi piace il genere.

Siamo dalle parti della fantascienza, di quella che non bada molto alla coerenza interna di quello che succede, in pratica un fantasy che non fa ricorso alla mitologia classica del genere ma a temi parascientifici. Credo che l'ambientazione extraterrestre serva in questo caso principalmente per smussare i toni della critica sociale, giustificare gli effetti speciali a pioggia (anche abbastanza divertenti) e rendere più digeribile il piatto forte, una storia di amore che altrimenti risulterebbe probabilmente troppo scontata.

La vicenda è narrata da Lui, novello Romeo, o meglio Adam (che da adulto assume le sembianze di Jim Sturgess), povero, sfruttato e maltrattato. È ancora un bimbo quando vede di sfuggita Lei, Eden (che da grande diventerà Kirsten Dunst), una delle vincenti, e (come biasimarlo) se ne innamora. Anni dopo succede un fatto increscioso che li separa. Lui la pensa morta, lei si dimentica di lui. Altro salto in avanti di qualche anno e Adam scopre che Eden è viva, ma si è effettivamente dimenticata di lui, causa amnesia. Con una certa fatica le riesce a far tornar la memoria, anche grazie all'aiuto di quel vecchio topone di Timothy Spall. L'incongruo terzetto riesce ad aver ragione delle forze avverse e finiranno per vivere felici e contenti.

Il problema è che tra le forze avverse c'è anche la forza di gravità. Ma non la nostra vecchia cara forza di gravità, bensì una sua bizzarra variante, che agisce sull'ancor più bizzarro sistema planetario in cui vivono i nostri personaggi. In pratica (?) abbiamo due pianeti che sono quasi a contatto, un saltino e si passa dall'uno all'altro, che però sono composti da diversa materia che viene attratta solo dal pianeta di appartenenza.

Il peggio è che subito all'inizio ci viene scodellato uno spiegone che illustra le leggi che valgono in questo incredibile sistema. E ci viene detto anche che qualunque cosa di un pianeta, quando entra in contatto con la materia dell'altro, nel giro di poche ore inizia a bruciare. Ma nemmeno lo sceneggiatore e regista (Juan Solanas) crede a queste regole così restrittive, così finisce per applicarle o meno a secondo dell'opportunità del momento.

L'impressione che ho avuto è che Solanas abbia voluto fare un film allegorico sulla situazione politica mondiale corrente, un mondo ricco che sfrutta un mondo povero, ma non abbia voluto dar fastidio a nessuno (anche per motivi produttivi, immagino). Il risultato mi pare insoddisfacente e abbastanza scontato, le colpe se le piglia la cattiva multinazionale, e l'amore aggiusta tutto.