Nessuno mi può giudicare

Viva l'Italia primeggiava al cinema la settimana scorsa, e io mi son chiesto "Ma chi è questo Massimiliano Bruno alla regia?". Poco ci vuole a darsi una risposta, noto anche come Max Bruno, ha scritto in combutta con Fausto Brizzi le due notti prima degli esami e i due maschi contro femmine. Passa alla regia con questa romanocentrica commedia leggera, e il Brizzi ricambia partecipando alla scrittura.

Partenza lenta, si risolleva nella seconda metà, riuscendo a chiudere quasi dignitosamente. Mi ha fatto pensare a cose di Paolo Virzì, che però vince il confronto senza nessuna fatica.

La protagonista è Alice (chiaro omaggio a Francesco De Gregori, come dunque dovrebbe essere il titolo del film correntemente nelle sale) una romanaccia burina arricchita (Paola Cortellesi) che piomba rapidamente in miseria a causa della morte improvvisa del marito, presunto genio della produzione di sanitari, in realtà da tempo sull'orlo del tracollo economico. Per ripianare la voragine lasciata dal caro estinto, non trova alternative alla prostituzione. Puttana sì, ma di classe. O, come si usa dire per elevare più il cliente che l'operatrice, escort. Non che la cosa le piaccia, infatti vi si presta malvolentieri e, raggiunto l'obiettivo, si troverà un lavoro propriamente detto.

Nel mezzo avrà modo di trovare un Raoul Bova con cui imbastire una complicata relazione, e conoscere una varia umanità che comprende un portinaio becero (Rocco Papaleo) ma capace di superare i suoi stessi pregiudizi, un prostituta apparentemente cinica e disincantata (Anna Foglietta), una coppia scoppiata con lei (Caterina Guzzanti) che cerca di riconquistare lui usando sistemi alquanto bizzarri (in una scena tira in ballo persino Fausto Leali), un trucido vicino (Lillo) e una serie di imbarazzanti clienti, tra cui Remo Remotti, poeta pervertito.

Il tutto viene raccontato dalla voce fuori campo di Valerio Mastandrea, che alla fine si rivelerà non avere praticamente niente a che fare con la storia.

Mi sorprende che il film si sia preso un Nastro d'argento per la miglior commedia, riconoscimento che l'anno prima era andato a Mine vaganti di Ozpetek, tanto per fare un paragone di quelli che non reggono.

Misery non deve morire

Rob Reiner ha avuto il suo decennio d'oro negli anni ottanta, a partire da This is spinal tap (1984), invenzione del mockumentary, fino a Codice d'onore (1992), ben riuscito legal thriller militare. E in mezzo ci sono cosucce come Stand by me - Ricordo di un'estate (1986), Harry, ti presento Sally... (1989), e il qui presente Misery, che fa il paio con Stand by me, in quanto entrambi basati su lavori di Stephen King, anche se l'altro è una produzione più anomala per il terrorizzante autore americano, questa, invece, è più in linea con le sue spaventevoli abitudini di scrittura.

Più che a Stand by me, mi ha infatti fatto pensare a Shining. I due sembrano quasi una riscrittura dello stesso tema da due angolazioni diverse. Uno scrittore in crisi che in una nevosa località isolata si scontra con i suoi demoni. Altra cosa in comune, è che il problema deve essere risolto, in un modo o nell'altro, dai diretti interessati. Chi cerca di intromettersi fa una rapida brutta fine.

I due film sono anche molto diversi, grazie anche alle diverse regie. Stanley Kubrick è naturalmente su un altro pianeta, ma Reiner gioca amabilmente le sue carte, dando, per quanto possibile, un maggior calore all'azione, con qualche piccola pennellata leggera di umorismo.

Un altro film che mi è venuto in mente è Psycho di Alfred Hitchcock, un altro paragone di quelli da cui difficilmente si esce bene, a causa del personaggio della pazza, che ha uno sdoppiamento di personalità simile a quello di Norman Bates, e mettiamoci pure che ad interpretarla è stata chiamata Kathy Bates - eccellente lavoro, tra l'altro.

Lo scrittore è invece James Caan, ottimo anche lui, in un ruolo ben lontano dal suo stereotipo. Gran parte dell'azione è giocata dalla relazione tra questi due personaggi, ma c'è un piccolo spazio anche per l'agente dello scrittore, nientemeno che Lauren Bacall, ormai anzianotta, ma con il suo solito sguardo assassino (in senso buono).

Space cowboys

Simile ad Armageddon, uscito un paio di anni prima ma di cui sembra un antecedente per una impostazione da guerra fredda che gli sceneggiatori, ma soprattutto il regista-produttore-protagonista Clint Eastwood, si vede che proprio non riescono a dimenticare.

Capita infatti che un satellite sovietico stia per cadere sulla Terra, ma un generale russo distaccato alla NASA (il solito Rade Serbedzija, che è croato ma è abbonato a questa parte) preme perché si faccia qualcosa per ripararlo. La tecnologia è obsoleta, e nessuno degli ingegneri NASA attivi ci capisce un tubo, si va perciò a recuperare chi ha disegnato il sistema che, sorpresa, è Eastwood. Si tratta infatti di un furto di decenni prima da parte del KGB e ai danni degli americani. Il progettista era anche pilota, ha una lunga ruggine con l'alto papavero NASA responsabile del progetto, ma è disposto a partecipare, a patto che lo facciano volare con lo shuttle con il suo vecchio team.

Segue scena alla Blues Brothers dove vengono raccattati Donald Sutherland, diventato progettista di montagne russe, James Garner, prete battista, e Tommy Lee Jones, spericolato pilota di biposto per chi è in cerca di forti emozioni.

Vari intrighi, buoni e cattivi, e c'è pure tempo per qualche abboccamento amoroso. Poi si decolla, si scopre quanto cattivi erano i sovietici, ma nonno Clint salva la baracca e tutto finisce per il meglio.

Colonna sonora tremenda, da cui si salva Fly me to the moon, nella versione cantata da Sinatra, citata all'inizio ed eseguita infine sui titoli di coda.

Biancaneve

Tarsem Singh ha una potenza visuale quasi eccessiva. Ho un vago ricordo del suo debutto alla regia, The cell, strano incrocio tra thriller d'azione e fantasy psicologico; il suo secondo lavoro, The fall, è altrettanto bizzarro, e persino più ricco di immagini di una bellezza impressionante.

Salto a piè pari Immortals e arrivo a questa strana variazione di una classica favola, che mi pare più che altro un occasione per Julia Roberts per apparire in un ruolo da cattivissima (è la matrigna), e per Lily Collins per avere il suo primo ruolo importante.

Parte della storia è narrata seguendo la prospettiva della matrigna, il che dà modo alla Roberts di sguazzare nel ruolo, approfittare di un guardaroba incredibile, e piazzare un paio dei suoi impareggiabili sorrisi che bastano ad illuminare il film. Ma le variazioni non si limitano a questo, i nani, ad esempio, non sono dei minatori bonaccioni, ma inventivi briganti (con un non so che di Terry Gilliam) che si fingono giganteschi. Il principe (Armie Hammer, che era i gemelli Winklevoss in The social network) un bietolone che dovrà essere salvato da Biancaneve. Il re (Sean Bean), padre di Biancaneve, subisce una mutazione che lo tiene fuori dai giochi per quasi tutto il film. Altre trovate danno al film una atmosfera quasi alla Tim Burton, e lo tengono ben lontano dalle classiche atmosfere disneyane. Ma non mancano accenni al Signore degli anelli (Sean Bean e la sua mutazione, e la stessa location del castello, ad esempio).

Il punto che mi è parso meglio riuscito è quando Biancaneve, accolta dai sette nani, affronta un percorso di crescita alla Mulan che la porta ad abbandonare il suo candore infantile per diventare adulta. Anche per questo motivo, penso che il pubblico più adatto sia quello adolescenziale, meglio se femminile, che dovrebbe gradire anche la scena del trucco della regina, che si sottopone ad una sorta di trattamento di bellezza in chiave favolistica tra l'orrido e il comico.

Dimenticavo la scena più divertente, sui titoli di coda la festa al castello si trasforma in una coreografia in puro stile Bollywood, che richiama i titoli di coda di Shrek.

Tartarughe ninja alla riscossa

L'idea (tratta da una nota serie di fumetti) è sufficientemente assurda da sembrarmi interessante. Purtroppo regia (Steve Barron), sceneggiatura, cast, effetti speciali, colonna sonora, ambientazione e quant'altro, non sono all'altezza.

Il target è minorile, come illustra meglio il titolo originale, Teenage mutant ninja turtles, e questo spiega l'altrimenti inspiegabile assenza di sangue nella lunga serie di scontri che costellano lo sviluppo dell'azione, che ha una sola vittima conclamata, il supercattivo, anche se poi chi abbia il coraggio di proseguire con il secondo episodio scoprirebbe che pure lui si è salvato.

Numerose le storie che si intrecciano, la principale è forse quella delle tartarughe stesse, antropomorfe a causa di una mutazione causata da scorie atomiche abbandonate a New York (tema classico della fantascienza del dopoguerra, il mistero del nucleare, distruttivo e creativo assieme), che vengono guidate da un topone, anch'esso antropomorfo per lo stesso motivo, che da giovane era stato il topino-mascotte di un ninja così capace da finire per impregnare con la sua arte persino l'animaletto di compagnia.

Il topone addestra all'arte ninja le tartarughe, creando una relazione maestro-allievo come quella illustrata da The karate kid o Star wars. La squadra si scontrerà con una temibile organizzazione ninja trapiantata a New York, scoprendo che in realtà non stanno vivendo una avventura originale, ma completando una storia di molti anni prima (vedi nuovamente Star wars).

In parallelo, seguiamo anche la storia di due umani, lei giornalista investigativa (che non so perché ma avrei visto meglio se interpretata da Jessica Lange, invece che da Judith Hoag), lui disadattato muscoloso (Elias Koteas) che si inventa clone de Il giustiziere della notte, e mi sembra ispirato da Kurt Russell in Grosso guaio a Chinatown. La New York anni ottanta, mi ricorda quella fotografata da Sydney Pollack in Toosie, che fra l'altro viene citato quasi letteralmente (tra l'incredibile numero di citazioni che ho colto, e chissà quante altre me ne sono sfuggite) in uno scambio tra i due.

Terzo filone, il figlio minorenne del capo della giornalista, che entra nella organizzazione criminale, attratto come Pinocchio in un sotterraneo paese dei balocchi.

Tutte storie che si concluderanno ovviamente nel modo migliore.

Traitor

Due ore di film, la prima delle quali m'è risultata parecchio noiosa, perché costruita in funzione della "sorpresa" a metà film, che sorpresa non è, almeno per chi, come il sottoscritto, abbia visto un buon numero di film di spionaggio e polizieschi che prevedano lo scontro di due gruppi contrapposti con personaggi che non si capisce bene da che parte stiano e perché.

Superata l'inesistente sorpresa, la seconda parte è relativamente più interessante, anche se la sceneggiatura è piena di buchi, sfacciatamente monodimensionale e priva di una conclusione interessante. Ma dopotutto si lascia guardare.

La curiosità principale è che la storia sia venuta in mente a Steve Martin, che poi l'ha affidata al semisconosciuto Jeffrey Nachmanoff (co-sceneggiatore di The day after tomorrow di Emmerich) che l'ha sviluppata, trasformata in sceneggiatura e infine diretta.

Non male anche il cast, anche se l'unico che brilli mi pare che sia Saïd Taghmaoui. Il protagonista è Don Cheadle, che ha come antagonista principale Guy Pearce, a tratti sopra le righe. Piccoli ruoli anche per Jeff Daniels e Archie Panjabi.

È una storia post-undici settembre. Terroristi islamici che vogliono fare un eclatante bis negli USA, agenti della CIA che cercano di prevenire, infiltrati dall'una e dall'altra parte che complicano i giochi.

Il dittatore

Dopo Borat e Brüno, arriva Aladeen. Sempre con la regia di Larry Charles, ma con uno stile che (finalmente!) si fa più cinematografico e meno documentaristico. A dire il vero la tentazione di girare le sequenze al limite dell'improvvisazione rimane, e sui titoli di coda vediamo ad esempio come una scena (quella del furto della barba) sia stata girata più volte provando una vagonata di battute diverse, proprio per trovare una mediazione tra la recitazione scritta e quella più estemporanea (credo).

Solita comicità alla Sacha Baron Cohen, spesso scorretta, eccessiva, graffiante, e a tratti anche rivoltante. Gli stomaci delicati siano avvertiti. Il difetto è anche quello dei film precedenti, difficile tenere la tensione comica per il tempo di un lungometraggio, se la sceneggiatura non è sufficientemente robusta. E dunque ci sono dei momenti di stanca, scene che non colgono nel segno, scambi poco riusciti. Noto comunque una continua crescita di SBC come attore; si è visto cosa riesce a fare quando a dirigerlo è Scorsese (in Hugo Cabret, naturalmente), e vedremo cosa sa fare in due titoloni, I miserabili con la direzione di Tom Hooper e soprattutto il Freddie Mercury di Stephen Frears, che lo vedrà come protagonista.

Numerose le citazioni di altri film ne Il dittatore, ineludibile il confronto con Il grande dittatore di Chaplin, che ovviamente resta un riferimento lontano, a cui si aggiunge il più abbordabile (e direi superato senza sforzo) Il principe cerca moglie di Landis. In questo caso il dittatore è una specie di Gheddafi, che però è molto più sciocco, ed ha una passione per i sosia (alla Saddam), oltre che per le belle donne (come Megan Fox). Recatosi a New York per tenere un discorso all'ONU, scampa fortunosamente al tentativo di omicidio di un temibile killer (John C. Reilly), si trova senza abiti e senza barba a combattere contro l'insidioso piano dello zio (Ben Kingsley) che vuole spodestarlo per arricchirsi col petrolio. Protetto da una radicale femminista ecologista (Anna Faris) che lo scambia per un dissidente, e aiutato da uno scienziato pazzo che pensava di aver fatto giustiziare (per una futile discussione sulla forma del razzo atomico con cui avrebbero voluto distruggere Israele), si impegna nella missione di riconquistare la sua carica. Ci riuscirà, e troverà pure l'amore.

La scena madre è nel finale, quando il dittatore, per difendere la sua dittatura, fa notare quanto sia imperfetta la democrazia. Ma poi si confonde, vede la donna di cui si è innamorato, decisamente imperfetta anch'ella, e stabilisce un delirante, ma toccante, parallelo fra le due.

Brother

Credo si tratti di un tentativo di rendere più popolare la cinematografia di Takeshi Kitano in occidente in generale, e negli Stati Uniti in particolare, che è lì che si fanno i grossi incassi.

Se così davvero fosse, si è trattato di un errore. Secondo mojo, l'incasso americano della pellicola è stato risibile, e le specificità che rendono unico il cinema di Kitano sono annacquate. Non che il risultato sia disprezzabile, ma c'è davvero di meglio.

La famiglia yakuza di Beat viene assorbita dai rivali, e lui lascia il Giappone per gli USA, dove vive un suo mezzo fratello, anche lui delinquente, ma di rango molto inferiore. Nemmeno lì riesce a stare con le mani in mano e fa l'unica cosa che sa fare, ovvero il organizzare una banda criminale, guidando il gruppetto di piccoli delinquenti del fratello fino a dominare la zona.

La catastrofe arriva quando si scontrano con la mafia italo-americana (mal rappresentata), che chiede una grossa fetta sui loro affari per lasciarli in pace.

Bella colonna sonora del solito Joe Hisaishi, integrata dalla solita Casta diva dalla Norma di Bellini, che a volte pare essere l'unica cosa che ascoltino gli italoamericani.

Killer Joe

Storia che mi ha moderatamente perplesso per l'eccesso di autocompiacimento nella rappresentazione della violenza, in particolare quella sessuale. Sceneggiatura tratta da un omonimo lavoro teatrale di Tracy Letts che mi pare a metà strada tra Tarantino e i Coen, ma che non capisco bene dove vada a parare. Regia di William Friedkin, lunghissima carriera che ha avuto il suo periodo d'oro nei primi anni settanta (quarant'anni fa!) con Il braccio violento della legge e L'esorcista, buon lavoro sia a livello di tecnica sia di gestione degli attori, che del resto ci mettono del loro.

In un Texas straccione, seguiamo la storia di una famiglia di disadattati. Il capofamiglia (Thomas Haden Church) è un imbecille, sposato in seconde nozze a una bella figliola (Gina Gershon) che lo cornifica con gran parte della popolazione, come sanno praticamente tutti tranne che lui. E non sembra che finga di non saperlo, ma che proprio non ci arrivi con il comprendonio. Due figli di primo letto, uno scapestrato (Emile Hirsch) destinato ad essere un perdente a vita (e anche breve, visto le compagnie che frequenta) e una sognante simil-Ofelia (Juno Temple) che vive in una dimensione tutta sua.

Iniziamo che il ragazzaccio è sull'orlo della catastrofe, ma pensa un piano geniale per sfangarla, ovvero uccidere la madre per incassare la polizza assicurativa. Avesse speso meno tempo in localacci equivoci, e si fosse concesso la visione di qualche buon vecchio film, come La fiamma del peccato, avrebbe saputo quale sarebbe stato il tragico finale, e forse avrebbe cambiato idea. Dato il contesto di degrado, non è sorprendente scoprire che tutta la famiglia è d'accordo, e per eseguire il piano viene noleggiato il killer del titolo (Matthew McConaughey), che ammazza su commissione nel tempo libero, mentre come lavoro fa il poliziotto.

Le cose si complicheranno ulteriormente, il bottino fa gola anche ad altri, il killer si invaghisce a suo modo della giovane di famiglia, il fratello non gradisce la rottura del legame (morbosetto) con la sorella e comincia a dubitare dell'astutezza del suo piano (ma poi, è davvero suo?), fino arrivare ad un finale da tragedia familiare.

Sonatine

Probabile errore della distribuzione italiana, credo che il titolo avrebbe dovuto essere Sonatina, al singolare. In ogni caso, si tratta di un film scritto, diretto, montato e interpretato Takeshi Kitano, ambientato nel mondo della yakuza. Anche qui la colonna sonora è di Joe Hisaishi, ha meno spazio che in Hana-bi ma è sempre una presenza importante.

La storia è quella di un capetto mafioso (Beat Takeshi, naturalmente) che è stufo della sua vita, e si ritirerebbe volentieri. Cosa che farebbe felice il suo capo, che si mangerebbe volentieri il suo giro, ma, come spesso accade nel mondo della delinquenza (e non solo), invece di seguire lo svolgimento dei fatti, il capoccia si crede furbo ed imbastisce una elaborata trama che dovrebbe eliminare il suo sottoposto. Mal gliene incoglie, a lui e a molti altri.

Anche se il conteggio dei cadaveri, e le modalità efferate dell'esecuzione, farebbero pensare ad una classica gangster story, lo svolgimento è completamente diverso. Nella parte centrale del film non succede praticamente niente, la gang che è stata mandata a Okinawa per far sfracelli, si ritira in una amena località costiera dove passano il tempo come fossero ragazzetti in colonia. In quel contesto c'è una scena che pare da teatro dell'assurdo, con due ragazzi che vengono animati a passo uno come lottatori di sumo giocattolo. Non so bene se sia più comica o più terribile, ma certamente è uno di quei passaggi che restano impressi.

Hana-bi

Noto in Italia con due titoli, Fiori di fuoco e Fuochi d'artificio. Scritto, diretto, montato e interpretato da Takeshi Kitano, che ha pure realizzato gli inquietanti dipinti che punteggiano l'azione.

Altro elemento importante nel film è Joe Hisaishi, che ha curato la colonna sonora che mi ha fatto pensare allo studio Ghibli. E infatti, grazie a imdb, vedo che la sua collaborazione con Hayao Miyazaki è cosa che dura nel tempo, lo troviamo, tra gli altri, già ne Il castello nel cielo, come anche ne Il mio vicino Totoro, e il più recente Ponyo sulla scogliera.

Poco è lasciato ai personaggi, il cui approfondimento caratteriale è lasciato per esercizio allo spettatore, e la storia è riassumibile in poche parole. Grande spazio è lasciato invece all'impressione che è generata da immagini e suoni.

Faccia dunque attenzione chi pensasse di avere a che fare con un classico film d'azione giapponese. Vero che il protagonista è un (ex) poliziotto, che ha un legame non ben chiarito con la yakuza, vero pure che ci sono scene di violenza, ma l'azione è rarefatta, e anche il montaggio tende più a rendere criptico lo svolgimento dei fatti che adrenalinico.

I fiumi di porpora

A Jean-Christophe Grangé, che ha scritto il romanzo e ne ha curato la trasposizione cinematografica assieme a Mathieu Kassovitz (anche regista), va riconosciuto il credito di una storia che, seppur navigando nelle acque tranquille del genere, non scade nella banalità. Ma gli va pure imputato un finale poco soddisfacente. C'è da dire anche che l'origine letteraria delle sceneggiatura è visibile nei dettagli poco spiegati, quasi un rimando a leggersi il libro per capire quello che sta accadendo. Ci si può comunque godere un'ora abbondante di azione, intrighi, indagini, qualche truculenza, inseguimenti, spari, scazzottate, scenette romantiche e comiche, per poi rassegnarsi alla chiusa sottotono.

Un superpoliziotto parigino (Jean Reno) viene spedito in Savoia per indagare su di un macabro omicidio. Le circostanze sono talmente bizzarre da far pensare ad un pazzo scatenato, ma rapidamente l'intreccio si infittisce, facendo puntare gli indizi verso la locale università, che sembra essere una sorta di esercizio di stile elitario in salsa paranazista. In parallelo seguiamo l'indagine di un altro poliziotto (Vincent Cassel) dai metodi poco ortodossi. Nel paesino in cui è stato assegnato succede finalmente qualcosa: una tomba danneggiata, e una irruzione notturna in una scuola elementare. Poca roba, sembrerebbe. Ma, seguendo il suo istinto, scopre che c'è dietro qualcosa di più, al punto che le indagini dei due si intrecciano e finiscono per diventare una sola.

La coppia Reno-Cassel funziona, Kassovitz fa vedere di saperci fare, l'ambientazione alpina è usata a dovere, e anche la colonna sonora fa la sua parte. Particina per Dominique Sanda.

Take shelter

Ha molto in comune con la mia precedente visione, Another Earth, ad esempio il fatto che la distribuzione italiana non se la sia sentita di cambiare il titolo ad entrambi. Poi il relativo basso costo (per gli standard americani) e direi anche una buona idea iniziale che però finisce per perdersi per strada.

Anche qui si tratta di un gioco prevalentemente a due tra regista (e sceneggiatore - Jeff Nichols) e protagonista (Michael Shannon), con il supporto di un ottimo cast al contorno, in particolare Jessica Chastain, nel ruolo della moglie.

La storia è presto detta, un tale che ha una vita normale nel mid-west americano, ad un certo punto inizia ad avere incubi spaventosi, roba da rizzare i capelli al punto che mi ha fatto pensare allo Shining di Kubrick, pur essendo meno efferato. Una sciagura sta per abbattersi su di lui, e su tutti quanti, pensa di interpretare lui. Oppure sta uscendo matto. Indeciso tra le due ipotesi, migliora il rifugio anti-tornado che ha in giardino e cerca sostegno psicologico.

Più il film continua e più gli incubi peggiorano, e più peggiorano le sue relazioni con gli altri, che propendono per la seconda delle sue spiegazioni, anche perché la di lui madre ha avuto una storia simile. Il bello della vicenda è che la moglie, pur tra molte perplessità, fa di tutto per stargli vicino ed aiutarlo, nonostante che ciò sia oggettivamente difficile.

Il problema è, a mio avviso, tutto nel finale, che non ho capito dove vuole andare a parare, e mi ha dato l'impressione che Nichols, che pure ha svolto egregiamente il tema fino a quel punto, non sapesse più che pesci pigliare e abbia deciso per un finale ad effetto fine a se stesso.

Another Earth

Il riferimento a Melancholia regge solo fino ad un certo punto. Forse avrebbe più senso paragonarlo a Rabbit hole.

Già, perché un pianetone incombente non può non far pensare a Von Trier, e la fuga dei protagonisti verso una realtà parallela, sperabilmente migliore della loro misera esistenza, non può che rimandare alla piece teatrale, e poi sceneggiatura, di David Lindsay-Abaire.

Purtroppo questi altisonanti paragoni non fanno un bel servizio al film in questione, che sconta la debolezza di una sceneggiatura che non riesce a dare un finale degno di questo nome alla storia. Meglio allora vederselo come un buon film indipendente a (relativo) basso costo, senza stare ad approfondire troppo.

Scritto a quattro mani da Mike Cahill e Brit Marling, con il primo a dirigere e la seconda a far da protagonista, entrambi se la cavano abbastanza bene nella regia e recitazione, per la scrittura avrebbero dovuto chiedere consiglio a una terza parte.

La Marling è una ragazzetta con la passione per l'astronomia che, distratta dall'avvistamento di un misterioso doppione della Terra, si schianta in auto su di una famigliola, distruggendola all'istante. Si salva solo il padre-marito (William Mapother), pur uscendone piuttosto malridotto. Dopo qualche anno, lei esce di galera, e vorrebbe scusarsi con il sopravvissuto, ma per un curioso equivoco le cose vanno in modo diverso, e i due si trovano, tra l'altro, a pugilare con la Wii.

La seconda Terra risulta essere sorprendentemente simmetrica alla nostra, e dunque la Marling spera che il suo doppio di lassù non abbia fatto il suo stesso terribile errore. E il finale sembra confermare la sua speranza.

Piacevole la colonna sonora dei Fall on your sword. Simpatica l'ambientazione nel New England (New Haven e dintorni) mostrata sempre al suo peggio, nel freddo e nevoso inverno.

I muppet

Per un amante dei Muppet, basta sapere che sui titoli di coda viene eseguita una versione del mitologico "Mahna mahna" per giustificarne la visione. Il resto della popolazione potrebbe essere più difficile da convincere.

Per i pochi che non sapessero di cosa sto parlando, ecco una precedente versione, come da youtube:

A mio gusto, nel film il mix tra personaggi reali e Muppet non è venuto molto bene. Direi che si è lasciato troppo spazio agli umani, probabilmente con l'idea di far risultare più piacevole il prodotto al pubblico più adulto.

La storia racconta di come un ricco magnate petrolifero (Chris Cooper) abbia comprato il teatro dei Muppet, ormai in abbandono, per distruggerlo. Apparentemente il suo scopo è fare un pozzo petrolifero proprio lì (che sembra una scemenza), in realtà scopriremo che ha un trauma infantile di cui dà la responsabilità proprio ai Muppet. D'altro canto ci sono i fratelli Gary (Jason Segel) e Walter (Jim Parsons) che sono fan dei Muppet a tal punto che Walter appare quasi sempre nelle sembianze di pupazzo, e dunque si daranno da fare per riunire i Muppet, in una ricerca che ricorda quella dei Blues Brothers per la loro band, e salvare il teatro e l'essenza stessa del Muppet show.

La necessità di fare scelte, ma come questo non debba portare necessariamente a rinnegare una parte di sé, è illustrata nel seguente numero:

Mi pare che la regia (James Bobin - la mente dietro L'Ali G show) non abbia sfruttato appieno le possibilità dei Muppet, e nemmeno gli agganci forniti da una sceneggiatura non banale. Ma forse si è trovato a dover mediare con le richieste della produzione, e si sa che la Walt Disney non va mai molto per il sottile.

Simpatiche le apparizioni in ruoli minori di Jack Black, che si trova a fare, suo malgrado, l'ospite d'onore dello spettacolo, Emily Blunt, segretaria di Ms.Piggy, in un ruolo che ricalca la sua parte in Il diavolo veste Prada, e Rashida Jones come la produttrice televisiva che accetta malvolentieri di trasmettere lo show dei Muppet.

Drive

Si inizia con l'innominato protagonista di poche parole (Ryan Gosling, in una ottima annata che comprende anche Crazy, stupid, love e Le idi di marzo) che fa da autista ad una rapina. Cauto e con uno scatto bruciante che fa pensare ad un felino, una decina di minuti che da soli giustificano la visione del film.

Scopriamo poi che nessuno sa nulla del suo passato, e nemmeno il suo nome, ha anche lavori legali, lo stuntman, il meccanico, possibilmente anche il pilota, e che parla molto poco. Una miscela che non fa presagire niente di buono.

Caso vuole che per vicina di casa si trova ad avere una donna dalla quieta bellezza (l'appropriata Carey Mulligan, anche per lei uno splendido 2011, vedasi anche Shame) con un ragazzino a carico il cui padre è in galera. Sommessamente, il nostro si innamora della famigliola, forse sperando che quella sia la sua occasione per iniziare una nuova vita, ma senza farsi troppe illusioni. E infatti il galeotto termina la pena anzitempo, e lui accetta di diventare amico di famiglia. Mantenendo l'analogia felina, sembrerebbe ora un buon placido gattone, ma basta una successiva scena in cui incontra un vecchio "cliente" per farci vedere come abbia unghie affilate.

Le cose però si complicano, e si trova a partecipare ad una rapina complicata che farà partire una serie di avvenimenti che daranno modo di farci intuire qualche dettaglio della sua vita passata, e di quale sia il "drive" del nostro driver.

Storia non particolarmente memorabile (James Sallis) ma ben sceneggiata (Hossein Amini) e soprattutto diretta egregiamente da Nicolas Winding Refn, che usa a dovere l'intero armamentario del regista, compresa la colonna sonora (principalmente opera di Cliff Martinez, riconoscibilissimo visto che ho appena visto Contagion dello stesso anno) usata veramente con maestria, tanto nella sua presenza quanto nella sua assenza.

A parte l'ovvio riferimento a Sergio Leone, la prima parte del film mi ha fatto pensare che fossimo dalle parti di The transporter, con meno umorismo ma con un maggior approfondimento emotivo. Mi sono reso conto però che mi sbagliavo, e avrei dovuto pensare più ad A history of violence, di Cronenberg. L'innominato protagonista ha evidentemente un passato di estrema violenza, ne farebbe volentieri a meno, ma è molto difficile, forse impossibile, rinnegare la propria storia.

Interessante il confronto tra Nicolas Winding Refn e Quentin Tarantino. Nella seconda parte del film ci sono scene di violenza estrema che potrebbero far pensare al secondo, ma non è corretto. Indicativa la scena in ascensore, unica parentesi d'amore tra la coppia-non coppia Gosling-Mulligan, e anche teatro di una delle più letali azioni di Gosling. È una macchina per uccidere che vorrebbe una vita tranquilla, il che fa pensare anche a Bourne. Non gli piace essere violento, non lo diverte, ne farebbe volentieri a meno. Ma è la cosa che sa far meglio, e non riesce ad evitare di usare questa sua capacità.

Ancora sulla colonna sonora, la canzone che si sente in uno dei momenti principali (Gosling con la maschera che si prepara a colpire), Oh my love, è del nostro Riz Ortolani.

Ruolo minore, da cattivo sciocco e violento, per Ron Perlman.

Contagion

Niente di meglio, quando è in arrivo un'ondata influenzale, che guardarsi questo film del prolifico Steven Soderbergh (al cinema in questi giorni c'è Magic Mike, ed è riuscito a trovare il tempo anche di piazzare tra i due Knockout: La resa dei conti). Niente di meglio, si intende, per poi guardare con sospetto chiunque faccia anche un minimo innocuo colpetto di tosse.

Lo svolgimento mi pare fortemente influenzato dai molti film catastrofici che da sempre abbondano sui nostri schermi, in particolare mi ha fatto venire in mente un post-atomico a basso costo di cui ora mi sfugge il titolo e Andromeda, film del '71 di Robert Wise basato su un romanzo di Michael Crichton. Ma trova una sua via molto personale e, nonostante l'impostazione classica per il genere, dove tante storie diverse si accavallano per mostrare svariate prospettive sulla tragedia, riesce a mantenere una certa coerenza nella trama.

Il regista ha tale carisma da riuscire ad attirare un cast stupefacente anche in una avventura come questa, dove anche un Matt Damon si deve rassegnare ad apparire per relativamente pochi minuti, che pure è tra i protagonisti, marito di Gwyneth Paltrow che è la prima americana a beccarsi il mefitico virus e a passare rapidamente a miglior vita, ma non prima di aver infettato l'infettabile. Laurence Fishburne è un medico che viene messo a capo della task force americana per gestire l'emergenza, e manda Kate Winslet a controllare sul campo lo sviluppo dell'infezione. Elliott Gould farà una importante scoperta, ma sarà Jennifer Ehle a fare il colpaccio. Marion Cotillard viene mandata a Macao per cercare l'origine del virus, e finirà per scoprire qualcosa di completamente diverso, e Jude Law tocca il personaggio più antipatico, un blogger il cui unico scopo è cercare di approfittare della paura altrui per fare cassa.

Pur essendo lo sviluppo e la conclusione ben poco sorprendenti, il ritmo della narrazione, ben supportato anche dalla colonna sonora di Cliff Martinez, e la qualità del cast, fanno sì che il risultato sia decisamente interessante.