Nosferatu il vampiro

La scelta di appiattire il titolo originale, Nosferatu eine Symphonie des Grauens (una sinfonia del terrore), forse aveva lo scopo di chiarire che il Nosferatu, non-morto, del titolo è proprio il Dracula di Bram Stoker. Precisazione del tutto inutile, dato che solo in tempi relativamente recenti (vedi il Dracula di Francis Ford Coppola, 1992) l'immaginario collettivo ha rispolverato il romanzo originale, che era stato messo in ombra per decenni dalla potenza visuale di questa versione cinematografica di Friedrich Wilhelm Murnau.

Magari è stato proprio il timore di vedere l'opera del fu marito ricordata in una versione alternativa a spingere la vedova Stoker ad opporsi all'idea di Albin Grau di metterlo su pellicola, prodotto dalla sua Prana Film. Dovevano essere entrambi molto cocciuti, visto che Grau decise comunque di proseguire, semplicemente indicando allo sceneggiatore, Henrik Galeen, di cambiare un po' di nomi. E infatti abbiamo che il conte non è più Dracula ma Orlok. Gli altri cambiamenti nella storia, a partire dall'incompatibilità tra sole e vampiri, assente nella versione di Stoker, sono invece propri del team Grau-Galeen-Murnau, che avevano le proprie idee da veicolare con questo racconto.

La cocciutaggine della vedova Stoker la portò invece a far causa alla Prana Film, vincendola e ottenendo un rimborso principesco per violazione dei diritti d'autore che portò al tracollo la piccola casa di produzione tedesca. Non contenta, ottenne pure che tutte le copie del film venissero distrutte. Fortunatamente qualche pizza si salvò, e così oggi possiamo vedere qualcosa di abbastanza simile alla versione originale del '22. Esistono numerose versioni di Nosferatu, ed è praticamente impossibile dire quale sia la "migliore". La prima che vidi, qualche decennio fa, durava circa un'ora e non aveva alcun accompagnamento sonoro. Questa mia ultima visione raggiunge l'ora e mezza ed è dotata di una colonna sonora basata, per quanto possibile, sugli spartiti originali di Hans Erdmann.

La storia viene narrata seguendo prevalentemente il punto di vista di Hutter (Gustav von Wangenheim), un giovanottone non troppo brillante, sposato alla molto sensibile Ellen (Greta Schröder). Lavora per l'inquietante immobiliarista Knock (Alexander Granach, che poi sarà uno dei tre commissari russi a Parigi a fianco di Ninotchka), al quale i furbetti del quartierino gli farebbero un baffo. Costui ha infatti uno scambio epistolare con il conte Orlok (Max Schreck, nome vero, nonostante che in italiano suoni come Massimo Spavento) e questi gli ha appena comunicato, usando una lingua arcana, che intende trasferirsi dal suo castello in Transilvania alle sue parti (Wisborg, località inesistente nel nord della Germania). Hutter viene incaricato di andare dal cliente per sottoporgli alcuni possibili acquisti.

Nonostante l'apprensione di Ellen, Hutter parte felice per il lungo viaggio. Riderà pure delle perplessità dei paesani vicine del conte. Meno giulivo sarà quando giungerà al suo castello e avrà modo di passare qualche tempo in sua compagnia.

Orlok si pasce di Hutter, anche se non riesce a completare il suo fiero pasto a causa dell'intromissione di Ellen, che in qualche modo riesce a stabilire un contatto psichico col vampiro e allontanarlo dalla sua vittima.

La mezza sconfitta non distoglie Orlok dai suoi piani. Abbandona il suo castello e, portandosi in una mezza dozzine di bare un po' di terra maledetta, contaminata, e piena di topi, si mette in viaggio verso la sua nuova residenza. Approfitta dell'occasione anche per diffondere un morbo lungo il suo passaggio e succhiarsi l'intero equipaggio della nave su cui viene trasportato.

Nel frattempo, a Wisborg Knock non regge alla tensione che gli causa l'avvicinarsi del Maestro, e dà fuori di matto. Anche Ellen patisce per lo stesso motivo, pur essendo, diversamente da Knock, combattuta tra repulsione ed attrazione per "l'uccello della morte".

Hutter recupera a malapena le forze e riesce a giungere a Wisborg assieme al conte. E qui si scatena la battaglia finale attorno ad Ellen, alla quale parteciperebbe pure un uomo di scienza, quello che nell'originale stokeriano sarebbe Van Helsing, se non che il suo contributo risulterà essere del tutto trascurabile.

Nonostante trucco e effetti speciali molto datati, Orlok è estremamente impressionante. In effetti la scena più paurosa è quella dove non si vede nemmeno il personaggio, ma solo la sua ombra, sgraziata e distorta, che avanza nella notte verso la sua vittima.

Le differenze con il racconto originale sono sostanziali, riducendo la struttura all'osso ma dandole contemporaneamente una complessità maggiore, e usando i temi gotici trattati da Stoker in maniera molto personale, tra occultismo, legami paranormali e approfondimenti psicologici di notevole interesse.

Intervista col vampiro

Nonostante il buon successo di pubblico, ai Razzie Award non passò inosservata la chimica molto scarsa tra i due protagonisti, che vennero premiati come peggior coppia sulla schermo dell'anno. Anni dopo Brad Pitt ammetterà che aveva subito il ruolo subordinato nei confronti di Tom Cruise che, pur avendo meno spazio, era la star del film. Cercò anche di uscire dal progetto, ma un blindatissimo contratto lo costrinse ad arrivare fino in fondo.

Credo però che il difetto principale stia nella sceneggiatura che Anne Rice ha tratto dal suo stesso romanzo con lo stesso titolo. Ad una prima parte dal passo molto lento, segue infatti una seconda parte in cui accade fin troppo, in cui vengono rapidamente introdotti e fatti sparire personaggi senza lasciar loro il modo di superare lo stato di semplice bozzetto.

Per quasi tutto il tempo sembra che si racconti la storia di Louis de Pointe du Lac (Brad Pitt) possidente creolo basato dalle parti di New Orleans, a partire da quando, sul finire del settecento, l'incontro con Lestat de Lioncourt (Tom Cruise) lo ha trasformato in un vampiro. Il tutto viene narrato in un lungo flashback da Luis al giornalista Daniel Malloy (Christian Slater), in una sorta di confessione/intervista. Solo alla fine scopriremo che il vero protagonista è Lestat, un imprevisto colpo di scena che però non mi sembri che cambi nulla nei confronti di quello che ci è stato detto.

Come da tradizione, il vampirismo serve da metafora per la relazione sessuale, sembrerebbe dunque che Louis e Lestat formino una coppia gay molto aperta, con Lestat estremamente promiscuo e Louis più bloccato. La cosa però viene notevolmente ingarbugliata con l'entrata in scena di Claudia (Kirsten Dunst), una bambina che viene anch'essa vampirizzata. Inizialmente pare che sia un artificio di Lestat per evitare la rottura della relazione con Louis, un po' come in certe coppie si pensa di fare un figlio per superare una crisi, però il legame tra Louis e Claudia si rafforza al punto da prendere una piega da disturbo mentale conclamato. Anche perché i vampiri della Rice hanno la curiosa particolarità di restare bloccati col loro sembiante al momento della "nascita". Succede così che Claudia, col passare dei decenni, resti bambina ma maturi una consapevolezza più adulta. Che del resto è resa spaventosamente bene dalla Dunst che, pur essendo ai tempi ancora una bambina, aveva già una certa carriera alle spalle e una maturità attoriale già notevole.

A semplificare (?) le cose ci avrebbe pensato l'incontro con Armand, vampiro che sembrerebbe francese ma è intrepretato dallo spagnolissimo Antonio Banderas, che si prende una cotta per Louis e cerca di rompere il malsano legame a suo vantaggio. Se avesse avuto pazienza, avrebbe potuto lasciare fare a Claudia che, in modo ancor più malato, decide di vampirizzare tal Madeleine (Domiziana Giordano, anche lei spacciata per francese) per lasciar libero Louis e trovarsi invece una madre adottiva (che però, proseguendo la metafora di base, è anche sua amante).

Ma, si sa, la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Qui invece è Armand che ha fretta, e fa sì che invece di guadagnarsi il bel Louis, resti con un pugno di mosche. Louis sceglierà una (non-)vita di solitudine, tornerà alla sua New Orleans e lì spenderà tristemente i suoi giorni, con l'unico diletto del cinema.

Tutto sommato mi è parso un pasticcio prodotto con lo scopo di scandalizzare, ma con moderazione. La cosa migliore mi è parsa la ricostruzione delle diverse epoche, affidata ai nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Ah, c'è anche una piccolo spazio per Thandie Newton, che interpreta Yvette, servetta fedele di Louis, finché le è possibile.

22 Jump Street

Troppo difficile sostenere quasi due ore di commedia sul (quasi) niente, il giochino di prendersi in giro sul fatto che sia un sequel (di 21 Jump Street, ovviamente) è divertente ma tirato un po' troppo per il lungo, le gag à la Scuola di polizia sono fuori tempo massimo. Però, quando funziona, fa ridere davvero.

Squadra che vince non si cambia, e quindi tutti, regia (Phil Lord & Christopher Miller), sceneggiatura (Michael Bacall) e cast principale sono ancora tutti lì. E' arrivato qualcuno in più, in particolare Rodney Rothman (s'è fatto le ossa scrivendo per il David Letterman Show) nella scrittura, e Peter Stormare come nuovo cattivo da sconfiggere (con una sorpresa nel finale).

L'improbabile coppia di sbirri Schmidt (Jonah Hill) e Jenko (Channing Tatum), dopo aver clamorosamente fallito nell'arrestare Gost (Stormare), viene nuovamente assegnata alla squadra del capitano Dickson (Ice Cube), che ha cambiato sede, dall'altra parte della strada, dove tutto è più grosso e costoso, grazie al budget più elevato strappato alla produzione in seguito al successo del primo episodio - e ce lo dicono proprio i personaggi del film stesso.

Vengono quindi assegnati ad un caso fotocopia del precedente, però questa volta andranno in un college. Qui succederanno alcuni inghippi inattesi. Ad esempio il capitano s'era dimenticato di accennare al fatto che quello è proprio l'istituto che frequenta sua figlia Maya (Amber Stevens), il che gli darà modo di accrescere il dispetto nei confronti dei suoi due sottoposti.

Divertente il finale, quando viene raccontato in breve il futuro di Schmdt e Jenko, costretti dal sempre più arrabbiato Dickson ad una serie di missioni fotocopia, ognuna delle quali è ovviamente un ennesimo capitolo della saga Jump Street, fino a terminare con un 2121 Jump Street in cui i due verranno sparati nello spazio per vivere una loro personale odissea. Simpatiche le apparizioni a sorpresa di Anna Faris e Seth Rogen.

Lucy

Lucy (Scarlett Johansson), è una perdigiorno che piuttosto di lavorare ha preferito farsi pagare dai genitori un corso post-universitario a Taipei, Taiwan. Non la spaventa il non sapere una parola di cinese, scritto o parlato, e non perché sa dire in spagnolo che parla male quella lingua, ma perché spende il suo tempo in compagnia di altri occidentali che sono lì con lo scopo principale di divertirsi.

Non è però una ingenua, e così quando il tizio con cui esce da una settimanella le chiede di fare una consegna per conto suo, fiuta il pericolo e tenta di svicolare. Inutilmente. Viene così a conoscere un boss della delinquenza locale, Mr.Jang (il vecchio ragazzo Choi Min-sik), un tale che, fosse stato giapponese avrebbe potuto essere interpretato egregiamente da Takeshi Kitano, ama fare uso di violenza insensata (ma anche ascoltare Mozart) e sbarca il lunario gestendo un traffico di droga sintetica verso l'Occidente.

Convertita in corriere della droga, Lucy sarebbe destinata a tornare, seppur malconcia, a casa, se non fosse che un suo carceriere se ne avesse a male al di lei rifiuto di mostrarsi gentile causando, via una improbabile reazione chimica, la trasformazione della giovinetta sciocchina in una superdonna dagli immensi poteri ma dalla speranza di vita molto limitata. Un giorno o giù di lì.

Che fare in date circostanze? Lucy decide di contattare il professor Norman (Morgan Freeman) un luminare degli inesistenti e teorici studi su quello che sta capitando a lei, che insegna alla Sorbona. Organizza un incontro e parte, dopo aver sistemato alcune cosette. In particolare, rendendosi conto di aver bisogno di ingenti quantità della droga sintetizzata da Mr.Jang, fa in modo che il responsabile dell'antidroga francese, Pierre Del Rio (Amr Waked), arresti gli altri corrieri. Questo, ovviamente, fa uscire dai gangheri il suddetto Mr.Jang, anche perché, per estrargli le informazioni necessarie, Lucy si comporta da psicopatica almeno quanto avrebbe fatto lui e, oltre al danno la beffa, lo lascia pure in vita.

Ci si trova dunque tutti a Parigi e lì si scatena il pandemonio.

Per usare un eufemismo, non a tutti è piaciuto. E, in effetti, il regista-sceneggiatore Luc Besson (la produzione l'ha lasciata alla moglie, Virginie Silla) ha lasciato mano libera alla sua tendenza per l'eccesso e l'improbabile, senza curarsi troppo non dico della verosimiglianza, ma almeno della digeribilità di alcuni passaggi non secondari. In particolare, la faccenda che gli animali in genere, e gli umani in particolare, usino solo una minima parte del proprio cervello è una baggianata di proporzioni colossali.

Quel che è peggio, almeno dal mio punto di vista, è che molti tra coloro a cui è piaciuto film, hanno gradito proprio il mix di violenza, ipotesi insensate e l'adrenalina generata dalle scene di azione.

A me ha dato un po' fastidio che venga veicolata l'idea che un aumento delle facoltà intellettuali porti necessariamente ad un affievolimento delle capacità empatiche dell'individuo. Casomai penso che succeda il contrario, e che chi, per un motivo o per l'altro, abbia difficoltà a gestire il suo lato emotivo si rifugi nell'uso della ragione. Preferisco quindi l'evoluzione raccontata in Star Trek nella figura di Mr.Spock, che riesce a crescere quando scopre che la sfera affettiva non intacca quella razionale, bensì la completa.

Il riferimento principale di Lucy è verso 2001: Odissea nello spazio. Qui però non ci sono alieni, gli umani fanno tutto da soli. Si crea quindi un curioso paradosso teleologico in cui lo sviluppo della razionalità della nostra specie sarebbe stato finalizzato alla generazione di una Lucy capace di trascendere lo spazio e il tempo, in modo che possa dare la scossa evolutiva a partire dall'altra Lucy, l'Australopithecus afarensis correntemente considerato come il primo ominide di cui si abbia traccia, che generi la razza umana.

Meno necessario il riferimento a Limitless, se non per il motivo che anche lì si usa come motore della storia una droga che causa l'incremento delle capacità mentali. A vantaggio della versione bessoniana occorre notare che qui Lucy paga un prezzo esorbitante, e manco avrebbe voluto ottenere quei vantaggi, mentre là lo sforamento dei limiti naturali sembra essere solo un simpatico giochino che comunque si può tenere sotto controllo.

Stilisticamente, ma forse è solo un caso, m'è sembrato di notare una somiglianza in questa regia di Besson con l'impostazione tipica di Jaco Van Dormael. Vedasi ad esempio Mr.Nobody.

F come falso

Nel corso del film lo stesso Orson Welles accenna a come gli fosse difficile arrivare in fondo ad alcuni suoi progetti, perché nello scavare in una direzione spesso si trovano cose interessanti e inaspettate che stravolgono le idee originali.

In questo caso sembra che l'idea originale fosse quella di fare una specie di documentario su Elmyr de Hory, noto per aver riempito il mondo di falsi dipinti e disegni attribuiti a nomi come Matisse e Renoir. Già questo porta molto materiale su cui ragionare, a partire dal fatto che Elmyr (in realtà anche il suo nome era falso, si chiamava Elemer Albert Hoffmann) aveva guadagnato ben poco dalla sua attività, che aveva invece ingrassato galleristi, finendo per fare più comodo che danno al mercato dell'arte.

Ai tempi in cui Welles narra la storia, Elmyr si è ritirato ad Ibiza, non esercitava più, ed era diventato noto al mondo dopo che quello che ai tempi era uno scarso romanziere americano, Clifford Irving, aveva scritto un libro inchiesta su di lui. Fatto curioso, anche Clifford viveva ad Ibiza, e i due erano in buoni rapporti.

Ma c'è di più. Welles sta girando materiale su Elmyr quando si scopre che Clifford ha nel frattempo scritto una biografia di Howard Hughes che avrebbe dovuto essere autorizzata dallo stesso e che invece si rivela essere inventata di sana pianta. Già inizialmente non era ben chiaro cosa fosse vero e cosa falso, ora diventa praticamente impossibile.

La dichiarazione iniziale di Welles che avrebbe detto solo la verità per tutta l'ora che sarebbe seguita non è molto utile, sia perché è fatta mentre ci vengono dispensati trucchi da illusionista (classico e cinematografico), sia perché ci ha detto apertamente che tutti coloro che prendono la parola in questo anomalo documentario hanno un rapporto piuttosto complesso con la menzogna.

Welles ci spiega come anche lui stesso abbia iniziato la sua carriera di attore falsificando il suo curriculum. Era a Dublino senza un soldo e gli era sembrata una buona idea proporsi per il palcoscenico, inventandosi inesistenti recite oltreoceano. E come l'abbia proseguita creando quel falso reportage radiofonico, La guerra dei mondi, che molti scambiarono per vero.

Senza contare poi che la pellicola dura un'ora e un quarto, così che l'ultimo quarto d'ora cade fuori dal periodo garantito dall'autore.

A fare da cornice a questo rompicapo, c'è una performance di Oja Kodar che ha l'evidente scopo di distrarre lo spettatore lasciandolo ancor più confuso. Miss Kodar si esibisce all'inizio del film in una passeggiata per le vie di Roma che mi sembra essere stata di ispirazione a quel filmato virale che è stato recentemente di gran successo, dove si vede una giovin donna camminare per New York e venir tampinata da un numero incredibile di uomini. Anche nell'originale wellesiano la telecamera è nascosta, la differenza è che la Kodar è vestita espressamente per far girare la testa. E ci riesce molto bene.

Cagliostro

E poi mi lamento dei titoli italiani che i distributori affibbiano oggigiorno ai film stranieri.

La sceneggiatura è basata alla lontana su Joseph Balsamo, romanzo storico di Alexandre Dumas padre che parte dalla figura storica di Giuseppe Balsamo, più noto come Alessandro conte di Cagliostro (titolo inventato), e la trasfigura in un motore rivoluzionario che contribuirà al crollo dell'assolutismo francese. Se da noi Cagliostro è tuttora un nome noto, oltreoceano deve essere un emerito sconosciuto, per cui la produzione americana ha puntato su un titolo più pulp, Black magic. Gli italiani hanno invece preferito inizialmente un indifendibile e inesplicabile Gli spadaccini della Serenissima, per poi ripiegare sul titolo con cui è più noto al giorno d'oggi.

La sceneggiatura di Charles Bennett, che pure ha scritto cose come L'uomo che sapeva troppo, è inqualificabile. Per aggiungere danno alla beffa, viene presentata come se Alexandre Dumas padre raccontasse la storia che noi vediamo al suo omonimo figlio (interpretato da Raymond Burr), facendo sì che metta letteralmente la sua firma sul "The end" che conclude la narrazione.

Dopo il quadretto iniziale con i due Alexandre, ci viene proposta una lacrimevole quanto campata per aria versione dell'infanzia del Balsamo, che sarebbe stato uno zingarello costretto ad assistere all'ingiusta impiccagione dei suoi genitori da parte del crudele visconte di cui si vendicherà nel proseguio della storia.

Passano gli anni, e il piccolo Giuseppe s'è incredibilmente trasformato in un omone (Orson Welles) dotato di un tal magentismo animale da attirare l'attenzione del dottor Mesmer (Charles Goldner), precursore degli studi freudiani sull'inconscio, che gli spiega quel che sa sull'argomento, sperando di coinvolgerlo nei suoi studi. Ma Balsamo ha ben altri obiettivi. Scoperta la sua potenza, cambia nome in Cagliostro, e si crea un aura misteriosa di guaritore. Con la compagnia di Gitano (Akim Tamiroff) e Zoraida (Valentina Cortese), gira l'Europa e fa fortuna, finché gli capita di passare per la Francia e di imbattersi nuovamente nel già noto visconte, che nel frattempo sta elaborando un complicato piano per far cadere in disgrazia niente meno che Maria Antonietta (Nancy Guild), non ancora regina, approfittando di tale Lorenza che le è estremamente simile.

L'idea di Cagliostro sarebbe quella di vendicarsi del perfido visconte, ma come vede Lorenza si innamora di lei, e decide perciò di attuare un piano ancor più complicato di quello del visconte, che dovrebbe addirittura portare lui e Lorenza sul trono di Francia. Se la trama non fosse già fin troppo complicata, aggiungiamoci che Lorenza è innamorata, ricambiata, del capitano delle guardie della regina.

Sarà il buon dottore (nel senso di Mesmer) ad impedire che il luciferino piano di Cagliostro abbia successo, rimettendoci però la pelle (forse, viene abbandonato dalla sceneggiatura con un proiettile in corpo ma ancora in vita).

Scontro finale sui tetti di una chiesa (memoria de Notre-Dame de Paris o di Metropolis?), con il bene che trionfa.

Se non fosse per la presenza scenica di Orson Welles, il risultato sarebbe disdicevole. Belli però i costumi d'epoca, vedasi in particolare la scena del ricevimento, a parte la curiosa mise di Cagliostro proprio in quella occasione, una specie di tenuta da gerarca fascista completa di fez coloniale, adornata da simboli dorati che vorrebbero essere esoterici.

Otello

La produzione è stata un incubo. Nell'immediato dopoguerra, Orson Welles era in Italia in quanto protagonista di Cagliostro. Basti dire che si era scelto di girare il film da noi perché il Messico era risultato troppo costoso per dare un'idea del pasticcio in cui il nostro si era ficcato. Già che si trovava lì, Welles attaccò discorso con Michele Scalera, produttore italiano sull'orlo della catastrofe a causa dei suoi trascorsi sotto il regime fascista, e lo convinse ad imbarcarsi in questa impresa. Entrambi pensavano di essere stati molto furbi, lo Scalera contava di rilanciarsi, Welles sperava di avere la tanto agognata libertà di azione.

La troupe va in Marocco (per spendere ancora meno che in Italia, immagino) per le prime riprese, e la Scalera Film fallisce. Ma ormai il meccanismo diabolico è partito e il progetto prosegue, anche se tra mille problemi. Ci vorranno tre anni, con scene girate a distanza di mesi e in Paesi diversi, per completare il lavoro. Mitica la scena in cui Cassio dovrebbe essere ucciso da Roderigo, che è stata girata in un bagno turco per ovviare al problema della indisponibilità degli abiti di scena, tenuti in pegno in attesa di un pagamento.

Seguendo la lettura classica, Welles affronta la parte di Otello in una bella tinta nera. In realtà non si sa bene cosa Shakespeare intendesse per Moro di Venezia quando scrisse la sua tragedia. Ai tempi era termine molto generico che copriva varie tonalità dal quasi-bianco nordafricano al nero profondo subsahariano. Senza contare poi che la Morea, per i veneziani, era il Peloponneso.

Credo che la storia che la conoscano tutti, e anche Welles era dello stesso avviso, al punto che la racconta in flash-back, partendo dai suggestivi funerali di Otello e Desdemona (Suzanne Cloutier), mentre il perfido Iago (Micheál MacLiammóir) viene letteralmente messo in gabbia.

Bravi tutti e tre gli interpreti principali, eccezionale la scena in cui Otello capisce di aver fatto un tragico errore da cui non c'è via d'uscita.

The fighter

Credo che la mancanza di una coesione interna nella storia narrata sia figlia di una lunga e complicata storia produttiva. La prima certezza è stata che Mark Wahlberg avrebbe interpretato il ruolo principale, quello di Micky Ward, di cui è amico. Tutto attorno è ruotata una serie di sceneggiatori, attori, registi, fino ad arrivare alla configurazione finale.

In particolare, Darren Aronofsky, che comunque ha mantenuto un ruolo produttivo, è stato l'ultimo candidato a dirigere questo film, prima di lasciarlo per The wrestler, un soggetto piuttosto simile, ma in mano ad una produzione più agile, che ha permesso ad Aronofsky di interagire più liberamente di quanto gli sarebbe stato qui possibile nella storia. E, almeno a mio gusto, il risultato ha giustificato la sua scelta. Si è finito con chiamare David O. Russell, che veniva da un lungo periodo di inattività, e non mi sembra fosse ancora in piena forma. In particolare, il rimescolamento tra un registro semi-documentaristico e uno più farsesco che viene utilizzato in un paio di occasioni mi è parso poco riuscito.

Si narra quindi di Micky Ward (Wahlberg), pugile del New England, seguendolo da un periodo particolarmente nero nella sua carriera fino alla conquista di un titolo della sua categoria. Numerose le libertà che vengono prese dagli scenggiatori, un po' per enfatizzare la fase luminosa, esagerando il buio iniziale, un po', temo, per semplice sciatteria.

Forse si voleva sostenere l'idea che la famiglia, per quanto disfunzionale, è il porto sicuro a cui l'individuo deve far riferimento se vuole ottenere il successo. Se questo è il caso, il risultato non è dei migliori, anche a causa di come è stata scritta la parte di Micky. Abbiamo infatti che Micky è costretto ai lati dell'azione da uno strabordante fratellastro, Dicky Eklund (un eccellente Christian Bale), da sette sorelle che non brillano per acume e sono limitate al ruolo di coro, e dalla terribile madre di tutti e nove, Alice (Melissa Leo). Micky troverà supporto in una esuberante barista, Charlene (Amy Adams), che cercherà di spiegargli come sarebbe opportuno per lui crescere e cercarsi di svincolarsi da quella compagnia di matti ma, non si capisce bene come, anche Charlene verrà attirata nel gorgo fatale. E tutti quanti assieme vanno verso il lieto fine. Che potrebbe anche starci, se non fosse che Micky, pur diventando campione, pur venendogli riconosciuto il suo teorico ruolo centrale, resta desolatamente in ombra.

Molto più interessante Dicky, ex pugile che ha avuto un attimo di gloria prima di sprofondare nella dipendenza da crack. Vuole evidentemente bene al fratellino, e gli potrebbe dare molto, ma non riesce a svicolarsi dal modello materno, che contrappone il desiderio che i suoi rampolli abbiano successo alla necessità di mantenerli subordinati a lei. Circostanze esterne (a blessing in disguise, direbbero gli anglofoni), ovvero la galera, lo allontaneranno da un ambiente asfissiante, lo costringeranno a ripulirsi fisicamente, e lo spingeranno a risalire dal baratro in cui si era ficcato. Bale eccelle nell'interpretare il carattere e vale da solo la visione del film.

Ecco, se si fosse potuto focalizzare la sceneggiatura su Dicky, sarebbe potuto venir fuori un film di livello molto superiore.

Decisamente brutto e inutile il finale, con il combattimento di Micky per il titolo. Falsificato storicamente per simulare un repentino colpo di scena con Micky sul punto di perdere che riesce invece ad avere la meglio sull'avversario, sembra avere l'unico scopo di creare un "cattivo", nel personaggio dello sfidante, che viene inutilmente connotato come tronfio e antipatico.

Guardiani della galassia

Molto connotato già dalla produzione (Marvel) e distribuzione (Walt Disney). Difficilmente lo spettatore che abbia una minima idea di cosa tratta il film ne uscirà completamente scontento. Al centro dell'operazione c'è James Gunn (sceneggiatura e regia), che ha preso il fumetto omonimo e lo ha rielaborato a suo gusto per farne il pilot di una serie ad alto budget.

Da Gunn mi sarei aspettato qualcosa di più interessante, conoscendolo per Super. Non mancano elementi curiosi, come la strana mescola tra cultura anni 70/80, un background da Guerre Stellari, azione alla Indiana Jones, spunti alla Riddick, Quinto elemento, altre produzioni Marvel come Thor. Mi pare però che manchi un filo conduttore solido. Sui titoli di coda m'è venuto da chiedere "e allora?". Qual'è il risultato delle due ore di spettacolo? Cosa mi dice la storia? Ben poco, in realtà.

Si narra in pratica di un avventuriero, Peter Quill (Chris Pratt) che per una serie di circostanze di trova a diventare il salvatore della galassia, mettendo assieme un bizzarro gruppo che include Rocket, un procione geneticamente modificato che fa da Bombadil ad una specie di Barbalbero (cfr Il signore degli anelli di Tolkien) di nome Groot; Drax (Dave Bautista), un tizio tutto muscoli e poco cervello; e Gamora (Zoe Saldana), bella aliena dalla storia piuttosto complicata.

Ronan (Lee Pace), il supercattivo, vuole un oggettino che gli è necessario per le sue supercattiverie, che però finisce nelle mani di Peter. Conseguentemente, tutti quanti cercano di mettere le mani addosso a Peter. In un modo fortunoso lui riesce ad evitare il peggio e finisce per sviluppare una certa vena eroica, qualità di cui inizialmente era del tutto assente.

Tra le debolezze del film c'è anche la scarsità di carisma di Pratt che, ahilui, si confronta con l'Han Solo di Harrison Ford.

Curioso, poi, come vi siano ammazzamenti a ritmo continuo, però negli scontri diretti raramente il nostro eroe uccida, preferendo invece armi stordenti. Credo si tratti di un modo di aggirare i limiti della censura ed ottenere truculenza senza perdere il pubblico molto giovane, che è il principale target di riferimento del prodotto.

Curioso anche che l'inizio della storia sia altamente drammatico. Anni ottanta, il protagonista è ancora bimbo e la madre sta morendo per un tumore. Lei consegna a lui un ultimo regalo con un biglietto di accompagnamento, e muore. Sconvolto, lui esce dall'ospedale e viene rapito dagli alieni.

Per intrattenermi nella prima ora del film, che ho trovato piuttosto noiosa e confusa, mi sono chiesto se tutta questa storia galattica non fosse nient'altro che la fantasia di un bambino che si trova costretto ad accettare l'inaccettabile, e si inventa un universo poco plausibile dove a tutti piacciono le canzoni che sua mamma gli aveva registrato su una cassetta, e dove riesce ancora a sentirle sul suo walkman a decine di anni di distanza. Senza nemmeno dover far la fatica di cercare le pile di ricambio. A proposito di ciò mi sono ricordato di come invece in Codice: Genesi Denzel Washington avesse problemi con il suo iPod.

Se le parti principali non sono occupate da attori memorabili - forse la Saldana è quella che se la cava meglio, ma deve fare i conti con un ruolo che è solo di puro supporto al fiacco protagonista - i ruoli secondari sono una miniera di brevi apparizioni di attoroni che avrebbero meritato maggior considerazione. Glenn Close è Nova Prime, una specie di leader civile che si contrappone al supercattivo; Benicio Del Toro è un collezionista che è disposto a pagare una enormità per l'oggettino in possesso di Peter; John C. Reilly è un poliziotto che fa da tramite tra la nostra banda di cattivi redenti e i buoni - da notare che Gunn avrebbe voluto Reilly come protagonista di Super, ma non era riuscito a convincere la produzione, che non lo riteneva un nome capace di attirare abbastanza pubblico; e persino Josh Brolin alla base del personaggio di Thanos (il capo del supercattivo Ronan, che è così deviato da sfuggire al suo controllo). Non è un nome così importante, ma gli whoviani avranno forse riconosciuto anche Karen Gillan, Amy Pond nella saga del Dottore, nell'interprete di Nebula, sorella di Gamora molto cibernetica e con un rapporto estremamente conflittuale con tutta la famiglia.

In inglese, poi, le voci del procione e dell'albero sono di Bradley Cooper e Vin Diesel.

Frank

I Soronprfbs (e non ho sbagliato a scrivere il loro nome) sono una band pop-rock sperimentale che sembra riemergere dal secolo scorso, con influenze che vanno dagli anni settanta ai novanta. Il leader della band, Frank (Michael Fassbender), da circa vent'anni non mostra la sua faccia al mondo, coperta da una testa in stile Playmobil. Nonostante questo, sprizza carisma da ogni poro, ed è adorato dagli altri membri del gruppo, in particolare da Clara (Maggie Gyllenhaal), eccentrica polistrumentista con una passione morbosa per il suo theremin.

Come spesso accade ai film che narrano di gruppi musicali fittizi (Blues brothers, Spinal tap, ...) questi poi sforano nella realtà, e non mi dispiacerebbe sentirli suonare per davvero, anche se preferirei evitare i loro brani più intenzionalmente inascoltabili.

La storia comincia con i Soronprfbs che perdono il loro tastierista, quando costui tenta il suicidio buttandosi letteralmente a mare. Questo fornisce il pretesto per l'ingresso di Jon (Domhnall Gleeson). Completamente esterno alle meccaniche del gruppo, figlio dei nostri giorni (twitta e posta su youtube in continuazione), vorrebbe essere un musicista, lo vediamo scartare alcune (pietose) idee, arrivare all'illuminazione, finché non si scopre che stava riscrivendo senza accorgersene una canzone dei Madness. Don (Scoot McNairy), dopo essersi consultato rapidamente con Frank, lo recluta per sostituire il tentato suicida, prima in un concerto (che si conclude in pochi secondi, giusto il tempo di farci assaggiare il loro sound che, nonostante tutto, stava crescendo prepotentemente), e poi per una puntata in Irlanda, che si rivela essere a tempo indeterminato, alla ricerca della ispirazione per registrare un disco.

Jon, grazie ai social network, ha creato una sorta di piccola hype attorno ai Soronprfbs, che ricevono un invito ufficiale per il South by Southwest. Clara, e un po' tutto il gruppo, è contraria a partecipare, ben conscia del fatto che la loro musica non è esattamente considerabile adatta per le masse. Jon invece spinge nella direzione della commercializzazione del loro sound. Frank è in bilico. Da un lato gli piacerebbe che la sua musica fosse ascoltata da qualcuno che la apprezzi, e sarebbe anche disposto a venire a patti con la sua vena artistica, presentando cose di più facile ascolto. Anche se scopriamo che quello che lui intende è un ammorbidimento molto relativo. Dall'altro la sua sensibilità musicale non gli permette di accettare lo svilimento a cui tende Jon.

Segue catastrofe, che però potrebbe essere positiva. I Soronprfbs, forse, avranno un loro nuovo equilibrio, un po' meno autistico di quello iniziale. E Jon potrebbe avere avuto modo di imparare qualcosa dai suoi errori.

Grande prova attoriale di Fassbender, che riesce a dare spessore al suo personaggio senza poterci mettere la faccia. Ottima colonna sonora, per quanto sia curiosamente fuori dal tempo. Bello il lavoro del team creativo (Jon Ronson e Peter Straughan, regia di Lenny Abrahamson) che mantiene il tono in bilico tra tragedia e commedia.

Doctor Who 8.12: Death in Heaven

Ne Il giorno del Dottore, quel mitico episodio in cui tutte le versioni del Dottore, compreso il War Doctor, Dottore dimenticato (John Hurt), si sono coalizzate per un apparentemente impossibile salvataggio di Gallifrey, avevamo fatto la conoscenza di Osgood, una simpatica ragazzotta (Ingrid Oliver) che lavorava per UNIT e aveva una evidente passione per il Dottore. Quella pazza di Missy (Michelle Gomez) ce la polverizza sotto gli occhi.

Ma questo è niente. Succedono cose ben più drammatiche. Fortuna che sui titoli di coda appare per un secondo Nick Frost nelle sembianze di Babbo Natale, come gancio per il classico speciale natalizio della serie, che strappa un liberatorio sorriso.

La prima parte del finale di stagione mi aveva lasciato con un gran punto di domanda aleggiante sulla mia testa. La sceneggiatura avrebbe potuto tendere verso direzioni consolatorio-spiritiste che non mi sarebbero per niente piaciute. Fortunatamente non è andata così. La presunta svolta paranormale non era altro che un diabolico (e assolutamente folle) piano di Missy per conquistare prima la Terra e poi l'intera galassia.

Missy ci è stata centellinata per tutta l'annata, ma è valsa la pena di aspettare. Di rado il Dottore si è dovuto scontrare con un avversario così in bilico tra ripugnanza e simpatia, vedasi il momento in cui cala dal cielo come una novella Mary Poppins. Sembra davvero il lato oscuro del Dottore personificato. Spiega benissimo il terrore del Dottore quando è costretto a fare le sue impossibili scelte. O la sua disperazione nel vedere Clara (Jenna Coleman) diventare in un qualche modo dottoresca in queste ultime puntate.

Per alcuni minuti il perfido Steven Moffat ci fa pensare che Clara stia realmente completando la sua mutazione nel Dottore, nei titoli di testa vediamo persino i suoi occhi, invece di quelli accigliati di Peter Capaldi. Ma è tutto fumo negli occhi, che nasconde quella che è la chiusura di un'altra tra le principali questioni della stagione. Clara resta la companion del Dottore, diventa qualcosa di diverso ma comunque legata allo sviluppo della trama whoviana, o se ne va?

Più chiaro era il destino di Danny Pink (Samuel Anderson), evidentemente destinato a lasciare la serie. Ma come? A me non stava molto simpatico, e avrei visto bene un colpo di scena che lo portasse sul lato oscuro. Ma mi sbagliavo, Danny farà la sua uscita di campo onorevole, dimostrando che mi sbagliavo di grosso sul suo conto.

Riappare in questa puntata anche Kate Stewart (Jemma Redgrave), figlia del Brigadiere, che dovrebbe essere a capo di UNIT. Non fa molto, invero. Più che altro fornisce il modo di dare una degna uscita al padre.

Il Dodicesimo Dottore finisce la sua prima stagione piuttosto malmesso. Vince lo scontro con Missy, ma deve ammettere che è una vittoria che gli pesa quanto una sconfitta. E lo vediamo veramente arrabbiato e sconsolato nel finale, quando scopre un ultimo tiro birbone di Missy. Epperò, come lui stesso ha modo di dire, il dolore è necessario. Senza di esso non ci rendiamo conto di cosa sia davvero importante.

Zulu

Primo film che vede Michael Caine in un ruolo importante (è coprotagonista, un passetto indietro rispetto a Stanley Baker che ai tempi era un nome di quelli pesanti), e nei titoli di testa appare per ultimo dopo un "introducing" che lascia pensare, erroneamente, che si tratti del suo primo film in assoluto.

Ricostruzione con alcuni eccessi fantasiosi della seconda battaglia tra Zulu e Impero Britannico nel corso della guerra del 1879 tra le due nazioni. Le due ore abbondanti della pellicola bastano appena per raccontare lo scontro. Si accenna appena, e molto sommariamente, ai motivi del conflitto.

Un piccolo contingente di militari britannici, prevalentemente gallesi, si trova sulla strada di una massiccia colonna zulu. Il rapporto delle forze è drammatico, circa 100 contro 5000, e gli zulu, tradizionalmente, non fanno prigionieri in battaglia. Pochi uomini, ma due tenenti che si contendono il comando, Bromhead (Caine), uno svagato nobiluomo che viene da una famiglia di antiche origini militari, e Chard (Baker), un geniere che si trovava a passar di lì quasi per caso. Un battibecco coperto dal formalismo di circostanza risolve la questione a vantaggio di Chard, anche se Bromhead non mancherà di tanto in tanto di borbottare il suo dissenso.

Gli europei hanno i vantaggi della posizione, che per quanto possibile fortificano, della tecnologia militare che sanno sfruttare appieno, e pure del supporto di un boero che conosce le strategie di combattimento dell'avversario. Basterà agli zulu il loro soverchiante numero per aver ragione dei britannici?

Potrebbe sembrare un tipico film di guerra del periodo, e in effetti ci sono molte concessioni agli stereotipi classici, non manca nemmeno l'imboscato che si fa cogliere improvvisamente da spirito eroico, ma l'impostazione di Cy Endfield (co-sceneggiatore e regista) diverge in alcuni significativi dettagli.

Ad esempio, non c'è nessuno che animato da furor guerriero. Si trovano lì, nel bel mezzo di una guerra, e non possono fare altro che combatterla.

Gli zulu, di cui pure non ci viene detto quasi nulla, a parte alcuni interessanti spezzoni che rivelano l'interesse etnografico del regista, sembrano più che altro una forza della natura che si disponga a spazzare via l'uomo "civilizzato". Però non vengono caratterizzati, come spesso accade nei film di guerra, come inetti subumani destinati ad essere eliminati, ma hanno proprie strategie, sanno usare i loro punti forti, e alla fine mostreranno di saper riconoscere il valore degli avversari.

Notevole la colonna sonora di John Barry, di cui si riconosce il tocco alla James Bond, arditamente mescolato a temi africani.

L'importanza di chiamarsi Ernest

Stando alla definizione classica, non c'è nessuno, sia nella pièce teatrale originale di Oscar Wilde sia in questa versione cinematografica di Oliver Parker, che si possa dire "earnest" (serio, coscenzioso, sincero). E nemmeno Ernest, a dire il vero. Però i due protagonisti maschili pretendono di esserlo, sia di nome si di fatto. Si stabilirà poi che non è così importante esserlo, quanto apparirlo. Una spietata critica della società dell'epoca eseguita con leggerezza ammirevole che, a ben vedere, vale anche per i nostri tempi.

John (Colin Firth), detto Jack, è un nobile di campagna che si è inventato un fratello scapestrato residente a Londra, Ernest, che usa come scusa quando vuole andare in città. Lì assume la personalità che ha inventato, conduce vita dissipata, e ha fatto amicizia con un debosciato all'altezza della fama del suo inesistente fratello, Algernon (Rupert Everett), detto Algy. Questi ha una terribile zia, Lady Augusta Bracknell (Judi Dench), e una adorabile, per quanto sventata, cugina, Gwendolen (Frances O'Connor). Jack ama Gwendolen, ma Gwendolen ama Ernest, il che non sarebbe poi un grosso problema, se non fosse che è proprio il nome di battesimo di Ernest a focalizzare la passione di Gwendolen.

Inoltre John ha una nipote, Cecily (Reese Witherspoon), di cui è il tutore in attesa che lei raggiunga la maggiore età, e che si è innamorata dell'inesistente cugino Ernest. Anche questo non sarebbe un problema, se non fosse che Algy decidesse di impersonare Ernest e si innamorasse a sua volta di Cecily.

A lato abbiamo pure Miss Prism (Anna Massey), che cura la crescita culturale di Cecily e che ha una timida passione per il dottor Frederick Chasuble (Tom Wilkinson), curato di campagna.

Notevolissimo il cast, a parte la stonatura di Reese Witherspoon, che brilla per la sua incongruità e deve essere stata imposta dal coproduttore americano come mezzo per attirare il pubblico d'oltreoceano. Secondario l'apporto di Wilkinson e della Massey per la limitatezza dello spazio a loro disposizione, limite che non riesce invece a sminuire Judi Dench, perfettamente a suo agio nel ruolo.

Sui titoli di coda i due protagonisti cantano una versione estesa della serenata che fanno alle loro belle, per ottenere il perdono quando si scoprirà che nessuno dei due è E(a)rnest. Ad un certo punto Everett ammonisce Firth che "less is more". Avrebbe dovuto dirlo anche a Parker, che si è fatto prendere un po' la mano e ha cercato di aggiungere, soprattutto visivamente, dettagli alla commedia, mentre sarebbe forse stato meglio seguire la direzione opposta.

Dom Hemingway

Tutti lo chiamano Dom (Jude Law). Solo grazie al suo improbabile boss russo-francese, Ivan Anatoly Fontaine (Demian Bichir, che a sua volta è messicano di origine libanese), sappiamo che il suo vero nome è Domingo. E lui lo ricambia chiamandolo Ivana Anal-Tony.

Fortuna che Ivan ha un grosso debito di fiducia nei confronti di Dom. Questi lo ha infatti salvato dalla galera, facendosi per questo una dozzina di anni in gattabuia, perdendo di conseguenza la moglie, che prima ha divorziato e poi è morta di cancro in sua assenza, e guadagnandosi il disprezzo della figlia (Emilia Clarke che sarà Sarah Connor nel prossimo Terminator). Perché non è persona con cui solitamente si possa scherzare.

A Dom è rimasto solo un amico, Dickie (Richard E. Grant), detto anche Lefty da quando, un paio di anni prima, ha perso la mano sinistra, sempre a causa di Ivan, che non deve essere un datore di lavoro dei più tranquilli. Ma questo non sembra preoccupare Dom un granché, perché ha una gran stima di se stesso, si considera il miglior scassinatore di casseforti sul mercato, e una gran prosopopea, che applica in genere a temi molto bassi, con risultati decisamente spassosi.

Memorabile il monologo iniziale in cui elogia la bellezza, la potenza, e persino la bontà del suo organo sessuale, per il quale giunge a sostenere che dovrebbe essere il primo membro (è proprio il caso di dirlo) della sua categoria a ricevere il premio Nobel per la pace.

Dom potrebbe essere di una antipatia colossale, pericolo che scampa grazie all'eccellente interpretazione di Law e a pieghe secondarie del suo carattere. Infatti sa di essere una brutta persona, e ha di tanto in tanto degli sprazzi di buonsenso. Gli capita così di salvare una prostituta (Kerry Condon), che del resto era sul punto di morire a causa sua; ha una fifa blu di parlare con la figlia, che ha in effetti tutti i motivi per non essere felicissima di avere un padre del genere; e ha pure modo di pentirsi per aver preferito la galera alla moglie.

Purtroppo, la sceneggiatura (Richard Shepard, anche regia) perde forza a metà percorso, e sembra smarrire la sua ragion d'essere, giungendo ad un finale interlocutorio che mi ha ricordato un soufflè mal riuscito. Shepard avrebbe potuto prendere ispirazione dell'alchimia tra Law e Grant (i due assieme fanno faville) per dar maggior spazio alla meccaniche di coppia tra Dom e Dickie.

Vittima degli eventi

Distribuito direttamente su youtube, tanto vale guardarselo direttamente, piuttosto che leggere cosa ne penso io:

Si lascia guardare, diverte, e non fa pesare troppo quelli che sono i suoi ovvi difetti causati dalle necessarie economie che la produzione ha dovuto fare.

Non mi è dispiaciuta l'ambientazione romana, anche se Londra sarebbe stata ovviamente un'altra cosa, mentre Dylan Dog romano (Valerio Di Benedetto) m'ha lasciato alquanto perplesso. Capisco che sperare in Rupert Everett era eccessivo, ma almeno tendere a quel modello sarebbe stata una buona cosa. O magari stravolgere completamente il gioco e, chessò, prenderlo sardo o ungherese.

Divertente Luca Vecchi (anche sceneggiatore) nei panni di Groucho, simpatici a partecipare al progetto (in cambio di un tozzo di pane, immagino) Milena Vukotic (sopra le righe come richiesto dal personaggio di Madame Trelkovski), Alessandro Haber (ispettore Bloch), Sara Lazzaro (Adele, la cliente).

Wendy and Lucy

Wendy (Michelle Williams) e Lucy (Lucy) sono da qualche parte in Oregon, nel bel mezzo di un incongruo viaggio su una vecchia auto dall'Indiana all'Alaska. L'auto si rompe, e finisce pure la scorta di cibo per cani. I soldi sono pochi e Lucy pensa di scippare una scatoletta per Lucy. Pessima idea. Wendy si fa solo qualche ora di galera (se la cava con una multa) ma perde di vista Lucy, e spende gran parte del resto del tempo della pellicola a cercarla.

Vicenda minimale, narrata da Kelly Reichardt in un'ora e un quarto, guadagnandosi i miei complimenti per non aver cercato di allungare inutilmente il brodo. Di Wendy sappiamo solo che ha una sorella, ma non vanno per niente d'accordo, e che sta facendo questo lungo viaggio con l'idea di trovare un lavoro, ma forse soprattutto di scappare dalla sua precedente vita.

Non è un film consolatorio, Wendy è messa piuttosto male e incontra una umanità allo stesso livello. Niente di drammatico, però la desolazione impera. Vedasi il personaggio interpretato da Wally Dalton, una guardia giurata che protegge un parcheggio vuoto da minacce inesistenti per dodici ore al giorno. Evidentemente una brava persona, sembra solo aver smarrito un qualunque senso.

Nonostante la protagonista, un buon interesse riscosso tra i critici americani, e la prestigiosa Palm Dog conquistata da Lucy a Cannes, il film, che io sappia, non è stato distribuito in Italia.

Boyhood

Con la scusa di raccontarci l'adolescenza di Mason (Ellar Coltrane), Richard Linklater ci offre uno spaccato della vita di una famiglia americana che penso possa essere considerata, a suo modo, "normale".

La particolarità tecnica di aver girato il film in sessioni annuali a partire dal 2002, per un totale di dodici anni, fa sì che si abbia l'impressione di vedere il riassunto di una serie televisiva molto popolare, con gli attori che invecchiano con i loro personaggi. O magari quello di un mostruoso reality, un po' alla The Truman show.

Il metraggio molto lungo diluisce l'azione e non accade nemmeno niente di particolarmente drammatico (o comico). Viene da chiedersi se dodici anni di vita siano così vuoti, e dopotutto è lo stesso dubbio che prende alcuni personaggi, la madre di Mason (Patricia Arquette) lo dice anche esplicitamente. Passano gli anni, e l'impressione che ha è che l'unica cosa che le succede sia avvicinarsi alla tomba. Meno pessimista il padre (Ethan Hawke), che semplicemente archivia la sua gioventù e prende atto della nuova fase della sua vita, non facendosi troppe domande su quale sia il senso della vita che sta conducendo.

Le quasi tre ore di lunghezza della pellicola sono una necessità narrativa per far passare il concetto di cui sopra, anche se questo implica lunghe sezioni in cui accade veramente poco, che finiscono per essere illuminate dai brevi momenti significativi.

Doctor Who 8.11: Dark water

Prima parte del finale di stagione in due puntate. Tre quarti d'ora che sono filati in un lampo, e mi hanno lasciato nel bel mezzo dell'azione, con un sacco di dubbi e senza sapere bene dove si stia andando a parare.

Missy (Michelle Gomez) fa in modo (come? possibile sia un caso?) di attirare Danny Pink (Samuel Anderson) nella Nethersphere. Lo lascia alle cure di Seb (Chris Addison) e accoglie Dottore (Peter Capaldi) e Clara (Jenna Coleman). Inizialmente tergiversa, spacciandosi per un automa, quindi rivela la sua identità e chi siano i suoi alleati.

Dopotutto sembra che Danny sia una brava persona, sinceramente innamorato, ricambiato, da Clara. Spero ancora in un colpo di scena nella seconda parte, in cui magari potrebbe venir fuori che sia lui a muovere i fili anche di Missy. Pur essendo improbabile.

Quel brontolone del Dodicesimo Dottore dimostra ancora una volta di non riuscire a gestire le manifestazioni di affettuosità, epperò fa vedere quanto sia disposto ad incassare per una persona a cui vuole veramente bene.

L'oltretomba qui disegnato da Steven Moffat è estremamente bizzarro. Burocratizzato, informatizzato (spero che la Apple abbia pagato una cifra assurda per il product placement), con un legame al mondo come lo conosciamo noi piuttosto spaventevole.

La spia - A most wanted man

Non si può evitare di citare La talpa, anche perché entrambi sono basati su di un romanzo di John le Carré. Spionaggio, dunque, ma non alla Bourne (indentity, supremacy, ultimatum, et cetera). Qui si pensa molto e si spara poco o niente.

Pur avendo il sapore di un film spionistico di altri tempi, l'ambientazione è contemporanea, post undici settembre. E dunque gli avversari non sono più i sovietici ma il terrorismo islamico. L'azione si svolge in Germania, prevalentemente ad Amburgo, città anseatica, porto di mare a cui converge tutto il mondo. Il punto di vista che seguiamo è prevalentemente quello di Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffman - prestazione maiuscola), agente tedesco che anni prima ha subito un tracollo mentre era in missione in medio oriente (scopriremo più avanti nel film che la colpa era americana, lui però ha fatto da capro espiatorio) e che per questo è stato ricollocato in un ufficio locale.

Con il suo team, che include Nina Hoss e Daniel Brühl (entrambi poco usati, lui quasi niente), stanno alle costole di Abdullah (Homayoun Ershadi) un eminente filantropo di fede musulmana, che si suppone abbia qualche aggancio disdicevole, anche se nessuno riesce a provarlo. Nel contempo, Issa (Grigoriy Dobrygin), un ceceno di padre russo, arriva illegalmente in città, con lo scopo di ottenere asilo politico. Il padre gli avrebbe lasciato un patrimonio, che lui però vede solo come un peso o, al massimo, un espediente che lo potrebbe aiutare a strappare un visto.

I soldi di Issa sono nella banca privata di Tommy Brue (Willem Dafoe) che Issa contatta via Annabel (Rachel McAdams), avvocato specializzato in diritti umani. Günther vorrebbe che Issa usasse i suoi soldi per fare una mega donazione ad Abdullah, così da poter verificare dove vadano a finire i soldi. Imbastisce così una complicata e delicata ragnatela di relazioni in quella direzione.

Come spesso accade nei racconti di Le Carré, il protagonista dovrà fare più attenzione agli amici che ai nemici. In questo caso, il piano di Günther viene ostacolato da un suo collega, Dieter Mohr (Rainer Bock), e deve pure guardarsi da Martha Sullivan (Robin Wright), sua omologa americana. Entrambi hanno molti più crediti da spendere con i vertici tedeschi di quanti ne abbia lui.

L'intreccio è complicato, ma la regia di Anton Corbijn funziona alla perfezione, grazie anche all'eccellente cast. E' solo un po' strano vedere tutti questi americani che fanno finta di essere tedeschi.