Apocalypse now

E' un bel po' che non lo rivedo, ma ne parlo qui perché ne ho seguito la visione via chat mentre facevo altro.

Si tratta di un film terribile, una vera e propria discesa all'inferno, riassumibile nella battuta finale di Marlon Brando "l'orrore ... l'orrore". Molte le immagini che restano impresse, come la cavalcata delle walkirie con la cavalleria dell'aria all'attacco - ah giusto, immagini e musiche, come The end dei Doors - grazie anche al lavoro superlativo di Vittorio Storaro, meritatissimo oscar per la fotografia.

A vederlo oggi credo che sembri semplicemente un cruento film di guerra, ma bisogna pensare che prima di Francis Ford Coppola era difficile parlare del Vietnam in termini così definitivamente negativi. Neanche Il cacciatore di Michael Cimino (uscito l'anno prima), che pure era stato un duro colpo per lo spettatore americano, aveva osato tanto, finendo con i superstiti che cantano God bless America. Qui si va giù molto più pesantemente. Martin Sheen già all'inizio è esaurito da quanto a visto (e fatto) nel corso della guerra, e più si procede più si affonda nella melma di una sporca guerra tra atrocità e insensatezze. Seguendo all'incirca il Cuore di tenebra di Joseph Conrad, si risale un fiume, fino a giungere ad una specie di autoproclamata monarchia assoluta il cui capo supremo, il colonnello Kurz, completamente impazzito aspetta solo che arrivi il suo carnefice.

La guerra come assurdo, come distruzione mentale e fisica dell'uomo.

Tra i pregi di questo film, c'è dunque anche quello di aver definitivamente rotto il tabù sul Vietnam, facendo sì che i produttori osassero finanziarne altri come Platoon (che fra l'altro ha Charlie Sheen come protagonista) o Good morning, Vietnam. E anche Full metal jacket probabilmente sarebbe stato un progetto di molto più complicata realizzazione se non ci fosse stato questo illustre precedente.

Love actually - L'amore davvero

Commedia britannica sentimental musical natalizia con parata di stelle, soprattutto inglesi. Diretta, ma soprattutto scritta, da Richard Curtis che come regista non è che sia memorabile ma come sceneggiatore ci sa fare eccome.

Svariate storie si intersecano in un natale londinese di inizio millennio, affrontando in modo diverso il tema dell'amore. I personaggi non sono approfonditi, impensabile dato il loro numero, sono utilizzati piuttosto per affrontare il discorso da innumerevoli punti di vista.

Hugh Grant è un primo ministro inglese neoeletto, single per aver puntato tutto sulla politica, che si innamora a prima vista di una sua cicciottella dipendente a Downing Street, e per lei cambia la politica del Paese - colpa di Billy Bob Thornton, nei panni di un presidente USA che tenta di sedurla.

La sorella del primo ministro, Emma Thompson, è sposata da lungo tempo con Alan Rickman, che si prende una sbandata per una sua impiegata, Heike Makatsch (come biasimarlo), per cui forse lascerà la famiglia (ma forse no). Divertente la scena in cui Rickman cerca di comprare un gioiello per la Makatsch di nascosto dalla moglie, ma incappa in un terribile venditore, Rowan Atkinson, che lo costringere a desistere (riuscirà a comprarlo in seguito, mettendosi nei guai).

Liam Neeson è un amico della Thompson a cui è appena morta la moglie, che gli ha lasciato un figlio di una precedente relazione, che oltre al lutto per la madre ha anche il problema di essere innamorato di una coetanea e non sapere come fare a dichiararsi. Prenderà spunto da una folle decrepita rockstar (Bill Nighy) per concepire un geniale piano per conquistarla - che non funzionerà. Fortunatamente era pronto un piano B più efficace.

A sua volta la decrepita rockstar sfiora le vicende un po' di tutti, e la seguiamo dall'inizio del film, quando registra un orribile remake in chiave natalizia di Love is all around, seguendo la speranza del suo manager di farne un hit festivo. Inaspettatamente, grazie a demenziali apparizioni radio televisive, riuscirà nel suo intento, scoprirà che l'amore (platonico) della sua vita è proprio il suo produttore, per quanto sfigato, e rispettando la sua promessa di cantare nudo in diretta televisiva se avesse ottenuto la prima posizione nella classifica di Natale, crea un diversivo che tornerà utile nel piano B di cui sopra, assieme ad un ritorno di Atkinson.

Nel film, oltre al funerale, c'è anche un matrimonio, in cui assistiamo ad una piacevole variante di All you need is love, tra Keira Knightley e altro. Il testimone dello sposo è segretamente innamorato di lei, che casualmente lo scopre, restando basita.

Al matrimonio partecipa Colin Firth, da solo, perché la fidanzata (Sienna Guillory) non sta bene. Solo che il malanno era una scusa per permettere al fratello di Firth di approfittare della sua assenza. Fortuna sua, finisce per incontrare Lúcia Moniz.

Anche Laura Linney è al matrimonio, e per di più è anche dipendente di Rickman e innamorata di un collega. Però ha un fratello con notevoli problemi mentali, e dovendo scegliere, preferisce il badare al fratello.

Kris Marshall lascia l'UK in cerca dell'amore negli USA e, incredibilmente (dati i presupposti) lo trova. Fra l'altro seguendo proprio un piano al limite dell'idiozia che lo spinge in un bar (a caso) del Wisconsin.

Infine il timido Martin Freeman che lavora come comparsa in una produzione soft-porno stringe amicizia con una altrettanto timida collega e, dopo molte titubanze, riescono a darsi un bacio vero (dopo che sulla scena avevano mimato di farne di tutti i colori).

Storie di tutti i tipi, narrate con partecipazione e lievità, senza entrare nei dettagli, e lasciando spesso il dubbio sul come si potrebbero sviluppare, ma comunque dando un piacevole affresco su quello è, nei fatti, l'amore.

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato

Chiaramente non regge il confronto con in remake del 2005 di Tim Burton, e a tratti m'è sembrato anche un po' noiosetto, simile ai film della Disney di quel tempo (tipo Mary Poppins, per dare un'idea del genere, ma non all'altezza), ma può essere curioso da vedere in parallelo con la versione di trent'anni dopo, magari per confrontare le performance di Gene Wilder e Johnny Depp.

Non è tra le storie di Roald Dahl che preferisco, comunque ha una grande popolarità e ha qualche aspetto interessante. Strano che in questa versione il titolo (questa volta incolpevoli gli italiani) metta in evidenza Willy Wonka, il protagonista adulto, e non Charlie, come da libro. A parte questo dettaglio, la storia mi sembra più aderente al testo, anche se sono stati fatti molti tagli, tipo: il padre di Charlie (qui assente), e il finale che rassicura (fino ad un certo punto) sulla sorte degli altri partecipanti alla visita.

Megamind

Animazione Dreamworks all'altezza degli elevati standard a cui ci ha abituato questa casa. Meglio sarebbe vederlo in originale, così da apprezzare le voci degli attori che hanno ispirato i disegnatori nel creare i personaggi. A dire il vero Will Ferrell (Megamind) non lo conosco, è più da televisione, ma vedere Brad Pitt (Metro Man), Tina Fey (Roxanne) e Jonah Hill (Hal - Titan) trasformati in animazioni aggiunge una parte di divertimento al film.

La storia è non banale, ma cucinata in modo da non dispiacere anche ad un pubblico molto giovane, a seconda dell'età e del gusto personale ognuno può pescare quello che più gli pare. Si inizia alla Superman con un mondo sull'orlo del collasso, un bimbo viene messo in salvo ma ... si scontra con un altra capsula contenente un altro bimbo. Da lì nasce una rivalità tra l'alieno buono, zeppo di superpoteri da far invidia ad una squadra di supereroi, e il cattivo, che tale diventa perché non ha altro modo per dar sfogo alla sua capacità creativa.

Da notare come la qualità ottenuta con le animazioni permetta ormai di replicare una vasta gamma di espressioni anche nei personaggi umani.

Il grande dittatore

Charlot affronta un'ennesima mutazione, diventa un barbiere ebreo tomaniano (dove la Tomania potrebbe ricordare la Germania) che si comporta in modo eroico suo malgrado nella prima guerra mondiale. Finita la guerra, resta in una clinica per lunghi anni, mentre nel suo Paese sale al potere un pazzo scatenato, tal Adenoid Hynkel (in cui taluno potrebbe ravvisare una somiglianza con Adolf Hitler), che, consigliato da un mellifluo e perfido Garbitsch (Immondizia - Goebbels) e dall'inetto grassone Herring (Aringa - Göring), ha creato una campagna antiebraica e indirizzato la Tomania verso una politica estera molto aggressiva. Tornato al suo lavoro incontrerà una vita quotidiana molto diversa da quella che aveva lasciato.

Con questo film Charlie Chaplin decide di intepretare anche un personaggio diverso da Charlot, il perfido Hynkel, e lo fa in modo geniale. Decide anche di usare appieno il sonoro, anche questa un'ottima idea, visto che i discorsi di Hynkel in un bizzarro tomaniano, e soprattutto il discorso finale del falso Hynkel, sono da antologia.

Anche questa volta Chaplin fa tutto lui: produzione, regia, sceneggiatura. Ma nella colonna sonora fa un uso maggiore del solito di materiale già esistente. Memorabile l'uso della quinta danza ungherese di Brahms nella scena in cui sbarba un cliente seguendone il ritmo.

Amore a prima vista

Commedia degli equivoci scritta, diretta e interpretata da Vincenzo Salemme. M'ha fatto ridere, ma non mi ha lasciato soddisfatto.

Molti gli elementi positivi nel film, come la colonna sonora impreziosita dal tocco di Pino Daniele, il buon senso del ritmo degli attori, che seguono bene una sceneggiatura a suo modo piacevole, nel solco della tradizione napoletana, ma che avrebbe meritato una bella riscrittura.

La storia è quella del figlio di un boss camorrista (Salemme) sul punto di sposare la figlia di boss della mafia siciliana (Mandala Tayde) che però, poco prima del matrimonio, si sottopone ad un trapianto di cornee e, in modo paradossale, questo lo porta a innamorarsi di chi era innamorato il donatore. Sfortuna vuole che a donare le cornee sia stata la donna di un maresciallo dei carabinieri (Maurizio Casagrande), con tutto quel che ne consegue.

L'uomo nell'ombra

Salti mortali per chi ha tradotto titolo e dialoghi, dato che il titolo originale, The ghost writer, si riferisce alla professione del protagonista (che non ha nome, ed è ben interpretato da Ewan McGregor). Per quel che ne so, in italiano il ghostwriter si chiama ancora "negro", ma titolare il film così avrebbe portato solo ad equivoci. Chissà perché non lasciare il titolo originale, allora.

Bella colonna sonora del molto attivo Alexandre Desplat - ad esempio ha curato anche Il discorso del re.

Ottimo film di Roman Polanski che oltre alla regia ha curato assieme all'autore anche la trasposizione in sceneggiatura del romanzo originale di Robert Harris - che sarebbe poi l'autore di Fatherland ed Enigma, giusto per inquadrare il personaggio. Siamo dunque dalle parti del thriller basato su fatti reali che vengono però rimodellati secondo le esigenze dell'autore.

L'impianto della storia ricorda quello di alcuni famosi film hitchcockiani: un uomo qualunque (il ghostwriter, in questo caso) viene tirato dentro un grosso impiccio. Volente o nolente più passa il tempo più i guai intorno a lui aumentano, finché si arriva alla resa dei conti.

Con gran fatica mi trattengo e non dico come va a finire, accenno solo al fatto che il ghostwriter è chiamato per aiutare un simil-Blair (chiamato Adam Lang e interpretato da Pierce Brosnan) a scrivere le sue memorie, in sostituzione del precendente ghostwriter morto in modo sospetto - come sottolineato anche dalla musica. Lo svilupparsi della storia ci porta a chiederci se quel morto non sia semplicemente accessorio a qualche cosa di più grosso, e veniamo portati a scoprire, pezzo dopo pezzo, dettagli di verità (?) che ci portano ad una vicenda un po' da complottisti ma mantenuta nei limiti della verosimiglianza, quella strana verosimiglianza che viene richiesta ad una fiction, intendo.

Il discorso del re

Se prendiamo sul serio il titolo (niente da dire sulla traduzione questa volta, essendo The King's speech in originale) gran parte del film sarebbe solo preparatorio alla scena madre, il primo discorso radiofonico di Giorgio VI in occasione dell'inizio della seconda guerra mondiale. Chiaramente nel film c'è molto di più.

La storia narrata si basa sulla vita di Giorgio VI, padre di Elisabetta II, e della sua relazione con il logopedista che lo aiutò ad affrontare il suo problema di balbuzie. Tema curioso, che è stato affrontato da David Seidler (sceneggiatura) per motivi personali. Avendo avuto un problema simile, è rimasto affascinato dalla vicenda del re.

Al successo del film ha contribuito l'ottima regia di Tom Hooper, reduce dal non eccelso Il maledetto United, e un cast all'altezza della situazione, in particolare i due protagonisti Colin Firth (bravissimo nel rendere il personaggio del re) e Geoffrey Rush (il logopedista). Anche la colonna sonora, con importanti spazi lasciati a Mozart e Beethoven, fa bene la sua parte.

Il tema fondamentale, checché ne dica il titolo, è il rapporto tra Firth e Rush, visto dal punto di vista di una vita complicata come può essere quella di un principe che avrebbe fatto volentieri a meno del suo titolo. Figuriamoci di quello di re. Però, quando viene costretto dalle circostanze ad assumere il ruolo, puramente simbolico del resto, di guida del Paese, lo fa nel migliore dei modi.

Tempi moderni

Naturale sviluppo del precedente Luci della città, con cui condivide l'impianto di lungometraggio basato su una storia in sé un po' debole il cui scopo principale è quello di fornire da cornice per una serie di avventure di Charlot.

Anche qui il ruolo di Charlie Chaplin è preponderante: scrive sceneggiatura e score musicale, produce, dirige, e interpreta il ruolo principale.

Anche in Tempi moderni il sonoro serve più a veicolare musica e rumori che a permettere agli attori di parlare. Da notare che il tema nasce nella seconda parte e ci porta fino al finale, Smile, ha avuto un successo che ha trasceso il film diventando praticamente uno standard della musica leggera. C'è del parlato, a dire il vero, ma viene presentato come innaturale: a parlare sono solo le macchine (un avvenieristico sistema di videocomunicazione, un disco che fa da sottofondo alla presentazione di un bizzarro macchinario, una radio), fino al colpo di scena nel finale, dove l'eterno vagabondo canta - anche se lo fa in una lingua inventata.

Se nel suo insieme la storia non è memorabile (ad un ometto succedono varie disgrazie, finché incontra una affascinante monella - Paulette Goddard - con cui, dopo un'altra serie di alti e bassi se ne vanno dalla città in cerca di un futuro migliore) praticamente ogni scena ha degli elementi che sono entrati nell'immaginario collettivo.

La prima scena trova Charlot in fabbrica. Alcuni dettagli di questa parte mi hanno ricordato Metropolis. Il capo della fabbrica che vive in un mondo completamente diverso dai suoi dipendenti, entra in contatto con loro tramite un sistema fantascientifico mi ricorda molto il padre-padrone di Metropolis. Il macchinario stesso sembra una sorta di Moloch che non produce niente di sensato e vuole anche lui mangiarsi gli operai - anche se qui siamo nella commedia e perciò non muore nessuno, le vittime vengono risputate fuori sane e salve.

Salto bellamente tutte le vicende intermedie (anche se ognuna di esse meriterebbe almeno un post) e arrivo al memorabile finale. Sembra che la coppia sia riuscita a coronare il loro piccolo sogno: un lavoro stabile che permetta loro di vivere decentemente, ma non è destino, debbono scappare dalla città. Li ritroviamo all'alba sul ciglio di una strada di campagna. Lei è abbattuta, che senso ha tentare, si chiede tra le lacrime. Ma lui le infonde coraggio: mai arrendersi, ce la faremo! Lei si riprende, e ricominciano la marcia. Ma lui la guarda in faccia, e nota che manca ancora qualcosa. Sorridi, le dice. E così, sorridenti, se ne vanno a passo di carica verso il futuro.

Colazione da Tiffany

La storia originale di Truman Capote è stata addomesticata, sorvolando sui dettagli più imbarazzanti e chiudendo con quello che non per niente viene chiamato holliwood ending. Nonostante tutto ciò mantiene la sua forza originaria, che viene ben sfruttata da Blake Edwards appoggiato da un'ottima colonna sonora che basa gran parte del suo peso sull'indimenticabile Moon River di Johnny Mercer - Henry Mancini. La collaborazione tra Mancini e Edwars continuerà a lungo, Pantera rosa inclusa.

Aggiungiamoci una interpretazione da favola da parte di Audrey Hepburn, un buon supporto da tutto il cast (spassoso Mickey Rooney che incredibilmente interpreta un fotografo giapponese) e il risultato non può che essere un film imperdibile.

Tornando a Edwards, aveva il compito non semplice di mettere il silenziatore ad una storia considerata troppo scandalosa per la morale corrente senza addormentarla. C'è riuscito, dimostrando la sua grandezza, puntando sullo spiazzamento continuo dello spettatore.

Prendiamo la scena iniziale. Albeggia sulla Fifth Avenue a New York, un taxi lascia scendere, proprio di fronte a Tiffany, una elegante, magnifica Audrey Hepburn, in abito da gran sera che apre un cartoccetto e si mette a far colazione guardando le vetrine. Tutto sbagliato, verrebbe da dire. Un contrasto stridente tra la classe della Hepburn e la sua mesta visita ad un negozio chiuso. Ma sotto scorrono i titoli di testa con Moon River, e noi quasi non registriamo nemmeno la stranezza che abbiamo appena visto.

Fine dei titoli di testa e ritroviamo Holly Golightly, come scopriremo si chiama questa leggiadra fanciulla, diretta a casa sua, ovviamente nell'Upper East Side, ma veniamo sorpresi dal suo destreggiarsi tra un buffo coinquilino giapponese e un greve individuo che la tampina rammentandole di aver sganciato per lei la sera prima parecchi dollari (tra cui un cinquantone per la "powder room" - ovvero per i bagni femminili di un luogo pubblico, tipo ristorante - dettaglio che verrà chiarito più avanti nel film) sottolineando che questo gli darebbe dei diritti. Anche qui veniamo distratti dal lato comico e ci sfugge di registrare che - orrore - Holly si prostituisce. D'accordo, lo fa con gran classe, e non accetta imposizioni. Leggiadramente, infatti, scarica il tipaccio. Però il mestiere è quello.

E si continua così. Nella scena successiva viene introdotto il protagonista maschile (George Peppard), uno scrittore di scarso successo che si può permettere l'elegante appartamento grazie ad una generosa amica. Holly risulta chiamarsi davvero Golightly (va' con leggerezza) in seguito a un matrimonio (forse annullato) con Doc, un buon veterinario di campagna ma che ha 30 o 40 anni più di lei, l'ha sposata che era ancora una bambina (14 anni) evidentemente approfittando della situazione (lei orfanella con un fratello non molto normale, dal poco che si capisce).

Una galleria impressionate di personaggi che potrebbero risultare a dir poco squallidi. Eppure l'effetto che ci fanno è diametralmente opposto, grazie al loro approfondimento, merito soprattutto della scrittura originale di Capote ma anche allo sviluppo in sceneggiatura da parte di George Axelrod, e pure della levità usata da Edwards nel presentarceli. E, naturalmente, merito va anche a Audrey Hepburn che riesce magnificamente a rendere il candore di Holly.

Sempre per la regia, non posso tralasciare di accennare all'uso del comico che fa Edwards, sia come elemento di distrazione - ridiamo di Mickey Rooney giapponese che si lagna per essere svegliato, e non ci accorgiamo che ci si stanno dando informazioni importanti su Holly - sia come elemento di puro divertimento. La festa a casa di Holly ricorda davvero molto quella che vedremo in Hollywood Party. Manca l'elefante e la piscina, ma è una gioiosa e folle macchina comica progettata ed eseguita in modo impeccabile.

Un ultimo paragrafo, dedicato ad un personaggio che ha un ruolo piccolo ma significativo: il gatto di Holly. Anzi, Gatto, dato che Holly ci tiene a sottolineare che non ci sono legami stabili tra di loro, anche nel non dargli un nome. Nella prima parte Gatto è l'alter ego di Holly, entrambi sono "drifter" alla deriva: "Two drifters off to see the world" canta Holly in Moon River, entrambi sono senza nome, (il vero nome di Holly scopriremo essere Lula Mae Barnes, ma lei lo rinnega, come poi rinnegherà anche il nome Holly), e senza un padrone (Holly ha paura del rapporto di coppia in quanto lo percepisce come legame di proprietà). Nella seconda parte Gatto diventa l'alter ego dello scrittore innamorato di Holly, e Holly, abbandonerà Gatto (sotto la pioggia!) per far capire allo scrittore che davvero vuole staccarsi da lui. E nel finale Gatto diventa rappresentativo del rapporto tra i due protagonisti, abbandonato ma poi ritrovato (e coccolato). Curioso notare che anche nel romanzo breve originale Gatto assume un significato metaforico articolato, anche se diverso da quello del film, dato il cambiamento di finale.

The Tourist

Il film nasce dalla curiosa idea dei produttori americani di prendere un film francese, adattarlo ai gusti locali ma lasciandogli una impostazione internazionale. Il risultato è un prodotto medio, non particolarmente consigliabile se non per una piacevole aria multiculturale che aleggia su tutto il film.

Deludente la regia di Florian Henckel von Donnersmarck, da cui è lecito attendersi ben altro; Johnny Depp recita da par suo, nonostante il ruolo non mi pare gli calzi benissimo, Angelina Jolie continua a non essere una attrice che io apprezzi. Tutto sommato buona la prova di tutto il cast, anche se alle prese con personaggi troppo scontati che avrebbero forse potuto reggere meglio se si fosse puntato più decisamente sulla farsa. Paul Bettany è un ispettore inglese capace ma sfortunato, Timothy Dalton (ih, come è invecchiato!) ispettore capo antipatichello, eccetera. Se la cavano bene anche gli italiani, anche se costretti in particine quasi da macchietta.

A parte un breve incipit parigino, la storia si sviluppa quasi completamente a Venezia, che avrebbe potuto essere sfruttata meglio.

Il cigno nero

Buon lavoro di Darren Aronofsky, ma un po' troppo cerebrale per i miei gusti più sempliciotti.

Raccontata in poche parole è la storia di una giovine ballerina (una strepitosa Natalie Portman) che vuole con tutte le sue forze il ruolo principale de Il lago dei cigni, ora che la prima ballerina (ottima Winona Ryder, ma costretta in un ruolo minore) viene prepensionata dall'iperesigente direttore della compagnia (Vincent Cassel). Ci riuscirà ma a caro prezzo.

A complicare l'impiccio c'è una impressionante serie di sottotrame.

La madre della ballerina (Barbara Hershey, regge bene una parte non semplice) è a sua volta una ballerina che non ha raggiunto il successo e ha evidentemente scaricato la sua frustrazione sulla figlia. Il rapporto odio-amore tra le due emerge più volte nel film.

Probabilmente in seguito alle tensioni familiari, sommate a quelle di un ambiente altamente competitivo come può essere quello del balletto residente del Lincoln Center di New York (a un certo punto Cassel dice alla Portman un cosa tipo "Tutte le ballerine al mondo vorrebbero la tua parte" - forse esagera, ma non di molto) la protagonista comincia ad avere allucinazioni, oltre che ad indulgere in comportamenti autolesionistici.

Sin dall'inizio, in metropolitana vede un'altra ballerina (brava Mila Kunis) e la scambia per un suo doppio negativo - la Portman è tendenzialmente in bianco, la Kunis in nero. Il fatto che Cassel apprezzi la Portman come cigno bianco, ma preferirebbe la Kunis come cigno nero acuisce la polarizzazione. In pratica la protagonista sembra avere un problema di personalità scissa. Si vede "bianca", nel senso di razionale, e rifiuta la sua parte "nera", emotiva, scaricandola sulla sua collega. Il fatto che debba recitare la parte doppia di cigno bianco e cigno nero, la costringe ad affrontare questo suo problema. Questo tema è sottolineato in svariati modi, sottolineo quello musicale: le musiche di scena di Tchaikovsky sono contrapposte, nella scena in discoteca dove a dominare è il cigno nero, a quelle dei Chemical Brothers.

A ben vedere, si potrebbe interpretare la tragica lotta della ballerina per ottenere la giusta interpretazione anche come un parallelo con il lavoro dell'attore che può giungere a sacrificare sé stesso per entrare nel personaggio.

Ci sarebbe poi pure il passaggio dalla infanzia all'età matura, che mi pare un tema secondario, visti gli altri, ma come sempre accade è tutta una questione di punti di vista. Anche questa chiave potrebbe essere utilizzata per leggere il film in un ennesimo modo. La ragazzetta cresce, affronta i suoi cambiamenti corporei (per quanto bizzarri), distrugge gli orsacchiotti dell'infanzia, dichiara di voler lasciare la casa e affronta un rito di passaggio che la porterà a cambiare stato.

Curiosamente, direi di questo film lo stesso che Cassel dice alla Portman, quando ancora non è convinto di darle la parte: tecnicamente sei perfetta, ma per fare il cigno nero non basta, devi anche essere naturale.

Luci della città

Scritto (sia la sceneggiatura sia la colonna sonora), diretto, prodotto, interpretato da Charlie Chaplin, è una delle ultime avventure del suo eterno vagabondo alter-ego, nato per il mondo delle comiche mute e che con fatica ha cercato di adattarsi al mondo del lungometraggio sonorizzato.

In effetti la scena iniziale del film ci mostra cosa Chaplin ne pensasse del far parlare i personaggi del film: totalmente inutile. Vediamo infatti le autorità locali (di una non ben specificata città, che un po' sembra New York, ma potrebbe essere una qualunque metropoli anglofona) impegnate in un discorso per l'inaugurazione di un monumento. Parlano, e il sonoro riporta una sorta di strombazzamento vagamente umanoide. Avrebbe aggiunto qualcosa alla scena sentire le vere parole? No, anzi l'effetto comico ne sarebbe uscito forse persino sminuito.

Il secondo problema, dare alle avventure di Charlot una impostazione tale da reggere un'ora e mezza di proiezione, viene risolto dando una inquadratura drammatica (amore pressoché impossibile tra un vagabondo e una fioraia cieca che lo crede ricco) che si sviluppa per tutta la durata del film, facendo da cornice ad una serie di vere e proprie comiche che potrebbero vivere autonomamente.

Brillante, ad esempio, la sezione in cui Charlot partecipa ad una serata pugilistica. Il suo inserimento nel contesto è un po' faticoso - la scusa è che sta cercando di raccogliere soldi necessari alla sua bella - ma lo sviluppo è eccellente, trasformando la danza dei pugili - e dell'arbitro - sul ring in un pezzo di teatro dell'assurdo.

Un po' troppo forzata, invece, m'è sembrata la vicenda parallela del ricco che si ricorda quanto sia affezionato a Charlot solo quando è ubriaco. Il cambio di atteggiamento spiazza la prima volta, ma dalla seconda volta in poi non c'è più effetto sorpresa.

Per quanto riguarda il lato drammatico della vicenda, connotare la protagonista femminile come una bella fioraia cieca, poverissima, con nonna a carico è forse calcare un po' troppo la mano, però il finale è di una bellezza tale da far perdonare questo e altro.

Mad Max oltre la sfera del tuono

In attesa del quarto episodio, che dovrebbe uscire nel 2012, fine del mondo permettendo, questa terza puntata è anche l'ultima delle avventure di Mad Max e in ogni caso l'ultima con Mel Gibson protagonista.

George Miller si è fatto affiancare alla regia da George Ogilvie, e forse questo spiega un certo andamento a strappi nella narrazione della storia, che comunque non è stato un punto forte di tutta la serie.

Tra i particolari bizzarri di questo episodio, il fatto che Max incontri nuovamente il pilota che era presente in Mad Max 2, i due non si riconoscano nemmeno, e per di più il pilota, stando a quanto si dice nel finale di Mad Max 2, sarebbe dovuto essere in ben altre faccende affacendato.

Tina Turner spadroneggia, sia come attrice (con risultati non entusiasmanti, mi spiace notare) nella parte della "regina" di uno scampolo di civilizzazione, sia come cantante con "We don't need another hero" che ebbe un buon successo a quei tempi. La colonna sonora è di Maurice Jarre (addirittura), ma non mi pare uno dei suoi lavori più interessanti.

La trovata principale di questo episodio è la Sfera del tuono evocata dal titolo, una sorta di ring in cui Max è costretto a combattere con un tal Blaster sotto gli occhi di un pubblico deliziato da questa sorta di giochi gladiatori post nucleari. Da notare la presentazione dello show in stile prettamente televisivo, che fa il verso ai quiz che già spadroneggiavano ai tempi e finisce per preconizzare la tv spazzatura che al giorno d'oggi non è poi così lontana da quella rappresentazione.

The corporation

Documentario nel solco della produzione di Michael Moore (esplicitamente citato e pure intervistato) focalizzato sulla corporation (come tradurlo in italiano? Società per azioni?) vista come sorta di moloch. Basato su un libro inchiesta di Joel Bakan, da cui lo stesso ha estratto una sceneggiatura affidata alla regia di Mark Achbar e Jennifer Abbott.

Questo misto di documentario e intrattenimento a me non è che mi convinca molto. Capisco lo scopo di rendere appetibile ad un pubblico più vasto di quello consueto un tema che può risultare ostico a molti ma, come dire, preferisco i lavori in cui si fa una scelta decisa.

Può essere interessante per chi voglia avere un'idea sommaria delle problematiche in ballo.

Interceptor, il guerriero della strada

Come si capisce meglio dal titolo originale, Mad Max 2, si tratta del seguito di Interceptor, ma può essere tranquillamente visto a prescindere dal precedente episodio. A parziale discolpa dei distributori italiani questa volta si può citare il titolo dato alla pellicola (che naturalmente è australiana) negli USA, The road warrior, anche se, a dire il vero, Interceptor, la supermacchina di Mad Max non ha un gran ruolo e per di più esce di scena con un gran botto a metà film.

I primi minuti vengono spesi in una sorta di cinegiornale in bianco e nero che fornisce una vaga spiegazione alla situazione in cui ci troviamo, una sorta di scenario post atomico in cui l'umanità è ridotta in una stracciona miseria. Si nota una sostanziale differenza con Mad Max 1, se lì sembrava che, più o meno, non ci fossero particolari problemi di approvvigionameno, qui manca tutto. Max campa mangiando cibo in scatola per cani; ci si ammazza per poche gocce di benzina; anche i proiettili sono contingentati.

Più che un seguito sembra una riscrittura, più convincente, della stessa idea. Tralasciando qui i motivi che hanno spinto il protagonista (sempre Mel Gibson, naturalmente) ad una vita errabonda e solitaria, il regista e sceneggiatore George Miller si concentra maggiormente a disegnare una serie di bizzarri personaggi e a vedere come si comportano in questo mondo immaginario.

Anche qui il riferimento è al Far West anche se, rispetto al primo episodio, l'azione ha come spunto principale i film dei pionieri, dove la carovana veniva assediata dagli indiani. A far da cattivi sono più o meno gli stessi brutti ceffi del primo episodio, anche se ora non sono espressamente caratterizzati come motociclisti quanto ... boh, strani personaggi punk rock vagamente sadomaso, direi.

Interceptor

Terribile. L'idea di partenza è anche interessante, e infatti George Miller (che l'ha scritto, diretto) la realizzerà meglio negli altri due episodi della serie, ma questa prima uscita è veramente disastrosa. Nonostante il mio parere, il film ebbe uno strabiliante successo in tutto il mondo.

Si tratta in pratica di una versione post-catastrofica di un classico western di quelli dove il buon sceriffo è portato dagli eventi a comportarsi in maniera disdicevole ammazzando una crudelissima banda di delinquenti che ne combina di tutti colori. Qui l'ambientazione è in un futuro immediato (rispetto alla realizzazione del film) in Australia. Una non ben specificata catastrofe ha ridotto il Paese ad una sorta di Far West dove i banditi, invece dei cavalli, cavalcano potenti motocicli. In modo abbastanza improbabile, il buon poliziotto Max viene portato a trasformarsi in Mad Max (da cui il titolo originale) e usare un potente autoveicolo, chiamato Interceptor (da cui il titolo italiano) per compiere la sua vendetta.

Punti forti del film il personaggio di Mad Max, interpretato da un Mel Gibson agli esordi, e la fantasiosa automobile, una Ford modificata con l'innesto di un enorme motore 8 cilindri turbo.

Alla ricerca di Nemo

Nei primi minuti il protagonista perde la moglie e tutti i figli (quattrocento) meno uno. Naturale che ne resti scioccato. L'azione riparte qualche anno dopo, il primo giorno di scuola del figlio, che come si allontana dal padre viene rapito.

Non fosse che padre e figlio siano pesci pagliaccio la situazione sarebbe parecchio tesa. Invece, grazie al potere dell'animazione, possiamo affrontare questa storia a livello di mito greco con sufficiente distacco e seguire le peripezie dei due pesciolini fino alla ricomposizione della famiglia nel finale, con gra soddisfazione di tutti (meno il dentista rapitor di pesci).

Ottimo lavoro della Pixar, con una sceneggiatura a molteplici chiavi di lettura, capace di piacere ad un pubblico di tutte le età. Infinite le citazioni cinematografiche, tra cui Memento (la pesciolina che si aggrega alla ricerca ha lo stesso problema di memoria), Shining (lo squalo assomiglia a Nicholson e agisce come lui, quando perde la ragione), Lo squalo (ça va sans dire), Il grande Lebowski (la tartaruga incontrata nel viaggio si fa chiamare dude, e si atteggia da dude), eccetera eccetera.

A Venezia... un dicembre rosso shocking

Il terribile titolo italiano (Don't look now l'originale, che ripropone il titolo del racconto di Daphne Du Maurier da cui è tratto e che segue abbastanza fedelmente) ha comunque un suo perché. A parte una breve introduzione inglese, l'azione si svolge tutta in una Venezia invernale, avvolta dalla nebbia e scolorita, con l'eccezione di qualche tocco di rosso che focalizza l'azione.

Oltre a Venezia, i protagonisti sono Donald Sutherland e Julie Christie - bravi - e la regia è di Nicolas Roeg - media, con alcune intuizioni davvero sorprendenti. E' la prima colonna sonora realizzata da Pino Donaggio, che fa un buon lavoro.

La storia è un tipico racconto gotico inglese. Coppia perde figlia, lei va in depressione, che supera quando una sensitiva (cieca) le dice di aver "visto" la piccola e che sta bene. Lui non apprezza, in quanto ritiene che siano tutte fole solo che, colmo dell'ironia, si scopre che anche lui ha dei poteri da veggente. Non riesce a sfruttarli e mal gliene incoglie. A mio giudizio l'impalacatura della Du Maurier regge con una certa difficoltà, anche a voler accettare il presupposto parapsicologico, e questo indebolisce la trama. Facendo un paragone con una scena, il film rischia di cadere rovinosamente, e si salva solo con il contributo delle maestranze.

Tra i punti forti c'è certamente la scena di sesso tra i protagonisti, diventata mitica sia per quanto fosse esplicita sia per lo spiazzamento temporale indotto inframmezzando l'azione con attimi provenienti dalla scena successiva in cui i protagonisti si preparano per uscire.

Già in apertura abbiamo assistito a un montaggio alternato tra la scena in cui i due protagonisti erano placidamente in casa e quella in cui i figli giocavano all'esterno. Qui lo spezzamento dell'azione serve a far crescere la tensione - e ci riesce benissimo. Nella scena di sesso, invece, crea uno strano effetto straniante, quasi che il tempo non fluisca più in modo continuo. Più classico l'uso del montaggio alternato nel finale, ma anche lì molto efficace.

Metropolis

Visto nell'edizione da due ore, come da restauro del 2002, in attesa di vedermi quella del 2010 che ha una ventina di minuti in più. La versione originale del ventisette, tre ore e mezza di film, si stima che sia persa per sempre.

Nel 1984 è uscita la versione di Giorgio Moroder che è lunga meno di un'ora e mezza ma era quanto di meglio si riusciva a trovare ai tempi. I tagli di questa versione sono tali da rendere la storia a tratti indecifrabile, nonostante questo resta un capolavoro, sia per l'immaginario visualizzato sia per le doti registiche di Fritz Lang che sopravvivono alle amputazioni. Notevoli anche alcuni momenti del montaggio, roba da far perdere la testa. Pure la colonna sonora, progettata da Moroder che si è avvalso della collaborazione, fra gli altri, anche di Freddy Mercury, è a suo modo interessante. Molto anni ottanta, ma non disprezzabile, dopotutto.

La cosiddetta edizione del 75° è però decisamente meglio. La sceneggiatura diventa decisamente più comprensibile, anche se ogni tanto spunta un cartello che dice cose tipo "A questo punto dovrebbe apparire un predicatore che fa un sermone sull'imminente fine del mondo - ma non abbiamo nemmeno un fotogramma da farvi vedere" e, purtroppo, ci si rende conto che Thea von Harbou che ha scritto la sceneggiatura assieme a Lang, traendola da un suo romanzetto uscito un paio di anni prima, avrebbe potuto far meglio.

Impossibile riassumere la storia, complicatissima, ambientata in un futuro in cui la società si è polarizzata in una piccola casta di privilegiati estremamente ricchi, e una grande maggioranza di lavoratori ipersfruttati. L'impostazione sociopolitica è curata poco e male ma, come dire, non è questo il punto. A Lang l'idea del film era venuta vedendo New York by night in una sua trasferta americana, e l'aspetto che trovava attraente nella storia era l'uso di un automa e delle macchine in genere.

Consiglio, se possibile, di vedere prima la versione Moroder e poi una tra quelle completa, perché le sorprese che si avranno valgono davvero la pena. Oltre all'apparire di scene mancanti c'è il bonus della colonna sonora che viene eseguita sulla base della partitura originale. Davvero bella, capace di dare significato ed emozioni.

A mio parere si tratta di un film imperdibile per chiunque, data la sua immensa ricchezza espressiva, ma soprattutto per gli appassionati della fantascienza che potranno sorprendersi nello scoprire in un film del '27 molti dei temi (non solo testuali - nella colonna sonora m'è sembrato di percepire a un certo punto quello che in Star Wars sarà il tema di Darth Vader), delle immagini e delle atmosfere che saranno poi riprese dalla cinematografia del genere nel secolo successivo.

Il primo dei bugiardi

Simpatica commedia ambientata in un mondo parallelo in cui all'uomo non è data la possibilità di mentire. Il risultato decisamente inferiore alle aspettative negli USA, e probabilmente anche il tema trattato, ha fatto sì che la distribuzione italiana abbia saltato del tutto il passaggio nelle sale.

Scritto, diretto, interpretato da Ricky Gervais (mente di The Office) assieme a Matthew Robinson, manca forse di esperienza nei tempi cinematografici, dato il background televisivo. Sorprendente il cast, che impiega in piccoli ruoli Tina Fey (Liz Lemon in 30 Rock - qui geniale nei panni della segretaria di Gervais), Edward Norton, poliziotto corruttibile ma ad alto prezzo, e Philip Seymour Hoffman.

In realtà, a me sembra che The Invention of Lying sia solo una scusa per dare una patina comica ad un tema ben più profondo. Quello che il protagonista scopre davvero è l'empatia. Infatti vediamo che, dopo aver usato la sua capacità per far sesso (con esiti disastrosi) e far soldi, finisce per usare il suo superpotere per aiutare la madre ad affrontare la morte - creando come effetto collaterale la prima religione di quel mondo.

The social network

Sceneggiatura così fitta di dialoghi che per un attimo ho pensato fosse stata scritta da francesi. Però il tema è quello del successo, valutato in milioni (anzi miliardi) di dollari, e quindi torniamo rapidamente negli USA.

Buona la regia, David Fincher non è certo l'ultimo arrivato, e abbastanza piacevole la colonna sonora, ma senza eccessi.

Come credo tutti sappiano, si tratta di una versione romanzata della nascita di Facebook, con i vari problemi legali collegati. In pratica una scusa per ripetere lo stereotipo del nerd di successo che fa una montagna di soldi ma non sa che farsene. In questo caso il nerd è Mark Zuckerberg, interpretato da un Jesse Eisenberg che fa di tutto per farlo apparire un "ass hole", vero o presunto, a seconda dei vari punti di vista espressi nel film. Non conosco l'attore e perciò non posso esprimermi se il risultato sia dovuto ad un buon lavoro sul personaggio che gli hanno dato da interpretare, o se è proprio lui che è così. Fatto è che la storia si risolve in uno spettegolamento sulla sua vita, con alcuni fatti inventati di sana pianta (l'inesistente fidanzata che lo molla ancor prima che appaiano i titoli di testa e che cercherà di ricontattare all'arrivo dei titoli di coda), altri riarrangiati per rendere la storia più adatta allo schermo. Non capisco come mai sia piaciuto così tanto un film del genere, a me a causato solo un blando disinteresse.

Tra le cose più divertenti, la partecipazione di Max Minghella, figlio di Anthony, nei panni di un indiano (dell'India). Vabbè che ha tratti somatici un po' inusuali per un europeo (grazie alla madre) ma di indiano ha davvero poco.

Tra le letture alternative che mi sono cercato per non assopirmi durante le due frenetiche ore di azione, la più bizzara è quella in chiave di sceneggiata. "Isso" è Eduardo Saverin, interpretato da Andrew Garfield, amico di Zuckerberg ("Issa") che lo molla per "'o malamente", ovvero Justin Timberlake che interpreta Sean Parker, fondatore di Napster dalla vita dissoluta. Mal gliene incoglie a "Issa", e quando se ne accorge è troppo tardi, resterà senza il suo unico vero amico ("Isso") e si dovrà consolare con qualche miliardo di dollari che, giusta punizione, gli risultano del tutto privi di utilità.

Troy

Banalizzazione dell'Iliade a opera del solito regista europeo che sarebbe pure capace, ma finisce per fare giocattoloni holliwoodiani. In questo caso si tratta di Wolfgang Petersen, la cui cosa migliore credo sia stata U-Boot 96, ma è riuscito pure a fare cose egregie in USA, ovvero La tempesta perfetta.

Budget faraonico, cast impressionante con Brad Pitt - Achille, Orlando Bloom - Paride (interpretato come se fosse un Legolas mitologico), Eric Bana - Ettore, e soprattutto Peter O'Toole - Priamo.

Vien da chiedersi come mai questa volta la distribuzione abbia deciso di tenere il titolo originale.

Sin city

Non m'è piaciuto per niente. Non ho niente in contrario con la trasposizione di fumetti in pellicola, a patto che si usi il mezzo per le potenzialità che ha, e non lo si pieghi a quello che era il format originale. Nel caso di Sin city ho avuto la sensazione di leggermi un fumetto.

Aggiungendo il fatto che non sono particolarmente affascinato dalla vena iperviolenta di una certa fumettistica americana, si ottiene il risultato (per me) negativo ottenuto.

La regia è da dividersi tra Robert Rodriguez (di cui ho amato El mariachi, apprezzato con riserva Desperado, e poi rassegnatomi a considerarlo perso), Frank Miller (autore della serie a fumetti) e Quentin Tarantino, che risulta come special guest director.

Ritorno al futuro parte III

Episodio conclusivo della serie, nonostante che il finale sia aperto come a minacciare un possibile episodio numero quattro. Meglio della parte due, ma peggio della uno.

Ambientato quasi completamente nel 1885, ha dalla sua la partecipazione dei ZZ Top e numerose citazioni dei film di Sergio Leone - non per nulla Fox si fa chiamare Clint Eastwood.

Ritorno al futuro parte II

Evitabile. La parte ambientata nel futuro (2015) è decisamente la peggiore di tutta la trilogia. Il film si salva grazie al fatto che i due viaggiatori del tempo Michael J. Fox e Christopher Lloyd devono tornare nel passato (1955) a causa di un impiccio sorto nel futuro.

Inizia esattamente dove finiva la prima parte ed è praticamente un tutt'uno con la terza parte che, del resto, fu pensata e girata assieme a questo episodio.

Ritorno al futuro

Tipica commedia spensierata anni ottanta per teen ager, mescolata ad una improbabile trama pesudofantascientifica con viaggi nel tempo.

Detto così non sembra un granché, ma la eccellente produzione (Steven Spielberg - sua l'idea di usare come macchina del tempo un'automobile e non un frigorifero, come prevedeva inizialmente la sceneggiatura), gli effetti speciali dell'Industrial Light and Magic di George Lucas, la buona regia (Robert Zemeckis), la divertente sceneggiatura, la piacevole colonna sonora (Alan Silvestri, più una serie di canzoni tra cui spiccano i brani di Huey Lewis and the News) fanno dimenticare i lati deboli e ci lasciano un paio d'ore di divertimento.

Soprattutto i personaggi secondari risultano poco più che abbozzati, e anche i protagonisti, Christopher Lloyd nei panni dello scienziato pazzo e Michael J.Fox in quelli del ragazzino coinvolto suo malgrado nell'avventura, mi sembrano più simpatici che realmente interessanti.

La strada

Un capolavoro.

In bilico tra neorealismo e la fuga dalle realtà, Federico Fellini narra la tragica storia di Zampanò (un ottimo Anthony Quinn doppiato egregiamente da Arnoldo Foà), un miserabile artista di strada che letteralmente compra, per diecimila lire e un po' di cibo, Gelsomina (Giulietta Masina - strepitosa), sorella un po' strana della sua precedente assistente, morta in circostanze non chiarite prima dell'inizio del film, perché lo aiuti nel suo lavoro. Gelsomina si rivela essere un disastro ma, in un qualche modo che nessuno dei due riesce a confessare nemmeno a sé stesso, nasce uno strano amore fatto di scontrosità e incomprensioni.

Un terzo incomodo, un equilibrista detto il matto (Richard Basehart), si inserisce nella vicenda, scatenando le ire di Zampanò, che viene deriso per la sua pochezza, e facendo scoprire a Gelsomina che è ben più del nulla che lei pensa di essere.

Zampanò si vendica degli scherzi subiti a cazzotti ma, tragicamente, il matto muore, fatto che porta Gelsomina alla follia. Zampanò, spaventato, la abbandona lasciandole un po' di soldi e la tromba.

Nel finale ritroviamo Zampanò alcuni anni dopo, ormai ridotto all'ombra di sé stesso. Sente una donna cantare il motivo (di una triste bellezza da straziare il cuore - opera di Nino Rota, come tutta la colonna sonora) che Gelsomina aveva inventato e suonava continuamente. Gli viene spiegato che Gelsomina, ormai completamente folle, era morta lì.

Solo in quel momento, forse, Zampanò riesce finalmente a capire quanto amava Gelsomina.

Blade runner

Meglio vederlo nella versione 1992 (director's cut) o 2007 (final cut), buona anche la versione 1982 internazionale. Conviene invece evitare accuratamente la versione originale 1982 per il mercato americano, tagliata e "addomesticata" oltre ogni ragionevole limite. Il che ha portato, fra l'altro, ad un mediocre risultato commerciale per quello che nel corso degli anni si è dimostrato essere uno dei più importanti titoli del genere.

Basato su Do androids dream of electric sheep? di Philip K. Dick e sviluppato in modo originale, anche se sempre nel solco delle tematiche tipiche di Dick, racconta la storia di un gruppo di androidi (o replicanti) che, presa coscienza del loro essere, si ribellano al loro creatore, contestando il fatto che debbano morire. La narrazione viene fatta dal punto di vista di un bladerunner (soprannome affibbiato ai cacciatori di androidi) a cui è stato affibiato il compitoro di ritirarli (eufemismo per eliminarli).

Primo film americano di Ridley Scott (Alien è stato girato in UK), ha per protagonista Harrison Ford a suo agio nei panni del bladerunner, in quanto gli riesce bene interpetare quello che non capisce bene quello che accade. Memorabile l'interpretazione di Rutger Hauer nei panni del capo dei replicanti alla ricerca della impossibile salvezza; stracitate, solitamente a sproposito, le sue battute finali (Ho visto cose che voi umani ...).

Nella versione originale è appena accennato il sospetto che Ford sia in anch'egli un replicante ma che gliene manchi la consapevolezza, cosa che invece risulta quasi esplicita nel 1992, grazie ad aggiunte piccole ma molto significative.

Interessante la citazione, prettamente visuale, a Metropolis di Fritz Lang.

Matrimoni e altri disastri

Se non fosse per la protagonista, Margherita Buy, tra i disastri del titolo andrebbe elencato anche il film stesso. La storia è quella di una splendida cinquantenne (la Buy oltre ad essere splendida di per sé, è anche più giovane del suo personaggio) dalla vita affettiva travagliata che dalla forzata vicinanza con il futuro cognato (Fabio Volo che, al contrario della Buy, interpreta un personaggio che dovrebbe essere una decina di anni più giovane di lui - e, sempre al contrario della Buy, con ben poca forza) riesce a trarre gli stimoli per un cambiamento.

Dovrebbe essere una commedia brillante, ma le scene effettivamente all'altezza della situazione non sono molte.