Alec Guinness, dopo essersi creato una solidissima reputazione teatrale, ha fatto un debutto cinematografico di quelli che spaccano in un paio di film dickensiani (*) adattati e diretti da David Lean. E' diventato poi una star di riferimento nelle cosiddette Ealing Comedies che hanno spopolato in Gran Bretagna per un decennio nell'immediato dopoguerra. Dopo il tour de force di Sangue blu (**), in cui interpreta addirittura otto ruoli, l'intera famiglia D'Ascoyne, è il protagonista di due titoli che escono nel medesimo anno, uno è questo, l'altro è L'incredibile avventura di Mr. Holland.
Il team creativo è nelle mani di due estrosi cugini, Alexander Mackendrick (***), sua la regia, e Roger MacDougall. I due, pur segnando notevoli successi commerciali, sono degli oggetti non identificati del panorama cinematografico del periodo, da cui finiranno entrambi per allontanarsi non riuscendone a sopportare l'impostazione industriale. Questo film rende bene conto del loro lavoro. Lo si può guardare come se fosse una semplice commedia paradossale, farsi quattro risate e archiviarlo in un cantuccio della memoria. Oppure si può dedicargli una maggiore attenzione, e leggerlo come una tagliente parabola sul nostro mondo produttivo, da cui nessuno esce bene.
Si narra infatti la storia di Sidney Stratton (Guinness), un tipico scienziato con la testa tra le nuvole che ha un sogno, realizzare una nuova fibra indistruttibile e che respinga lo sporco. Tutti lo prendono per matto finché non incontra un paio di donne che credono in lui, una operaia, Bertha (Vida Hope), e la figlia di un magnate dell'industria tessile, Daphne (Joan Greenwood). Quando finalmente sembra riuscire nel suo intento, scopre che in realtà nessuno vuole che la sua invenzione venga prodotta. Il nostro ciclo produttivo è pensato per incentivare il consumo, e il suo abito indistruttibile non piace agli industriali, agli operai, e nemmeno alle lavandaie.
(*) Grandi speranze del 1946 e Oliver Twist del 1948.
(**) Film su cui è stato modellato Totò diabolicus di dieci anni dopo.
(***) Pochi anni dopo Mackendrick dirigerà nuovamente Guinness in Ladykillers.
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L'incredibile avventura di Mr. Holland
Chissà se Age e Scarpelli si sono ispirati intenzionalmente a questo film per il loro La banda degli onesti (*), o è lo spirito dei tempi che a quei tempi soffiava nella direzione di storie in cui gente tranquilla si metteva nei pasticci per rincorrere un sogno di ricchezza che poi, a ben vedere, non gli apparteneva nemmeno. Di sicuro Charles Crichton ha ampiamente citato questa pellicola nel suo ultimo lavoro, Un pesce di nome Wanda.
Mr. Holland (Alec Guinness), è in un ristorante di Rio de Janeiro e, mentre inizia a raccontare la sua storia ad un altro inglese, regala mazzi di soldi a conoscenti passano di lì (**). Inizia così un lungo flashback, in cui ci viene spiegato che ha lavorato per tutta la vita per la Banca d'Inghilterra, e il suo compito principale era quello di sovraintendere al trasporto di lingotti d'oro dalla zecca alla banca. Nel corso degli anni ha maturato l'idea di un piano perfetto per rubare un carico e farla franca, gli mancano solo alcuni dettagli, come fare ad esportare l'oro, che in patria non sarebbe commerciabile, e come reclutare la manovalanza per il colpo.
Per sua dubbia fortuna conosce Pendlebury (Stanley Holloway), artista nell'animo, ma che campa commerciando orribili souvenir, e pensa di trasformare l'oro in piccole repliche della Tour Eiffel, spedirle a Parigi, e lì piazzarle sul mercato nero. Con un assurdo stratagemma, i due attirano due piccoli criminali nella loro banda, e preparano il colpo. Che, nonostante una serie di contrattempi, riesce.
Ma negli anni cinquanta il crimine al cinema non pagava, e così quella che sembrava la parte più semplice del piano, si rivelerà essere irta di difficoltà.
(*) Il titolo originale, The Lavender Hill mob, fa pensare proprio ad una banda di onesti, basati come sono in un tranquillo quartiere londinese.
(**) Tra gli altri, anche una leggiadra fanciulla riceve un bel malloppo, tale Chiquita, interpretata da niente meno che Audrey Hepburn ad inizio carriera. Una sola battuta per lei, ma riesce ad essere memorabile anche solo così.
Mr. Holland (Alec Guinness), è in un ristorante di Rio de Janeiro e, mentre inizia a raccontare la sua storia ad un altro inglese, regala mazzi di soldi a conoscenti passano di lì (**). Inizia così un lungo flashback, in cui ci viene spiegato che ha lavorato per tutta la vita per la Banca d'Inghilterra, e il suo compito principale era quello di sovraintendere al trasporto di lingotti d'oro dalla zecca alla banca. Nel corso degli anni ha maturato l'idea di un piano perfetto per rubare un carico e farla franca, gli mancano solo alcuni dettagli, come fare ad esportare l'oro, che in patria non sarebbe commerciabile, e come reclutare la manovalanza per il colpo.
Per sua dubbia fortuna conosce Pendlebury (Stanley Holloway), artista nell'animo, ma che campa commerciando orribili souvenir, e pensa di trasformare l'oro in piccole repliche della Tour Eiffel, spedirle a Parigi, e lì piazzarle sul mercato nero. Con un assurdo stratagemma, i due attirano due piccoli criminali nella loro banda, e preparano il colpo. Che, nonostante una serie di contrattempi, riesce.
Ma negli anni cinquanta il crimine al cinema non pagava, e così quella che sembrava la parte più semplice del piano, si rivelerà essere irta di difficoltà.
(*) Il titolo originale, The Lavender Hill mob, fa pensare proprio ad una banda di onesti, basati come sono in un tranquillo quartiere londinese.
(**) Tra gli altri, anche una leggiadra fanciulla riceve un bel malloppo, tale Chiquita, interpretata da niente meno che Audrey Hepburn ad inizio carriera. Una sola battuta per lei, ma riesce ad essere memorabile anche solo così.
L'asso nella manica
Mezzo secolo ma non lo dimostra. Prodotto, co-scritto e diretto, con una asciuttezza da manuale, da Billy Wilder, narra di Chuck, un giornalista (Kirk Douglas, in una delle sue molte eccellenti interpretazioni) di belle speranze ma scarsi risultati.
Se non fosse che i titoli di testa corrano su una musica dalle tonalità decisamente drammatiche, le prime scene farebbero pensare che si tratti di una commedia. Chuck fa il suo trionfale ingresso ad Albuquerque, New Mexico su un'auto guasta trainata dal carro attrezzi. Si fa scaricare al giornale di città, e racconta la sua storia al direttore. È un newyorkese che ha lavorato in tutte le principali metropoli dell'Est. Scacciato per il suo comportamento dissoluto, cerca l'occasione giusta per tornare in pista. Nella sede di quel giornale fanno bella mostra di sé copie di un quadretto all'uncinetto che avvertono "Dì la verità", ma non sembra che su di lui abbiano un gran effetto.
Purtroppo per Chuck, Albuquerque non è città che offre molte possibilità di farsi notare per un giornalista, e quello che nelle sue idee avrebbe dovuto essere una breve parentesi nella sua carriera si protrae per un anno intero. Finché un giorno si imbatte nel curioso caso di un disgraziato che, cercando argento nelle viscere di una montagna sacra agli indiani, dal nome evocativo di Sette Avvoltoi, finisce mezzo schiacciato da una trave. Sarebbe relativamente semplice tirarlo fuori, ma così non farebbe abbastanza notizia. E, anche se Chuck afferma di non far succedere cose, ma solo di scriverne, finisce per aggiustare la realtà in modo che si adatti a quelli che sono i suoi interessi.
Del resto vediamo che non è solo lui a preferire che le cose vadano per le lunghe. Alla moglie del povero diavolo (Jan Sterling) poco importa della salute del marito, e visto che hanno un piccolo ristorante con stazione di servizio, usa la tragedia per fare soldi sui curiosi che vengono a sbirciare. Lo sceriffo locale approfitta della vicenda per farsi pubblicità, in vista delle prossime elezioni. La stampa monta il caso e si costruisce una sorta di disneyland attorno alle operazioni di soccorso.
C'è qualche piccolo segnale di resistenza a questo squallore, ma è davvero poca roba. Solo nel finale Chuck si rende conto di aver sbagliato tutto nella sua vita, aver voluto correre ma senza chiedersi in che direzione stava andando (come gli fa notare il direttore del giornale locale). Non c'è un vero e proprio lieto fine, se non questa presa di coscienza.
Se non fosse che i titoli di testa corrano su una musica dalle tonalità decisamente drammatiche, le prime scene farebbero pensare che si tratti di una commedia. Chuck fa il suo trionfale ingresso ad Albuquerque, New Mexico su un'auto guasta trainata dal carro attrezzi. Si fa scaricare al giornale di città, e racconta la sua storia al direttore. È un newyorkese che ha lavorato in tutte le principali metropoli dell'Est. Scacciato per il suo comportamento dissoluto, cerca l'occasione giusta per tornare in pista. Nella sede di quel giornale fanno bella mostra di sé copie di un quadretto all'uncinetto che avvertono "Dì la verità", ma non sembra che su di lui abbiano un gran effetto.
Purtroppo per Chuck, Albuquerque non è città che offre molte possibilità di farsi notare per un giornalista, e quello che nelle sue idee avrebbe dovuto essere una breve parentesi nella sua carriera si protrae per un anno intero. Finché un giorno si imbatte nel curioso caso di un disgraziato che, cercando argento nelle viscere di una montagna sacra agli indiani, dal nome evocativo di Sette Avvoltoi, finisce mezzo schiacciato da una trave. Sarebbe relativamente semplice tirarlo fuori, ma così non farebbe abbastanza notizia. E, anche se Chuck afferma di non far succedere cose, ma solo di scriverne, finisce per aggiustare la realtà in modo che si adatti a quelli che sono i suoi interessi.
Del resto vediamo che non è solo lui a preferire che le cose vadano per le lunghe. Alla moglie del povero diavolo (Jan Sterling) poco importa della salute del marito, e visto che hanno un piccolo ristorante con stazione di servizio, usa la tragedia per fare soldi sui curiosi che vengono a sbirciare. Lo sceriffo locale approfitta della vicenda per farsi pubblicità, in vista delle prossime elezioni. La stampa monta il caso e si costruisce una sorta di disneyland attorno alle operazioni di soccorso.
C'è qualche piccolo segnale di resistenza a questo squallore, ma è davvero poca roba. Solo nel finale Chuck si rende conto di aver sbagliato tutto nella sua vita, aver voluto correre ma senza chiedersi in che direzione stava andando (come gli fa notare il direttore del giornale locale). Non c'è un vero e proprio lieto fine, se non questa presa di coscienza.
Delitto per delitto
Noto anche come L'altro uomo, visto su DVD bifaccia del Corriere. Su un lato la versione USA, sull'altra la versione UK, con qualche dettaglio che nella versione più conosciuta è stato tagliato ma senza il finale sdrammatizzante in cui, sul treno, il protagonista è con la sua bella ma vengono tampinati da un prete. Dopo quello che è successo appunto per un incontro fortuito sul treno, i due piccioncini preferiscono lasciare il vagone.
Regia di Alfred Hitchcock che fa buon uso della sceneggiatura di Raymond Chandler, a sua volta basata su un racconto di Patricia Highsmith. Conoscendo il titolo originale - Strangers on a train - si apprezza di più quello scelto da Danny De Vito per il suo scherzoso remake con Billy Crystal: Getta la mamma dal treno.
Un tale con un matrimonio fallito sulle spalle, ma con problemi nell'ottenere il divorzio, incontra in treno un ricco lunatico (ben interpretato da Robert Walker) che gli propone un piano diabolico che non può fallire: crisscross, si scambiano gli omicidi. Infatti lui si vuole liberare del padre, unico in famiglia che non sembra completamente fuori di testa, visto che anche la madre (una eccellente Marion Lorne, più nota come zia Clara nel telefilm Vita da strega) non ha tutte le rotelle a posto. Vaglielo a spiegare a uno svitato che il suo piano è una idiozia.
Alcuni elementi che parrebbero sbilanciare il racconto (ad es: un insegnante universitario in periodo sabbatico che si ubriaca al punto di non ricordarsi chi abbia visto o cosa abbia fatto la sera prima; un poliziotto che spara in un lunapark affollato ammazzando il manovratore di una giostra; un addetto che, con gran sprezzo del pericolo, tira una leva che causa la distruzione rovinosa della giostra stessa) gli danno invece un suo equilibrio peculiare, a ricordarci quanto la vita sia piena di assurdità.
Regia di Alfred Hitchcock che fa buon uso della sceneggiatura di Raymond Chandler, a sua volta basata su un racconto di Patricia Highsmith. Conoscendo il titolo originale - Strangers on a train - si apprezza di più quello scelto da Danny De Vito per il suo scherzoso remake con Billy Crystal: Getta la mamma dal treno.
Un tale con un matrimonio fallito sulle spalle, ma con problemi nell'ottenere il divorzio, incontra in treno un ricco lunatico (ben interpretato da Robert Walker) che gli propone un piano diabolico che non può fallire: crisscross, si scambiano gli omicidi. Infatti lui si vuole liberare del padre, unico in famiglia che non sembra completamente fuori di testa, visto che anche la madre (una eccellente Marion Lorne, più nota come zia Clara nel telefilm Vita da strega) non ha tutte le rotelle a posto. Vaglielo a spiegare a uno svitato che il suo piano è una idiozia.
Alcuni elementi che parrebbero sbilanciare il racconto (ad es: un insegnante universitario in periodo sabbatico che si ubriaca al punto di non ricordarsi chi abbia visto o cosa abbia fatto la sera prima; un poliziotto che spara in un lunapark affollato ammazzando il manovratore di una giostra; un addetto che, con gran sprezzo del pericolo, tira una leva che causa la distruzione rovinosa della giostra stessa) gli danno invece un suo equilibrio peculiare, a ricordarci quanto la vita sia piena di assurdità.
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