Come rubare un milione di dollari e vivere felici

Il cast è spettacolare, la storia un po' meno, e la regia, nonostante sia firmata da William Wyler, ancora meno. Una gentil fanciulla molto parigina, Nicole (Audrey Hepburn), ha un padre, Charles Bonnet (Hugh Griffith), che usa la sua facciata di collezionista d'arte per coprire la sua vera attività di falsario. Ha appena completato il suo ennesimo Van Gogh, e veniamo a sapere che ne ha piazziati già altri due. Nicole disapprova, ma non riesce a togliergli il vizietto.

Per mantenere il suo nome, Monsieur Bonnet, offre in prestito gratuito la sua Venere del Cellini al museo Kléber-Lafayette (*). Ovviamente è un falso, anche se non suo, bensì di suo padre. Bonnet pensa che il rischio sia limitato, visto che non sono in ballo soldi, ma si sbaglia, visto che la direzione assicura il pezzo, e questo comporta un test per verificarne l'autenticità.

Nel frattempo, ad un importante mercante d'arte (Charles Boyer), sono venuti dubbi sulla collezione Bonnet, e ha assunto Simon Dermott (Peter O'Toole) per verificare i suoi quadri. Simon dunque si introduce nella villa Bonnet per impossessarsi di un campione di vernice da analizzare. Si imbatte però in Nicole, si prende per lei subito una gran cotta e, non sapendo come giustificare la sua intrusione, si spaccia per un ladro. Nicole pensa che non sarebbe una buona idea farlo arrestare, sia perché ricambia l'interesse di lui, sia per non attirare troppa attenzione sul dipinto.

Altro polo della storia è Davis Leland (Eli Wallach), riccone americano, inizialmente interessato alla Venere, pensa di circuire Nicole perché lei convinca il padre a vendergliela ma poi, fondamentalmente per un equivoco, pensa di fare un'accoppiata, Venere più Nicole.

Avremmo dunque che Simon e Nicole dovranno rubare la Venere e trovare il modo di rimandare oltreoceano il terzo incomodo.

Gran parte del film si gioca sulla coppia Hepburn-O'Toole, poco lo spazio che resta a Wallach e agli altri. Stilosissima la Hepburn, che veste quasi tutto il tempo Givenchy (**), e riesce a far sembrare un gioiello anche la microbica Autobianchi Bianchina (***) su cui viaggia.

(*) In realtà trattasi del Carnavalet sotto mentite spoglie.
(**) Il punto chiave della storia è che Nicole per fare il colpo dovrà travestirsi da donna delle pulizie, ed è l'unica occasione in cui abbandona l'alta moda. Lei ovviamente chiede se è proprio necessario, e nell'occasione viene citata esplicitamente la maison.
(***) Ma attenzione, il ragionier Ugo Fantozzi viaggiava sulla versione berlina, e un decennio dopo che era uscita di produzione. Nicole ha una ben più sbarazzina cabriolet, e il film risale a quando era una automobile con un suo discreto fascino.

Poirot 1.10: Il sogno

L'insopportabile Benedict Farley (Alan Howard) è noto in tutto l'impero britannico per i suoi prodotti da forno che Hercule Poirot (David Suchet) considera, probabilmente a ragione, orrendi. Convinto di essere ancora nell'ottocento, come mostrano anche i suoi favoriti che sfoggia con orgoglio, maltratta sottoposti, autorità e anche la figlia, Joanna (Joely Richardson), contando sulla sua enorme ricchezza ed influenza per farla franca.

Inesplicabilmente un giorno Farley contatta Poirot e gli chiede un parere su un suo bizzarro sogno ricorrente, secondo il quale ad un ora ben precisa, poco dopo mezzogiorno, si suicida. Lascia intendere di temere di essere stato ipnotizzato da un misterioso nemico, a cui però non sa dare un nome, ma non permette a Poirot nemmeno di iniziare una investigazione degna di questo nome. Considerando l'antipatia del personaggio, Poirot è ben lieto di lasciar cadere la cosa.

Il giorno dopo l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) telefona a Poirot e gli comunica che Farley è stato trovato morto, in una situazione accuratamente compatibile a quella del sogno. Ovviamente Poirot capisce subito che c'è del marcio a casa Farley, e allarga la cerchia dei sospettati alla moglie del deceduto (Mary Tamm) e al suo segretario particolare, Hugo Cornworthy (Alan Howard). La soluzione è sorprendente sotto diversi punti di vista. In particolare per l'idiozia di chi ha concepito il piano diabolico, visto che ha tirato in ballo un noto investigatore senza che ce ne fosse alcun motivo.

A completare la storia ci sono alcuni quadretti comici, in particolare quello basato su Miss Lemon (Pauline Moran) e il suo disperato tentativo di farsi comprare una macchina per scrivere degna di questo nome dal suo distratto datore di lavoro.

La debolezza della storia è da imputare ad Agatha Christie, poco ha potuto fare qui la produzione per renderla meno implausibile. Però è apprezzabile lo sforzo profuso nel dare un contorno piacevole, con una bella ricostruzione di una fabbrica d'epoca, oltre al consueto sfoggio di belle auto (e questa volta anche un sidecar) del periodo.

Poirot 1.9: Il re di fiori

Un amico del capitano Hastings (Hugh Fraser) sta girando il suo primo film come regista in uno studio londinese, così si porta dietro Hercule Poirot (David Suchet) e va a vedere come si presenta il dorato mondo del cinema sul set. Scoprono così che a volte il regista conta poco, in particolare quando il produttore, in questo caso tal Henry Reedburn è un tipaccio che vuole avere l'ultima parola su tutto.

I due arrivano sul set giusto in tempo per vedere Reedburn maltrattare la prima donna, Valerie Saintclair (Niamh Cusack), e il coprotagonista maschile. A lei va relativamente bene, sia perché è un nome che attira spettatori, sia perché il viscido Reedburn ha su di lei mire di natura extra-professionale. Lui, invece, è una star del muto in declino, e si becca un licenziamento in tronco. A complicare le cose ci si mette pure un principe di Maurania che si vuole sposare la Saintclair, nonostante le titubanze della famiglia regnante.

La sera successiva, dopo che regista e produttore si rivedono i giornalieri (*), la Saintclair va a fare una visita notturna al Reedburn nella sua villa. La vediamo entrare, e poi uscire sconvolta. Il tipaccio è morto, e lei dice di averlo trovato così.

Questa volta abbiamo modo di seguire un bel pezzo dell'indagine dell'ispettore capo Japp (Philip Jackson) e, se non fosse per la mancanza di risultati, sarebbe già così un racconto piacevole. E' decisamente curioso vedere un poliziotto che dice pacatamente al maggiordomo (**), leggermente agitazione alla scoperta del fattaccio, che sarebbe meglio se non toccasse il cadavere.

Japp si dà un gran daffare, ma non si accorge di una serie di indizi molto importanti. Uno dei quali, tra l'altro, non viene mostrato nemmeno a noi, se non nello spiegone finale. Il che non è buona creanza nei confronti dello spettatore.

Invero, la storia resta insieme con una certa fatica, alcuni dettagli, tipo il fatto che i vicini di casa del Reedburn sia una famigliola, gli Oglander, che avrebbero buoni motivi per non abitare proprio lì, sono piuttosto difficili da digerire.

Fatto sta che Japp viene mandato ad indagare in un accampamento di "gipsy", seguendo una pista che si rivelerà completamente priva di riscontri, e Poirot, pur arrivando alla soluzione grazie anche ad aiutini nascosti da parte di Agatha Christie, finirà per non dire quello che sa alle autorità. Il che non è bello.

(*) E verrebbe da dar ragione a Reedburn, il film che stanno girando a sue spese è mal recitato. Ma non è solo un problema di attori, è proprio tutto il complesso che è riprovevole. Una storia di ambientazione arabeggiante, girata in studio con fondali (e sceneggiatura) di cartapesta.
(**) Spoiler: non è lui il colpevole.

Poirot 1.8: Il furto incredibile

Al momento, è l'episodio che mi è piaciuto di più. Forse perché è basato su un racconto di Agatha Christie più polposo e anomalo dei precedenti, ma anche per la produzione che ha sottolineato ancor più del solito il taglio umoristico con cui è narrata la vicenda (*).

I Mayfield sono una famiglia molto danarosa, non ci capisce bene se più per l'origine nobiliare di lei (che si fa chiamare lady) o se il lavoro di lui, che produce e vede armi senza andare molto per il sottile. Siamo ormai vicini allo scoppio della seconda guerra mondiale, e le industrie Mayfield hanno prodotto un bell'aereo da caccia a nome Kestrel (**) che sembra essere un degno avversario dell'omologo tedesco, il Messerschmitt Bf 109. Mayfield lo mostra in azione ad un pezzo grosso del governo britannico, sir Carrington, che però, nonostante gli eccellenti risultati e l'effettiva necessità di avere un tale aereo in dotazione della forza aerea di Sua Maestà, fa capire a Mayfield che difficilmente il governo gli darà i soldi necessari per completare il progetto, in quanto è caduto in disgrazia in seguito ad un poco chiaro affare di tempo prima. Pare infatti che Mayfield abbia venduto armamenti al Giappone nonostante l'embargo inglese decretato per la guerra in Manciuria.

Indispettito, Mayfield dice a Carrington che ha un piano per rivalutare il suo buon nome, attirerà in una trappola Mrs. Vanderlyn, una americana trasferitasi a Londra che ha evidenti simpatie filo-germaniche, in pratica sanno tutti che è una spia dei nazisti ma non sono mai riusciti a coglierla sul fatto. In una strana serata assistiamo dunque alla sparizione di un importante documento, che viene imputato alla Vanderlyn, ma questa sembra estranea ai fatti, eppure alla fine scopriamo che è effettivamente finito in suo possesso. Nonostante tutto ci sarà un inatteso lieto fine.

Ma cosa centra tutto questo con Hercule Poirot (David Suchet)? In realtà poco, la storia scorrerebbe benissimo anche senza di lui. Se non che lady Mayfield, preoccupata per la situazione, lo ha invitato alla serata, e così più che altro il detective è presente per registrare i fatti e darci alla fine una loro spiegazione.

L'alleggerimento comico è costituito da svariati elementi. Poirot incontra lady Mayfield allo zoo, al padiglione dei pinguini, e non sembra casuale l'accostamento tra il simpatico (non)volatile e il detective piuttosto pingue e molto attento al suo stile. Il capitano Hastings (Hugh Fraser), oltre ad avere gli ormai soliti problemi alla sua auto, proprio quando serve, deve anche condividere una stanza del pub vicino alla tenuta dei Mayfield con l'ispettore capo Japp (Philip Jackson), con gran suo dispiacere. Durante la serata, Poirot gioca a bridge in coppia con la terribile lady Carrington (***), i due perdono miseramente, la lady accusa velatamente, ma non troppo, Poirot di essere il lato debole della coppia e lui si trattiene con visibile gran fatica dal risponderle per le rime. E come se non bastasse sir Carrington lo chiama "Froggy", insultandolo doppiamente, rimarcando le sue origini non inglesi e scambiandolo per francese.

Da notare anche la colonna sonora, firmata come sempre da Christopher Gunning. Come sempre piacevole ma più ricca del solito.

(*) Ci sono alcune variazioni rispetto allo scritto originale, ma tutto sommato lo spirito viene mantenuto.
(**) Interpretato da un Supermarine Spitfire, in una versione che a occhio mi è sembrata più recente di quelli che sono fatti narrati. Comunque è un belvedere.
(***) Parte piccola, ma interpretata con molto gusto da Phyllida Law, madre di Emma Thompson.

Youth - La giovinezza

In fin dei conti questo film di Paolo Sorrentino non è altro che il resoconto della vacanza di due vecchi amici. Le cose si complicano dato il carattere dei due amici, il posto dove stanno, e la serie di fatti che succedono.

Fred Ballinger (Michael Caine) è un famoso musicista, che da anni ormai si considera in pensione, si è fatto prendere da una lieve depressione e ha perso interesse alle cose del mondo. Al punto che nemmeno la nomina a baronetto inglese gli riesce a far sollevare un sopracciglio.

Mick Boyle (Harvey Keitel) è un altrettanto famoso film maker, sta lavorando alla sceneggiatura dal suo ultimo film che vorrebbe sia una specie di ultima zampata del vecchio leone.

I due hanno caratteri molto diversi, Fred è tutto testa, ha un gran bisogno di tener tutto sotto controllo, al punto che si immagina di dirigere mucche al pascolo e l'intera natura circostante per far sì che generi una specie di composizione pastorale. Mick si lascia guidare dai sentimenti, ma ne ha pure paura, limitandosi a guardarli dall'esterno, preferendo narrarli piuttosto che viverli.

Le loro differenze non ostacolano la loro amicizia, al contrario, i due si integrano a meraviglia, arrivando alle stesse conclusioni pur arrivando da presupposti diversi. Succede così che, senza saperlo, finiscono anche per dare la stessa risposta ad una domanda che viene posta ad entrambi in circostanze diverse.

Tra l'altro Fred ha una figlia, Lena (Rachel Weisz), sposata al figlio di Mick, Julian (Ed Stoppard). Tra i due però si mette la pop star Paloma Faith (se stessa), che spacca la coppia e dà modo a Sorrentino di piazzare nel film un divertente videoclip ipercinetico e molto trash. Ma neanche questa crisi incrina l'amicizia tra Fred e Mick.

Tutto ciò, e molto altro, avviene in un albergo svizzero, lo Schatzalp a Davos, che poi sarebbe quello che, quando era un sanatorio di lusso, era stato usato da Thomas Mann per ambientarci La montagna incantata. A ben vedere il romanzo fornisce riferimento per la sceneggiatura, anche se mi sembra piuttosto lontano. Più che altro il suo scopo è quello di permettere a Sorrentino di raccogliere in uno spazio limitato un campione di varia umanità, e lasciare che costoro interagiscano guidando lo spettatore nella direzione voluta. O facendo sì che si perda in questa moderna babele. A seconda di quello che uno preferisce.

Tra gli ospiti dell'albergo c'è anche Jimmy Tree (Paul Dano), attore californiano che si sta preparando ad una parte difficile, e che alla fine scoprirà che forse non ha mica tanta voglia di recitare quel ruolo. Jimmy è angustiato dal fatto che tutti lo ricordano per aver interpretato un robottone (*) e questo lo rende acido nei confronti di chiunque lo avvicina. Ma anche lui, un po' come tutti in questo film, avrà modo di essere sorpreso da una ragazzina, che invece ama un suo film indipendente misconosciuto, e gli ricorda una sua battuta. Forse Jimmy se l'era dimenticata, o non gli aveva dato troppo peso. Risentirla deve avergli fatto bene.

In una piccola parte c'è anche Jane Fonda, Brenda Morel, attrice a suo tempo lanciata da Mick, e che lui vorrebbe fosse nel suo ultimo film.

Anche qui, come ne La grande bellezza, non si scappa dal confronto con Federico Fellini, richiamato da alcuni personaggi eccessivi, come lo strabordante pseudo-Maradona, o da alcune situazioni oniriche, come quando a Mick appaiono contemporaneamente tutte le protagoniste dei suoi film. Ma anche qui sono vicinanze solo stilistiche, la sostanza del racconto va verso altre direzioni.

(*) Un po' lo stesso problema di Michael Keaton nella realtà e in Birdman.

Poirot 1.7: Un problema in alto mare

Continuano le vacanze di Hercule Poirot (David Suchet). Lasciata Rodi, si è imbarcato assieme al capitano Hastings (Hugh Fraser) su di una relativamente piccola nave da crociera che vaga nel Mediterraneo col suo carico di turisti inglesi. Tra questi spicca per la sua antipatia Mrs Clapperton (Sheila Allen) che maltratta chiunque, a partire dal marito, mettendo una seria ipoteca sul ruolo della vittima predestinata.

E in effetti, quando fanno tappa ad Alessandria d'Egitto, la Clapperton viene trovata nella sua cabina con un coltello piantato in petto. La sua prematura scomparsa non genera gran scandalo, dato il suo pessimo carattere, se non in una giovin donna particolarmente sensibile. Per gli altri, come da titolo, è solo un "problema" che si vorrebbe risolvere senza nemmeno informare le autorità locali, per evitare eccessive seccature.

Naturalmente ci pensarà Poirot a trovare il colpevole. Anche se il metodo utilizzato è così poco ortodosso che credo che un qualunque avvocato sarà riuscito ad evitare la condanna all'assassino.

Poirot 1.6: Triangolo a Rodi

Tratto dall'omonimo racconto breve di Agatha Christie, che la stessa riutilizzerà come base per il successivo e più complesso Delitto sotto il sole.

Poirot (David Suchet) ha abbandonato Londra e il suo team per passare qualche tempo a Rodi, come semplice vacanziero. Sa il cielo perché mai ha scelto quell'isola remota Dodecaneso, ai tempi parte del Regno di Italia. Fa amicizia con una petulante turista inglese e assieme seguono lo sviluppo di un caso che sembra da cronaca rosa. Una nota bellezza inglese, recentemente sposatasi per la quinta volta, Valentine Chantry, giunge nel loro albergo. Un altro turista inglese, sposato ad una meno avvenente signora, le ronza attorno. Il marito non sembra per niente contento.

L'astuto spettatore, rimuginando su brani di conversazione che Poirot ascolta o ammannisce, potrebbe subdorare che le cose non stanno proprio così come sembrano. Basta comunque lasciare svolgere il caso, che consiste nella morte di Valentine per avvelenamento, e lasciarsi spiegare dall'investigatore la soluzione. Anche se, a dire il vero, zoppica un po'. Ci sono infatti alcuni dettagli secondari che non quadrano, gli innocenti si comportano a tratti da colpevoli, e i colpevoli o da stupidi o da innocenti. Ma fa parte delle regole del gioco.

Data la location, a fare le parti del poliziotto che non ci azzecca è chiamato un italiano, che però è interpretato da un inglese, come non italiani mi sembrano essere tutti quanti i personaggi che dovrebbero esserlo. Meglio va per i locali, che almeno mi pare parlino un buon greco.

Calvario

Una molto movimentata settimana di un parroco di campagna irlandese, padre James (Brendan Gleeson). Prima ancora dei titoli di testa c'è un breve prologo che inquadra la vicenda, un tale entra nel confessionale, spiega a padre James quanto la sua vita sia stata rovinata da una lunga serie di violenze perpetrate su di lui da un altro prete cattolico, che nel frattempo è pacificamente morto per conto suo. Ha deciso che non riesce più a tenersi dentro questo gran dolore e vuole liberarsene uccidendo un prete. Un buon prete innocente. Padre James. Ma non subito, gli lascia una settimana per mettere a posto le sue cose.

L'idea del film è venuta a John Michael McDonagh (fratellone di Martin) mentre stava girando Un poliziotto da happy hour, sempre con Gleeson protagonista. Là i toni erano meno tragici, ma comunque si mantiene la stessa impostazione, comune del resto ai fratelli McDonagh, che non disdegna il ricorso all'umorismo più nero per alleggerire la narrazione. Altro tratto comune, è quello dei meta riferimenti che i personaggi fanno sul recitare. Vedasi 7 psicopatici dove il protagonista sta scrivendo la sceneggiatura del film che stiamo vedendo. Qui capita invece che i personaggi si possano lamentare che il ruolo non gli permetta di avere battute succose.

Volendo, lo si può vedere come una curiosa variante del classico giallo investigativo inglese. Qui però non c'è investigazione, la vittima sa chi è il suo potenziale assassino, siamo noi che possiamo divertici nel cercare di identificarlo mentre nel corso della settimana padre James ha a che fare con il suo composito gregge.

Ovviamente la parrocchia di padre James è metaforica, e dunque ci troviamo ad avere a che fare con una parata di personaggi estremi, a partire da Jack (Chris O'Dowd), macellaio del paese, infelicemente sposato con Veronica (Orla O'Rourke), traditrice seriale con una dipendenza da sesso estremo e droghe varie. Tra i suoi frequentatori ci sono il meccanico Simon (Isaach De Bankolé), che forse la tratta rudemente, e Mike (Aidan Gillen), medico locale ateo, cinico, estremamente anticlericale, che le gira cocaina. Altri personaggi interessanti sono Michael Fitzgerald (Dylan Moran), arricchitosi enormemente con la bolla speculativa, ma che ora non sa che farsene dei soldi e della sua vita, e uno scrittore americano (M. Emmet Walsh) più di là che di qua, che vorrebbe che padre James gli fornisse una pistola, così da potersi togliere la vita prima di finire in uno stato miserevole.

A complicare ulteriormente la faccenda, c'è anche il fatto che James ha preso gli ordini in tarda età, in seguito alla crisi dovuta alla morte della moglie. E dunque ha una problematica figlia, Fiona (Kelly Reilly), che passerà a trovarlo proprio in questi decisivi giorni.

Il tema dominante degli scambi tra padre James e la dolente umanità che ha attorno sembra essere quello del peccato, ma in una battuta quando ormai ci stiamo avviando al finale, ci viene fatto notare come si parli fin troppo di peccati e si trascurino le virtù, e in particolare, quella del perdono.

La bella colonna sonora è firmata da Patrick Cassidy.

Poirot 1.5: L'appartamento al terzo piano

Se nel precedente episodio della serie avevo percepito un sottile malcontento della produzione nella struttura classica del giallo di inizio novecento, qui si assiste ad una esplicita rivolta, con il racconto originale di Agatha Christie che viene esteso con un antefatto in cui ci si fa beffe dell'introduzione all'ultimo minuto di personaggi e fatti che portano a soluzioni a sorpresa.

Succede infatti che Hercule Poirot (David Suchet) ha un malanno immaginario, che scopriremo dovuto semplicemente dall'assenza di casi da svolgere. Il buon capitano Hastings lo invita a teatro, a vedere un whodunnit alla moda, scommettendo con lui che non sarebbe riuscito ad identificare il colpevole. Alla fine del primo atto, Poirot emette il suo responso: è stato il maggiordomo! Negli ultimi minuti del secondo atto l'astuto investigatore sul palco scopre carte che erano rimaste nascoste e si arriva ad una soluzione completamente diversa. Con gran disdoro del nostro belgioso, che arriva a dare dell'imbecille a chi ha scritto la pièce.

Tornati a casa vediamo la vicina del piano di sotto, una succulenta giovinetta per la quale Poirot mostra di avere un certo interesse, anche se puramente estetico, scoprire assieme a suoi tre amici che la nuova occupante del terzo piano è stata uccisa a pistolettate. Arriva l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) che giunge alla conclusione sbagliata. Poirot arriverà a quella giusta, in un modo che però ricorda molto quella che abbiamo visto nella prima parte.

Nota a latere su Hastings, che mette da parte il suo temporaneo interesse per il cricket per tornare a stimare le automobili, seppure senza gli eccessi che avevamo visto in A mezzogiorno in punto.

Poirot 1.4: La torta di more

Mi sembra quasi che si sia deciso di affrontare questo racconto di Agatha Christie secondo una prospettiva quasi "alla Colombo" per evitare che lo spettatore si sentisse preso in giro dall'apparizione all'ultimo momento di un nuovo personaggio che si rivela essere il colpevole. Strategia molto comune nei gialli di un secolo fa, ma che da svariati decenni non è più considerata accettabile dagli appassionati del genere.

Succede così che noi ne sappiamo più di Hercule Poirot (David Suchet), grazie ad un preambolo che segue fatti di cui l'investigatore farà conoscenza molto più in avanti nella storia. Dal nostro punto di vista non è più così interessante scoprire chi sia il colpevole, ma casomai come faccia Poirot a identificarlo e portarlo a fare una mossa falsa che ne porti al suo arresto. Che poi non mi sorprenderei se al processo costui se la fosse pure scampata, visto che non mi pare che prove raccolte siano poi così solide.

La bizzarria del caso risiede nel fatto che due fratelli gemelli, non identici ma molto simili, muoiano a poco tempo di distanza l'uno dall'altro, uno di un malanno naturale, l'altro di quella che sembra una caduta accidentale dalle scale. Capita però che Poirot abbia avuto modo di vedere di sfuggita l'ultima cena del secondo, che era stata messa al centro di una discussione tra lui e il suo dentista, e che la coincidenza lo spinga ad investigare sulla faccenda.

Nell'episodio precedente il volatile capitano Hastings (Hugh Fraser) era assorbito dalla passione per le automobili, qui le disdegna per seguire invece con grande attenzione la partita di cricket tra Inghilterra e Australia (il mitico The ashes). Come spesso accade Poirot, che maltratta il suo assistente in quanto impiegherebbe troppe risorse in cose inutili, nel finale mostra di aver studiato la materia e fa sfoggio di conoscenza dell'incomprensibile gioco.

Il titolo originale è molto più simpatico, Four and twenty blackbirds, alludendo alla torta esplicitamente citata in italiano riferendosi al suo colore.

Poirot 1.3: A mezzogiorno in punto

Il problema di questo episodio è che il caso trattato è molto fiacco. Chi abbia una certa consuetudine con la struttura del giallo non dovrebbe far fatica a capire cosa stia succedendo. E del resto anche Hercule Poirot (David Suchet) non è per niente sorpreso dall'andazzo che prende l'indagine, sembra quasi che tiri in là lo spiegone finale solo per giustificare il suo assegno.

Succede che un misterioso delinquente minaccia i Waverly di rapire il loro tenero virgulto, Johnnie. Bizzarramente costui, annuncia data e ora in cui il bimbo verrà rapito se non riceverà una cospicua somma. Come Poirot chiosa, perché mai complicarsi la vita in questo modo, quando sarebbe stato un reato così facile da attuare?

A latere dell'indagine scopriamo come Miss Lemon sia una sorta di genio dell'informatica ante litteram, e impiega il tempo libero nell'ideare un sistema di archiviazione dei precedenti casi del suo datore di lavoro che ne permetta il rapido accesso sotto molteplici chiavi di ricerca. Il capitano Hastings, dal canto suo, si rivela essere un appassionato di automobili, in un periodo in cui la meccanica era molto meno affidabile di oggi.

Lunchbox

La storia ha debiti nei confronti di Scrivimi fermo posta di Ernst Lubitsch (*), della schiscetta (**) e del suo sistema di distribuzione a Mumbai (***). Succede infatti che anche nella popolosa e attivissima città indiana sia tradizione usare la schiscetta, che però i lavoratori non si portano da casa, bensì si fanno recapitare dalla famiglia o dal ristorante, per mezzo di un famoso servizio basato su una efficientissima rete di dabbawala (°). Incredibile a dirsi, non solo i dabbawala sono veloci, così che il cibo arriva ancora caldo, ma sono anche di una precisione assoluta. Come viene citato nel film, i dabbawala sono stati oggetto di uno studio dalla Harvard Business School, che hanno stimato un margine di errore nelle consegne inferiore all'un per milione. Corrisponde alla realtà anche l'affermazione che il principe Carlo di Inghilterra abbia trovato il tempo, nella sua visita in India, per incontrarli. Non viene citato invece che hanno pure una certificazione ISO 9001.

Dunque, i dabbawala non sbagliano quasi mai. Qui si narra (°°) di una possibile rara eccezione. Ila (Nimrat Kaur) è una giovane sposa trascurata dal marito. Sua zia le consiglia di applicarsi maggiormente nella cucina. Come diremmo noi, di (ri)prendere lo sposo per la gola. Lei si applica con gran impegno e ha la sorpresa di vedersi riportare dal suo dabbawala la sua pila di schiscette (°°°) ripulita fino all'ultima briciola. Aspetta dunque fiduciosa il ritorno del compagno, ma questi non ha nulla da dire. Sempre su istigazione della zia, Ila aggiunge un foglietto al pasto del giorno successivo, nella speranza di riprendere in questo modo la comunicazione col marito, o quanto meno di sapere chi si è sbafato il suo pasto.

Il miracolato è Saajan (Irrfan Khan), che inizialmente pensa ad un cambio di cuoco del ristorante da cui si serve, e poi, depresso com'è, non dà alcun peso alla cosa. Ci pensi Ila a risolvere l'errore, deve aver pensato, che lui ha altro per la testa. E' infatti vedovo, presumibilmente da molto tempo, non ha gran interesse in alcunché, men che meno nel suo noiosissimo lavoro, da cui è pure sul punto di separarsi per andare in pensione, per la quale non ha alcun progetto. Peggio ancora. Gli mandano il sostituto, Shaikh (Nawazuddin Siddiqui), un ragazzotto estremamente loquace che lui dovrebbe formare ma col quale non vuole aver niente a che fare.

Sia Shaikh sia Ila, per fortuna di Saajan, sono molto insistenti, e così finisce per uscire dal suo bozzolo. Non sappiamo come andrà a finire, ma tutto sommato il futuro dei tre protagonisti sembra abbastanza positivo.

Dietro al film ci sono menti e capitali da mezzo mondo, buona parte di questi sono europei, prevalentemente francesi e tedeschi, e c'è anche lo zampino del Torino FilmLab.

(*) Vedi anche il remake di fine secolo C'è posta per te.
(**) Per i non-lombardi, la schiscetta è quel contenitore metallico che chi ha una certa età e magari ha fatto pure il militare, o il campeggiatore, forse chiamerebbe gavetta. La schiscetta è la sua versione civile, nel senso che indica il suo uso per portarsi il pranzo al lavoro. Per chi fosse incuriosito dal buffo nome dialettale, deriva dal verbo schisciare (schiacciare), e deve la sua etimologia dal fatto che tipicamente le pietanze vengono stipate senza ritegno nel contenitore.
(***) Quella città indiana che, sempre se non si è giovanissimi, viene più spontaneo chiamare Bombay.
(°) Tale è il nome ufficiale di chi per mestiere porta in giro le schiscette.
(°°) Primo lungometraggio, scritto e diretto da Ritesh Batra.
(°°°) Già, perché la cucina indiana prevede una gran varietà di portate, e chi se lo può permettere mantiene questa sana abitudine anche nei pranzi di lavoro.

Cake

Come titolo, più che Torta, sarebbe stato meglio Ciambella. Nonostante il cast, e nonostante la dimostrazione che Jennifer Aniston ci sa fare anche con il registro drammatico, il film non è venuto come ci si sarebbe potuto aspettare.

Sarà che non ho trovato modo di simpatizzare con Claire Bennett (la Aniston), e visto che lei non lascia spazio a nessun altro, alla fine non ho potuto che solidarizzare con la domestica, Silvana (Adriana Barraza), che, nel raro momento in cui perde la pazienza, gliele canta ben chiare.

Mesi prima dell'inizio della prima scena, Claire ha avuto drammatico incidente automobilistico, in cui ha perso il figlioletto. Non ci viene detto nulla in dettaglio, ad un certo punto sembra che la colpa non sia di lei ma di un omarino, Leonard (William H. Macy), che è disperato per quel che è successo. Considerando che c'è stato un processo e non sembra che Leonard sia stato condannato, e che i coniugi Bennett sono entrambi avvocati, mi sorge il sospetto che il poveretto si faccia scrupoli immotivati. In ogni caso, Claire approfitta del suo stato di madre in lutto per maltrattare chiunque gli passi vicino. Ha buttato fuori il marito di casa, e lascia che Silvana si occupi di tutto. La dottoressa che la segue l'ha mandata ad un gruppo di sostegno, tratteggiato da Daniel Barnz (regia) con un sarcasmo piuttosto feroce, ma lei riesce a farsi sbattere fuori, elucubrando cinicamente sul suicidio di Nina (Anna Kendrick), che ha posto fine alla sua depressione gettandosi da un ponte.

Mal gliene incoglie. Anche causa del cocktail fai da te di farmaci che ingolla, comincia a vedere Nina e stabilire con lei una amicizia tra nemiche. Al punto che ha un mezzo pensiero sul soffiarle il marito, ora vedovo (Sam Worthington), e relativa prole.

Finale consolatorio con Claire che sembra superare il lutto, smettendola di approfittare della sua situazione.

Poirot 1.2: Delitto nei Mews

Il caso non è dei più interessanti, chi abbia una certa consuetudine dovrebbe capire subito dove si sta andando a parare, però è svolto con una certa grazia, e la visione m'è risultata piacevole.

Rispetto al racconto originale di Agatha Chirstie, il personaggio chiave che cerca di sviare le indagini è più astuto e sottile, riuscendo a mantenere ragionevolmente in dubbio Hercule Poirot (David Suchet) su quello che è realmente successo per gran parte dell'episodio.

Praticamente intraducible il termine mew, che sta ad indicare un vicolo su cui insistono case molto inglesi dove il pianterreno era occupato da una stalla e il primo piano era usato come abitazione. Ad sensum direi che si intende dire che il fatto di sangue è avvenuto in una placida zona della città abitata da gente piuttosto danarosa.

Non ha praticamente nessuna influenza sulla trama, ma la morte avviene la sera del cinque novembre, la notte di Guy Fawkes, che ricorda la fallita congiura delle polveri che avrebbe dovuto far saltare in aria il parlamento inglese a Westminster. I petardi tradizionalmente sparati per commemorare l'evento coprono la pistolettata fatale e ritardano la scoperta del cadavere.

A morire è Barbara Allen, che divideva l'appartamento con Jane Plenderleith (Juliette Mole) ed era sul punto di sposarsi con Charles Laverton West (David Yelland), un parlamentare in forte ascesa che tutto sommato non sembra una bella persona. Poco dopo scopriamo che era probabilmente vittima di un ricatto da parte del maggiore Eustace (James Faulkner), il quale è certamente un poco di buono, l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) lo va infatti a interrogare in un ambiguo night club, dove si esibisce una simpatica orchestrina jazz con Moya Ruskin come cantante.

Gli indizi sembrano puntare proprio sul maggiore. Ma perché diamine un ricattatore dovrebbe uccidere la sua vittima?

Turner

Visto in lingua originale, che a Milano (*) succede anche questo, senza lasciarmi distrarre troppo dai sottotitoli, che la fotografia (Dick Pope) è tale da lasciare senza fiato in più occasioni. Già, perché l'idea di Mike Leigh (sceneggiatura e regia) è stata quella di narrare l'ultimo terzo della vita di J.M.W. Turner cercando di farci vedere quello che lui vedeva e cercava di rendere nei suoi quadri. E visto che Turner era una paesaggista di indole romantica, con una gran passione per la luce, che finì per prefigurare l'impressionismo, ci si può immaginare che gioia per gli occhi sia questo film.

Direi che il punto chiave della storia è la dissonanza (**), che emerge sia nei dipinti sia nel carattere del protagonista. Ad incontrarlo per strada, Turner (Timothy Spall) doveva fare una pessima figura. Sgraziato, di capacità espressive molto limitate, ben poco socievole. Gran parte del tempo lo sentiamo esprimersi con grugniti. Lo vediamo per due ore abbondanti comportarsi in maniera contraddittoria, mescolando atteggiamenti asociali con momenti di gran comprensione con chi ha di fronte. O almeno, così sembra. Perché poi chissà cosa gli passava per la mente. Leigh non è che prenda particolarmente posizione in quel che succede, sembra più interessato a mostrare l'indecifrabile complessità dell'animo umano, che a giudicarla.

Grande prova attoriale per Spall, in quella che forse resterà come la sua interpretazione cinematografica più memorabile.

(*) Milan, l'è on gran Milan.
(**) Ben rappresentata anche dalla bella colonna sonora firmata da Gary Yershon.

Poirot 1.1: L'avventura della cuoca di Clapham

La partenza in media res della serie (*) assume che lo spettatore sappia chi sia Hercule Poirot (David Suchet), per gli altri non è comunque un problema, visto che la struttura è canonica. Il genio investigativo Poirot ha un assistente, il capitano Hastings (Hugh Fraser), che non è particolarmente sveglio ma molto volenteroso, una segretaria, Miss Lemon (Pauline Moran) che svolge le faccende burocratiche, e un riferimento a Scotland Yard, l'ispettore capo Japp (Philip Jackson) con cui ha un rapporto conflittuale.

Poirot è malavoglioso, e non trova interesse nei possibili casi prospettatigli da Hastings. Piomba nello studio una tal Mrs Todd, molto posh, che lo attira nel caso della sparizione della sua cuoca. Inizialmente Poirot vi entra più per cortesia che per altro, ma poi resta intrigato dalla non sequenzialità di alcuni dettagli. Finirà per scoprire che anche dietro quello che potrebbe sembrare un fatto irrilevante si può celare qualcosa di sostanzioso.

Rispettando la scrittura originale, l'impostazione è molto classista, e ben rende la rigida struttura della società inglese di un secolo fa. Bella la produzione che fa sfoggio della solita ottima recitazione attoriale di oltremanica e di una bella ricostruzione degli ambienti d'epoca.

Fastidiosi i baffetti di Poirot. Ma come evitarli?

(*) Estremamente longeva, tredici stagioni per un totale di settanta episodi che hanno finito per coprire praticamente l'intera produzione relativa all'investigatore privato belga di Agatha Christie.

Quarantaduesima strada

Nonostante sia stato girato nel momento più cupo della Grande Depressione, si tratta di uno spensierato musical rimasto negli annali come uno dei riferimenti indiscussi a tutto quello che è seguito nel genere. Curiosamente, non è l'adattamento di uno show di Broadway ma di un romanzo che racconta la messa in scena di uno spettacolo fittizio. Solo mezzo secolo dopo la storia ha seguito il percorso inverso ed è stata portata sul palcoscenico.

Julian Marsh (Warner Baxter) è un famoso regista teatrale, ormai non più giovane e con acciacchi tali da spingerlo ad abbandonare il mestiere. Se non che il crollo di Wall Street l'ha ridotto sull'orlo della miseria, e allora punta tutto su quello che sarà il suo ultimo lavoro. Stella indiscussa della compagnia è Dorothy Brock (Bebe Daniels), perché ha un nome capace di attirare un buon pubblico, ma soprattutto perché ha un influente amico, Abner Dillon (Guy Kibbee), disposto a spendere una cifra considerevole nella produzione. Costui vuole chiaramente qualcosa in cambio da Dorothy, che lei è pure disposta a concedere, anche se il suo affetto va per Pat, un collega che l'ha seguita all'inizio della professione. Questa indecisione della star preoccupa i produttori e il regista, che temono l'imbizzarrimento di Abner, e dunque fanno in modo di allontanare Pat da Dorothy.

Alcune complicazioni porteranno i due piccioncini a ravvicinarsi e a rendere indisponibile Dorothy alla prima. C'è dunque bisogno di rimpiazzare la parte principale all'ultimo momento. Abner ha la soluzione pronta, la sua nuova amante, Ann (Ginger Rogers), detta Anytime per la sua riottosità a dire no a qualunque offerta. La quale però cede inaspettatamente l'opportunità a Peggy (Ruby Keeler), giovane e timida debuttante, nella quale ha visto potenzialità superiori alle sue.

Il regista è furibondo ma acconsente, torchia per le poche ore rimaste Peggy, finendo giusto in tempo per far alzare il sipario.

Unico nome che mi era noto nel cast era quello della Rogers, che però era ancora agli inizi di carriera, e il suo ruolo è veramente piccolo. Recitazione, sceneggiatura, regia non sono di livello eccelso, ma l'energia che sprizza dei numeri del musical è eccezionale. Vedasi quello conclusivo, che ho recuperato su youtube:

Quello che parte come un credibile numero teatrale prende rapidamente la strada dell'assurdità, con taxi che sfrecciano su quello che dovrebbe essere un palco teatrale, polizia a cavallo, masse di figuranti, azioni e rapidi cambi di scene impossibile nella realtà teatrale.

Vincent & Theo

Nata come miniserie BBC in quattro puntate da cinquanta minuti l'una. Io ho optato per il formato più snello, il film dalla durata poco superiore alle due ore.

Come da titolo, non ci si focalizza sul solo Vincent Van Gogh (Tim Roth) ma piuttosto sulla relazione tra i due fratelli Van Gogh, evidenziando come la parte di Theo (Paul Rhys) sia stata tutt'altro che secondaria nella vicenda.

I due agiscono in perfetta simbiosi, Vincent, il creativo, si inventa pittore, Theo, il commerciale, lo presenta al pubblico. Avrebbe potuto essere una bella storia di successo se non fosse che la sensibilità comune non era ancora pronta per il salto in avanti di Van Gogh che superava l'impressionismo per prefigurare quel movimento che sarebbe diventato noto con il nome di espressionismo. Forse, se Vincent fosse stato meno radicale, e avesse in qualche modo mediato con il gusto comune, avrebbe reso più semplice la vita a se stesso e a suo fratello. Anche il brutto carattere dei due fratelli non ha certo aiutato, e qui bisognerebbe indagare sulla famiglia di origine, nel film si accenna appena ai burrascosi rapporti con Van Gogh senior, come pure le malattie che i due si erano attirati con la vita non semplice che hanno vissuto.

Nonostante il rimontaggio cinematografico sia stato fatto seguendo comunque le indicazioni di sceneggiatura (Julian Mitchell) e di regia (Robert Altman) originali, si sente comunque l'impostazione originale televisiva, che è per sua natura meno snella e più divulgativa di quanto tipicamente sia un prodotto pensato per il grande schermo. Il risultato è comunque buono, e certe scene, tipo quella in cui Vincent ascolta una discussione in un ritrovo parigino mentre giochicchia con i colori, o quella in cui cerca di dipingere in un campo di girasoli, finendo per soccombere allo scontro con loro, sono memorabili.

Curioso come Rhys sia stato chiamato in rapida successione prima ad interpretare il fratello di Vincent Van Gogh e poi quello di Charlie Chaplin.

Jay & Silent Bob ... fermate Hollywood!

Mi sento di sconsigliare la visione del film a chi non sia fan di Jay & Bob. Chi invece abbia seguito le bizzarre avventure di questo duo nei precedenti film di Kevin Smith sa cosa si può aspettare e non resterà basito dal turpiloquio di Jay (Jason Mewes), dalla inesplicabile silenziosità di Bob (lo stesso Kevin Smith), e dalle inerente stupidità di entrambi.

Ricapitolando, i due personaggi hanno iniziato la loro avventura cinematografica in Clerks, dove facevano da contrappunto comico in alleggerimento alla vicenda principale di Dante (Brian O'Halloran); stesso ruolo in Mallrats, aka Generazione X, dove i protagonisti erano più giovani ma sostanzialmente il background culturale era lo stesso di Clerks; nel successivo In cerca di Amy al centro della storia c'è un fumettaro (Ben Affleck) che ha una serie di problemi, uno dei quali è la gestione di una serie che ha creato basandola proprio su Bob e Jay; segue Dogma, in cui entreranno a far parte di una complicatissima lotta metafisica assumendo il ruolo di profeti che dovranno aiutare la protagonista a salvare l'intero creato.

Qui si spiega come hanno fatto a conoscersi, e come mai siano così affezionati al negozietto fuori dal quale stazionano vendendo erba ai ragazzini. Scoprono che i diritti del fumetto che era stato fatto su di loro sono stati ceduti alla Miramax (che ha prodotto questo film) e le riprese stanno per partire. Cercano di far capire loro che hanno diritto ad un sostanzioso gruzzolo per questo, ma loro sono più preoccupati per la cattiva nomea che si sta creando su internet nei confronti dei loro alter ego, che si riflette su di loro, o almeno così loro temono. Partono così per Hollywood, a piedi, perché non hanno i soldi per l'autobus. Un autostoppista (George Carlin) spiega loro la regola fondamentale per ottenere un passaggio, Jay la applica sulla suora (Carrie Fisher) che li carica e scopre che non vale sempre. Fortuna vuole che quattro pollastrelle in furgone, una delle quali (Shannon Elizabeth) rimane misteriosamente affascinata da Jay, il quale è così colpito da lei da marginalmente moderare la sboccatezza del suo liguaggio, li accolgano con loro. Costoro però hanno un piano, secondo il quale, Jay & Bob dovranno rubare uno scimpanzè, Suzanne (Tango) da un laboratorio. In seguito a questo incidente avranno alle calcagna un poliziotto federale (Will Ferrell), del corpo specifico per la tutela degli animali, fino al termine della storia.

Giunti miracolosamente ad Hollywood, voglio applicare un brutale piano che consiste nel picchiare chi li interpreta, in modo da portarli ad abbandonare la produzione. Essendosi convinti che questi siano Ben Affleck e Matt Damon, stanno per malmenarli, quando si accorgono che sono sul set del sequel di Will Hunting, diretto da un Gus Van Sant, occupato più a contare i soldi del suo cachet che a dirigere il film. Cambio di set, passano da Wes Craven che sta girando un qualche Nightmare, e finiscono in quello giusto, dove scoprono che ad interpretare i loro ruoli sono James Van Der Beek e Jason Biggs, li mettono fuori combattimento, ma finiscono al loro posto, coinvolti in un combattimento alla Star Wars (*) con Mark Hamill.

Gran parapiglia finale con possibile happy ending un po' per tutti.

Come penso si sia capito, la narrazione non è per niente fluida, si alternano parti più riuscite ad altre meno, il livello medio della comicità è piuttosto basso. Però mi sono divertito.

(*) I riferimenti alla saga di Guerre Stellari cominciano sin dal titolo, che in originale è Jay and Silent Bob strike back.