The weather man - L'uomo delle previsioni

Il problema di David Spritz (Nicolas Cage) è che non capisce quale sia il suo problema. Apparentemente ha successo, guadagna qualcosa come duecentomila dollari all'anno apparendo in una televisione di Chicago per qualche decina di minuti al giorno, per illustrare le previsioni del tempo che qualcun altro ha scritto. E' arrivato a quel posto seguendo vie misteriose, visto che non sa nulla di meteorologia o di comunicazione. Ha però una faccia simpatica, sorride molto (*), e ha pure accettato di accorciare il suo cognome per renderlo più rinfrescante, qualunque cosa questo possa voler dire. C'è qualche piccolo inconveniente legato al suo lavoro, la gente che lo riconosce e gli chiede un autografo, ad esempio. O, peggio, quelli che lo riconoscono e gli tirano cibo addosso. Non capisce nemmeno lui cosa spinga alcuni a far ciò, ci pensa per tutta la durata del film, valutando alcune ipotesi che ci sono utili per capire qualcosa di più sul suo conto.

Ma quello che David non si spiega è come mai sua moglie Noreen (Hope Davis) lo abbia mollato - secondo lui tutto sarebbe da ricondurre al fatto che una sera si è dimenticato di comprare la sala tartara - e si sia messa con un ciccione (Michael Rispoli) che non ha certo il suo stipendio. Non si spiega come mai suo padre, Robert Spritzel (Michael Caine), non apprezzi il suo successo, e abbia invece serie perplessità sul suo stile di vita. E non si spiega nemmeno come mai i suoi figli, Shelly e Mike (Nicholas Hoult), siano evidentemente infelici e tendano a ficcarsi in una serie di guai.

Con tanta buona volontà, lui prova a risalire la china. Il punto principale è quello di tentare di farsi assumere da una rete nazionale, il che significherebbe trasferirsi a New York e uno stipendio nell'ordine del milione. E cerca anche di ricucire il rapporto con le sue persone care. Per quanto riguarda il lavoro, niente da dire, riesce a farsi valere. Sul lato umano ha qualche piccolo successo contornato da una serie di sciagure, a volte causate dalla sua incapacità relazionale, a volte dovute ad un pizzico di troppo di sfortuna.

Il finale è complesso. Da una parte David matura, riuscendo ad accettare una situazione nella sua vita personale che è davvero difficile da mandar giù, e riuscendo anche a fare una serie di passi in avanti nel suo modo di interagire con gli altri, siano essi le persone che gli stanno vicino, o incontri occasionali. Dall'altra parte, quando scopre che la sua vita è paragonabile ad un fast food (**) la sua reazione non è così orripilata come ci potremmo aspettare. La fa sua, e cerca di essere un buon hamburger.

Buon lavoro alla regia di Gore Verbinski, nel narrare una storia che potrebbe essere scambiata per metaforica della sua vita, anche se spero per lui che la sua vita privata non sia così disastrosa. Bravo anche Nicolas Cage che regge praticamente tutta la narrazione sulle sue spalle, dimostrando che, quando vuole, è capace di recitare. Ottimo Michael Caine, in un ruolo limitato ma intenso.

(*) Sul lavoro. Nella vita reale lo vediamo tipicamente ingrugnito.
(**) Ed è per questo che McDonald's e associati hanno così tanto spazio nella pellicola.

Doctor Who 9.11: Heaven sent

Seconda parte del finale di stagione, conviene aver visto il precedente episodio per capirci qualcosa, e bisogna aspettare la chiusa del prossimo per chiarire alcuni dettagli che sono oscuri. Senza contare che Steven Moffat è uso a disseminare le sue storie di false piste, e a volte non si cura troppo di dettagli secondari, magari anche con lo scopo di lasciare porte aperte per possibili future reinterpretazioni.

Per quanto successo in Face the raven, il Dottore (Peter Capaldi) è da solo e molto arrabbiato. Chi ha ordito il diabolico piano nei suoi confronti (*) lo ha spedito in una specie di assurdo castello simil-medioevale costruito sul mare e che ha la capacità di ricombinarsi a discrezione del suo castellano. Costui è una specie di monaco meccanico con capacità dissennatrici, disegnato per ricordare uno spaventevole incubo che il Dottore si trascina dalla sua infanzia, e con la capacità di uccidere i Signori del Tempo impedendone la rigenerazione (**).

Il Dottore ci mette poco a capire che lo scopo è quello di spaventarlo a morte, per costringerlo a confessare cose che non ha mai detto a nessuno. Per far ciò la sua prigione è ingegnerizzata per dargli una speranza di uscita, rendendola nel contempo incredibilmente piccola. Una serie di prove lo guidano verso la via di uscita, che però è ostruita da un inimmaginabile muro in super-diamante. E lui non ha alcuno strumento a disposizione per romperlo.

Nonostante tutto questo, chi ha concepito questa impossibile tortura ha sottovalutato il Dottore. E Clara (Jenna Coleman). Clara è morta, il Dottore lo sa bene, ma quello che nessuno potrà uccidere è il ricordo di Clara che il Dottore si porta dentro, e a cui lui fa riferimento nei suoi momenti più cupi, quando sarebbe sul punto di arrendersi.

Così il Dottore riesce a immaginarsi un piano di fuga che sconfigga la logica del castello, sfruttandone le sue debolezze. Scopre infatti le stanze sono progettate per ritornare allo stato iniziale ogni volta che lui cede un suo segreto, ma il sistema non va troppo per il sottile, e trascura i cambiamenti che il progettista ha considerato irrilevanti. Il Dottore ragiona poi sulla natura del teleporter che lo ha fatto arrivare nella prigione. Dopotutto non è altro che un meccanismo per immagazzinare un essere vivente in tutti i suoi dettagli per poi stamparlo, come se fosse una stampante 3D.

Ricorda poi una favola dei fratelli Grimm, quella che da noi è nota come Il pastorello. Il protagonista della storia deve rispondere a tre domande di un re, la terza delle quali è sulla natura del tempo. Quanti secondi ci sono nell'eternità? Il pastorello dice che esiste un monte di diamante, un cubo esteso per chilometri, e che ogni cento anni un uccellino vi si reca per affilarsi il becco. Quando avrà consumato il monte, sarà passato un secondo dell'eternità.

Il suo compito, decide il Dottore, non è impossibile, ma solo inumano. Dovrà ripetere lo stesso percorso per miliardi di volte (***), dimenticandosi ogni volta di cosa è successo, ricostruendo dai pochi indizi che riesce a lasciare come arrivare al muro quasi indistruttibile, per tirargli qualche pugno, venire ridotto in fin di vita dal castellano, e uccidersi per ricominciare il ciclo.

(*) Abbiamo una serie di indizi che ci guidano nel corso dell'episodio a capire di chi si tratta, così che la sorpresa finale non sia troppo traumatica.
(**) Semplice, basta danneggiare l'intero organismo. I Time lord sono delle pellacce, e comunque anche in questo caso avranno una lunga agonia dalla quale però non c'è via di uscita.
(***) Numero stimato per difetto. Sappiamo che passano miliardi di anni, non sappiamo quanto duri una singola vita del Dottore, potremmo stimare un giorno, forse anche meno. Centinaia di miliardi di vite, forse migliaia, usate per abbattere un muro. Si può immaginare quanto sia furibondo il Dottore a questo punto.

Love & secrets

Il film è dovuto all'attrazione fatale che il trio creativo (*) ha per la vita di Robert Durst, vicenda che da decenni riappare e scompare nelle cronache americane. Se questo è un vantaggio per lo spettatore d'oltreoceano, che più o meno sa di cosa si parla, e riconosce dettagli di cui sa grazie a televisione e giornali, lo è meno per noi. Per motivi sia narrativi sia di cautela, la storia è stata semplificata e sono state eliminate alcune parti imbarazzanti. Ad esempio non si cita nemmeno di passaggio che Durst ha avuto una lunga relazione pubblica con Prudence Farrow prima della misteriosa scomparsa della moglie. Inoltre, dopo la realizzazione del film, sono successi altri fatterelli che hanno complicato la posizione del Durst e hanno avanzato sospetti persino peggiori sulla sua figura. Infine, alcune illazioni sui fatti sono a dir poco indimostrabili, come il presunto parricidio che gli viene velatamente attribuito.

Nonostante tutte queste cautele, il racconto, che pure non è per niente attendibile sui singoli fatti, ha una sua rilevanza nel darci un'idea dei tempi e dell'ambiente in cui i fatti si sono svolti.

David Marks (Ryan Gosling) è il rampollo di una ricca famiglia che possiede immobili a midtown Manhattan, dalle parti di Times square. Siamo sul finire degli anni settanta, e ai tempi la zona era malfamata. Succede così che gli affittuari dei Marks hanno a che fare con pornografia, prostituzione, e tutta una serie di attività al limite della legalità, se non oltre. La potenza e ricchezza della famiglia è tale da far sì che questo dettaglio risulti invisibile ai loro amici, che preferiscono non vedere e non sapere.

Per David la sua famiglia è un peso, e così quando incontra Katie (Kirsten Dunst), completamente estranea al loro giro, se ne innamora in un batter d'occhio. I due decidono di mollare New York e aprire un negozio di alimentari nel Vermont (**). La cosa però non dura, il padre di David, Sanford (Frank Langella), insiste perché i due piccioncini tornino in città, facendo balenare l'idea che Katie si merita di più di quello che David gli può offrire.

E inizialmente Sanford sembra aver ragione, ma il contatto continuo con il padre, e il lavoro deprimente, risveglia in David la sua inquietudine, che viene fatta risalire al suicidio di sua madre, avvenuto quando lui aveva sette anni. Il timore di non poter essere un buon padre, o forse il rifiuto completo della figura paterna, spingono David a rifiutare di avere figli, cosa che determina il distacco da Katie. Con il passare degli anni il carattere di David peggiora sempre più, finché una notte Katie sparisce. David sostiene se ne sia andata, la regia ci fa capire di pensare che le cose siano andate in un modo più tragico.

Una ventina di anni dopo il caso viene riaperto. Si scoprono alcuni elementi molto dubbi, e sembra che ci siano elementi che possano incriminare David. Deborah Lehrman (Lily Rabe), vecchia amica di David, potrebbe avere cose da dire in merito ma, sfortunatamente, una pallottola le impedisce di chiarire alcunché. Dal canto suo, David, si sottrae all'inchiesta sparendo nel nulla, si scoprirà poi che ha vissuto in un paesino desolato spacciandosi per donna, risolvendo il problema della voce poco femminile dichiarandosi muta. Giusto per complicare le cose, in questo periodo David ammazza un suo vicino e lo fa a pezzi, e per questo verrà portato a processo, ma se la caverà con una condanna di pochi anni.

A mio parere, il difetto principale del film è che non si capisce dove vuole andare a parare. Da un lato sembra suggerire che David sia vittima delle circostanze, e che il suo peccato più grosso sia quello di non essersi riuscito ad affrancarsi dal mortale abbraccio paterno. Dall'altro, il comportamento di David è quello di un idiota per il quale è veramente difficile avere anche una minima empatia. Forse la lezione che si può trarre da questa storia è che se si è abnormemente ricchi si può fare di tutto, e che questo non sia un bene per nessuno.

(*) Regia di Andrew Jarecki, sceneggiatura di Marcus Hinchey e Marc Smerling.
(**) Come dire, nel mezzo del nulla. Il nome del posto, All good things - Tutte cose buone - è il titolo originale del film. Che, al contrario del titolo scelto dalla distribuzione italiana, ha un suo senso. Infatti, evidentemente, si sostiene che David sia stato rovinato dal contatto con la sua famiglia, e che forse la vita in campagna sarebbe riuscito a far sì che fossero le cose buone dentro di lui ad avere il sopravvento, e non quelle cattive.

Spy

Il mestiere della spia non è più quello di una volta, come sa bene chi pratica il genere. Qui si semplifica e si riduce all'osso un team. Da una parte c'è l'operativo, un bondiano Bradley Fine (Jude Law), dietro c'è l'analista Susan Cooper (Melissa McCarthy) che lo telecomanda facendo gran parte del lavoro. Bradley sa bene che senza Susan sarebbe spacciato in un batter d'occhio, e deve pur sapere che il motivo per cui Susan ha sacrificato la sua carriera in prima fila per restare nella sua ombra è che è cotta persa di lui, ma fa finta di non accorgersene nemmeno. Forse a tal punto che se qualcuno glielo dicesse non ci crederebbe nemmeno.

Comunque succede che una azione del duo Fine-Cooper finisce con la prematura morte del trafficante di armi dal quale si doveva prima spremere una importante informazione, dove mai avesse nascosto la bombetta nucleare portatile ambita dai terroristi di tutto il mondo. Per risolvere l'impasse occorre mettere sotto controllo la figlia del defunto, Rayna (Rose Byrne), che ne ha preso il posto nell'organizzazione. Il problema è che Rayna conosce tutti gli agenti segreti americani (*) e lo dimostra terminando Bradley Fine.

Rick Ford (Jason Statham) è un collega di Bradley con uno stile diametralmente opposto, molto alla Statham, e vorrebbe vendicarlo. Gli viene preferito Susan, che ha il discutibile vantaggio di essere certamente ignota al mondo spionistico ufficiale. La cosa gli fa girare le scatole ancora più del solito, e così decide di mollare l'Agency per operare comunque la sua vendetta (**).

Susan, che in realtà aveva tutte le potenzialità per essere un'ottima operativa, si trova fin troppo a suo agio nel nuovo ruolo e nonostante tutti abbiano ben poca fiducia in lei, a partire da se stessa, riuscirà a portare a casa il risultato praticamente da sola.

Il film è scritto e diretto da Paul Feig, che secondo me sarebbe anche abbastanza capace nel suo genere (***) se non avesse una perniciosa attrazione per le situazioni da cinepanettone. A parte questo, alla pellicola avrebbe giovato una bella sforbiciata. Due ore per raccontare il passaggio da bruco a farfalla (°) di Susan Cooper sono davvero eccessive, e in alcune occasioni ho avuto il forte desiderio di guardare l'orologio invece dello schermo.

Per conto mio, la baracca viene salvata da Jason Statham che interpreta il suo personaggio con una assurda credibilità che meriterebbe di essere sviluppata in un film a se stante. Non male nemmeno Jude Law che, sia pure costretto in un ruolo piuttosto spiacevole, un vanesio James Bond manipolativo e interessato solo al suo lavoro, se la cava da par suo. Simpatica Miranda Hart, nel ruolo dell'amica della Cooper. Piccola parte per Bobby Cannavale (°°), mi piacerebbe tornare a vederlo in un film che gli dia maggior spazio. C'è anche Peter Serafinowicz che interpreta Aldo, un agente segreto che deve aver trasformato la sua confusione mentale da difetto personale a valore aggiunto professionale.

(*) Bum! Ma lei dice così e le credono.
(**) Difficile immaginare che uno possa dare le dimissione dalla CIA semplicemente alzandosi e andandosi, ma qui funziona così.
(***) Vedasi Le amiche della sposa.
(°) Una farfalla molto sui generis, invero.
(°°) E' il mediatore che Rayna contatta per piazzare la bomba.

Le mele di Adamo

Film del danese Anders Thomas Jensen, poco attivo come regista (*) ma molto più prolifico alla scrittura (**), che narra dell'incontro-scontro tra il prete protestante Ivan (Mads Mikkelsen) e il neo nazista Adam (Ulrich Thomsen).

Adam s'è fatto un po' di galera, e ora è stato assegnato alle cure di Ivan, in attesa di poter tornare a capitanare la sua cellula. Come ci si può aspettare, Adam è violento e assolutamente maldisposto nei confronti di chiunque. Più inatteso il carattere di Ivan, che abbina una tendenza cristiana ad insegnare con l'esempio e a mostrare l'altra guancia alcuni inaspettati svisamenti che sembrano andare nella direzione della follia.

Al momento la parrocchia di Ivan ospita altri due ex-galeotti, il vorace ladro-stupratore alcolizzato Gunnar (Nicolas Bro) e il rapinatore di benzinai Khalid (Ali Kazim), che secondo lui hanno superato le loro tendenze criminali, anche se pare evidente il contrario. Ogni ospite deve seguire un progetto che mostri il suo recupero e Adam, provocatoriamente, dice di volere fare una torta di mele, usando i frutti dell'albero che cresce di fronte alla chiesa. Con sua sorpresa, Ivan sembra entusiasta dell'idea, e lo invita a curare la maturazione dei frutti, prevista in un paio di settimane.

Capita però che una serie di sciagure si abbattono sul melo, a partire da una invasione di voraci corvi, come se, nell'interpretazione di Ivan, il demonio ci mettesse la coda, per rendere il compito impossibile. Nel frattempo, anche grazie al viscido ed estremamente anticlericale medico locale, Adam scopre che Ivan ha avuto una vita estremamente disgraziata sin dalla sua nascita, e che ha un tumore al cervello di dimensioni tali da renderlo una impossibilità vivente. Come fa Ivan ad essere ancora vivo e per di più anche felice? Semplice, nega la realtà. Se qualcuno gli fa notare un qualche fatto troppo doloroso, lui non ci crede.

Adam, che odia cordialmente Ivan, usa questa conoscenza per ucciderlo. Lo mette di fronte a tutte le dolorose verità che Ivan cerca di sfuggire, fino ad arrivare a contestargli il libro di Giobbe, spiegandogli che non è stato il diavolo a trasformare la sua vita in un inferno, ma il buon dio in persona.

Adam a questo punto avrebbe vinto. Però si accorge, con suo sommo raccapriccio, che questo non gli dà alcun piacere. Inoltre, scopre pure che i due suoi compagni di sventura stanno molto peggio senza il supporto di Ivan. E poi vede, in una serata tempestosa da horror ultraterreno, il melo, che ne aveva già patite di tutti i colori, venir distrutto da un fulmine.

Così assistiamo alla peculiare conversione di Adam, che finirà perfino per apprezzare la musica di Ivan, nonostante questa includa melasse musicali quali How deep is your love dei Bee Gees nella cover che ne hanno fatto i Take that.

(*) Al punto che questo è il suo ultimo film distribuito in Italia. Quest'anno è uscito Mænd & høns (Uomini e polli) che chissà se e quando arriverà da noi.
(**) Tra cui Love is all you need e La duchessa.

Sopravvissuto - The martian

Per errore Mark Watney (Matt Damon), disperso e creduto morto in una tempesta, viene abbandonato su Marte dai compagni di missione. Nonostante tutte le prospettive siano contro di lui, si prepara a sopravvivere per i quattro anni che lo separano da quella che dovrebbe essere la successiva missione umana sul Pianeta Rosso. Per sua fortuna, i suoi movimenti vengono notati dalla Nasa e, dopo alcune traversie, si appronta una missione di soccorso che potrebbe riuscire a salvargli la vita.

La storia non brilla per interesse, considerando anche che la domanda che regge due ore abbondanti di racconto - riuscirà Mark a sopravvivere alle avversità marziane? - è brutalmente spoilerata dal titolo italiano. Eppure si lascia vedere con piacere, grazie al cast stellare, la fotografia, le immagini, e la ricostruzione delle tecnologie utilizzate, tutte veramente notevoli.

Trattasi di fantascienza "dura", dove la fantasia lavora su basi molto realistiche, e quindi lo si potrebbe paragonare a Interstellar, ma quello poneva domande filosofiche, questo è molto più materiale, più interessato a mostrare la scienza che c'è dietro l'esplorazione spaziale che altro.

Bella regia di Ridley Scott, che mostra di essere capace di mettersi al servizio di una storia altrui (*) senza sacrificare le sue capacità tecniche.

(*) La sceneggiatura di Drew Goddard è basata sul romanzo omonimo - L'uomo di Marte in italiano - di Andy Weir.

Oranges and sunshine

Varrebbe la pena di vederlo in abbinata con Ladybird ladybird di Ken Loach. Il tema è simile, la sceneggiatura è in entrambi i casi di Rona Munro (*), e questa è la prima regia cinematografica di Jim Loach, figlio di Ken.

Negli anni ottanta, Margaret Humphreys (Emily Watson) lavora ai servizi sociali di Nottingham. Un lavoro di quelli che fanno venire il mal di pancia al solo pensarci, per sua fortuna ha un marito (Richard Dillane) molto comprensivo e capace. Una sera una giovane donna le chiede aiuto, è giunta dall'Australia a Nottingham per cercare tracce della sua infanzia ma non ha trovato nulla. Il che è molto strano, considerando l'efficienza della burocrazia inglese. Ancora più strano che lei racconti di essere stata spedita dall'altra parte del mondo in nave, a quattro anni, senza accompagnatori, in compagnia di numerosi altri orfani, o presunti tali, avendo come destinazione un orfanotrofio. Margaret non sa bene cosa pensare di tutto ciò, lascia il fatto in un cantuccio della sua memoria e torna al suo lavoro.

Capita però che una sua assistita racconti di suo fratello Jack (Hugo Weaving), da cui era stata separata in tenera età, che la ha recentemente ricontattata. Jack è finito in Australia, e anche lui dice di essere stato spedito per nave, nelle stesse circostanze che Margaret ha sentito. Inizia così a cercare maggiori informazioni e scopre una orribile verità.

Fino agli anni settanta è stata pratica comune spedire bambini britannici nelle colonie (**). In teoria avrebbero dovuto essere solo orfani, ma la richiesta era alta e allora non si andava troppo per il sottile, mentendo ai minorenni, dicendo loro che i genitori erano morti e prospettando loro una bella vita in un paese assolato dove avrebbero potuto mangiare tutti i giorni arance colte direttamente dall'albero. La realtà era leggermente diversa, e molti bambini hanno vissuto come schiavi, alcuni venendo pure regolarmente violentati, dovendo poi ripagare il debito per l'accoglienza ricevuta.

Il film è stato presentato al festival di Roma nel 2010 ma misteriosamente non è stato distribuito da noi in alcuna forma.

(*) In questo caso basata sul libro-inchiesta di Margaret Humphreys.
(**) Nel film si parla solo di Australia, ma anche il Canada era parte dello schema.

45 anni

Tra una settimana i Mercer festeggeranno i 45 anni di matrimonio. Pare che dalle loro parti (*) sia uso dare una gran festa in occasione del quarantesimo, ma lui, Geoff (Tom Courtenay), ha avuto grossi problemi di cuore a quel tempo, e i due hanno deciso di rimandare a cinque anni dopo.

Lei, Kate (Charlotte Rampling), è un tipetto molto deciso. Basti notare la soggezione che ha per lei il postino per capirlo. Ai tempi insegnava e non doveva essere una docente accomodante. Succede però l'inatteso che aggiunge tensione, seppure tutta sotterranea, a quella che doveva essere l'organizzazione di un evento che nessuno dei due sente particolarmente. Arriva infatti una lettera da un comune svizzero che annuncia a Geoff il ritrovamento di Katya.

Cinquant'anni prima Geoff stava con Katya. I due erano in vacanza nella Svizzera tedesca, con l'intenzione di raggiungere, con tutta la calma possibile, l'Italia a piedi. Katya è caduta in un orrido e di lei non si è saputo più nulla. Anni dopo Geoff e Kate si sono incontrati, piaciuti, sposati. Geoff ha raccontato qualcosa di Katya a Kate, tralasciando però molti dettagli non proprio secondari, che adesso riemergono prepotentemente.

Alla povera Kate cade il mondo sotto i piedi, anche se, potenza del carattere inglese, bisogna osservarla con molta attenzione per rendersene conto. Sembra sempre svagata, guarda in giro cose che non vede, come se facesse fatica a mantenere a fuoco la realtà che la circonda. Ha passato tutta la vita con un uomo e ora le sorge il sospetto, che non sembra per niente infondato, di essere stata la brutta copia del vero amore di lui, e che tutto quello che loro due hanno fatto assieme non fosse altro che il tentativo di lui di non perdere Katya.

E se fosse che ha attratto Geoff solo per la debole somiglianza fisica (**) e l'assonanza del nome? Kate finisce pure per sospettare che il loro cane sia stato scelto seguendo i gusti di Katya. E tutte le scelte che lei ha fatto assieme a Geoff, che senso hanno adesso? Avrebbe dovuto forse continuare a suonare il piano (***)?

Anche Geoff è sulle spine. Katya è morta mezzo secolo prima, ma lui non ha ancora accettato la cosa, e del resto le circostanze non l'hanno aiutato. Lei è sparita nel nulla, e solo ora riappare, fra l'altro congelata, come metaforicamente è rimasta nei suoi pensieri. Razionalmente Geoff si deve essere reso conto di essersi rovinato la vita, avrebbe dovuto seppellire Katya e vivere appieno la sua vita con Kate. Ora si rende conto di amare Kate, ma non è che sia troppo tardi?

Bravo Andrew Haigh, che sviluppa un racconto di David Constantine lasciando che tutta la carica emotiva della storia ci arrivi grazie all'interpretazione dei due eccellenti protagonisti. Non è facilissimo per noi mediterranei capire cosa stia accadendo, all'uscita dal cinema mi è stato chiesto come mai la Rampling fosse così svagata, se stata seguendo le indicazioni di regia o se non fosse in parte.

(*) Sono molto inglesi e piuttosto campagnoli.
(**) Entrambe avevano i capelli scuri, scopriamo.
(***) La vediamo improvvisare un pezzo e, nonostante la ruggine dovuta ad una evidente mancanza di esercizio, il risultato è potente.

Doctor Who 9.10: Face the raven

Siamo già al finale di stagione, organizzato in ben tre episodi. Essendo questo il primo del terzetto, ha un tasso di fumosità tale da consigliare di tenerlo da parte, meditarci sopra con calma, e ripensarci quando avremo il quadro completo della situazione.

Di certo abbiamo il ritorno di Rigsy (Joivan Wade), quella specie di Bansky che era apparso l'anno scorso in Flatline. Costui scopre di avere tatuato sul collo un numero che scende di minuto in minuto, ricordando pericolosamente un conto alla rovescia, e chiede aiuto a Clara Oswald (Jenna Coleman), di cui è companion in quell'anomalo episodio, e al Dottore (Peter Capaldi). Questi capisce che il pericolo è reale e letale, e intuisce che deve venire da alieni basati a Londra in una trap street (*). Non è chiaro da dove gli venga questa idea, e come mai gli venga in mente solo adesso che ci sia una piccola comunità extraterrestre a Londra che sfugge al suo controllo. Lui, così ficcanaso, così control freak, che non investiga questa possibilità che qui gli sembra così naturale.

Con un minimo di indagine, Dottore e accoliti trovano la loro Diagon Alley (**) e hanno la sorpresa di scoprire che a dominare la comunità è una ben nota umana, Ashildr (Maisie Williams), che ora si fa chiamare Sindaco Me, dopo essere stata Lady Me ed essersi dimenticata della sua natura umana, causa le sfortunate circorstanze narrate ne The girl who died.

E qui succede il disastro. Il Dottore è stranamente distratto, e si rende conto solo superficialmente che c'è qualcosa che non funziona, un trappolone che non vede. Clara, che abbiamo visto nell'ultima annata prendersi rischi sempre più grossi, spesso senza alcun vero motivo, si mette in un vicolo cieco, che la porterà alla sua morte. C'è la possibilità che non sia la sua vera fine, anche perché avviene in un contesto molto particolare, dopo che Lady Me ne aveva garantito l'incolumità su espressa richiesta del Dottore, e mentre ci troviamo nelle vicinanze di un macchinario il supporto vitale in animazione sospesa. In ogni caso è una uscita di scena brutale, lieve, affettuosa, e drammatica. Tutto assieme. Il bello, se così si può dire, è la sua assoluta inutilità. Non giova a nessuno, è semplicemente un errore. Tutti quanti sottovalutano cose, non fanno caso a qualche dettaglio, e come risultato, paf!, Clara non c'è più. Sembra che lei sia la meno dispiaciuta della sua fine, forse non ne poteva più di vivere senza Danny Pink.

E tutto questo, come dicevo, è solo una trappola per il Dottore. Non sappiamo ancora chi l'ha tesa, ma sappiamo che Ashildr si è prestata all'opera. Clara, prima di affrontare il corvo (***), chiede al Dottore di non vendicarsi per quel che è successo, di non diventare nuovamente un War Doctor. Sembrerebbe che sia un ultimo gesto di affetto di Clara per il Dottore, e io credo che sia davvero così. Ma il Dottore è furibondo, e pur sentendosi vincolato all'ultima richiesta della sua companion, non ha nessuna intenzione di lasciare che Ashildr se la cavi così a buon mercato. E così le spiega che lui farà il possibile per mantenere il controllo, ma che lei farebbe bene a cercare di stargli ben lontano, e che l'universo è ben piccolo per chi ha un conto in sospeso con il Dottore.

(*) Una trap street è una strada finta, che esiste solo in cartografia ma non nella realtà, disegnata con lo scopo di identificare violazioni di copyright. Vedasi Città di carta per la descrizione di un fenomeno simile ma in scala maggiore. Nell'universo whoviano, le trap street sono strade reali, che qualcuno fa sparire, e che gli umani pensano non siano mai esistite.
(**) Il riferimento ad Harry Potter mi pare piuttosto evidente.
(***) Come da titolo. Le condanne a morte nella piccola comunità del Sindaco Me sono eseguite da un corvo che sembra uscire da un poema di Edgar Allan Poe.

I ragazzi irresistibili

Commedia nata per essere recitata a Broadway, convertita poi per il cinema dall'autore e affidata alla regia di Herbert Ross. Segue un tema tipico di Neil Simon, quello della strana coppia, formata da individui che sembrano inconciliabili eppure non riescono fare a meno uno dell'altro. Rispetto ad altre variazioni, qui l'equilibrio è spostato su un polo del sistema, Willy Clark (Walter Matthau), mentre l'altro, Al Lewis (George Burns), ha molto meno spazio. Il protagonista ha pure una seconda spalla, il nipote-agente Ben (Richard Benjamin), il che dà maggior movimento teatrale, sacrificando però lo sviluppo dei due ruoli secondari.

Willy & Al sono stati per decenni una famosa coppia comica col nome di Sunshine boys (*), dieci anni prima dell'azione, Al ha abbandonato le scene, lasciando Willy arrabbiatissimo e disoccupato. Questo farebbe pensare che Willy abbia una qualche ragione nel covare il suo risentimento, non fosse che lui stesso ammette che prima di chiudere la partita i due avevano lavorato per un intero anno senza parlarsi. O meglio, parlandosi solo in scena, lasciando che parlassero i personaggi, ma mantenendo altrimenti entrambi un ostinato mutismo.

Spunta l'occasione di fare una apparizione in televisione. Per Willy sarebbe il modo di tornare finalmente a lavorare (**), e aiuterebbe il nipote permettendogli di guadagnare visibilità come agente teatrale. Per Al sarebbe il modo di far conoscersi conoscere meglio dai suoi nipoti. E nessuno dei due disdegnerebbe i soldi e la momentanea visibilità che ne deriverebbe. Però i conti i sospeso tra i due sono troppo pesanti per essere messi da parte. A turno entrambi usano le loro armi per far uscire dai gangheri l'altro, seguendo il copione che i due devono aver recitato per tutta la loro vita. Dimenticano però di essere molto anziani e acciaccati, al punto che si sfiorerà la tragedia, anche se poi tutto andrà a finire relativamente bene.

(*) Da cui il titolo originale.
(**) E' la sua ossessione. Anche se non ne ha bisogno, ne sente la necessità. Anche se poi fa di tutto per farsi scartare alle rare opportunità che Ben gli riesce a trovare.

Lo straccione

Primo film con Steve Martin protagonista e (co)sceneggiatore, anche se non si può parlare propriamente di un debutto, considerando quanto aveva già fatto, in entrambi i ruoli, per la televisione. La regia è di Carl Reiner, già complice in avventure precedenti, per la prima volta in questa formazione che sarà mantenuta per altri lavori, il meglio riuscito dei quali direi è Il mistero del cadavere scomparso.

Il titolo originale, The jerk, potrebbe essere tradotto come L'imbecille, in quanto si narra la storia di Navin R. Johnson (Martin) che ha indubitabilmente problemi nel capire quel che accade. Trovatello, è stato allevato da una famiglia di colore, e all'età di trenta anni e più non si era reso conto che c'era qualcosa di strano nella sua bianchezza. Decisosi per futili motivi ad abbandonare la casa, trova lavoro come inserviente ad un garage / benzinaio di un italo-americano. Preso di mira dal solito matto armato di fucile, si unisce casualmente ad un circo, in cui incontra Patty (Catlin Adams), una rude motociclista (*) che si innamora di lui, al punto da tatuarsi il suo nome su una chiappa. La felicità dei due piccioncini dura poco, perché entra in scena Marie (Bernadette Peters), cosmetologa (**), che risulterà essere il vero amore di Navin.

A contrastare l'amore dei due ci pensa la mamma di lei, che sembra molto mal disposta nei confronti di lui, in quanto mirerebbe per un partito migliore. Fortuna vuole che una demenziale invenzione di Navin gli frutta cifre spaventosamente alte, e i due si possono sposare. Ma i soldi danno loro alla testa, e il cattivo gusto li sommerge, rischiando di farli affogare. Capita però che l'origine della loro ricchezza abbia un peccato originale, che viene evidenziato dallo stesso regista, e questo porterà alla caduta in miseria della coppia. Dopo un primo shock, Marie non sembrerebbe poi così dispiaciuta del rovescio, le basterebbe poter vivere con Navin, il quale però non ci sta, e le promette di essere capace di tornare sulla cresta dell'onda (***). I due litigano, e lui se ne va, diventando un barbone - o straccione, come da titolo italiano. Segue lieto fine che raddrizza all'ultimo momento la situazione.

Alcune battute sono decisamente divertenti, altre meno. Spesso mi è venuto un certo imbarazzo nel trovarmi a ridere nelle disavventure di un imbecille, mi ha consolato il fatto di leggere nella figura di Navin la caricatura, per quanto incredibilmente esagerata, di tutti noi. O meglio, degli americani in particolare, ma di tutti gli occidentali in generale.

(*) Che un po' mi ricorda il ruolo di Ryan Gosling in Come un tuono.
(**) E non cosmonauta, come Navin inizialmente crede di capire.
(***) Così che le potrà regalare un diamante così grosso da farla vomitare.

Una canzone per Marion

Arthur (Terence Stamp) è una brutta persona. Si potrebbe pensare che sia colpa delle circostanze, sua moglie, Marion (Vanessa Redgrave), è messa davvero male, causa un tumore che, scopriremo dopo pochi minuti dall'inizio del film, non le lascia che un paio di mesi di vita. Scopriamo però che Arthur è ruvido e intrattabile da tempo immemorabile, forse la causa sta in qualcosa che è successo nella sua infanzia, cose ormai dimenticate di cui non si accenna nemmeno qui, fatto sta che a farne le spese sono un po' tutti quelli che gli sono attorno, in particolare il figlio James (Christopher Eccleston), che mai, in tutta la sua vita, ha ricevuto un briciolo d'affetto dal padre.

Per non lasciarsi sopraffare dalla malattia, Marion si era iscritta al coro, pensato esclusivamente per anzianotti, diretto da Elizabeth (Gemma Arterton). Arthur, ovviamente, pensa il peggio possibile della cosa ma, amando teneramente, anche se in quel suo modo spigoloso, la sua Marion, la accompagna (im)pazientemente alle prove. Elizabeth propone di partecipare ad un concorso, e organizza un piccolo evento in cui il gruppo si esibisce al pubblico, così che uno scout possa valutare la loro performance. Nell'occasione Marion, che ormai sa di avere i giorni contati e che probabilmente non arriverà viva all'evento, canta come solista una canzone, che è evidentemente dedicata al marito.

Trattasi di True colors di Cyndi Lauper, in cui si parla di lui che ha "darkness inside" (*), e lei che gli dice che vede i suoi veri colori, che sono belli come un arcobaleno, ed è per questo che lo ama, lo incita a mostrarli, e gli ricorda che, quando sarà giù di morale, lei sarà lì per lui.

Non sembra però che questa dichiarazione d'amore pubblica ottenga un gran effetto. Arthur continua ad essere brusco e villano, respingendo ogni possibilità di contatto con chiunque (**).

Infine, Marion muore. Arthur reagisce isolandosi ancor di più, allontanando bruscamente anche James, nonostante avesse promesso il contrario alla moglie.

Sarebbe la triste fine della storia, se Arthur non si lasciasse convincere da Elizabeth che Marion avrebbe voluto che lui prendesse il suo posto nel coro. Dapprima titubante, Arthur inizia il suo percorso che lo porterà alla serata del concorso. Ci sono alcune avversità, ma avrà modo di rispondere a Marion, cantando a sua volta come solista una canzone.

Ed è Lullabye (Goodnight, My Angel) di Billy Joel. Lui accetta la separazione, ma le ricorda che le aveva promesso che non l'avrebbe mai lasciata, e deve sapere che comunque, per quanto possibile, manterrà la sua promessa.

Brusco cambiamento di registro per Paul Andrew Williams che, per questo suo quarto film, lascia quello sembrava essere il suo genere preferito - tra thriller e horror - per affrontare un dramma sentimentale con alleggerimenti musicali. Mostra di avere una buona capacità sia nella scrittura che nella direzione, riuscendo a gestire bene i rapporti complicati nella famiglia di Arthur (***). Solo, mi è sembrato un po' debole nello sviluppo delle parti più leggere, come se la commedia non sia nelle sue corde.

(*) L'oscurità dentro di sé.
(**) Fanno eccezione, a dire il vero, un paio di vecchi amici con cui si trova al pub di tanto in tanto. Ma sembra che la relazione tra costoro sia una di quelle amicizie inglesi che consistono nel trovarsi a date prestabilite per bere birra e lasciare che il tempo passi fare nulla di sostanziale.
(***) Grazie anche all'ottimo cast.

Doctor Who 9.9: Sleep no more

Quando il Dottore (Peter Capaldi) quando avrà finalmente un'idea di cosa sta accadendo, citerà Shakespeare, e il titolo stesso arriva dalla tragedia scozzese: "Non dormire più! Macbeth uccide il sonno!". La sceneggiatura è di Mark Gatiss, ma nella finzione dobbiamo fare conto che questa non sia un episodio di una serie televisiva ma found footage montato alla bell'e meglio da Rassmussen (Reece Shearsmith), scienziato capo della stazione spaziale Le Verrier che orbita attorno a Nettuno. E questa peculiarità viene ribadita dall'assenza della sigla iniziale (*). Il nostro narratore, dopo averci scongiurato di non guardare quello che segue, spiega che è l'unico sopravvissuto di una catastrofe, e ci racconterà quello che è successo, il materiale che è riuscito a recuperare. Di tanto in tanto tornerà per darci qualche ulteriore spiegazione.

Si inizia seguendo un agile squadra militare di soccorso, capitanata da Nagata (Elaine Tan), che inizia l'esplorazione della Le Verrier. Con loro gran stupore, incontrano due strani personaggi, Clara (Jenna Coleman) e il Dottore, che sembrano completamente fuori luogo. Scena veramente notevole. Abbiamo vista innumerevoli volte il Dottore e la sua companion apparire dal nulla in una situazione improbabile. Questa volta vediamo la cosa dalla prospettiva opposta. I due si scambiano le solite battute, ma è come se li guardassimo a loro insaputa. In ogni caso, Nagata decide che i due non sono un pericolo, ordina loro di comportarsi come (**) sottoposti, e procede nell'esplorazione.

Quello che segue è abbastanza nell'ordine delle cose. Ci sono dei mostri che si mangiano allegramente tutti gli umani che incontrano, e i nostri dovranno cercare (a) di capire cosa diamine siano (b) cosa davvero vogliono (c) evitare che facciano danni eccessivi. Però ci sono alcuni elementi che vanno considerati con una certa attenzione.

In particolare conviene non sottovalutare Gatiss. Un problema tipico che si incontra nei film di questo genere, è che spesso viene da chiederci da dove vengano le immagine, e a volte non abbiamo spiegazioni ragionevoli. Qui però una spiegazione c'è, e ci cambierà il senso della storia.

Il finale manca della conclusione secondo il punto di vista del Dottore, ma è giusto così, visto che è una storia che viene da Rassmussen, che segue i suoi scopi, e che vede il Dottore come un personaggio tutto sommato secondario.

Non sappiamo quindi se la promessa del Dottore di risolvere una piccola seccatura che colpisce Nagata e Clara sia mantenibile o meno. Noto per inciso che anche in questo episodio Clara viene ibridata con un altra forma di vita. Viene da chiedersi quanto di umano sia rimasto in lei a questo punto.

(*) I credits vengono mostrati come se fossero un disturbo nella registrazione, e finiamo per intuirli più che vederli. Dobbiamo aspettare i titoli di coda per sentire il motivo musicale che identifica la serie da mezzo secolo.
(**) Mobilia, suggerisce il Dottore.

I dimenticati

Mi chiedo cosa ha pensato Preston Sturges quando ha scoperto il titolo che la distribuzione italiana ha dato a questo suo film. Lui aveva scelto Sullivan's travels, una evidente citazione dei Gulliver's travels. Anche se c'è ben poco di Jonathan Swift in questa storia, se non il taglio satirico con cui è affrontata la faccenda. E questo viene completamente perso in italiano, indicando invece una pista completamente sbagliata.

Si narra infatti di John L. Sullivan (Joel McCrea), un regista commerciale di buon successo grazie a commedie di facile presa popolare. Il buon Sullivan però è scontento, vuole diventare un Autore, come Ernst Lubitsch o, meglio ancora, Frank Capra (*). Per far questo, ha deciso di adattare il romanzo Fratello, dove sei? (**) per farne un film di impegno civile che scuota le coscienze dei cittadini sulla condizione dei numerosi poveri, vagabondi, senza un soldo, che sopravvivevano malamente al tempo. Il problema, gli fanno notare i capi dello studio, per tentare di dissuaderlo, è che lui non ha nessuna esperienza della materia, in quanto nato ricco, e arricchitosi ancor di più con il suo cinema di cassetta.

Sullivan ci pensa un secondo, decide che hanno ragione, e che si travestirà da povero per vedere come davvero vivono. Il tentativo di una mediazione, con Sullivan che fa il povero mentre un pullman di supporto lo segue a breve distanza, fallisce rapidamente, e Sullivan riesce ad assaporare la vita del poveraccio, il che lo porta rapidamente sul rischio della catastrofe. Per sua fortuna un paio di incontri fortunati gli evitano guai peggiori, tra cui una gentil donzella di cui non ci è dato sapere il nome (Veronica Lake) che, disillusa da Hollywood, vorrebbe far ritorno a casa. Caso vuole che lui finisca per dover rivelare a lei la sua vera identità e il suo progetto e lei, che preferisce rinunciare ad una bella lettera di raccomandazione per Lubitsch in cambio della possibilità di seguire Sullivan nel suo pellegrinaggio.

Nemmeno la partenza in coppia ha successo, e qui Sullivan è sul punto di perdersi d'animo. Sembra infatti che il caso si opponga ad ogni suo tentativo e lo faccia sempre ritornare al punto di partenza. Ma i due perseverano, e finalmente incontrano la povertà vera, una povertà da far rizzare i capelli, miseria al limite della sopravvivenza, docce comuni, lunghe code per una ciotola di qualcosa appena commestibile. Questa parte è narrata come se fosse un film muto, il che aumenta l'effetto citazionista rispetto alle comiche di Charlie Chaplin. Quando giungono al punto di cercare cibo nei bidoni dell'immondizia, i due decidono che hanno fatto abbastanza, e tornano allo studio.

C'è però un colpo di coda della vita disperata. Sullivan, infatti, viene derubato e colpito duramente alla testa mentre era in abiti da vagabondo, al suo risveglio reagisce rudemente ad un ferroviere e, ancora in stato confusionale, viene portato rapidamente in giudizio e condannato per direttissima a sei anni di lavori forzati. In pratica venduto come schiavo ad un possidente che fa lavorare lui e altri galeotti in un ambiente che ricorda molto 12 anni schiavo. La situazione sembra grama, ma era proprio quello di cui Sullivan aveva bisogno. Una domenica viene portato con i suoi compagni di sventura in chiesa (***) per vedere un film, che risulta essere una comica di Walt Disney con il povero Pluto a cui ne capitano di tutti i colori. E lì capisce finalmente quanto sia importante un film che riesce a strappare una risata anche all'ultimo dei derelitti.

Segue lieto fine d'ordinanza. Grazie ad un'idea geniale Sullivan riesce a far riconsiderare il suo caso e, lussi dei ricchi, esce di galera in un batter d'occhio. Però ha imparato la lezione. Ha capito di non saperne abbastanza per parlare degli ultimi. O forse finalmente ne sa, e proprio per questo vuole tornare a fare commedie.

Sessant'anni dopo i fratelli Coen si sono chiesti che film avrebbe fatto Sullivan dopo i fatti qui narrati. Chissà, magari gli riescono a far cambiare idea e utilizzare qualcosa del materiale che ha raccolto di prima mano con la sua esperienza.
E così nasce, per l'appunto, il loro Fratello, dove sei.

(*) Che Lubitsch sia inferiore a Capra è una opinione di Sullivan, non mia, e nemmeno di Sturges. Per me hanno fatto cose molto diverse, tali da non renderli paragonabili, ma sono entrambi tra i Grandi. Ho il sospetto che Sturges preferisse Lubitsch.
(**) In originale, "O Brother, Where Art Thou?", nel finale vediamo la copertina del libro, l'autore è inesistente, ma il suo cognome ricorda Steinbeck.
(***) Una chiesa per neri. Da notare che siamo nel Sud e ancora in pieno segregazionismo. Puoi essere bianco quanto vuoi, ma la galera ti porta al livello più basso della società.

Mutant chronicles

Basato liberamente sull'RPG omonimo, segue la struttura tipica di un'avventura di un gioco di ruolo. Si fornisce l'ambientazione, una compagnia di personaggi molto diversi parte con uno scopo ben determinato, gli avversari fanno di tutto per ridurre in briciole i nostri eroi, che però arrivano alla meta. O meglio, almeno uno arriverà alla meta, visto che si segue anche la tradizione degli horror-zombie, con relativa conseguente fine truculenta per gran parte dei protagonisti.

Siamo nel 2700 e rotti, il mondo è controllato da cinque corporazioni che in uno scenario alla 1984 sono in perpetua guerra tra di loro. Per motivi poco chiari, la tecnologia è una strana mescola che epoche che vanno dal medioevale, alla prima / seconda guerra mondiale, al futuribile. Nel corso di una battaglia tra gli inglesi (Imperial) e i tedeschi (Bauhaus), viene rotto il sigillo che teneva imprigionato da diecimila (sic!) anni una prodigiosa macchina aliena che converte gli umani in mutanti assassini.

Fratello Samuel (Ron Perlman) è a capo di una congregazione religiosa che ha la sua origine nel gruppo di arditi che diecimila anni prima era riuscita imbrigliare la macchina e metterla fuori combattimento. Per motivi non spiegati, costoro hanno taciuto per tutto il tempo, e solo adesso che il danno è fatto chiedono alla corporazioni di mettere assieme un manipolo di disperati che, seguendo le indicazioni contenute nella bibbia di quel bislacco ordine, potrebbero distruggere la macchina.

Le corporazioni sono poco interessate alla missione, dopotutto la Terra è già mal ridotta, e preferiscono lasciare gran parte degli umani al loro destino mentre i pochi eletti si rilocano su Marte e in giro per il sistema solare. Capita però che il capo della Imperial, Constantine (John Malkovich), non abbia alcuna voglia di abbandonare il nostro pianeta, e decida perciò di dare la sua navicella a Fratel Samuel, facendo sì che l'azione cominci.

La sceneggiatura (Philip Eisner) e la regia (Simon Hunter) hanno molteplici zone d'ombra. La produzione sembra più televisiva che cinematografica, una serie impressionante di spiegoni ammorba la prima parte del film, Perlman mi è parso decisamente fuori ruolo, Malkovich ha qualche secondo in cui mostra che riesce ad essere un grande anche in queste tristi circostanze.

Cuore prigioniero

Cosa sia successo al capitano ceco Karel Hasek (Michael Redgrave) prima dell'inizio del film non mi è chiaro. In un qualche momento è stato fatto prigioniero dai tedeschi, chissà, forse anche prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, durante la crisi dei Sudeti. In qualche modo è fuggito e, piuttosto improbabilmente, è riuscito a passare la linea del fronte, finendo in Francia. Siamo però nel giugno del 1940, e i tedeschi stanno pure loro sfondando e finiscono per raggiungerlo.

Se lo identificassero come fuggitivo lo passerebbero per le armi, decide così, dopo una iniziale titubanza, di assumere l'identità di Geoffrey Mitchell, un ufficiale inglese di cui trova il cadavere. Per cui si arrende, e viene riportato in Germania con altri prigionieri di guerra. Non lo beccano subito perché parla un ottimo inglese, ma la sua ignoranza praticamente assoluta della vita quotidiana desta più di un sospetto tra i suoi compagni di sventura. Si aggiunga poi che parla anche un ottimo tedesco, e la sua voglia di rendersi utile glielo fa usare, rendendo ancora più pericolosa la sua situazione.

Per sua fortuna, i britannici credono alla sua buona fede, e fanno il possibile per evitare che venga scoperto dai tedeschi. Per mimetizzarsi meglio, inizia una relazione epistolare con la moglie del defunto Geoffrey, Celia (Rachel Kempson), che per sua fortuna era in pessimi rapporti col marito, per colpa di lui pare, e può dunque usare la scusa della prigionia per dichiararle di essere completamente cambiato e chiederle di ricominciare da capo, come se fossero perfetti sconosciuti che si incontravano per la prima volta.

La storia di Karel e Celia procede in sottofondo mentre la storia principale segue la vita del campo di prigionia, narrando una serie di fatti che diventeranno un classico del genere. C'è anche un tentativo di fuga, via tunnel sotterraneo, che in altri titoli sarà la parte centrale della narrazione, qui è invece un episodio del tutto secondario.

Le pagine della nostra vita

Quale sia il registro del film lo si capisce dalle prime immagini, belle fin che si vuole, ma con un tasso di zuccherosità tale da renderle un pericolo glicemico per chiunque. Dopo pochi minuti ho avuto la sensazione di sapere praticamente tutto quello che c'era da sapere sulla storia, e in effetti avrei saputo fare un rapido riassunto di quello che stava per succedere. Eppure è un film che si lascia vedere, se non si aborriscono i drammi sentimentali strappalacrime, e ha anche un buon numero di aspetti positivi, che direi superano quelli negativi.

Tra i secondi metterei la lunghezza e una fantasia consolatoria che, purtroppo, è assolutamente improbabile, se non impossibile. Il romanzo di Nicholas Sparks parte infatti dall'assunto che l'Alzheimer non sia quel mostro ingordo che si mangia tutta la nostra memoria, e che l'amore possa sconfiggerlo, anche se solo temporaneamente. La regia di Nick Cassavetes ha il torto, se così si può dire, di seguire con molto rispetto la storia originale che mette in parallelo due vicende, con conseguente uso di due ore per completare la narrazione. Ci sono alcuni elementi, come tutta la parte legata all'amico del protagonista, che hanno un impatto minimo sullo sviluppo della storia e che, per il mio gusto, potevano essere eliminati senza problemi.

Ci sono due coppie di protagonisti in due tempi diversi. Nel tempo presente (*) Duke (James Garner) è in una casa di riposo e legge una storia a Lei (Gena Rowlands) che ha grossi problemi di memoria, in pratica non ricorda nulla, in cui si narra di Allie (Rachel McAdams) e Noah (Ryan Gosling) che erano ragazzetti sul finire degli anni trenta. Lei di famiglia ricca, lui poverissimo, ma il cui padre è interpretato da Sam Shepard. Diversissimi, sono in contrasto su tutto, ma trovano sempre una sintesi. Lui lavora per pochi centesimi all'ora, lei è sul punto di partire per una qualche costosa università chissadove (**). Nonostante tutto si amano e vogliono trovare un modo di continuare a stare assieme. L'ostacolo, che si rivelerà insormontabile (***) è la madre di lei (Joan Allen), che proprio non ne vuole sapere di vedere la figlia sposata a "white trash" (°).

Lo svolgimento susseguente segue le regole del genere, ma con alcune sorprese. Ad esempio, più avanti scopriremo il perché del comportamento della madre di Allie, e la vedremo titubare, forse ammettere di aver avuto torto, e comunque lasciare che sia la figlia a fare la scelta finale.

Ottima la prova degli attori, con le due coppie principali estremamente credibili. Per la coppia giovane forse aiuta anche il fatto che la McAdams e Gosling siano quasi coetanei, nati entrambi a London nell'Ontario, e che proprio con l'occasione di questo film si siano messi assieme per un paio d'anni.

(*) Occhio e croce siamo attorno al cambio di secolo.
(**) Alla fine finirà a New York.
(***) Almeno temporaneamente.
(°) Immondizia bianca, così vengono qualificati i bianchi che non hanno adeguato pedigree.

Doctor Who 9.8: The Zygon inversion

Dove eravamo rimasti? Ah sì, una Zygon ribelle ha preso le sembianze di Clara Oswald (Jenna Coleman), ha causato una carneficina umana e zygoniana con lo scopo di spingere le due popolazioni a rompere la tregua e ammazzarsi fino a che uno solo dei due contendenti sopravviva. Ella si è battezzata Bonnie, ma il Dottore (Peter Capaldi) preferisce chiamarla Zygella, probabilmente con il solo scopo di farla innervosire.

Clara è in sospensione vitale all'interno di un bozzolo zygoniano in una situazione che ricorda molto quella in cui l'abbiamo incontrata la prima volta, nel primo episodio della settima stagione, ne Il manicomio dei Dalek. Riesce però a capire di essere in una realtà fittizia e a influire sul comportamento di Bonnie, riuscendo così ad evitare che il Dottore e Osgood (Ingrid Oliver) finiscano in briciole. Abbiamo così modo di vedere il paracadute del Dottore, che riporta i colori della Union Jack, il che, seguendo la contorta logica del Signore del Tempo, avrebbe lo scopo di renderlo mimetico. E Osgood, che rompe gli occhiali nella concitata azione, ha la fortuna di poterli rimpiazzare temporaneamente i prodigiosi occhiali sonici, dotati pure di accesso a internet con relativa imbarazzante cronologia.

Superata una serie di complicazioni, tra le quali c'è il ritorno di Kate (Jemma Redgrave), che è riuscita a scampare all'attacco zygoniano della puntata precedente, si arriva al momento della verità. Zygon contro umani, Bonnie contro Kate. E in mezzo c'è il Dottore. Che mostra tutta la forza in un breve monologo in cui racconta quanto si senta debole, quanto i fatti che ha vissuto come War Doctor, il Dottore Dimenticato (John Hurt), lo abbiano usurato e disgustato della furia omicida che pare pervadere l'universo.

(*) vedasi Il giorno del Dottore, speciale del cinquantesimo, per dettagli.

Snoopy & friends - Il film dei Peanuts

Titolo mentitore, il bambino buffo con un gran nasone (*) AKA l'asso volante della prima guerra mondiale, nemico giurato di Manfred von Richthofen (**), fa solo da spalla a Charlie Brown che è il vero protagonista di questa storia, basata sulle strisce di Charles Schulz e diretta da Steve Martino per i Blue sky studios, le animazioni targate Twentieth century fox, ovvero L'era glaciale e dintorni.

Il nostro disastroso antieroe sembra diretto verso la sua solita serie di piccole disavventure, a partire dall'ennesimo tentativo infruttuoso di far volare un aquilone, quando arriva una nuova famiglia nel vicinato. E con essa niente meno che La Ragazzina dai Capelli Rossi, della quale Charlie si innamora immediatamente, praticamente senza averla nemmeno vista bene.

Come lui stesso ci dice, in lei vede una occasione di riscatto. Viene da fuori, non sa di tutte le sue disavventure, con lei Charlie Brown può cercare di avere una nuova chance. Ma a volte non basta la buona volontà e, per quanto impegno ci metta, ogni tentativo di rendersi interessante agli occhi di lei si trasforma in una catastrofe. Succede così che Charlie Brown vorrebbe fare colpo come prestigiatore ma, anche se ha preparato con impegno il suo numero, preferisce rinunciarci per salvare la sorellina Sally da una brutta figura; impara a ballare quando scopre che è una passione di lei, senza risultato; gli capita di dover commentare un libro a scelta, in coppia proprio con lei, e sceglie addirittura Guerra e pace, ma il suo riassunto finisce in briciole; ottiene un punteggio sensazionale ad un test scolastico, e ammette pubblicamente che si tratta di un errore.

Sembra che non ci sia niente da fare, il caso si oppone strenuamente a tutti i suoi tentativi, e anche il tenace Charlie Brown non sa più che fare. Epperò, l'ultimo giorno di scuola, è proprio la ragazzina dai capelli rossi a fare qualcosa per cercare di entrare in contatto con lui. Ma a questo punto è Charlie Brown che non ci crede più. Fortuna che Linus insiste, e lo convince a provare almeno a parlarle una volta prima di arrendersi definitivamente. E qui succede il miracolo. L'albero mangia-aquiloni libera una sua preda scatenando così una sequenza di avvenimenti fortunosi che porteranno, chissà, ad iniziare davvero una nuova fase della vita di Charlie Brown.

(*) Come viene a volte scambiato da quella distrattona di Piperita Patty.
(**) A sua volte AKA Barone rosso.

Whisky a volontà

Nel 1941 una nave commerciale inglese naufragò dalle parti delle Ebridi, su in Scozia. La seconda guerra mondiale stava già mordendo l'economia britannica, e molti beni normalmente comuni erano diventati di difficile reperibilità. In particolare, la S.S. Politician aveva nella stiva una gran quantità di whisky. Si può immaginare la reazione dei nativi.

Compton MacKenzie rielaborò la storia e ne fece prima un romanzo e poi l'adattò per il cinema per la regia di Alexander Mackendrick. E' il primo dei tre film che questo regista ha diretto per gli Ealing Studios, seguiranno Lo scandalo del vestito bianco e Ladykillers. Tutti e tre sono considerati tra le cose migliori nella collezione di commedie di quel mitico studio. In questo titolo mi è sembrato di notare a tratti una certa vicinanza con lo stile neorealistico di quello che ai tempi era il nuovo cinema italiano. Dalla biografia di Mackendrick leggo in effetti che durante la guerra è stato anche in Italia ed era entrato in contatto con Roberto Rossellini quando questi stava lavorando a Roma città aperta.

Il ritratto affettuoso ma pungente della comunità locale mi ha fatto pensare a quella narrata in Local hero. L'interpretazione molto rigorosa, ma anche ipocrita, della tradizione religiosa a Le onde del destino.

Lo scandalo del vestito bianco

Alec Guinness, dopo essersi creato una solidissima reputazione teatrale, ha fatto un debutto cinematografico di quelli che spaccano in un paio di film dickensiani (*) adattati e diretti da David Lean. E' diventato poi una star di riferimento nelle cosiddette Ealing Comedies che hanno spopolato in Gran Bretagna per un decennio nell'immediato dopoguerra. Dopo il tour de force di Sangue blu (**), in cui interpreta addirittura otto ruoli, l'intera famiglia D'Ascoyne, è il protagonista di due titoli che escono nel medesimo anno, uno è questo, l'altro è L'incredibile avventura di Mr. Holland.

Il team creativo è nelle mani di due estrosi cugini, Alexander Mackendrick (***), sua la regia, e Roger MacDougall. I due, pur segnando notevoli successi commerciali, sono degli oggetti non identificati del panorama cinematografico del periodo, da cui finiranno entrambi per allontanarsi non riuscendone a sopportare l'impostazione industriale. Questo film rende bene conto del loro lavoro. Lo si può guardare come se fosse una semplice commedia paradossale, farsi quattro risate e archiviarlo in un cantuccio della memoria. Oppure si può dedicargli una maggiore attenzione, e leggerlo come una tagliente parabola sul nostro mondo produttivo, da cui nessuno esce bene.

Si narra infatti la storia di Sidney Stratton (Guinness), un tipico scienziato con la testa tra le nuvole che ha un sogno, realizzare una nuova fibra indistruttibile e che respinga lo sporco. Tutti lo prendono per matto finché non incontra un paio di donne che credono in lui, una operaia, Bertha (Vida Hope), e la figlia di un magnate dell'industria tessile, Daphne (Joan Greenwood). Quando finalmente sembra riuscire nel suo intento, scopre che in realtà nessuno vuole che la sua invenzione venga prodotta. Il nostro ciclo produttivo è pensato per incentivare il consumo, e il suo abito indistruttibile non piace agli industriali, agli operai, e nemmeno alle lavandaie.

(*) Grandi speranze del 1946 e Oliver Twist del 1948.
(**) Film su cui è stato modellato Totò diabolicus di dieci anni dopo.
(***) Pochi anni dopo Mackendrick dirigerà nuovamente Guinness in Ladykillers.

A cavallo della tigre

Giacinto Rossi (Nino Manfredi) è un povero disgraziato che riesce a malapena a far arrivare a fine mese la piccola famiglia. Concepisce così una demente auto-rapina che dovrebbe portargli una sommetta extra ma che invece, causa anche un pescatore di vongole avariate a nome Garibaldo, lo porta dritto in galera, sia pure per breve tempo. Mentre sconta senza troppi patemi la pena in una galeraccia infame, finisce controvoglia per diventare elemento fondamentale del piano di evasione di una banda di disperati. Mario Tagliabue (Mario Adorf) è un ergastolano che ha ucciso a biciclettate un complice che voleva scappare senza dividere il malloppo; Sorcio (Raymond Bussières) è un poco di buono dalla mano lesta invecchiato nel mestiere; Papaleo (Gian Maria Volonté) ha ucciso il rivale in amore e ora smania per tornare in libertà così da poter uccidere anche la donna che lo ha disonorato.

Il piano funziona, ma un equivoco derivante dal consumo inatteso di alcuni fichi secchi complica la fuga, e dopo una serie di bizzarre avventure, solo Tagliabue e il Rossi riescono ad arrivare a Civitavecchia, dove sperano, con l'aiuto di Garibaldo, di imbarcarsi per l'Egitto. Sappiamo sin dall'inizio che le cose andranno a finire altrimenti.

Regia di Luigi Comencini, che scrive anche la sceneggiatura assieme ad Age, Scarpelli e Mario Monicelli. Commedia all'italiana anomala, molto più amara e cinica della produzione del periodo, riscosse poco successo ai tempi ma ha guadagnato credito col passare degli anni, e credo che oggi possa essere considerata una tra le cose migliori del filone.

Son contento

Lasciati i Giancattivi, Francesco Nuti ha realizzato in rapida sequenza tre commedie per la regia di Maurizio Ponzi, questo è la terza della serie, in un certo senso simile alla precedente Io, Chiara e lo Scuro con un protagonista (*) che in entrambi i casi ha una passione dominante per la quale trascura tutto il resto, ed in particolare la donna che ama. In questa versione l'impostazione è più amara e il finale, nonostante le risate di sottofondo, è piuttosto da dramma.

Paola (Barbara De Rossi) ama ancora Francesco, ma non ne può più di venire per lui dopo il lavoro, decide perciò di mollarlo. Francesco, che di lavoro fa il "fantasista" (**), entra in crisi, trascinandoci dentro pure il suo decaduto impresario, Falcone (Carlo Giuffrè). La crisi ha però un effetto positivo su Francesco, che reinventa il suo repertorio tornando rapidamente sulla cresta dell'onda. Succede così che una sera incontra nuovamente Paola e, grazie anche alla ritrovata fiducia in se stesso, la riconquista. I due passano una bella giornata assieme, e Paola dice a Francesco di essere felice, in quanto questa volta non lo ha visto più distratto dal suo lavoro, ma focalizzato su di lei. Francesco le propone di tornare a vivere da lui, e la invita a vedere la prima del suo nuovo spettacolo, una stand-up comedy, su cui lui conta molto.

Lo spettacolo piace molto al piccolo pubblico che ha richiamato, e pure a Paola, almeno inizialmente. Fino a che si rende gradatamente conto che Francesco sta mettendo in scena la loro storia, e che Francesco era così attento nei suoi confronti perché stata studiando il materiale che avrebbe portato in scena. Il dramma sta nel fatto che Francesco non capisce perché Paola se ne sia scappata dal teatro prima ancora della fine e, dopotutto, non se ne mostra nemmeno troppo dispiaciuto. La ama, continua ad amarla, ma viene dopo il suo lavoro.

Ferzan Ozpetek, che è anche aiuto regista, fa qui la sua unica brevissima apparizione sullo schermo, nei panni di un madonnaro. Altro nome che diventerà più noto negli anni successivi è quello di Ricky Tognazzi, nella parte del postino che consegnando una raccomandata a Francesco si mette inconsapevolmente e incolpevolmente in una scomoda situazione.

(*) Carattere e cognome cambia, ma il nome è sempre Francesco.
(**) Intrattenitore comico che si esibisce in balere e discoteche tra un numero musicale e l'altro

Ad ovest di Paperino

Marta (Athina Cenci) è una potenziale artista di poche speranze che odia, cordialmente ricambiata, tutti i suoi condomini, bimbi inclusi, e in subordine il resto della popolazione. Sandro (Alessandro Benvenuti) lavora in una radio libera, e passa la quasi totalità del suo tempo a fare grevi scherzi a chiunque, prendendosi pause per assumere droghe di vario tipo. Francesco (Francesco Nuti) è un disoccupato, angariato dalla madre, con gravi problemi nel relazionarsi con chiunque. I tre si incontrano casualmente, si stanno simpatici, e decidono di passare la giornata assieme, senza combinare niente di particolare.

La sceneggiatura è più che altro una scusa per mettere assieme sketch dei Giancattivi, alcuni più riusciti, altri meno. Il titolo assume un suo senso quando si sappia che Paperino è (anche) il nome di una frazione di Prato.

Tutto può accadere a Broadway

Credo che il problema di questo film stia nella sua lunghissima gestazione, e nei numerosi cambiamenti di cast che ha subito lungo la strada. Scritto da Peter Bogdanovich (*) e Louise Stratten (**), quando i due erano sposati, era stato pensato con John Ritter nel ruolo maschile principale, il che avrebbe dato un indirizzo più slapstick allo svolgimento dei fatti. L'improvvisa morte di Ritter, e altri fatti, hanno causato un lungo stop al progetto e una riscrittura che forse ha causato qualche sbilanciamento di troppo nell'azione.

Come in Rumori fuori scena, il tutto ruota attorno alla preparazione di uno spettacolo teatrale che sembra ugualmente destinato alla catastrofe. Qui però il punto di vista prevalente è quello del secondo ruolo femminile, una debuttante che sappiamo subito aver fatto un gran salto verso Hollywood, infatti tutta la storia è narrata in flashback da lei ad una giornalista.

Abbiamo dunque che Izzy/Isabella (Imogen Poots) lavora come escort a New York sotto l'improbabile nome di Glow Stick in attesa di ottenere una parte come attrice. Una sera viene mandata dalla sua maitresse nella camera di albergo del noto regista Arnold Albertson (Owen Wilson), che però nasconde la sua vera identità ad entrambe. Arnold, che è sposato con Delta Simmons (Kathryn Hahn), ha l'hobby di portare a cena prostitute, passare con loro serate romantiche e, dopo averci fatto sesso, offrir loro un sacco di soldi affinché cambino vita realizzando quello che è il loro sogno.

Glow ha alcuni affezionati clienti, tra cui un giudice (Austin Pendleton) che ha per lei una fissazione, al punto che la fa pedinare da un investigatore privato. Rendendosi conto di esagerare, vorrebbe parlare con la sua psicoterapeuta, che però s'è presa un sabbatico di sei mesi per cercar di risolvere la sua dipendenza da alcolici (***), e dunque finisce in cura dalla di lei figlia, Jane (Jennifer Aniston), una pazza scatenata.

Nello stesso albergo, stesso piano, di Arnold c'è anche la stanza di Seth (Rhys Ifans), protagonista maschile della commedia che Arnold deve dirigere, che è innamorato, non ricambiato, di Delta, che a sua volta è la protagonista femminile. La pièce è scritta da Joshua (Will Forte), che è fidanzato a Jane, ed è il figlio dell'investigatore a cui il giudice si è rivolto per far pedinare Glow. Joshua, sfinito dal caratteraccio di Jane, la molla, e cerca di concludere con Isabella, attirandosi così le ire di Jane e del giudice.

Dopodiché la vicenda diventa più intricata. Tutto sommato l'architettura del racconto regge, anche se non tutto fila per il meglio. Il punto chiave della storia mi è sembrato un po' duretto da mandar giù. Va bene che da una screwball comedy non ci si deve aspettare una gran ragionevolezza, ma il comportamento di Arnold mi pare veramente bizzarro. Ho delle riserve anche sul finale, basato su una comparsata di Quentin Tarantino.

(*) Sua pure la regia.
(**) Anche tra i numerosi produttori, assieme a Wes Anderson e Noah Baumbach.
(***) Vederemo nel finale che non ci riesce. Forse perché la presunta riabilitazione aveva sede in Toscana.

Belli e dannati

Nulla a che vedere con l'omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald se non, volendo arrampicarsi sugli specchi, un possibile parziale parallelismo tra l'Anthony del libro e lo Scott del film. Trattasi invece del solito titolo scelto con poco discernimento dalla distribuzione italiana. Ce da dire che l'originale è in effetti un sibillino My own private Idaho che sembra sottolineare come il punto di vista principale da seguire sia quello di Mike (River Phoenix) attribuendogli la fantasia di voler vivere in un Idaho fantastico che risponda alle sue aspettative più di quanto faccia la realtà.

Mike è un protagonista ben strano, anche perché la sua narcolessia gli impedisce spesso di essere presente proprio quando le cose diventano interessanti. Sono infatti le forti emozioni che scatenano le sue crisi, che solitamente lo lasciano addormentato nei momenti e nei posti meno opportuni. Tenendo conto che vive una esistenza errabonda, e che si mantiene prostituendosi, senza stare troppo a sottilizzare, a uomini e donne, si può immaginare quanto la sua malattia gli complichi immensamente la vita. E dire che sarebbe già abbastanza difficile senza questo questo ulteriore problema, visto che ha un disperato bisogno di sua madre, che lo ha abbandonato quando era ancora un bimbo, e un rapporto molto complicato con suo padre (James Russo).

La sua vicenda si incrocia con quella di Scott (Keanu Reeves), figlio del ricco e potente sindaco di Portland, il cui scopo principale della vita sembra quello di far ammattire il genitore con il suo comportamento sregolato. Gus Van Sant fa esplicito riferimento all'Enrico IV ed Enrico V di Shakespeare, al punto che alcune battute sono prese di peso dai drammi del Bardo e messe in bocca senza alcun adattamento ai protagonisti del film, con un curioso effetto straniante. Il Falstaff di Scott è tal Bob Pigeon (William Richert), un brutto ceffo che insegnerà quel che sa meglio fare al suo prediletto, sperandone riconoscenza quando questi entrerà in possesso dei beni di famiglia, finendo però come l'antieroe shakesperiano.

Mike e Scott vivono una serie di avventure tra droga e prostituzione, tra cui un doppio incontro con Hans (Udo Kier) bizzarro commerciante tedesco, che darà loro i soldi necessari per aiutare Mike nella sua ricerca della madre, che scopriamo essere andata in Italia. La puntata nel Belpaese è molto utile a Scott, che trova Carmela (Chiara Caselli) di cui si innamora e lo spinge a cambiare vita, meno a Mike, che non trova la madre e perde l'amico.

Finale circolare, in cui Mike si ritrova, spiantato com'era all'inizio, in una strada desolata nell'Idaho.

Doctor Who 9.7: The Zygon invasion

Tra i punti lasciati in sospeso dallo strepitoso speciale del 50°, il giorno del Dottore, c'era quello relativo alla simpatica Osgood (Ingrid Oliver) e quello degli Zygon che si sono stabiliti sulla Terra assumendo le sembianze di terrestri. Gli Zygon hanno straordinarie capacità camaleontiche, e il trattato stabilito a quel tempo ha chiesto loro di rinunciare a quel loro dono, avendone come contropartita il permesso di vivere pacificamente sul nostro pianeta. Gli impicci di quello che ha portato a questa soluzione hanno causato lo sdoppiamento di Osgood. Ne abbiamo una "reale" e una copia zygoniana, solo loro sanno chi sia chi, e non hanno nessuna voglia di dirlo agli altri.

Poi, stagione scorsa episodio Death in Heaven, quella pazza di Missy ha polverizzato Osgood, così, giusto perché le andava di farlo. Le circostanze sembravano tali da suggerire che fosse stata l'umana a soccombere, e che a rimanere in circolazione fosse la zygoniana. Ora scopriamo che le due Osgood non si consideravano più né umane né zygoniane, ma un misto delle due specie. O, come dice il Dottore (Peter Capaldi), un ibrido. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che il concetto di ibrido è qualcosa che ossessiona il Dodicesimo Dottore della stagione nove. Cosa ci sia sotto non ci è ancora dato saperlo, anche se tutti gli indizi puntano nella direzione di Clara Oswald (Jenna Coleman) (*).

Clara, dal canto suo, aveva già un problema di ibridazione con i Dalek, sempre grazie alla perfida Missy, vedasi l'inizio di stagione e in particolare la seconda puntata, ora si trova a dovere fare i conti con la tendenza zygoniana alla duplicazione degli umani. E così arriviamo al cuore di questa prima parte del quarto doppio episodio della corrente annata. Una parte degli Zygon si sono stufati di dover vivere sotto sembianze umane, non lo trovano naturale, voglio essere liberi di fare quel che gli pare, e pensano che la soluzione sia tornare al conflitto, eliminare i moderati di ambo le parti, e giocarsi il tutto per tutto con un bello scontro diretto Umani vs. Zygon.

Come da copione, arriviamo al cliffhanger in un momento disperato. Sembra che gli Zygon ribelli siano vicini alla vittoria. Dottore, Clara, e pure Kate Lethbridge-Stewart (Jemma Redgrave), la comandante in capo di UNIT, sembrano spacciati, e non si riesce a capire chi e come possa raddrizzare la situazione.

(*) Che ci sia un legame tra Oswald e Osgood? L'etimologia del primo cognome porta a Potere divino, il secondo a Buon dio. Ma l'assonanza potrebbe essere solo una tra le tante false piste create da Steven Moffat.