Tre uomini e una pecora

Il titolo originale, A few best men, sembra strizzare l'occhio a A few good men, allusione completamente persa in italiano, visto anche che da noi il secondo è noto come Codice d'onore. Ma non è una gran perdita, dato che i due film hanno ben poco a cui spartire. La titolazione italiana rimanda invece a Tre uomini e una gamba, di Aldo, Giovanni e Giacomo, ma di nuovo senza colpire nel segno. Anche perché gli amici-protagonisti, a ben vedere, qui sono quattro.

Cast anglo-australiano a basso tasso di riconoscibilità in cui spicca però Olivia Newton-John, a trent'anni di distanza dal suo breve periodo d'oro di attrice, iniziato e finito con Grease. La stessa contribuisce pesantemente alla colonna sonora.

La storia non è particolarmente intrigante. Lui è un ragazzetto inglese, un orfano la cui famiglia è composta da tre amici coetanei e piuttosto messi male, lei un'australiana di famiglia altolocata. Si conoscono in vacanza, si piacciono un sacco, decidono di sposarsi. Tornano alle rispettive case, lui raccatta gli amici e tutti e quattro se ne vanno in Australia. Segue incontro-scontro con la famiglia della sposa, e con un bizzarro spacciatore australiano, da cui conseguono una serie di catastrofi che invero coinvolgono anche la pecora (maschio, nonostante ne venga messa in dubbio la mascolinità) citata dal titolo italiano.

Si tratta di una commedia, e dunque tutto finirà per il meglio, persino per lo spacciatore. Sceneggiatura (Dean Craig) non definibile robusta, ma dotata di molti spunti comici, ben sfruttati dalla regia (Stephan Elliott, sì, quello di Priscilla) che pure non è che si possa dire memorabile.

Umorismo che a volte punta sul pecoreccio, ma che, tutto sommato, direi che funziona.

Nemico pubblico

Parte bene, ma non capisco dove voglia andare. Ho avuto l'impressione di aver girato in giro per un paio d'ore ad una storia di cui si sapeva già molto. Che è un po' un problema nel raccontare al cinema una storia vera, avendo per di più lo scopo di restare (abbastanza) aderenti ai fatti.

La regia di Michael Mann (anche co-sceneggiatore) mi è parsa più focalizzata sulla rappresentazione della storia che sul suo senso, e il risultato mi pare conseguentemente piacevole ma ben poco memorabile. Gran parte del peso attoriale è caricato su Johnny Depp, che interpreta efficacemente John Dillinger, di cui però si perde quasi ogni approfondimento psicologico, spendendo gran parte del suo tempo in azione. Evasioni, rapine, fughe, spari e botti, e pure una storia sentimentale con Marion Cotillard, dove i due passano assieme ben poco tempo e sembra che siano più interessati all'idea di essere una coppia, che ad esserlo in realtà.

Sull'altro lato della barricata vediamo in azione Christian Bale in una parte molto misurata, che pure avendo il suo perché, visto che il suo personaggio si trova a combattere tra le pressioni del suo capo (J. Edgar Hoover, mostrato come un burocrate assetato di potere, tendenzialmente fascistoide, ben interpretato da Billy Crudup) e il suo desiderio di essere un poliziotto onesto, mi pare finisca però per risultare poco incisiva.

Mann gestisce molto bene i numerosi personaggi al contorno, ricorrendo anche ad attori che, sia pure in parti minime, riescono a dare peso alla loro apparizione. Vedasi ad esempio Channing Tatum, Giovanni Ribisi o Carey Mulligan.

Curioso il passaggio dal plurale del titolo originale (Public enemies) al singolare italiano. Destino che accomuna questo titolo a L'uomo che fissa le capre.

Super - Attento crimine!!!

Da bravo film indipendente, ha avuto una storia distributiva travagliata. Prime uscite festivaliere nel 2010, rapido passaggio nelle sale americane nel 2011, per poi passare direttamente alla pay-tv.

La storia produttiva non è da meno. Dalla prima idea alla realizzazione sono passati tanti di quegli anni che nel frattempo sono usciti altri film basati sulla stessa idea, in particolare ricordo Gardener of Eden - Il giustiziere senza legge del 2007 e Kick-ass del 2010, il che non ha certo giovato alla riuscita del progetto.

La storia è quella di un tizio normale che si mette a fare il supereroe. Idea che, del resto, è venuta anche a Lillo & Greg con il loro NormalMan. Si veda qui, per esempio:

Però si sa gli americani come sono, e le loro versioni sono molto più truculente.

Nel caso in questione, James Gunn (sceneggiatura, regia, e anche attore con una diabolica particina) mostra un chiaro interesse per la violenza sanguignolenta che, a mio gusto, avrebbe potuto tenere a bada. Il protagonista è infatti un povero diavolo (Rainn Wilson) dal comprendonio molto limitato, che ha avuto una vita deprimente e che per lavoro cuoce hamburger. Un (dubbio) colpo di fortuna lo porta a conoscere la bella Sarah (Liv Tyler), una tossica che sta cercando di disintossicarsi. Causa del suo precario stato mentale, lei scambia la gratitudine con amore, e sposa il cuoco. Dopo poco si accorge dell'errore e se ne va da un piccolo boss della mala locale (Kevin Bacon).

Lo shock è tale che il nostro ha una apparizione mistica degna di Terry Gilliam e, prendendo esempio da una serie televisiva incredibilmente brutta con un supereroe cristiano, decide di trasformarsi in super-normal-eroe. Armato di chiave inglese, spacca la faccia a spacciatori, pedofili, prostitute e persino a due disgraziati che tagliano una coda. Tutto bene (almeno per lui) fino a questo punto, in una società che è tendenzialmente violenta, un tale che va in giro vestito in modo strano e ferisce gente marginale non fa quasi nemmeno notizia. Il problema è quando cerca di fare il supereroe con delinquenti veri, che non ci pensano due volte prima di infilargli un proiettile in corpo. E qui entra nel vivo il film. Braccato, si rivolge all'unica persona di cui si fida, la venditrice di fumetti (Ellen Page) che già sospetta la sua vera identità. Questa è una pazza scatenata, e i due assieme si trovano bene al punto che, dopo aver fatto incetta di armi (vanno ad una specie di supermercato che offre sconti del 50%), partono all'assalto della villa del cattivo.

E fino a qui il film m'è sembrato poco appetibile, ravvivato dalle interpretazioni dei personaggi secondari interpretati da un cast inaspettato visto il budget limitatissimo della produzione, simpatico Bacon, poco sfruttata ma sempre piacevole la Tyler, divertente la Page, ma poco interessante nello sviluppo. Ma chi riesce ad arrivare al finale troverà ricompensa per la sua pazienza. Almeno, questo è stato il mio caso.

Se mi è stato difficile empatizzare con l'idiota visionario e pasticcione, seguito per un'ora abbondante in un insano percorso che non capivo dove potesse portare, le cose cambiano totalmente negli ultimi venti minuti. Qualche eccesso superoministico, ma anche (finalmente) una vera tensione emotiva, con una chiusura non scontata.

... e ora parliamo di Kevin

O meglio We need to talk about Kevin (dobbiamo parlare di Kevin). Come e perché sia venuto in mente la variazione insensata del titolo italiano è uno di quei misteri che credo insolubili.

La sceneggiatura mi sembra che segua lo schema di un tipico film horror, come ad esempio Orphan, con un ragazzino terribile che però è tale solo per qualcuno, almeno fino a quando con compie l'efferato Atto Estremo.

Lo sviluppo però è molto più complicato, grazie anche alla regia (Lynne Ramsay) che dissemina di indizi il racconto, lasciando che sia lo spettatore a capire quello che vuole.

Una struttura così deve necessariamente appoggiarsi ad un buon cast, risolto con Tilda Swinton (la madre), John C. Reilly (padre svagato quando non totalmente assente) ed Ezra Miller (il terribile ragazzetto).

Da notare che tra i produttori, oltre alla Ramsay e alla Swinton, c'è anche Steven Soderbergh.

La struttura narrativa del film è caotica, mi ci sono voluti parecchi minuti per capire cosa diamine stesse accadendo. Si salta allegramente tra un passato remoto, prima del concepimento di Kevin, al presente storico, due anni dopo l'Atto Estremo, e avanti-indietro per i diciotto anni che sono compresi tra questi limiti. Ma è bene che sia così, sia perché è specchio del caos interiore della protagonista, sia perché altrimenti la pellicola non reggerebbe per il tempo che è necessario a raccontare i fatti. Sarebbe di una noia pazzesca, o andrebbe sforbiciato a fondo per non far addormentare lo spettatore.

Conviene notare inoltre che si segue la prospettiva della madre, che sappiamo sin dall'inizio non essere propriamente in sé. E dunque possiamo aspettarci che quello che vediamo non sia esattamente la verità, ma piuttosto la versione di una fonte non troppo attendibile. Un bravo spettatore dovrebbe comunque essere capace di dedurre fatti anche da semplici accenni, o da battute che sembrano buttate lì per caso, ma che nell'economia complessiva del testo hanno il loro peso.

Bizzarra colonna sonora, infarcita di canzonette allegre (Everyday di Buddy Holly, ad esempio) che, per quanto strano possa sembrare, mi sono sembrate molto azzeccate.

Michael Clayton

Storia non particolarmente sorprendente, ma ben scritta da Tony Gilroy. Lo stesso dicasi per la regia, che è la prima per lo stesso Gilroy. Cast da favola, con George Clooney nel ruolo principale ben supportato da gente del calibro di Tilda Swinton, Tom Wilkinson e Sydney Pollack (al suo ultimo ruolo importante - aveva spesso fatto apparizioni, ma aveva iniziato a recitare seriamente quasi per caso, in Tootsie, non trovando un adatto per la parte, qualcuno gli aveva fatto notare che lui sarebbe stato perfetto). Un pool di produttori impressionante, in cui spiccano i nomi di Clooney, Pollack, Anthony Minghella e Steven Soderbergh.

Un attacco da brivido, con Wilkinson che lascia un lungo messaggio in segreteria a Clooney (non vediamo né uno né l'altro, intenti come siamo a seguire una agitata serata nello studio legale newyorkese dove lavorano entrambi), stacco su Pollack, stacco sulla Swindon, e infine passiamo a Clooney, che sta giocando d'azzardo. Che sta succedendo? Non capiamo bene. Vediamo il protagonista al lavoro, lo vediamo correre via col suo bel Mercedes (aziendale, scopriremo poi), fermarsi di botto, attratto chissà perché da tre cavalli che lo guardano perplessi. Al che la sua auto esplode.

Flashback di quattro giorni e ci viene spiegato l'arcano. Wilkinson è il migliore avvocato dello studio legale, che segue un caso spinoso, il loro cliente è una perfida multinazionale agraria che ha combinato un grosso pasticcio. Wilkinson scopre che hanno roba molto (ma molto) sporca da nascondere e, probabilmente anche a causa dei ritmi di lavoro disumani che ha tenuto negli anni precedenti, dà fuori di testa. Clooney, il cui lavoro consiste nel risolvere problemi insolubili senza badare troppo a sottigliezze, viene mandato da Pollack a limitare i danni. La Swindon è una donna in carriera che si occupa del settore legale della multinazionale. Farebbe di tutto per il suo lavoro, nonostante che non le venga naturale (l'abbiamo vista sudare copiosamente nella scena iniziale - cosa che per gli americani è terribile, la vediamo preparare le sue interviste e presentazioni come una attrice, scegliendo abiti, posture, battute).

Il povero Clooney, divorziato, oberato dai debiti, mal considerato nella sua stessa azienda, si trova preso nel mezzo. Deve pensare solo a se stesso, o deve cercare di fare la cosa giusta?

Un legal thriller come molti, ma senza punti deboli, e con il punto forte di un quartetto di grandi attori in splendida forma. Possibilmente, consiglierei di vederlo in originale, bellissimo, ad esempio, è il cambio di tono di Wilkinson, che usa quasi tutto il tempo un tono tra il dolcemente lunatico e il minaccioso represso, ma nello scambio cruciale con Clooney, passa a quello che era probabilmente il suo normale modo di parlare in corte, misurato, musicale, ma estremamente determinato.

Tra gli svariati film che mi sono venuti in mente, direi che il principale sia Erin Brockovich, che non mi è mai piaciuto per il motivo fondamentale che lì la protagonista fa tanto l'ecologista anti multinazionale, ma in fin dei conti segue la stessa logica di chi apparentemente contrasta. OK, nel caso particolare sta con i "buoni", ma il suo interesse sta evidentemente solo nell'incasso di un un corposo assegno. E se il punto chiave è solo quello, allora che cambia? Non è una scelta morale quella della protagonista, è solo un azzardo.

Clayton invece si trova di fronte ad una serie di dilemmi, e le scelte che fa, le fa controvoglia. Nel finale la Brockovich si gode il successo. Clayton invece, dopo un drammatico (e strepitoso) confronto con la Swindon, sale su un taxi e, in contrasto con l'inizio, abbiamo solo un lungo silenzio (sulla bella colonna sonora di James Newton Howard che mi è quasi passata inosservata fino a questo momento) con la macchina da presa che ci mostra i pensieri che scorrono negli occhi del protagonista.

Giulio Cesare

Dopo Cesare non deve morire dei Taviani, ho pensato di fare un salto di una sessantina d'anni e rivedermi quella che forse è la più famosa versione su pellicola della tragedia di William Shakespeare, anche se non direi che è la migliore.

Si tratta infatti di una trasposizione che non aggiunge nulla all'originale, se non una colonna sonora dimenticabile, quando non è fasidiosa, e un paio di scene di massa, tra cui la battaglia di Filippi che mi è parsa un inutile spreco di pellicola. Colpa del regista/sceneggiatore Joseph Mankiewicz che, a mio parere, avrebbe dovuto evitare il genere (sua la responsabilità principale anche della Cleopatra di Taylor/Burton) e concentrarsi su temi più contemporanei, che gli riuscivano pure bene, vedi Eva contro Eva, ad esempio.

In realtà, tenendo presente il periodo, il lavoro non è male. Ben recitato, anche se in uno stile puramente teatrale, che al mio occhio di spettatore del secolo successivo appare fuori luogo. Stride per contrasto la recitazione di Marlon Brando, nei panni di Marc'Antonio, che adatta il suo stile recitativo al film, ma comunque restando a miglia di distanza dalla scuola attoriale scespiriana. Curioso che mi sia rimasto in mente solo lui del cast, e in pratica la sola scena madre, quando in realtà la sua parte è secondaria e, tutto sommato, piuttosto antipatica. Il fatto è che il carisma dell'attore ha finito per oscurare tutto il resto.

Il vero protagonista sarebbe dovuto essere James Mason, che interpreta Bruto, reggendo senza problemi la parte. Ma chi se lo ricorda più. Particina per Deborah Kerr, nei panni di Porzia, moglie di Bruto.

Fantasia 2000

Il titolo è un gioco di parole (o meglio, di numeri) tra il suo essere un sequel dell'originale di sessanta anni prima e sulla sua data di uscita. Risultato piacevole, con dei bei momenti, ma anche con delle (perdonabili) debolezze.

La struttura è la stessa dell'originale: brani musicali per orchestra sinfonica che fanno da ispirazione ad animazioni in puro stile Walt Disney. Un episodio è in condivisione, il famoso Apprendista stregone interpretato da un Topolino pasticcione che scatena, suo malgrado, innumerevoli scope magicamente munite di braccia e di una ferrea volontà. Tra un brano e l'altro intervengono personaggi in carne e ossa (Steve Martin il più divertente ed ha pure l'ultima parola, alla fine dei titoli di coda) a fare da intermezzo leggero, quasi che la produzione fosse dubbiosa delle capacità di assorbimento del pubblico.

Il primo brano è, a mio parere, il meno riuscito. Basato sul famoso primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, viene interpretato, molto astrattamente, come una battaglia tra luce ed ombra, con disneyana vittoria della prima. Visivamente ha dei punti interessanti, ma lo sviluppo mi è parso fiacco.

Decisamente più bello il seguente episodio, che interpreta follemente I pini di Roma di Ottorino Respighi come la storia di balene che volanti.

Stacco deciso per passare alla Rapsodia in blu di George Gershwin che accompagna una storia molto newyorkese, degli anni della depressione, usando il tratto tipico di Al Hirschfeld.

Eccezione alla regola che vuole che la musica sia ispirazione all'animazione, dalla produzione di Shostakovich pare che abbiano trovato quello che cercavano per musicare la favola anderseniana del soldatino di stagno. Aggiustata con un lieto fine d'ordinanza.

Altra interpretazione folle, dal carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns, si prende ispirazione per la vicenda di un fenicottero amante dello yo-yo e della sua turbolenta relazione con altri fenicotteri più inquadrati.

Topolino nell'Apprendista stregone lascia spazio a Paperino aiutante di Noè, episodio basato su Pomp and circumstance di Elgar.

Gran finale con un animazione mitologica, che prende spunto dalla suite dall'Uccello di fuoco di Stravinski, in cui uno spirito femminile della fecondità si scontra con un distruttivo (e maschile) spirito fiammeggiante.

Grande varietà sia musicale sia di stili grafici, dunque. Buona l'esecuzione della Chicago Symphony Orchestra diretta da James Levine, con ospiti del calibro di Itzhak Perlman. Animazione che, almeno in alcune scene, mi ha lasciato a bocca aperta, anche se altrove ho notato una commistione poco riuscita tra animazione classica e computerizzata.

Traffik

Trattasi della serie televisiva originale che Soderbergh ha trasformato in Traffic. Purtroppo non mi pare che sia disponibile per il mercato italiano, io me la sono vista in originale.

Sei puntate scritte da Simon Moore e dirette da Alastair Reidper un totale di cinque ore abbondanti, il doppio del tempo usato da Soderbergh, con un budget meno imponente e un cast meno glamorous, ma comunque non disprezzabile. Le due versioni differiscono per l'impostazione e per una serie di particolari, al punto che si compensano a vicenda, offrendo una visuale più articolata sul tema. Direi che vale la pena di vederle entrambe.

Tecnicamente questa versione è meno attraente, tipico prodotto televisivo in 4:3 che mostra i segni del tempo - un paio di scene mi sono sembrate più una parodia dei Monty Python. In compenso il maggior tempo a disposizione permette di sviluppare meglio i personaggi, è molto più facile seguire l'azione senza perdersi nei repentini cambi di prospettiva della versione per il grande schermo, e i punti chiave sono esposti più chiaramente.

Da notare che Stephen Gaghan (sceneggiatore di Traffic) non si è limitato ad una pedestre riscrittura dell'originale inglese, come spesso capita nei remake d'oltre oceano, ma si è preso la briga di adattare la storia, anche a costo di riscrivere quasi completamente una intera sezione (quella messicana).

Qui la storia si sviluppa in tre teatri d'azione: Pakistan, dove nasce la materia prima sotto forma di papaveri da oppio, viene raffinata e preparata per la spedizione, Germania, dove viene commercializzata, e Londra, dove viene consumata.

Le storie principali sono quelle di un contadino pakistano, coltivatore di papaveri prima, e poi tirapiedi di un trafficante locale; l'importatore tedesco, con moglie inglese (Lindsay Duncan) e avvocato messicano/americano; una coppia di poliziotti tedeschi antidroga (uno è Fritz Müller-Scherz); un ministro inglese (Bill Paterson) che vuole combattere il traffico, e scopre che la figlia (Julia Ormond) è una tossica.

Inside job

Oscar 2011 per il miglior documentario, placidamente ignorato dalla distribuzione italiana, passato l'altra sera su Sky. Dunque praticamente invisibile alla stragrande maggioranza della popolazione italiana.

Non che mi aspetti che abbia un bacino smisurato di possibili spettatori, anche perché Charles Ferguson (regia e sceneggiatura) presume un pubblico non si faccia intimorire da termini tecnici che per lui (Ph.D. in scienze politiche, background in matematica, una carriera come consulente per il governo americano e aziende del calibro di Apple, Xerox, etc) sono robetta, ma che possono risultare decisamente ostici. Non mi pare che i subprime e i vari meccanismi speculativi utilizzati vengano spiegati chiaramente (oppure mi sono appisolato durante la spiegazione), direi che li si dà invece quasi per scontati, sottolineando solo il loro effetto - scaricare i rischi sui clienti, accumulare ricchezze ingenti per le aziende e gli operatori.

A mio parere risulta più fruibile un film come Margin call, che usa la fiction per non doversi preoccupare di mantenere una versione documentale, a vantaggio però della leggibilità degli eventi narrati.

In ogni caso è un ottimo prodotto, evidentemente di parte ma senza gli eccessi spettacolari di Michael Moore (tanto per non fare nomi). Fornisce molte informazioni interessanti su quello che è stato il tracollo finanziario ultimo scorso, di cui stiamo ancora pagando il conto. Utile per rendersi conto di come film come il sopra citato Margin call, o il più noto Wall Street: il denaro non dorme mai, pur essendo prodotti di fantasia, siano rimasti aderenti a quella che è la realtà dei fatti.

L'uomo che sapeva troppo poco

Nonostante il titolo (che una volta tanto è l'esatta traduzione dall'originale, The man who knew too little) non è uno spoof de L'uomo che sapeva troppo del Maestro, semmai l'ennesimo tentativo di riprendere in altro modo la serie della Pantera rosa, magari strizzando un occhio a Un pesce di nome Wanda.

Il risultato direi che è accettabile, anche se non è che sia uno di quei titoli memorabili. E in effetti mi sono accorto che si trattava di una seconda visione. La prima me la ero, per l'appunto, dimenticata.

Direi che il difetto fondamentale sta nella sceneggiatura che tende ad appisolarsi di tanto in tanto. La storia è uno strano connubio tra una avventura alla Clouseau e una tipica commedia degli equivoci. In pratica per un curioso equivoco un tale (Bill Murray) normalmente considerato un disastro finisce in un incastro spionistico da cui ne esce bene nonostante (o forse grazie) alla sua svagatezza.

Simpatico, anche se non sfruttato al meglio, Alfred Molina nel ruolo di uno spietato killer.

C'era una volta in Anatolia

Bella regia, bella fotografia, stupendi colori, tempi molto lenti. Più che a Sergio Leone, Nuri Bilge Ceylan mi ha fatto pensare a Michelangelo Antonioni (già con l'impossibile sequenza iniziale che ricorda il finale di Professione: reporter) e a Wim Wenders. Non ci si aspetti molta azione, al contrario si abbia molta pazienza nella prima ora (abbondante!) e si verrà ricompensati nella seconda parte, dove si tirano le fila e si arriva ad una conclusione, o per lo meno la si abbozza.

Almeno inizialmente, pare che la storia sia quella di una comitiva di poliziotti, militari, medico e pubblico ministero che, seguono le indicazioni di un omicida per recuperare il corpo della vittima. Più andiamo avanti, più le cose diventano confuse, quello che ci viene detto diventa inattendibile, e dobbiamo dar retta più alle parole casuali che alle dichiarazioni ufficiali.

Il cast principale è tutto al maschile, eppure gli uomini contano poco o niente nella storia. Senza donne non riescono nemmeno a renderlo interessante. La prima parte parte viene tenuta a galla da discussioni sulla qualità dello yogurt e sui problemi che dà la prostata, tanto per intendersi. Il film cambia registro con l'apparizione della bella figlia del sindaco di un paesino nel nulla anatolico. Non dice una parola, ma la sua visione risveglia le coscienze degli uomini, ognuno pensa ad una donna che ha determinato la sua vita, con quello che ne consegue.

Se non ci si addormenta durante la visione, si potrebbero apprezzare anche alcune improvvise e inaspettate derive umoristiche a tinte molto oscure.

Terraferma

Mi pare interessante il confronto con la mia precedente visione, L'arrivo di Wang. In entrambe le storie il punto chiave è l'incontro dei protagonisti con una realtà altra (qui migranti, là un extraterrestre), ma nel film dei Manetti viene tutto gestito ad un livello molto superficiale, non c'è spazio per l'evoluzione dei personaggi, ognuno dei quali si comporta per tutto il tempo allo stesso modo, e il finale ha il solo scopo di dire chi avesse ragione tra i due protagonisti. E l'idea che mi sono fatto è che ai Manetti non importi poi tanto quello che dice la storia, che poteva benissimo finire in senso opposto, se questo fosse risultato (a loro) più divertente.

Il film di Emanuele Crialese (scritto e diretto) è decisamente più maturo. I diversi punti di vista vengono mostrati con maggior profondità, e lo scopo non è quello di dire chi abbia ragione o torto nella storia, anche se è evidente da che parte stia Crialese, ma mostrare il percorso di crescita del protagonista.

La storia è quella di un ragazzotto (Filippo Pucillo, già in Nuovomondo) rimasto orfano di padre, pescatore scomparso in mare, che viene conteso tra nonno pescatore (il puparo Mimmo Cuticchio, notevole presenza scenica), madre (Donatella Finocchiaro) vedova da tre anni che vorrebbe rifarsi una vita, e zio (Beppe Fiorello, adeguato alla parte) che ha idee molto moderne, nel senso più plastificato del termine. Ognuno dei tre vorrebbe che il piccolo si conformasse alle proprie aspettative, e lui non sa che pesci pigliare.

A scatenare l'azione ci sono una molteplicità di eventi: inizia la breve stagione turistica, il nonno ha un malore ma, soprattutto, incontrano migranti che cercano disperatamente di raggiungere le nostre coste. Filippo deve confrontarsi con i diversi approcci tenuti dai suoi familiari. Negarne l'esistenza come fa lo zio preso dal business turistico; aiutarli come fa il nonno, che segue la legge del mare secondo cui chi è in difficoltà va aiutato; seguire la via intermedia della madre, disposta magari a dare anche una mano, ma a patto che non ci siano impicci.

In realtà, se scegliesse una qualunque delle alternative proposte, il nostro prederebbe, perché non crescerebbe. Crialese, invece, gli fa trovare una via alternativa, certamente più rischiosa, ma che è sua. In quest'ottica è giusto che il finale sia aperto, al limite contraddittorio con il titolo visto che si conclude in mare aperto, perché non è importante sapere se la scelta di Filippo sia vincente o perdente.

Come da commento di Sailor Fede, mi ero dimenticato di citare la colonna sonora, in cui spicca il brano sui titoli di coda, qui rimontato su spezzoni del film:

Che sarebbe poi la versione di Le vent nous portera di Sophie Hunger. L'originale è dei Noir Désir (e si nota l'apporto di Manu Chao). La Hunger non la conoscevo, mi ricorda Cat power, e mi pare che abbia molto da dire.

L'arrivo di Wang

Tutto sommato a me i fratelli Manetti stanno simpatici. E penso che, se volessero, potrebbero anche diventare dei registi interessanti. Però, almeno fino a ieri, i loro risultati non sono all'altezza delle (mie) aspettative.

Gegio ha recentemente visto il loro Piano 17, e mi pare gli sia piaciucchiato, nonostante un certo manierismo tarantiniano, stessa impressione che avevo avuto io vedendo un loro episodio della serie televisiva sull'ispettore Coliandro.

Qui niente tarantinismo, ma una certa aria familiare di cinema di serie B italiano anni settanta. L'ho visto dopo averne letto sull'Anna Nihil show, e avendo scoperto che è disponibile una copia su youtube. Non è stata una buona idea, l'audio è leggermente fuori sincrono, e la qualità video è quella che è. Ma non trovato in commercio il DVD, e in sala direi che sia impossibile vederlo.

Per i motivi suddetti, non mi sbilancio sul risultato tecnico, a parte notare che l'effetto speciale principe del film, che sarebbe il Wang del titolo, non mi ha fatto fare i salti di gioia.

Bravo Ennio Fantastichini, sempre a suo agio nel recitare personaggi ruvidi, contrapposto a Francesca Cuttica. Parte minore per Juliet Esey Joseph, di casa nelle produzioni Manetti.

L'idea della sceneggiatura non è male, un alieno (extraterrestre) arriva a Roma. Per un clamoroso equivoco l'unica lingua terrestre che parla è il cinese. Fantastichini lo interroga, e la Cuttica fa da interprete. Non si capisce (o almeno, non si dovrebbe capire) se ha ragione l'interrogante a ritenere l'interrogato pericoloso, o quest'ultimo a dichiararsi amichevole e ingiustamente sospettato. Gli ultimi minuti risolveranno il dilemma.

I problemi, però, sono molteplici. In primo luogo la sceneggiatura è scritta male (sempre dai Manetti), piena di buchi, situazioni improbabili, e dialoghi sonnolenti, tutte cose che complicano la vita ai protagonisti, soprattutto alla povera Cuttica, che ha meno mestiere. In certe scene mi sono immaginato Laura Morante al suo posto, che penso avrebbe sfruttato meglio la situazione. Eppoi la sorpresa del finale è decisamente modesta. Che può succedere? O si sbaglia Fantastichini, e l'alieno è "buono", o si sbaglia la Cuttica, e l'alieno è "cattivo". Ci sarebbe voluto un Ennio Flaiano, che avrebbe certamente trovato una terza via spiazzante (vedi, per l'appunto, il suo racconto breve Un marziano a Roma, che fu anche adattato per il teatro).

Il fatto che l'alieno parli cinese, rende quasi obbligatoria l'interpretazione classica, da fantascienza americana post-bellica, in cui l'alieno rappresenta lo straniero. Ho il dubbio che ai Manetti la cosa sia passata sopra le orecchie, ma il testo resta ed ha un suo senso.

Monsieur Lazhar

Film di ambiente scolastico come Detachment - il distacco, con cui condivide toni drammatici che lasciano comunque uno spiraglio all'ottimismo.

In entrambi i film il protagonista è in crisi sin dall'inizio della storia, e forse insegna più come forma di auto-sostegno che altro.

In una scuola elementare canadese la maestra si impicca in aula, al mattino, prima dell'ingresso degli alunni. Ne approfitta Lazhar, algerino da qualche tempo in Canada, per tagliare la complicata procedura di assunzione e farsi prendere come sostituto. Il suo francese e i suoi metodi educativi risultano alieni alla classe, e lui ha qualche grosso problema che non riesce a dire quasi a nessuno, credo nemmeno a se stesso.

Questo strano rapporto, che sembra destinato alla catastrofe, funziona invece abbastanza bene. Anche se solo all'ultimo momento, e in forma allegorica, Lazhar riuscirà a raccontare il suo dramma a quella che forse è la sua unica vera amica.

Una storia molto toccante, raccontata da Philippe Falardeau (sceneggiatura e regista) con gran leggerezza.

L'uomo che sapeva troppo

Regia impeccabile di Alfred Hitchcock per una sceneggiatura scritta al volo da John Michael Hayes, basata sull'originale di venti anni prima diretto dallo stesso Hitch, che ha pure fornito una serie di spunti ad Hayes per aggiornare la storia. Mentre la troupe era in tra il Marocco e Londra, Heyes spediva le pagine completate via posta aerea. Dovrebbe bastare questo dettaglio inquietante per spiegare come mai ci siano dei dettagli poco chiari (ad essere gentili) nello svolgimento.

Le finte riprese in esterno fanno rabbrividire, ma mezzo secolo fa erano cosa normale. Doris Day, che era detta la fidanzata d'America, per il suo ruolo tipico nelle innumerevoli commedie rosa di cui era protagonista, non è il primo nome che viene in mente pensando alle protagoniste hitchcockiane. Direi che questo è il suo film migliore, ma forse non è stata la miglior scelta per questo film, anche se fortemente voluta dal regista, e ampiamente giustificata per le sue capacità canore, la sentiamo infatti cantare alcune canzonette, tra cui Que sera sera, che diventerà estremamente nota.

Per il resto si tratta di un film eccezionale, a partire dalla sequenza dei titoli di testa, che questa volta mostrano una piccola orchestra che esegue la musica stessa. Idea geniale di per sé, ma che si integra bene al tema molto musicale del film.

Lui è James Stewart, medico di provincia sposato ad una ex-attrice, la Day, ancora famosa. I due sono in viaggio in Europa con puntata in Marocco, approfittando di un convegno medico a Parigi, e si sono portati dietro pure il terribile figlio, che fa cose come strappare di faccia il velo a donne musulmane, invitare un francese a casa loro, per mangiare le lumache che infestano il giardino, e ridicolizzare un gruppo di donne che al mercato lavorano con macchine da cucire. Magnanimamente, una coppia inglese rapisce questo teppista, ma i genitori, invece di festeggiare, fanno di tutto per riaverlo indietro.

Il fatto è che per un clamoroso equivoco Jimmy Steward si trova incastrato in un intrigo internazionale, come capiterà pochi anni dopo anche a Cary Grant. Steward non si fida di nessuno, tranne della moglie, e i due riusciranno ad avere la meglio di una tra le cellule terroristiche peggio congegnate che la storia del cinema ricordi.

Il colore principale della pellicola è giallo-thriller, ma è pervaso da una venatura comica, tipicamente inglese, che ho trovato essere più marcata del solito. Succedono cose assurde, come quando Lui interpreta male un indizio, e invece di raggiungere la sede dei cattivi finisce in uno studio tassodermista (che sarebbe poi come dire imbalsamatore), e si trova a lottare con tutto il personale, riuscendo a fuggire perché i suoi avversari sono più preoccupati dal salvare gli animali impagliati da quel pazzo scatenato che altro.

Sul lato musicale, mitica la sequenza di una decina di minuti all'Albert Hall (rifatto in studio) dove a parlare è solo la cantata Storm cloud scritta espressamente da Arthur Benjamin per la prima versione del film, e utilizzata anche in questo remake. È una sequenza che interessante anche dal punto di vista della tensione, la Day capisce la trama dei cattivi, e pure della comicità, visto che la parte principale è qui tenuta dal suonatore di piatti, che ha una sola nota da eseguire in tutta la cantata, e vediamo il suo spartito, tutto bianco ad eccezione dell'ultima riga.

Come quasi sempre accade nei film di Hitchcock, anche in questo il regista fa una breve apparizione, qui lo vediamo al mercato di Marrakesh (di spalle, ma ben riconoscibile). Più notevole il ruolo assegnato a Bernard Herrmann, fido compositore di molte colonne sonore hitchockiane (e molto altro), che interpreta se stesso nella sopra citata scena all'Albert Hall - da notare che il suo nome è anche sui manifesti.