Frankenstein Junior

Girato come se fosse un film degli anni '30, in bianco e nero, con forti contrasti tra luci ed ombre, è una riscrittura in chiave comica dei film horror di quel periodo incentrati sulla figura di Frankenstein e del suo mostro.

La regia (Mel Brooks) e la sceneggiatura (Gene Wilder e lo stesso Brooks) cadono quindi felicemente negli errori tipici dei B-movie di quel periodo, usando effetti speciali risibili e caratterizzazioni incongruenti.

Il protagonista della vicenda qui narrata è un Frederick Frankenstein (Gene Wilder), nipote del famoso Frankenstein, che nulla vuole avere a che fare col nonno. Vive a New York, dove ha una brillante carriera universitaria, e sottolinea sempre che il suo cognome si pronuncia con uno "stiin" finale (all'americana) e non "schtain" (alla tedesca). È sul punto di sposarsi con una viziatissima ereditiera (Madeline Kahn) a cui sembra essere interessato principalmente come via per entrare nell'alta società americana, ma giunge la notizia che il nonno è morto, lasciandolo erede universale.

Nonostante che Mary Shelley avesse ben chiarito che i Frankenstein erano svizzeri da molte generazioni, in questa versione Frankenstein Senior era invece transilvano, e viveva in un castello dominante su un villaggetto popolato da bifolchi di origine germanica che il suo mostro aveva messo in subbuglio anni prima. Vien da pensare che la storia della Shelley sia stata incrociata con quella del conte Dracula di Bram Stoker, forse, pensando ai film anni trenta di riferimento, per risparmiare sulle scenografie.

Il giovane Frankenstein prima nicchia, poi accetta l'eredità. Il castello è fornito di servitù, il fedele (?) assistente Igor (Marty Feldman), gobbo variabile che ci tiene a farsi chiamare Aigor (per prendere in giro il padrone "stiin"), la bella Inga e la spaventosa Frau Blücher. Le atmosfere del posto convinceranno il nipote a riprendere gli studi del nonno, e a creare un nuovo mostro (Peter Boyle) a cui, per errore di Igor, viene dato un cervello subnormale.

Il povero mostro ne subisce di tutti i colori, incontra persino un monaco cieco (Gene Hackman) che lo ustiona in vari modi senza rendersene conto. Cercando di renderlo simpatico, il buon dottore lo presenta alla comunità scientifica facendogli ballare il tip tap alla Fred Astaire, ma il tentativo si risolve in una catastrofe.

Nel frattempo giunge al castello anche la fidanzata americana, che viene rapita dal mostro. Rapido corteggiamento, e tra i due scocca la scintilla fatale. Il che casca a fagiolo per Frankenstein, che nel frattempo si è innamorato della bella assistente.

Resta da risolvere il problema della popolazione inferocita che vuole la morte del mostro. Il dottore ha un rimedio pronto, una connessione tra il suo cervello e quello della sua creatura. Incredibilmente, l'accrocchio funziona, e il mostro diventa eloquente al punto da convincere la torma inferocita a più miti propositi. Dallo scambio ci guadagnerà qualcosa anche Frankenstein.

Alcune battute nel doppiaggio italiano si perdono, a causa della loro intraducibilità, e i traduttori hanno dovuto fare i salti mortali per rendere in qualche modo discorsi che virano sull'assurdo. Ad esempio, nell'arrivo al castello in carrozza di Frankenstein, si perde un accenno ad un lupo mannaro (werewolf) che in originale Igor annulla interpretando l'affermazione come infantile gioco di parole del dottore (where wolf? there wolf, there castle - dove lupo? là lupo, lì castello). In italiano, invece, sembra che Igor sia patito per bizzarri giochi di parole (lupo ululà, castello ululì).

Il fatto che, nonostante gli aggiustamenti, la comicità passi nella traduzione credo sia dovuto alla notevole espressività degli attori, in particolare dell'indimenticabile Marty Feldman.

Paradiso amaro

Seconda visione, questa volta televisiva, ad un anno di distanza dall'Oscar per la migliore sceneggiatura non originale.

Già mi era piaciuto la prima volta, a rivederlo ho apprezzato ancora di più la solida sceneggiatura, l'autorevole regia (Alexander Payne, anche co-sceneggiatore), e il lavoro attoriale del cast, in particolare del protagonista, George Clooney.

Curioso vedere Hononulu, nelle Hawaii, come una qualunque metropoli americana, stessi grattacieli, stesso traffico, stessi problemi, graziata solo dal clima tropicale.

La storia, tendenzialmente drammatica, viene svolta con leggerezza, anche con tratti da commedia, e viene sviluppata in modo non banale, approfondendo adeguatamente il carattere dei vari personaggi.

Piacevole la colonna sonora, che direi essere composta solo da canzoni locali.

Bello il finale, in cui la famiglia ritrovata siede in poltrona, mangiando gelato e guardando un documentario sui pinguini. Hanno trovato una vita, forse noiosetta, ma con una sorta di stabilità.

Anna Karenina

Lei (Keira Knightley) è sposata a un noioso burocrate (Jude Law), un giorno incappa nel ragazzetto tutto chiacchiere e distintivo (anzi, divisa) di cui è innamorata la nipote Kitty, il quale le fa capire di preferire la zia. Dopo qualche titubanza, lei cede al GAR (vedi per dettagli la spiegazione de Il Bibliofilo, che include anche un parallelo con la vicenda di Madame Bovary) con le funeste conseguenze che, per l'appunto, ne conseguono.

La base della storia è fornita dal romanzo di Tolstoi, trasposto un gran numero di volte sia per il cinema sia per la televisione. Ma questa versione, diretta da Joe Wright, usa un adattamento di Tom Stoppard che riesce a dire qualcosa di diverso, cambiando qualche dettaglio e il punto di vista.

In particolare viene sottolineata la contrapposizione tra la vuotezza della vita della Karenina, e di tutto il mondo che le gira attorno, e quella di Konstantin Levin, un nobile di campagna amico del fratello di Anna, innamorato di Kitty, e da lei rifiutato. L'espediente scenico è quello di mostrare gli accadimenti del bel mondo aristocratico come se avvenissero su di un palco teatrale, un effetto che mi ha fatto pensare a Pirandello e Fellini, e anche a Von Trier. Dal punto di vista della recitazione, a volte gli attori sfiorano l'impostazione da musical (vedi quando Stiva, fratello di Anna, appare nel suo ufficio tra una torma di solerti travet tutti presi dal timbrare documenti a tempo), con cambi di scena e costumi che non sfigurerebbero in una rappresentazione teatrale.

Se Anna diventa meno simpatica (viene il dubbio che non sia realmente innamorata di Vronsky, ma che reciti di esserlo, per dimenticare la noia della sua vita), ne guadagna la figura del marito, che infatti nel finale riesce ad evadere dal palcoscenico.

Eccellente la colonna sonora di Dario Marianelli, che meriterebbe un secondo oscar (l'ha già vinto per Espiazione, sempre per la regia di Wright).

Amici miei

Commedia all'italiana dell'ultimo periodo, come si capisce dal più esplicito emergere dei temi tragici ed erotici. Progetto di un maestro del genere (Pietro Germi, vedasi ad esempio Divorzio all'italiana, che ha dato il nome all'intero filone) per cause di forza maggiore diretto da un degno collega (Mario Monicelli).

Vengono mostrate le gesta di un gruppo di amici fiorentini (Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Duilio Del Prete, Adolfo Celi) che si imbarcano in avventure insensate ("zingarate") per non soccombere al vuoto delle loro vite.

Molte le scene diventate memorabili, come gli schiaffoni tirati in stazione ai partenti. È anche il film che codifica la supercàzzola, sproloquio che ha lo scopo di confondere la vittima mescolando parole note, altre che sembrano minacciose, con altre ancora incomprensibili. Nel film sembra che sia l'arma segreta di Tognazzi, ma nel finale sarà Noiret ad usarla in un modo che direi metafisico.

Noiret è un caporedattore, orari sfasati, vita sfasata, divorziato (o separato?) con un figlio che è il suo opposto che lo critica costantemente per la sua incapacità di essere serio.

Tognazzi è un nobile decaduto, che ha dilapidato il patrimonio suo e della moglie (Milena Vukotic) e ora vive sull'orlo della miseria, mantenendo però il suo carattere pieno di contraddizioni. Tradisce la moglie con una giovanissima amante (Silvia Dionisio), di cui è geloso.

Moschin è un architetto in costante cerca di un amore, per il quale abbandonerebbe volentieri la compagnia. Era riuscito a trovarlo nella moglie di Celi (Olga Karlatos) ma, anche a causa del perfido marito, la cosa non è andata a buon fine.

Del Prete ha un bar, che gestisce con la moglie. Ma, essendo uno sfaticato congenito (fa fatica anche ad accettare le schedine del totocalcio per i clienti), trascura il lavoro (ma non la moglie) per dedicarsi più volentieri al biliardo e alle marachelle con gli amici.

Celi è un medico di una clinica privata, Moschin gli ha scippato la giovane moglie (col concorso degli amici) ma lui ha trovato il modo di rendergli la vittoria amara. Riconoscendo la sua abilità, viene assorbito dal gruppo.

Tra le burle narrate, gran peso viene dato quella ai danni di un pensionato (Bernard Blier) a cui vien fatto credere che gli amici sono narcotrafficanti in lotta contro i marsigliesi.

Si noti la scarsa presenza femminile, e in particolare come la Dionisio appaia per gran parte del tempo in deshabillé. A rimarcare la contiguità con la commedia erotica all'italiana, che proprio in quegli anni stava prendendo piede.

Il cammino per Santiago

Un quarantenne americano (Emilio Estevez, anche regista su propria sceneggiatura non originale), colto da crisi di mezza età, molla tutto per andare a fare un gran tour in Europa, e poi magari anche oltre. Il padre (Martin Sheen, padre di Estevez anche nella realtà, non ci si stupisca della somiglianza) non ne è per niente entusiasta, ma non ci può fare molto.

Però, giorni dopo, gli capita di ricevere una telefonata da un poliziotto francese che gli comunica la morte del figlio, che si era appena incamminato per Santiago. Senza indugi, prende e parte, con l'idea di recuperare la salma e riportarla a casa. Per motivi che non sto qui a specificare, le cose andranno differentemente, e un settantenne non particolarmente portato al camminare si farà tutta la Spagna a piedi, in compagnia di un massiccio olandese (Yorick van Wageningen), una appetitosa, per quanto matura, canadese (Deborah Kara Unger), e un bizzarro scrittore irlandese (James Nesbitt).

Il film funziona bene in alcuni momenti ad alto tasso emozionale, e direi che la sorpresa aiuta l'effetto, dunque tralascio di parlarne, per dedicarmi invece ad alcune cose meno riuscite. Ci sono scene che sembrano scritte a scopo promozionale. Fatica sprecata, bastava lasciare parlare le immagini. I personaggi sono troppo stereotipati (ad esempio l'olandese ha una montagna infinita di sostanze più o meno legali, almeno in Olanda) e non cambiano molto tra partenza e arrivo, e non alludo tanto a un cambiamento di carattere (lì qualcosa accade), quanto al fisico. Uno non si fa tutti quei chilometri a piedi senza conseguenze. E invece niente fiacche, calli, dolori muscolari vari. E nemmeno punture di insetti, raffreddori ... a proposito, al protagonista capita di finire in un fiumiciattolo, e inzupparsi miserevolmente. Indi passa la notte su un materassino e si risveglia al mattino fresco come una rosa. A settantanni.

Nonostante le suddette debolezze (e una certa lentezza nello sviluppo dell'azione) il risultato non mi ha deluso. Ci sono alcune cose su cui vale la pena di riflettere.

Total recall - Atto di forza

Il tema di fondo è la memoria, o la fuga della realtà, a seconda di come si voglia leggere la storia. È un quasi-remake del Total recall del '90, firmato da Paul Verhoeven che aveva come protagonisti Arnold Schwarzenegger e Sharon Stone (Basic instinct è di due anni dopo) che però, almeno per certi aspetti, si mantiene più vicino al racconto originale di Philip K. Dick, per altri duplica, semplicemente aggiornando le tecnologie, scene del film precedente, e i finali sono tutti e tre diversi.

Se non si hanno aspettative eccessive, direi che ci si può divertire. C'è qualche particolare poco ragionevole nella sceneggiatura, la regia di Len Wiseman non è certo memorabile, colonna sonora dimenticabile senza problemi, nel cast artistico Colin Farrell domina incontrastato tra le donne (Kate Beckinsale e Jessica Biel) anche per colpa dei loro personaggi. Piccola parte per Bill Nighy.

Siamo in un futuro prossimo da incubo, una guerra totale ha reso l'intero mondo inabitabile, con l'eccezione di parte della Gran Bretagna e dell'Australia. A Londra vivono i ricchi, dall'altra parte del mondo i poveri. Per motivi inspiegabili, i poveri sono costretti a fare i pendolari via uno scientificamente interessante tunnel che taglia dritto per il centro della Terra. Un'opera ingegneristica affascinante e impossibile sia con le tecnologie attuali sia con quelle mostrate dal film. Il tunnel potrebbe essere letto come metafora della difficoltà del passaggio tra i Paesi Ricchi (noi, ma direi che gli sceneggiatori pensavano più a loro, ovvero gli Stati Uniti) e Quelli Poveri (il resto del mondo, tra cui in un certo senso ancora noi). Si vedano ad esempio i controlli di frontiera, che ricordano fastidiosamente quelli ai confini americani. L'uso di Londra al posto di New York direi che serve a rendere meno disturbante il finale, i cui i Ricchi vengono indicati come molto, ma molto, cattivi.

Un tale (Colin Farrell) ha uno strano sogno ricorrente, in cui è imprigionato, cerca di fuggire con l'aiuto di una bella figliola (Jessica Biel) ma non ci riesce. La moglie (Kate Beckinsale), che non è scema, ha il dubbio che lui sia stufo della loro relazione, ma lui nega. È un povero, e dunque pendola per andare produrre dei robot poliziotti che ricordano guerre stellari (e un po' anche Robocop). Per avere un sollievo dalla sua vitaccia, si reca in uno strano posto, Rekall, in cui fanno impianti di memorie a richiesta. Chiede che gli venga creato il ricordo in cui lui è una spia doppiogiochista per Ricchi e Poveri, e ha una storia complicata con tanta azione e belle donne. Segue una storia complicata con tanta azione e belle donne, in cui la moglie lo segue tutto il tempo e cerca di ucciderlo in vari modi. La cosa avviene in modo da farci dubitare quale sia la verità (nel film, intendo) e quale la falsa memoria. Un po' anche come Inception, a ben vedere.

Noi siamo infinito

Ovvero, I vantaggi del far tapezzeria (The perks of being a wallflower) o, come recita il titolo italiano del romanzo omonimo, Ragazzo da parete. Scritto (il libro) da Stephen Chbosky, che l'ha poi adattato a sceneggiatura e infine diretto.

Si seguono le vicende di un ragazzetto (Logan Lerman) al primo anno di liceo agli inizi degli anni novanta a Pittsburgh. Molto introverso, praticamente nessun amico. Potrebbe essere pensato come una possibile continuazione della serie Diario di una schiappa, non fosse che il protagonista, nonostante la giovane età, deve fare i conti con un paio di lutti: l'amico coetaneo che si è appena sparato un colpo e la zia che è stata sfracellata da un camion anni prima, per Natale.

Taglio molto più drammatico, dunque. E taccio di altri traumi, di cui verrà edotto lo spettatore (o il lettore) più paziente.

Fortuna vuole che costui incontri un paio di sciroccati all'ultimo anno, niente meno che Emma Watson (altro centro dopo Marilyn, sembra destinata ad una carriera perfetta) ed Ezra Miller (...e ora parliamo di Kevin) che lo accolgono nella loro compagnia di personaggi marginali, ma decisamente più interessanti della media.

Come ci si può aspettare da ogni bravo romanzo di formazione, i tre protagonisti vivranno una serie di avventure grazie alle quali diventeranno (quasi) adulti. Una parte essenziale è coperta dalla musica, e in particolare da Heroes di David Bowie.

Come per Blue valentine mi sfugge il senso di programmarlo per San Valentino. C'è una storia d'amore, ma non è risolta e, per dirla tutta, non è né la parte principale del racconto né particolarmente adatta alla caramellosa ricorrenza. Però chi ama il buon cinema non può che ringraziare.

Blue valentine

Ho i miei dubbi che l'idea di distribuire proprio il giorno di San Valentino questo film che narra della traumatica fine di un amore sia da considerare geniale. Volendo lo si potrebbe interpretare come un amichevole consiglio a non replicare gli stessi errori dei due protagonisti, ma credo che l'impostazione data da Derek Cianfrance (regia e co-sceneggiatura) sia tale da far rischiare piuttosto di impelagare in un gran litigio le coppie che già si trovassero in una fase delicata.

Già, perché il racconto mi sembra costruito espressamente per far cadere lo spettatore nella trappola di prendere le parti di uno dei due protagonisti (nel mio caso, io parteggiavo per Lui) e non accorgersi di quanto le posizioni siano equivalenti. Consiglio quindi a chi non abbia ancora visto il film di non sbilanciarsi in pareri affrettati, e prendersi invece il tempo adeguato per ripensare ai dettagli, prima di trarre conclusioni.

Il film non è costato praticamente nulla (per gli standard americani), e credo che sia stato fatto grazie ai due protagonisti, Ryan Gosling e Michelle Williams, che hanno creduto nella storia al punto da apparire anche come produttori esecutivi. Senza il loro nomi difficilmente il film, anche se si fosse fatto, avrebbe trovato una qualche distribuzione, visto che non è una storia per ragazzini, e non ha un lieto fine.

Il problema della coppia è molto comune. I due non si capiscono, e non riescono a spiegarsi. Entrambi hanno dovuto cambiare radicalmente per far sì che la coppia nascesse, ma poi si sono persi per strada. Lui, in particolare, non ha capito cosa fosse davvero importante per Lei. Lei, invece, mi pare che abbia dato per scontato che lui capisse cose che invece gli erano del tutto oscure.

La storia fantastica

La struttura del film ha una certa somiglianza con La storia infinita di Wolfgang Petersen, da cui l'idea della distribuzione italiana di maltradurre il titolo originale The princess bride in modo da strizzare l'occhio in quella direzione. Il paragone però non regge molto, anche perché il romanzo su cui è basato La storia infinita (di Michael Ende) e la sceneggiatura del film di Petersen hanno un maggior spessore del romanzo di William Goldman che lo stesso ha convertito in sceneggiatura per il film di Rob Reiner, che è più che altro una bonaria presa in giro del genere favolistico.

In breve, si narra di un nonno (Peter Falk) che legge al nipote malato una favola. All'inizio del film sembra che i due non abbiano una buona relazione. La lettura li riavvicinerà. Ma poco si approfondisce questo aspetto, che sembra più che altro un pretesto per interrompere di tanto in tanto il procedere della favola, in genere quando è sul punto di diventare troppo caramellosa e/o scontata.

Il racconto nel racconto segue molti stereotipi tipici del genere, ma con un certo distacco divertito. I due protagonisti subito all'inizio si innamorano e si separano, Lui viene dato per morto, Lei si dispera, ma dopo qualche anno viene scelta dal signorotto locale per diventare sua moglie (e principessa), nonostante che Lei chiarisca che non prova niente per l'Altro. Tre bizzarri personaggi, un genio del male siciliano (Wallace Shawn), un fenomenale spadaccino spagnolo, e un gigante turco (André the Giant), rapiscono la fidanzatina al fine di creare il pretesto di una guerra. Interviene però un pirata che assomiglia a Zorro e che complica il loro lavoro. Seguono altre traversie, che causeranno anche l'intervento di un mago in disarmo (Billy Crystal quasi irriconoscibile sotto il pesante trucco) e un prete che sembra uscito da uno sketch dei Monty Python (Peter Cook).

Nonostante l'idea non sia male, il risultato mi è sembrato discontinuo, alcune parti divertenti, altre meno riuscite. In particolare non ho gradito come l'eroe non uccida mai, ma faccia eccezione per l'italiano e per un topone. Già che c'era poteva evitare di stroncare anche loro.

La colonna sonora (non particolarmente memorabile) di Mark Knopfler.

Æon Flux - Il futuro ha inizio

È uno di quei film fatti sperando in mirabolanti incassi e che invece finiscono per aprire una voragine nelle casse dei produttori. Svariate decine di milioni di dollari hanno abbandonato le tasche dei munifici finanziatori per non farvi giammai ritorno.

Le bellissime scenografie, che mi hanno fatto pensare a Metropolis (non per nulla hanno girato nei mitici studi di Babelsberg), sono sprecate. Il notevole cast, con Charlize Theron che spadroneggia nei (succinti) panni della protagonista che dà l'improbabile nome al film (Aeon flux?! Pensavo fosse il nome del virus che, quattrocento anni prima dell'azione, spazzò via l'umanità), Frances McDormand e Pete Postlethwaite in piccoli ruoli secondari, si trova a recitare battute poco incisive (ad essere gentili) e lo fa senza alcuna convinzione. L'azione viene svolta come se fosse una compilation di film precedenti (Matrix occhieggia soprattutto nella scelta degli abiti).

Darei buona parte della responsabilità del disastro alla regista, Karyn Kusama, che si è trovata tra le mani una sceneggiatura che, pur non essendo eccelsa, aveva dei punti di interesse, ma non è riuscita a tirarci fuori un qualcosa di accettabile.

Un tale trova un antidoto al virus sopracitato, che però non funziona benissimo. Invece di salvare l'umanità, si finisce per metterla in stallo. Un gruppo di ribelli, stufi della stagnazione, operano per rovesciare il potere. E anche il governo è diviso al suo interno, con una fronda che sembra presa dalla storia romana. Ci si aggiungano temi come amore, relazioni famigliari, amicizie, rapporto tra cultura (tendenzialmente scientifica) e natura, e altre cosette del genere, che stanno evidentemente troppo strette in un solo film, per ottenere il confuso risultato finale.

Si fa guardare, ma magari è meglio togliere l'audio, e lasciare scorrere le solo immagini.

Zero dark thirty

A mezzanotte e mezza del due maggio 2011 (ora del Pakistan) si è conclusa quella che forse è stata la più intensa (e costosa) caccia all'uomo della storia. Ma il film non è tanto su Osama bin Laden quanto sull'ignota agente della CIA (Jessica Chastain) che ha gestito la relativa operazione di intelligence e sui metodi usati dal suo dipartimento per ottenere il risultato.

Il taglio dato al film (scritto da Mark Boal e diretto da Kathryn Bigelow, come il precedente The hurt locker) è documentaristico, e questo è sia il pregio sia il difetto del lavoro. È un pregio perché ci risparmia il nazionalismo trionfalista a cui rischia sempre di piegarsi un progetto del genere, è un difetto perché non prende posizione su alcuni aspetti della vicenda su cui è imbarazzante non avere (o non mostrare di avere) una posizione.

In particolare, è lecito usare la tortura? Si lascia intendere che non sia particolarmente utile (l'informazione chiave che ha portato alla localizzazione dell'anello debole della catena non è arrivata per quella via) ma non viene condannata esplicitamente. Si allude al fatto che distrugga la vita non solo dei torturati ma anche dei torturatori, ma non si mostrano le conseguenze.

E poi, era davvero quella la via migliore per reagire alla serie di attentati di Al Qaeda? Con quella montagna di soldi (svariati miliardi di dollari) non era più opportuno pensare ad attaccare le cause del conflitto invece di rispondere alla violenza con altra violenza? Sotto questo punto di vista risulta più costruttivo un film come ParaNorman.

E ancora, dobbiamo essere felici che vi siano donne che hanno un ruolo militare come la protagonista, o dobbiamo rabbrividire, visto che la femminilità è vista solo come una debolezza, e lasciata a spazi secondari, mentre quando si vuole far sentire si comporta come un uomo, vedi in particolare come si relaziona con i colleghi, come quando il pezzo grosso della CIA (James Gandolfini) chiede chi sia lei.

D'altronde, forse il duo Boal-Bigelow non poteva tirare più la corda, senza correre il rischio di condannare il loro film ad una distribuzione più limitata. Il che non vuol dire solo incassi più magri ma anche minore possibilità di avere un pubblico.

Nonostante le mie riserve, il film è pregevole. Le due ore e mezza filano via veloci, la regia bilancia adeguatamente la tensione al documentaristico (camera a mano, riprese in notturna) con l'esigenza di una piacevole visione cinematografica, il cast è di ottimo livello - oltre ai sopracitati, vale la pena di ricordare almeno anche Mark Strong, e pure il commento musicale, affidato al solito Alexandre Desplat, concorre bene a delineare i contorni emotivi del racconto.

ParaNorman

È un prodotto della Laika Entertainment, quelli di Coraline, una animazione a passo uno con un budget che fa pensare che la cifra sia indicata in rupie o lire turche (e invece no, le decine di milioni si riferiscono proprio a dollari americani), di cui avevo sentito parlare molto bene, e che invece a me mi ha lasciato parzialmente insoddisfatto.

Non ho capito bene a che pubblico sia rivolto. Norman, il protagonista, ci tiene a rimarcare di avere undici anni e l'immaginario horror direi che si adatta bene a quella fascia di età (io l'ho trovato assopente, ma ho qualche annetto di più e l'orrore non è un genere che mi attizzi). Ma la trama piuttosto articolata e svariate allusioni sessuali mi paiono più rivolte a ragazzini con qualche anno di più.

Norman, come da titolo, ha poteri paranormali. Vede gli spiriti dei defunti, in particolare sua nonna paterna che continua imperterrita ad occupare il divano in soggiorno nonostante la sua dipartita. Questa sua caratteristica lo rende poco gradito ai suoi coetanei, e a scuola subisce le angherie del bullo locale (che mi ha ricordato molto Moe, il bullo di Calvin, fumetto Calvin & Hobbes).

Segue complicata vicenda che coinvolge una strega mandata al rogo tre secoli prima in quello stesso paese, che includerà zombie, portenti stregoneschi, folle urlanti, eccetera. Fino al lieto fine d'obbligo.

Qualche scena bella c'è. Ancora verso l'inizio c'è la camminata di Norman da casa a scuola. Una oggettiva che diventa soggettiva del protagonista, che vede una folla trapassati. A pensarci bene, strano che Norman veda tutti quei fantasmi solo in questa breve sequenza. Che fine fanno? La loro sparizione fa pensare che in realtà Norman non li veda affatto, il che avrebbe più senso, ma rende complicata la comprensione del resto del film.

Dopo un'ora arriva un sogno in cui Norman rivive la scena della condanna della strega (che risulta essere un suo alter ego al femminile, aprendo uno spiraglio su una possibile interpretazione psicologica della vicenda che eviterebbe il ricorso al paranormale da Halloween) che dà finalmente un senso alla costruzione della storia. Il suo problema è, a mio avviso, che arriva troppo tardi.

Non banale il messaggio, leggibile anche come critica alla politica estera americana alla Bush, banalotti invece i personaggi, con gli adulti mostrati in blocco come incapaci di ascoltare, e tutti quanti monodimensionali e poco approfonditi. Ad uscirne bene, con capacità di crescita e cambiamento, mi pare sia la sola strega. Che però, a ben vedere, è morta da centinaia di anni.

The master

Eccellente prova attoriale dei due protagonisti, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, girato con la consueta perizia da Paul Thomas Anderson (che come al solito fa un ottimo uso della colonna sonora, le parti originali sono di Jonny Greenwood), ma finisce per non essere all'altezza del precedente Il petroliere, con cui ha molto in comune, per una eccessiva cautela nella sceneggiatura.

PT Anderson non è certo un regista che fa dell'esplicitazione la sua bandiera. Ma qui davvero esagera. Il problema pare che sia dovuto all'origine del soggetto, visto che il master del titolo è una figura di cui non si fa fatica a cogliere una certa rassomiglianza con L. Ron Hubbard, il fondatore di Scientology. E dunque sembra che la sceneggiatura sia stata scritta e riscritta per tener buoni gli attivisti di quell'organizzazione.

In realtà il ruolo principale non è quello del master (Hoffman), bensì quello di un tipaccio (Phoenix) che lo incontra fortunosamente, compie un tratto di vita assieme, come adepto, per poi distaccarsene. Una vita complicata. Lo seguiamo dalla fine della guerra nel Pacifico, dove l'abbiamo trovato con notevoli problemi mentali, alcolizzato (ma scopriremo che l'abuso di alcolici aveva già ucciso il padre, probabilmente portato la madre alla follia, e lo accompagnava chissà da quando) e con una capacità tutta sua per mettersi nei guai.

Non si capisce bene cosa cosa ci veda il master veda in quel violento ubriacone, sembra che sia un mistero anche per lui, forse lo capisce solo nel finale, nell'ultimo confronto tra i due.

Se il petroliere voleva solo soldi, il master sembra che abbia una specie di delirio narcisista. Vuole avere attorno solo persone adoranti che gli riconoscano il primato. È dunque attirato da questa specie di rottame umano che sembra quasi il suo opposto, disinteressato com'è al giudizio degli altri, ma che ha una volontà di ferro che non riesce a piegare. L'ubriacone, dal canto suo, apprezza il master, in quanto trova nei suoi bizzarri metodi pseudo curativi un sollievo, per quanto temporaneo al suo male di vivere, e magari ci vede anche una (im)possibile amicizia. Ma c'è qualcosa che valuta di più, la sua libertà, di cui non può fare a meno.

Momenti di gloria

I primi due minuti sono praticamente perfetti. Un gruppo di atleti britannici che corrono sulla battigia sulle note di Vangelis, roba che la conoscono tutti, a prescindere dal film:

Alle Olimpiadi londinesi dello scorso anno ne è stata presentata una variante con il Mr Bean di Rowan Atkinson che sabota l'azione:

Ma già ai tempi il regista (Hugh Hudson) si doveva essere accorto che era questa la scena migliore, al punto da duplicarla nel finale sull'inizio dei titoli di coda. E, a mio parere, aveva ragione. Le due ore che stanno in mezzo si possono tranquillamente tralasciare.

Si tratta di una storia vera, aggiustata dallo sceneggiatore (Colin Welland) per i suoi propri scopi. La spedizione britannica in Francia per le Olimpiadi del 1924, vista seguendo la prospettiva principale di due atleti, uno scozzese integralista presbiteriano (Ian Charleson) che corre per la gloria di Dio, e un inglese di origine ebraico-lituana (Ben Cross) che corre per combattere la discriminazione antisemita.

Seguiamo i vari problemi dei due, in particolare il presbiteriano rinuncia ai cento metri (gara in cui viene descritto come quasi invincibile) perché questo lo costringerebbe a gareggiare per le eliminatorie di domenica, contravvenendo ai dettami della sua religione. Ripiega perciò sui quattrocento che vince lo stesso, in barba ai superfavoriti americani.

All'ebreo, invece, viene contestato il fatto che faccia ricorso ad un allenatore professionista (Ian Holm, molto tempo prima di diventare Bilbo nell'immaginario comune), e che costui (orrore!) sia di origine italiana (anzi, peggio, ha anche sangue arabo). In pratica gli viene contestato di non essere un vero inglese, e di non comportarsi secondo i dettami dell'upper class. Lui reagirà tenendo nascosto il suo hobbit nella manica, e sconfiggendo i suoi demoni più mentali che fisici.

A parte la sopracitata sequenza, a me la colonna sonora di Vangelis non mi ha soddisfatto. Il gioco di usare musica elettronica in puro stile anni ottanta per descrivere scene sportive di sessant'anni prima mi ha lasciato freddo. Meglio sarebbe stato limitarsi a quell'eccellente brano (che del resto è l'unico che ha passato il vaglio del tempo) e usare musica d'epoca anche per le parti di commento.

Looper - In fuga dal passato

Con i racconti basati su viaggi nel tempo bisogna avere pazienza, il paradosso è inevitabile sin dalle premesse, e più si sviluppa la narrazione più le cose non possono che peggiorare. Looper non può che soffrire lo stesso problema, conviene dunque decidere prima di entrare in sala di accettare che i protagonisti vivano in un bizzarro mondo parallelo in cui le leggi della fisica sono a noi così incomprensibili che il viaggio del tempo risulta praticabile con il curioso bonus di una stravagante correlazione tra il corpo del viaggiatore del tempo prima e dopo la cura.

È un viaggio del tempo alla Ritorno al futuro, con il futuro che cambia a seconda delle interazioni del viaggiatore nel tempo con il suo passato. Altro riferimento ineludibile è quello con Terminator, visto che il protagonista, Joe, in versione anziana (Bruce Willis) spiega al se stesso giovane (Joseph Gordon-Levitt pesantemente truccato così da sembrare un possibile Willis da giovane) che vuole attuare un folle piano di ingegnerizzazione del futuro uccidendo da giovane un tale che al momento è un bambino, ma lui sa (o crede di sapere, la memoria è una facoltà opinabile in questi contesti) che da grande sarà un tipaccio. A far la Sarah Connor della situazione c'è Emily Blunt, che si trova ad essere contesa (e non intendo in senso romantico) tra lo stesso personaggio sfasato di trent'anni.

La parte debole della faccenda mi è sembrata quella relativa alla costruzione del personaggio del bambinetto terribile che metà del protagonista vuole eliminare e l'altra metà vuole difendere. L'avrei tagliato senza farmi problemi, avrei semplificato la trama, togliendo una (inutile, a mio avviso) ulteriore complicazione para-scientifica, e tanti saluti alla piccola peste. Vero è che si sarebbe dovuto cambiare anche il ruolo della Blunt, ma non mi pare un problema insormontabile.

Liquidata la parte fantascientifica, resta da dare un senso al film. A mio avviso, l'interesse sta nella relazione tra Joe giovane/anziano, e nel suo rapporto con la violenza.

Da giovane Joe è una persona di una vacuità demoralizzante. Ammazza, incassa la ricompensa, si droga, aspetta la pensione. Invecchiando (dopo molti, molti anni, e grazie ad un fortunato incontro) riesce a maturare e diventa una persona con una maggiore profondità. Uno a zero per Joe-vecchio? Mica tanto, perché il giovane dimostra che l'anziano ha perso la capacità di vedere le cose oltre all'immediato. OK, gli si possono dare delle attenuanti, una vita da killer, un viaggio nel tempo che deve essere una notevole fonte di confusione. Fatto è che nel finale, con un punto segnato all'ultimo minuto, è il Joe-giovane ad aggiudicarsi il derby, anche se paga ben caramente la vittoria.

La rappresentazione fornita del nostro futuro è sul deprimente andante. Violenza e decadimento. Joe-giovane, fino all'incontro con se stesso anziano, accetta senza problemi quella legge del branco. I fatti narrati nel film, però, lo porteranno a ribaltare il suo punto di vista, a comprendere come la violenza non possa che generarne altra e a pensare una via per ottenere un risultato diverso. Un briciolo di speranza c'è, dopotutto.

Sceneggiatura e regia sono di Rian Johnson, che ha esordito con il non riuscitissimo Brick, sempre con Gordon-Levitt come protagonista, e che qui è al suo primo blockbuster.

Oltre ai succitati attori principali, da notare la partecipazione di Jeff Daniels nel ruolo del boss mafioso, e Paul Dano, amico di Joe-giovane, e destinato ad una spiacevole uscita di scena.

Emotivi anonimi

Commedia romantica canonica in salsa franco-belga. Lui (Benoît Poelvoorde), lei (Isabelle Carré), 'o malamente (l'incapacità relazionale dei protagonisti), una serie di circostanze, in genere buffe ma con qualche spina, che impediscono temporaneamente la formazione della coppia.

Scritto e diretto da Jean-Pierre Améris, che dimostra di avere buone idee nel campo ma una certa difficoltà a far riuscire la ciambella col buco. Fortuna che la scelta del cast è stata fatta con attenzione. E fortuna anche che ci si è limitati a una durata di 80 minuti, se mancano le idee, meglio limitarsi all'essenziale che rischiare di annoiare lo spettatore.

Spesso le commedie romantiche giocano sulla contrapposizione di caratteri (lei vivace, lui introverso ...). Qui, invece, i due hanno lo stesso problema, una timidezza patologica che li spinge ad una serie di piccole catastrofi (sfiorano anche le grosse, ma ne escono con leggerezza) del tipo: lei vorrebbe lavorare come ciocciolatiera nella cioccolateria di lui, si presenta al colloquio che però è per una venditrice, non riesce a spiegare l'equivoco e si trova ad essere assunta per un lavoro per cui non ha alcuna attitudine. D'altro canto, ad assumerla è stato lui, che ha percepito l'interesse di lei per il cioccolato, ma non è riuscito a farle un vero colloquio perché è suonato il telefono (!), cosa che l'ha mandato in pallone. Inoltre, la fatica di fare un colloquio è stata tale da spingerlo a cancellare tutti gli altri, ed è stato quindi gioco-forza assumere l'unica scrutinata.

Restando in tema con la sceneggiatura, direi che il punto debole del film è la mancanza di fiducia di Améris nei propri mezzi. Mi è parso infatti che si sia appoggiato ad altri titoli, quasi come per avere un supporto. Meglio avrebbe fatto a rischiare qualcosa di più e staccarsi dai suoi modelli. Se il riferimento a Chocolat è più nel tema che nello svolgimento, il riferimento a Il favoloso mondo di Amélie risulta dall'approccio ad alcune scene che ricordano il realismo magico di Jean-Pierre Jeunet, ma che non reggono il paragone - ah, nota anche la presenza di Lorella Cravotta, qui cioccolataia, là mamma della protagonista. C'è anche un riferimento che a me è sembrato piuttosto marcato alle commedie romantiche inglesi con Hugh Grant (i quattro matrimoni, Notting Hill, ...).

Sul versante positivo farei pesare le notazioni non banali sulle difficoltà dei protagonisti, e certe battute piuttosto acuminate sia dei protagonisti sia dei personaggi minori. Ad esempio, notevole quella dell'alticcio portiere dell'albergo che invita lui a non sprecare la sua occasione con lei: "Non la faccia andare via. È la donna della sua vita. Si vede." "Davvero?" "Mhm. O forse no. Ma la solitudine è molto peggio."