Primer

Un paio di ingegneri si ingegnano attorno ad un apparecchiatura che non è chiaro nemmeno a loro cosa sia e cosa faccia. Dopo lungo meditare decidono che si tratta di una macchina del tempo. Pensano di sfruttarla per fare soldi, ma in breve scoprono che le cose sono più complicate di quel che credevano. Uno dei due pensa di sabotare l'invenzione e farla cadere nel dimenticatoio, l'altro continua a pensare che sia una genialata.

Film a bassissimo costo scritto, diretto, interpretato (eccetera eccetera) da Shane Carruth. L'altro protagonista (il buono) è David Sullivan. È un film che ha qualcosa di simpatico, in particolare la fase in cui i due inventori inventano senza sapere cosa stanno inventando e, ad esempio, segano la marmitta catalitica della loro auto per procurarsi il palladio necessario ad un esperimento, e pensano di distruggere il frigo di casa per il freon.

Ma per il resto è nebbia. Grandi chiacchierate tecnologiche in latinorum; una trama esageratamente complessa a nascondere una struttura che è in realtà banale e che non offre un appiglio emozionale alla storia; personaggi secondari appena tratteggiati che fanno cose che non danno spessore alla narrazione.

Anche il meccanismo stesso del viaggio nel tempo è poco chiaro, ci si appoggia alla teoria degli universi paralleli, di cui però viene trascurata la logica, e usato solo il bonus di poter replicare gli accadimenti e i personaggi.

In teoria, la complicazione della narrazione spingerebbe a vedere più volte il film per riuscire a capire il senso di una parte di dettagli che sono oscuri ma spiegabili (credo che altri siano oscuri semplicemente perché non hanno spiegazione). Ma mi manca il coinvolgimento emotivo per farlo.

Al confronto, il simile Timecrimes esce vincitore. Molto più facilmente fruibile, dritto allo scopo di raccontare una storia, per quanto ingarbugliata. A ben vedere entrambe le vicende sono insensate, i paradossi del viaggio nel tempo le smontano in un batter d'occhio, ma Primer si regge tutto sull'invenzione e nell'uso dell'impossibile macchinario mentre Timecrimes la usa per raccontare di come un povero diavolo si trovi costretto a gestire una situazione apparentemente senza via di uscita.

Come dire, c'è un lato umano, che in Primer mi sembra che manchi.

Noi credevamo

Tutto bello, solo la lunghezza m'è sembrata eccessiva, ma per fortuna me lo sono visto a casa e non al cinema, e la struttura del film, diviso com'è in quattro episodi, sembra fatta apposta per una visione scaglionata. Che sia stato pensato più come miniserie televisiva che come mattone cinematografico? A parte che, in tempi di Django unchained e Cloud atlas, sembra che lo spettatore medio non si preoccupi di tali particolari.

Il budget limitato si fa vedere nelle scene di massa (praticamente assenti) e in certi dettagli nelle ambientazioni, ma per il resto la ottima regia (Mario Martone) e praticamente tutto il cast tecnico (bella la fotografia) riescono a sopperire egregiamente alla scarsezza di fondi, puntando più sui singoli personaggi e le interazioni tra loro che al quadro storico complessivo.

E allora, cos'è che non mi ha convinto appieno di questo film? Forse non mi ha colpito al cuore, forse mi sarei aspettato toni più positivi da un film prodotto con i fondi per la celebrazione del 150° dell'unità di Italia. Non dico che mi aspettassi un racconto trionfalista (non siamo né francesi né americani), ma almeno un bilanciamento tra i diversi aspetti.

Invece anche i personaggi più positivi, come Cristina di Belgiojoso (Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto) e Giuseppe Mazzini (Toni Servillo) sono mostrati come più disillusi che altro. Il protagonista (Luigi Lo Cascio) non può che prendere atto che l'Italia è nata in modo diverso da come avrebbe voluto lui e se alla fine rinuncia all'uso delle armi come motore del cambiamento, rinunciando a sparare a Francesco Crispi (Luca Zingaretti), sembra che lo faccia più per spossatezza che per aver compreso che non sia la via migliore.

Una scena mi ha emozionato. Giuseppe Garibaldi è in marcia su Roma (l'episodio in cui il generale fu ferito ad una gamba). A sera, vicino ad un falò, alcuni uomini recitano una scenetta di teatro da strada, irriguardosa nei confronti del Crispi. Ne segue un piccolo parapiglia, risolto musicalmente, come da scheggia seguente:

Mi ha fatto pensare all'uso della marcetta di Allonsanfàn dei Taviani, film altrettanto pessimista, meno riuscito tecnicamente, ma con una marcia (oltre che una marcetta) in più a livello di sceneggiatura.

A proposito di musiche, bella anche la colonna sonora, basata in gran parte su musiche verdiane.

La prima cosa bella

Bruno (Valerio Mastandrea) insegna alle superiori con poca passione, convive con altrettanta poca passione con una bella e paziente donna che lui tenta inutilmente di mollare, e con lo stesso impegno consuma stupefacenti. Intuiamo che butti via la sua vita per qualche motivo legato alla sua famiglia, abbiamo appena visto un flash back in cui la madre, una quarantina di anni prima (Micaela Ramazzotti), vince (quasi controvoglia) un concorso da spiaggia, e questo causa i malumori dei maschi di famiglia.

Il film non sembrerebbe promettere niente di buono, ma per fortuna Paolo Virzì (regia e, affiancato dal fido Francesco Bruni, sceneggiatura), più che puntare sul desolante presente del protagonista, mira a raccontare la storia della madre, ormai in punto di morte (Stefania Sandrelli), tendenzialmente svampita ma non cattiva. Nel corso del racconto scopriremo come di "cattivi" ce ne siano pochi, e il male sia piuttosto all'interno dei singoli personaggi, che non sanno accettare, non sanno parlare, non riescono ad ascoltare.

Pur avendo qualche tono drammatico, l'atmosfera prevalente è quella della commedia, e dunque il finale è fondamentalmente positivo.

In un alternanza tra azione ai giorni nostri e ricordi degli anni settanta (sottolineati dalla colonna sonora che include anche la canzone del titolo, quasi ad omaggiare i musicarelli del tempo andato), seguiamo Bruno che non riesce ad evitare che la sorella (Claudia Pandolfi) lo venga a prendere a forza a Milano e lo riporti a Livorno, per riconciliarlo con la madre e tutta la vita di provincia che aveva voluto cancellare. Poco a poco scopriamo come la madre era sì sciocchina, ma che la gelosia paterna era priva di fondamento; che la zia, che inizialmente sembra inesplicabilmente odiosa, ha i suoi motivi, e che pure non è nemmeno lei contenta del ruolo in cui è finita per ficcarsi; che il padre, che sembrerebbe così duro con la madre, agiva così forse più perché non sapeva come gestire le voci di paese che altro.

L'intreccio è davvero complesso, ma gestito bene, al punto che le due ore di durata mi sono filate via lisce senza problema. Tra i personaggi minori c'è pure Marco Messeri.

Persona

Il titolo non è in italiano, semmai in latino, forse meglio sarebbe stato tradurlo con Personaggio, che avrebbe (credo) fatto pensare subito ai Sei personaggi di Pirandello, fornendo un'utile chiave interpretativa allo spettatore.

Dietro ad un possibile riassunto apparentemente semplice, l'opera si rivela impervia, aperta a interpretazioni di tutti i tipi. Io propenderei nel leggerlo come horror, visto che il finale è riuscito a farmi venire i brividi dal raccapriccio, cosa che non ricordo mi sia mai capitata prima.

Una grande attrice (Liv Ullmann) ha una crisi nervosa alle prove di Elettra, e da quel momento non spiaccica più parola. La psichiatra da cui è in cura la affida ad una giovane infermiera inesperta (Bibi Andersson), senza grandi risultati. Le due vengono spedite in una casetta isolata sul mare a passare l'estate, sperando questo faccia bene alla malata. E in effetti avviene un cambiamento, ma inaspettato. Le due protagoniste sembrano scambiarsi di ruolo (chi ha subito un trauma - e quale? - e chi sta curando l'altra? chi è forte e chi è debole?), fino ad arrivare al finale, aperto a svariate interpretazioni.

Il tutto narrato con gran verve sperimentale da Ingmar Bergman, e memorabile interpretazione delle due eccellenti protagoniste. Il prologo è una specie di caos primigenio che mi pare rappresenti la mente confusa dell'attrice. A schegge di cinematografia del tempo andato, si sommano immagini di un ragazzetto in un obitorio (?) che sembra morto, ma non lo è, e che quando si risveglia tende all'immagine confusa di una donna che potrebbe essere tanto la Ullmann quanto la Andersson, o entrambe.

All'inizio, e per gran parte del tempo, l'infermiera viene mostrata come timorosa, in posizione subalterna rispetto alla paziente, ma nella seconda parte sembra a tratti avere il sopravvento, e nel finale forse assume un ruolo dominante (o forse viene ridotta a mero personaggio).

L'attrice dovrebbe essere la malata, quella a cui manca qualcosa, e in particolare in tutto il film non dice che poche parole, che sono poi qualcosa come "Non farlo!" "Nulla", ma anche, stranamente, una frasetta quasi inaudibile "dovresti andare a letto o ti addormenterai sul tavolo", che l'infermiera ripete, quasi come se ripetesse la battuta che arriva da un suggeritore. Eppure è quella che mostra di avere una volontà più forte, e (come dicevo, è opinabile) nel finale forse ha il sopravvento definitivo sull'altra.

Tra le molte cose strane che accadono, c'è una vivida scena di sesso sfrenato tra la Andersson, un'altra donna e due ragazzini molto giovani, di cui sappiamo tutto ma non vediamo assolutamente nulla; c'è poi un monologo della Andersson (che bilancia il silenzio della Ullmann con un personaggio molto chiacchierino) in cui, inesplicabilmente (ma anche no), l'infermiera parla di fatti molto privati dell'attrice, che non avrebbe modo di sapere. Questo monologo è ripetuto, in modo da lasciarci la possibilità di vedere prima la reazione della Ullmann, e poi l'espressione della Andersson. Nel finale abbiamo anche l'irruzione del regista in persona, con tanto di macchina da presa, a ricordarci che quello che stiamo vedendo è un film, e di non lasciarci impressionare troppo dalla narrazione. Memorandum che cade a proposito, perché sono appena accaduti i fatti molto disturbanti a cui accennavo all'inizio, con le facce delle due protagoniste che, con modalità diverse, per due volte si fondono in un unica immagine.

Tralascio di raccontare anche i due sogni (o forse realtà) della Andersson, e altri fatti minori (si fa per dire) che complicano ulteriormente la vicenda.

La ragazza con l'orecchino di perla

Atmosfere impeccabili, regia misurata (Peter Webber) che segue con attenzione un notevole cast. Purtroppo non ho capito dove vada a parare la storia (basata sul romanzo di Tracy Chevalier), e questo mi ha ridotto il piacere della visione.

Si tratta della invenzione delle vicende che avrebbero portato il pittore seicentesco olandese Jan Vermeer (Colin Firth) a dipingere uno dei quadri più noti al mondo (come da titolo), che rappresenta una ignota fanciulla (Scarlett Johansson) colta sulla tre quarti, con un semplice turbante blu in testa (da cui l'altro nome con cui il dipinto è noto: la ragazza col turbante) e una vistosa perla all'orecchio. Il gioco tra contrasti (ragazza molto giovane, ma con bocca e sguardo da far rimescolare il sangue; abbigliamento semplice ma gioiello di gran valore; la luminosità della figura nell'oscurità del contorno) rendono la tela indimenticabile.

In realtà poco si sa di Vermeer, e nulla della modella. Nel film mi pare si voglia fare il punto che lei, pur non sapendo nemmeno leggere, avesse una grande intelligenza istintiva, e che avrebbe potuto forse essere una grande pittrice. Ma le circostanze hanno deciso altrimenti. I toni dello svolgimento sono molto leggeri, seguiamo senza molta fretta le vicende della giovane servetta, che conosce un possibile marito, il figlio del macellaio (Cillian Murphy), rischia di essere violentata da un ricco mercante (Tom Wilkinson), ha screzi con la moglie di Vermeer eccetera. Molte scene ricordano dipinti di Vermeer e la pittura olandese del tempo in genere.

Girato sul luogo, ovvero Delft, a due passi da L'Aia, ben conservata, vale la pena di visitarla, magari dopo aver visto il film, come vale la pena di andare alla Mauritshuis, che sarebbe poi il museo che conserva il dipinto citato. Interessante il confronto con In Bruges, ambientato ai nostri giorni ma in una città che sembra quasi gemella.

Se mi lasci ti cancello

Rivisto dopo un paio d'anni, non è cambiato molto nell'impressione (molto positiva) che mi ha lasciato. Un paio di suggerimenti che potrebbero essere utili a chi non l'abbia ancora visto: non distrarsi nella prima parte che richiede una certa attenzione per non perdersi per strada, e non farsi ingannare dal macchinario fantascientifico del dottor Tom Wilkinson, qui la fantascienza c'entra davvero poco, trattasi piuttosto di commedia romantica che usa un improbabile inghippo per fare un punto dalle parti del sentimento piuttosto che della tecnologia.

Lui (Jim Carrey), introverso, si innamora di Lei (Kate Winslet), estroversa e mutevole. Una combinazione da montagne russe, così che un giorno topico (San Valentino) si trasforma in un macigno che cade sulla loro relazione, rompendola. Lei si dimentica completamente (o forse no) di lui, utilizzando per l'appunto i servigi della Lacuna, azienda creata dal Wilkinson e operata dai molto inaffidabili Elijah Wood (che si prende una cotta per la Winslet), Kirsten Dunst (che si innamora del capo) e Mark Ruffalo (che si innamora della Dunst). Lui decide di renderle la pariglia, e usare lo stesso metodo per dimenticarsi di lei. Visto che seguiamo prevalentemente il punto di vista di Carrey, in particolare il lungo strano sogno lucido che ha mentre Ruffalo & co. operano sulla sua mente per rimuovere le memorie rilevanti, la vicenda assume pieghe bizzarre, fortunatamente gestita bene da Michel Gondry (che ha scritto e diretto il film - come Lisa qui sotto mi fa notare, buona parte del merito sul versante scrittura va dato a Charlie Kaufman, e in effetti, ora che mi ci si fa pensare, si sente una certa aria di casa con Essere John Malkovic).

Una storia su scherzi della memoria, e direi dunque che è gioco forza citare Memento, mentre per la commistione tra fantascienza (strumentale al tema principale) e film romantico segnalerei I guardiani del destino.

Cercasi amore per la fine del mondo

Prima regia per Lorene Scafaria, sua anche la sceneggiatura, decisamente perfettibile ma comunque interessante. A patto da non farsi ingannare dalla distribuzione e pensare che il film sia qualcosa di diverso da quello che in realtà è. In particolare, non è una commedia. Ci sono alcuni spunti in quella direzione, ma non sono il tema principale, e solo pochi sono abbastanza riusciti, roba da strappare qualche sorriso.

A vedere il trailer, invece, l'impressione che si ha è completamente diversa:

Fra l'altro, non c'è traccia di Road to nowhere dei Talking nel film, e visto che la colonna musicale include un buon numero di canzoni, non capisco perché non ne abbiano usata una già presente.

Più che commedia, siamo dalle parti di Melancholia, con un depresso (un ottimo Steve Carell che non è certo una sorpresa - vedi ad esempio Crazy, stupid, love per conferma - ma chi lo conosce per altri titoli potrebbe restare spiazzato) che si trova a fronteggiare la catastrofe finale, l'asteroide Matilda sta piombando sul nostro pianeta lasciandoci solo poche settimane per ragionare sul senso della vita. Anche perché la soluzione all'Armageddon (nel senso del film catastrofico di Michael Bay) viene scartata sui titoli di testa, con la radio che annuncia che lo space shuttle in missione di salvataggio si è miserabilmente schiantato.

La notizia ha l'effetto collaterale di spingere la moglie del protagonista (che, mostrando una notevole vena umoristica, è interpretata da Nancy Carell, moglie anche nella vita reale di Steve) a uscire di macchina e correre via quanto più veloce possibile. Non la rivedremo più per tutto il film.

La storia procede mostrando la (ormai) solita parata di diversi comportamenti in occasione della imminente catastrofe. Gente che si suicida, o paga per essere uccisa, altri che si dedicano a sesso, droga e rock e roll, e così via. Il nostro incontra una vicina inglese (Keira Knightley) con cui non aveva mai scambiato che poche parole, completamente diversa da lui (e dunque sappiamo come andrà a finire), scoprono di avere bisogno uno dell'altra per i loro scopi, e partono assieme per incontrare alcuni tipi bizzarri che completano lo svolgimento dell'azione.

Knightley abbastanza dimenticabile, ma che ha modo di piazzare almeno una ottima scena ad alto tasso emotivo: una telefonata alla famiglia lontana (che lei tenta disperatamente di raggiungere) a cui è molto legata e che ha scoperto di aver trascurato per errore. Decisamente meglio va a Carell, che a dire il vero ha anche molti più minuti a disposizione per costruire il suo personaggio, vedasi ad esempio la scena, ormai verso il finale, quando duetta con Martin Sheen.

Qualche lungaggine al centro, ma il riscatto arriva con un finale ben scritto ed eseguito.

Brick - Dose mortale

In attesa di Looper, sono andato a ripescare il primo lungometraggio di Rian Johnson, anche questo con Joseph Gordon-Levitt nel ruolo principale. Giusto per avere un idea di chi sia questo autore di cui non sapevo praticamente nulla.

Il basso costo di produzione di Brick fa capolino da ogni angolo, ma questo non lo considererei un problema, se non fosse che mi sembra abbia impattato anche sulla qualità della recitazione. Il cast, infatti è di buon livello, Gordon-Levitt è ovviamente fuori scala, ma i comprimari non sono disprezzabili (tra gli altri, Lukas Haas fa il cattivo, Nora Zehetner la femme fatale). Purtroppo non mi paiono diretti bene, probabilmente per tagliare i costi avranno girato in pochissimo tempo, buona la prima e tanti saluti. Menzione disonorevole per Noah Fleiss che recita la parte del picchiatore al soldo del cattivo con un piglio che mi ha ricordato il personaggio del bifolco interpretato da Michael Palin nelle scorribande dei Monty Python. Il problema sta nel fatto che non credo Fleiss puntasse a questo risultato.

Si tratta di un film di genere, anche se affrontato in una prospettiva spiazzante, dove il percorso di ogni personaggio è chiaro sin dall'inizio, e dunque tutto il peso della storia viene retto dalla sfumature, chi qui non è che abbiano poi modo di delinearsi al meglio. Inoltre il film m'è parso troppo lungo. Più volte l'azione langue, e lo sbadiglio è dietro l'angolo, e questo in un film che vorrebbe riprendere le tematiche hard boiled alla Dashiell Hammett mi pare una colpa imperdonabile.

La storia è decisamente incongrua, un ragazzetto (Gordon-Levitt, in una parte che dovrebbe essere assegnata ad un minorenne, visto che va al liceo, ma non sottilizziamo) scopre che la sua ex è finita in un brutto giro, anzi, il film inizia che la trova morta ai piedi di una fogna. Un flash back di venti minuti ci racconta come siamo arrivati a questo punto, e il resto del film ci illustra la sua vendetta, che lo porta a prendere un sacco di botte, schivare le insidie del preside della sua scuola, indagare tra compagni di scuola, decifrare un traffico di droga.

L'interessa sta nel fatto che tutti i personaggi si comportano come se agissero in un noir anni quaranta-cinquanta. Gordon-Levitt sembra recitare all'ombra di Humphrey Bogart nel Mistero del falco o ne Il grande sonno. Il fatto che tutti recitino seriamente causa uno strano effetto quasi-comico che ha un suo perché - anche se non mi sembra sufficiente per consigliare questa visione a nessuno, se non chi, come il sottoscritto, fosse interessato alle prime prove di autori cinematografici che (sembrano) destinati ad avere un futuro. Già, perché, nonostante le molte debolezze del risultato, si percepiscono le buone potenzialità di Rian Johnson. Vedremo che uso ne farà in futuro.

Nessuno lo sa

L'idea di un film così demoralizzante è venuta a Hirokazu Koreeda (sceneggiatura e regia) quando è venuto a sapere di un fatto realmente accaduto, che poi ha modificato, ripensandolo e adattandolo al proprio immaginario.

Si narra di una famiglia anticonvenzionale, la madre (You - nota cantante/attrice in Giappone) è, come dire, uno spirito libero. Ha avuto quattro figli da quattro diversi uomini, e questo non ha impattato sul suo modo di vivere, torna abitualmente tardi alla sera, spesso si assenta per lunghi periodi. A fare le spese della libertà materna sono i figli, che non sono stati registrati all'anagrafe e quindi ufficialmente non esistono.

È il più grandicello, dodicenne (Yuya Yagira), a fare da capofamiglia quando la mamma non c'è. Questa situazione già molto precaria viene ulteriormente destabilizzata dall'ennesimo allontanamento della madre, troppo lungo per i pochi risparmi della famigliola. Si aggiunga che i ragazzini sono estremamente onesti, e che i padri non hanno molta voglia di contribuire al sostentamento dei loro figli naturali.

Tragedia nel finale, ma che aiuta far trovare un nuovo, per quanto precario, equilibrio ai superstiti. Grazie anche all'arrivo di una ragazzina, circa coetanea del maggiore, che si avvicina a loro.

Lo stile impiegato è semi-documentaristico, interrotto solo da un momento di commozione evidenziato dall'esecuzione di una canzone, Houseki (Gioiello) di Tate Takako (che fra l'altro appare nel film come cassiera del minimarket), e dalle riprese che diventano temporaneamente più pulite.

Per il resto del tempo, Koreeda evita di prendere una posizione, lasciandoci a noi l'ingrato compito di elaborare la storia. Difficile parteggiare per la madre, anche se sembra più sciocca che altro, non rendendosi conto del danno che sta facendo ai suoi stessi figli. Gli altri adulti tendono ad adagiarsi nell'illusione che sia il problema di qualcun altro, preferendo fingere di non vedere piuttosto che fare qualcosa.

Mary Reilly

Sono quasi sicuro che si tratti di una seconda visione, ma mi aveva così poco impressionato ai tempi (e anche adesso) che non ci metterei la mano sul fuoco.

È una rielaborazione (romanzo di Valerie Martin, sceneggiatura di Christopher Hampton, che ha adattato anche cosette come Le relazioni pericolose ed Espiazione) de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson, raccontata da Stephen Frears dal punto di vista di una cameriera (Julia Roberts) del buon dottore (John Malkovich).

Tra i comprimari Michael Gambon, padre di Mary, e Glenn Close, tenutaria del bordello frequentato da Hyde.

Bella prova d'attore di Malkovich, che muta dal dottore (flebile con barbettina) al crudele avventuriero (giovanile e trasudante testosterone) per mezzo del noto artifizio scozzese.

Zack & Miri - Amore a... primo sesso

Circostanze inaspettate mi hanno portato ad una seconda visione piuttosto ravvicinata per questo film scritto e diretto da Kevin Smith, interpretato nei ruoli principali da Seth Rogen ed Elizabeth Banks.

Meglio sarebbe stato mantenere il titolo originale, Zack and Miri make a porno, in modo da rendere ben chiaro che la sceneggiatura è molto esplicita, con parole e situazioni che non vanno per il sottile. Chi conosce Kevin Smith (quello di Clerks uno e due) non dovrebbe scandalizzarsi ma apprezzare la storia. A chi invece fossero sfuggiti i due succitati lavori, e non conosca K.S., o magari lo conosca per Dogma (non certo un titolo per genere dal cuore tenero, ma in un altra direzione) o Jersey Girl (questo sì, decisamente mainstream), potrebbe trovarsi di fronte a qualcosa che lo mette in imbarazzo.

Molto esplicito, partenza da commedia post-liceale, virata verso commedia sentimentale, finale un po' troppo caramelloso ma condito con bizzarri contrappunti. Due amici (Rogen e la Banks) fanno sesso e scoprono che questo cambia completamente la prospettiva della loro relazione.

Pietra miliare per chi voglia dettagli sul Timone Olandese.

Prendi i soldi e scappa

Prima vera regia per il grande schermo di Woody Allen [dopo Che fai, rubi? (What's up Tiger Lily?) - in realtà un doppiaggio intenzionalmente sbagliato di un ben poco memorabile film giapponese d'azione] mostra gran parte dei temi che saranno trattati dall'autore newyorkese per tutta la sua lunghissima carriera, con la zavorra di una poca dimestichezza con le tecniche cinematografiche. In pratica quasi tutte le gag sono verbali, e le immagini servono spesso solo per ribadire quello che il narratore racconta.

È strutturato come lo spoof di un documentario sulla vita di un famoso delinquente (e di conseguenza, dei film sui gangster), e la comicità deriva sostanzialmente dal fatto che il protagonista (lo stesso Woody Allen) è un incapace assoluto. Vediamo spezzoni della sua infanza, dove viene maltrattato da tutti, e mostra sin da giovanissimo la sua predisposizione alla catastrofe (cerca di rubare gomme da masticare, ma resta incastrato con le dita nella macchinetta). Subito attratto dall'altro sesso (come racconta una insegnante delle elementari) e dalla cultura (vorrebbe suonare il violoncello in una banda, ma oltre alle difficoltà logistiche ha un orecchio musicale inesistente), finisce ben presto in galera in seguito ad un maldestro tentativo di rapina. E tutto questo prima dei titoli di testa.

Molte le scene che sono diventate mitiche. Ad esempio i genitori accettano di parlare del figlio, ma indossano (entrambi!) travestimenti alla Groucho Marx per non farsi riconoscere. Oppure la rapina in banca risolta in un disastro a causa del biglietto passato al cassiere pieno di errori grammaticali. O anche un colloquio di lavoro che si trasforma in assurdo quiz televisivo.

Il rapporto con la religione viene ribadito dal padre, che dice più volte di aver cercato di spigargli la fede a schiaffoni, ma senza risultato. L'ateismo del personaggio però è evidentemente travagliato, e sotto stress (fa la cavia umana per aver ridotta la sua pena) lo vediamo trasformarsi in un rabbino, con tanto di lunga barba.

L'amore viene raccontato per mezzo dell'incontro con Janet Margolin, nei panni di una lavanderina che il protagonista avvicina per derubarla, anche lei con una infanzia travagliata e con un comprendonio piuttosto limitato (crede che lui suoni il violoncello alla filarmonica, nonostante faccia fatica anche a identificare Mozart). Come tipicamente accade, Allen caratterizza il suo personaggio come attratto dalle donne ma completamente incapace di capirle, e con una capacità amatoria, come dire, piuttosto peculiare.

Anche la psicologia viene affrontata, mostrando la figura di uno psicologo ben poco comprensivo nei confronti dei suoi pazienti, e con idee alquanto eterodosse.

Divertenti le scene che sovvertono gli schemi dei schemi dei film noir introducendo bizzarre variazioni tipo, Allen sottoposto a ricatto, tenta di uccidere la ricattatrice noleggiando una Mini e investendola nel suo soggiorno, oppure per errore spiega il piano di una rapina a due poliziotti invece che ad un collega. Direi che le più riuscite siano quelle in ambiente penitenziario: si organizza una evasione, la data viene cambiata all'ultimo momento, ma solo lui non viene informato; o la parte in cui sconta la pena spaccando pietre, conclusa con una fuga di gruppo che ricorda molto quella di Fratello, dove sei? dei Coen.

Confidenze troppo intime

La mia lunghissima e ingiustificata disattenzione nei confronti del cinema francese è iniziata non molto dopo la visione de L'insolito caso di Mr.Hire, e mi pare di buon auspicio che l'abbia chiusa vedendo (anche) questo film che ripropone la coppia Patrice Leconte (regia) e Sandrine Bonnaire (prima donna).

A richiamare la mia attenzione su questo titolo ci ha pensato Sailor Fede, a cui direi che è piaciuto, ma con qualche perplessità. Che io ho in misura molto minore, probabilmente perché conosco un po' di più i due sopra citati, e so cosa aspettarmi da loro. In particolare, in una scena in cui la Bonnaire racconta la sua infanzia, non ho potuto fare a meno di fare un collegamento a Senza tetto né legge. Tutti elementi che allargano la prospettiva, aggiungendo valore al film.

La Bonnaire ha problemi matrimoniali, vuole andare da uno psicologo, per sbaglio (è molto distratta) va invece da un commercialista. Costui (Fabrice Luchini) è molto timido e risevato, e non riesce a spiegare l'equivoco che quando è troppo tardi. Seguono complicazioni varie che coinvolgono il marito della paziente, la ex fidanzata del commercialista, lo psicologo (che finisce per seguire il commercialista, sia pure in una modalità poco ortodossa), e altri personaggi minori, fino allo scioglimento che potrebbe sembrare in linea con i dettami classici della commedia romantica.

Su questo canovaccio apparentemente lineare (di Jerome Tonnerre) si innestano una serie di variazioni che dovrebbero servire a far rizzare le orecchie allo spettatore.

Ad esempio le musiche originali (Pascal Esteve). Non sono da commedia, bensì quasi da thriller, giocano sulle dissonanze, fanno pensare ad un improvviso rivolgimento dell'azione. E sottolineano i dubbi di Lui su di Lei, che hanno molto su cui lavorare (non sa dove abita, come si chiama, potrebbe essere tutto falso quello che gli racconta). E nota che lo stesso tema lo ritroviamo nel finale, quando le immagini, invece, ci farebbero pensare ad una chiusura lieta della vicenda. Che succede, allora? La Bonnaire ha ingannato Luchini (e anche noi)? O è solo che le cose sono sempre più complicate di come possono sembrare?

Come dicevo sopra, la storia principale è complicata da una serie di numerose sottotrame secondarie che sta allo spettatore interpretare come più gli sembra opportuno. C'è la storia della portiera ficcanaso, che segue con passione una bizzarra telenovela che ricorda vagamente Uccelli di rovo, ma con un inaspettato colpo di scena nel finale. C'è il cliente dello psicanalista, che fa amicizia con la Bonnaire, così che lei abbia modo di rivelare come mai continua ad andare a parlare dei suoi problemi con un commercialista. E c'è la ex fidanzata del commercialista, che lo ha mollato una mezza dozzina di volte, e che nonostante abbia un nuovo amico, non pare che sia poi così convinta di voler chiudere la relazione.

Aggiungiamoci poi l'uso della macchina da presa. Spesso e volentieri lascia la (presunta) oggettività per seguire la soggettiva, soprattutto di Lui. E visto che Lui è molto timido e affascinato da Lei, abbiamo inquadrature sghembe, che vorrebbero puntare agli occhi di Lei ma non ce la fanno, e scivolano via di lato. In una occasione, poi, la Bonnaire ha un vestito leggero, un poco scollato, lei si china e si intravvede il seno, ma questo è davvero troppo per Lui, e la stabilità della ripresa va a farsi benedire. Oppure, quando lei se ne esce dallo studio, abbiamo addirittura uno sfocamento, quasi che al commercialista fosse sul punto di perdere le forze.

Complimenti infine al cast, in cui naturalmente spiccano i due protagonisti, la Bonnaire in un ruolo che non si capisce se è da dark lady o da donna a cui piacerebbero le cose semplici ma che è stata travolta da una vita troppo complicata, Luchini che brilla nel mostrare il suo (comico) sgomento alle rivelazioni del mistero femminino - come nota il divertito psicologo della porta accanto.

Prometheus

Solida produzione, un ottimo cast tecnico (tra cui Pietro Scalia al montaggio), un risultato visuale notevole, grazie ad buona regia (Ridley Scott) che però compie alcune scelte che mi hanno lasciato perplesso, risultato viziato da una sceneggiatura (Damon Lindelof) da far rizzare i capelli.

È anche un peccato che l'interessante cast artistico sia quasi completamente sprecato. Va abbastanza bene a Noomi Rapace, il cui ruolo ricalca, almeno parzialmente, quello che fu di Sigourney Weaver, ma Michael Fassbender e Charlize Theron hanno modo di dare molto meno di quello di cui sono capaci, e Guy Pearce iperinvecchiato dal trucco non si capisce bene che senso abbia (a quanto ho letto, il fatto che è ci sarebbe dovuta essere una scena ambientata nella giovinezza del suo personaggio, ma è stata tagliata).

Un punto positivo della sceneggiatura mi pare sia che sembra fatta apposta per gettar nello sgomento la quasi totalità del suo pubblico. Si sostengono infatti ipotesi che non possono che far rabbrividire chiunque abbia una formazione scientifica e chiunque sia cristiano (ma anche musulmani ed ebrei potrebbero risentirsene). Purtroppo, tutto questo malumore non mi sembra finalizzato ad alcuno scopo pratico.

Il film comincia bene, con bellissimi scenari percorsi a volo d'uccello, però si incaglia subito sulla prima scena. Vediamo infatti un extraterrestre, uno di quelli che verranno chiamati Ingegneri, che si suicida, apparentemente per dare il via alla vita sul quel pianeta (presumibilmente la Terra). La cosa più ridicola è che costui è nudo. Ma non completamente nudo, bensì con un buffo mutandone a coprirne le parti delicate. Sembra una specie di suicidio rituale, il tizio è completamente solo, si sta per fare esplodere, eppure ha questo spasmo di pudore. Non capisco poi bene perché degli omoni così progrediti non abbiano trovato un modo più comodo per impiantare la vita su un pianeta. Vada per la spettacolarità della scena, ma sarebbe stato meno incomprensibile se l'Ingegnere avresse semplicemente rovesciato un bidone di una qualche oscura materia organica nel fiume. E poi via, sulla sua astronave.

Salto in avanti, nel nostro immediato futuro, e troviamo la Rapace che scopre un dipinto rupestre, da cui deduce che l'uomo sia stato creato da extraterrestri, e che costoro abbiano lasciato un biglietto da visita su dove li si può trovare (citofonare Jusy). Certo che considerando come il personaggio viene caratterizzato come una "true believer" (cristiana credente appassionata) risulta ben difficile immaginare che possa ribaltare le sue credenze così rapidamente. Aggiungiamo che è anche una scienziata, e questo suo saltare alla conclusioni sulla base di indizi così labili è veramente sospetto.

Pochi anni dopo ci troviamo sulla Prometheus, che sta per giungere nel sistema solare che sarebbe stato indicato dal dipinto di cui sopra. Segue una vicenda curiosamente simile a quella raccontata nell'Alien originale, con dei vistosi buchi di sceneggiatura, forse pensati per essere riempiti nel programmato seguito, ma che non possono che infastidire lo spettatore dell'episodio corrente, e bizzarri comportamenti dei personaggi. Non entro nei dettagli, ma si è mai vista una spedizione scientifica, teoricamente di alto livello, fare così tanti errori e così stupidi?

Quando ormai siamo verso il finale, c'è un'altra scena (tristemente) memorabile. La Rapace, che non era fertile, si trova ingravidata di un Alien, che le si sviluppa in seno ad una velocità strepitosa. Dunque lei decide di abortire (anche se, immagino per non turbare eccessivamente lo spettatore antiabortista, non viene usata la parola) usando un macchinario che compie operazioni chirurgiche in automatico, ma che è insensatamente stato progettato solo per utenti maschi. Dunque la poveretta ha anche il problema di spiegare all'ottuso macchinario cosa fare. Vabbè, tutto questo è secondario rispetto a: la Rapace si denuda per prepararsi all'operazione e mostra un completino intimo che sembra risalire all'antico Egitto. Ma che è questa storia? Passi per gli Ingegneri, ma gli umani di un futuro non troppo lontano avranno pur diritto ad una biancheria decente!

In poche parole, direi che il film si fa guardare, ma bisogna lasciar correre tante e tali sciocchezze che conviene partire con aspettative molto basse, se non si vuole restare delusi. Per mia fortuna ai tempi avevo letto cosa ne pensava la Tosca, e questo mi ha convinto a rimandare la visione fino all'uscita del DVD.

Cast away

Strepitoso commercial per un ben noto spedizioniere, e in seconda battuta anche per un produttore di articoli sportivi. A parte questo aspetto, ci sono altri motivi di interesse per questo film di Robert Zemeckis.

Per un dipendente della sopra-accennata ditta di spedizioni (Tom Hanks) la vita è un pacco, nel senso che fa fatica a vedere altro che il suo lavoro, e non ha grossi problemi ad accettare di volare per chissadove, con minimo preavviso, in qualunque momento. Il che non riempe di gioia la tipa che vorrebbe sposare (Helen Hunt).

Fortuna vuole che un volo di Natale lo fa precipitare nel bel mezzo dell'Oceano Pacifico, dove resta bloccato su una desolata isoletta per quattro anni. Ad aiutarlo a non diventar folle ci penserà un pallone da volley, che lui tratta come un amico (come dire, meglio mezzo matto che tutto matto).

Gli costa caro, ma scoprirà (forse) che c'è anche un altro modo di vivere.

Il nastro bianco

Facendo quattro conti, questa storia per ragazzi tedesca (il titolo originale infatti è Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte) di Michael Haneke che si svolge cent'anni fa, è narrata come se fosse stata girata negli anni sessanta, o giù di lì. Infatti abbiamo come narratore, che racconta in prima persona quello che vediamo, testimone oculare (ma un po' confuso) dei fatti, il maestro del villaggio, che era ai tempi sulla trentina. Assumendolo ottantenne quando racconta, sta parlando mezzo secolo dopo.

Se si trattasse di un regista qualunque, tutto ciò non sarebbe molto interessante. Ma nel caso di Haneke, ogni elemento va soppesato come possibile indizio che ci possa aiutare a trovare una soluzione all'intricata matassa che ci presenta.

Mi sembra di aver percepito atmosfere letterarie alla Buddenbrook, ma inquietanti come un romanzo di Friedrich Dürrenmat, e filmiche alla Bergman (e, volendo, anche alla Novecento di Bertolucci). Fotografato con la consueta cura, girato in un bel bianco e nero, che offre un maggior risalto alla gelida campagna nordica, spesso coperta dalla neve.

Siamo in un piccolo borgo di campagna, all'inizio del novecento, tutti conoscono tutti, la vita scorre lenta seguendo consuetudini secolari. Il nobile locale possiede gran parte della terra, la gran parte dei contadini campa per lavorare e crescere moltitudini di figli, che a loro volta seguiranno il destino dei genitori.

Capita però un primo strano incidente, il medico locale cade rovinosamente da cavallo, a causa di un cavo, praticamente invisibile, teso sul suo percorso. Muore poi una donna, forse per l'inaccuratezza del conte, almeno così crede suo figlio maggiore. Seguono altri incresciosi fatti, a non si capisce bene commessi da chi.

Il maestro ha una idea, e la riferisce al curato, al quale sembra così assurda che lo minaccia apertamente di fargli perdere il lavoro se solo osasse riferirla ad altri. Ma la Storia ha il sopravvento, scoppia la prima guerra mondiale, e questa piccola storia viene dimenticata.

Come praticamente sempre accade nei film di Haneke, viene lasciato al pubblico il privilegio di tirare le conclusioni, e di capire quello che ci vuol capire. Difficile quindi scrivere qualcosa di più, senza rischiare di rovinare l'effetto per lo spettatore.

Mi limito a sottolineare che la reazione del curato sarebbe spropositata, se il maestro non avesse toccato un nervo scoperto. E che Haneke lavora sempre sulle stesse tematiche, riproponendole ogni volta sotto un diverso profilo. In questo caso, pensare a Niente da nascondere e a Benny's video, dovrebbe aiutare a trovare una chiave di lettura soddisfacente.

Funny games U.S.

Copia conforme del Funny games di dieci anni prima, rappresenta una delle soluzioni creative del cinema europeo per avere almeno un minimo di visibilità sul mercato americano, dove il doppiaggio è tipicamente scarso, il sol pensiero dei sottotitoli fa venire la pelle d'oca alla quasi totalità dei possibili spettatori, che si sentono più a loro agio se nel cast ci sono volti, e magari anche panorami, noti. Non mi pare che il risultato economico sia stato centrato, ma bisognava pur provarci.

A quanto ho letto, le differenze tra i due Funny games sono davvero minime, a parte il cast, che qui comprende Naomi Watts e Tim Roth, nella parte di moglie e marito, e Michael Pitt e Brady Corbet, i due criminali.

Il genere che qui Michael Haneke affronta è quello del film iperviolento con pazzi omicidi. Come al solito, Haneke non rinuncia al suo stile, dando una sua interpretazione molto personale ad una vicenda che sembrerebbe essere già stata raccontata moltissime volte.

Abbiamo infatti una famigliola felice che giunge nella sua bella casa estiva sul lago, e un paio di psicopatici che sembrano ragazzetti perbene, ma hanno qualcosa di inequivocabilmente stonato. Le due coppie si incontrano e gli "strani giochi" hanno inizio.

Uno sgarro alle regole è che non abbiamo modo di etichettare i due balordi, il marito chiede perché si comportano così, e Pitt risponde fornendogli una mezza dozzina di risposte precotte. Sono white trash? Omosessuali repressi? Ricchi e annoiati? Risultato di una famiglia distrutta? O vuole un'altra risposta comoda? Non lui, si intende, ma lo spettatore.

Atipico poi che in un film di questo genere si veda così poca violenza. Ce n'è a bizzeffe, ma è quasi tutta fuori quadro. Ad esempio succede che Corbet ammazzi in sala mentre la macchina da presa sta seguendo Pitt che si prepara un panino in cucina.

Nemmeno la punizione dei colpevoli ci viene fatta vedere. Ragionevolmente ci possiamo aspettare che i due disadattati finiscano male, è nella loro psicologia, sono evidentemente caduti in una spirale autodistruttiva che non si fermerà fino alla loro tracollo - e vediamo anche che il loro equilibrio interno, che pure sembra stabile, ha delle crepe che nascondono tensioni pronte ad esplodere. Ma tutto questo è destinato a succedere dopo la fine della pellicola.

In teoria, in un film del genere, dovremmo immedesimarci nelle vittime, e aspettare assieme a loro la seconda parte (che qui non arriva) in cui la normalità riprende il controllo sulla deviazione. Però sono i carnefici (o meglio Pitt, il dominante tra i due) che ci parlano direttamente, guardando in camera, e che addirittura hanno accesso al telecomando che regola l'azione. E che viene usato per negarci quello che le regole vorrebbero ci venisse fatto vedere.

Niente da nascondere

Titolo originale Caché, mantenuto tale anche per la versione internazionale, affiancato dalla traduzione nella lingua locale (Hidden per gli anglofoni, Escondito per gli ispanici castigliani). Traduzioni diverse per i distributori più inventivi (italiani, messicani, portoghesi). C'è molto di nascosto in questo film, sembra che tutti nascondano qualcosa, a volte semplicemente non mostrando quel qualcosa, a volte mettendolo bene in vista, seguendo lo stratagemma indicato da Edgar Allan Poe ne La lettera rubata, alle origini della letteratura poliziesca.

Già, perché anche qui Michael Haneke affronta la cinematografia di genere. Nel precedente Il tempo dei lupi era toccato al post-catastrofico, qui tocca al giallo.

Evidentemente non ci si può aspettare che rinunci al suo modo di far cinema (lunghe sequenze, poco montaggio, molta camera fissa, poca o nessuna illuminazione artificiale, poca musica - qui addirittura praticamente nulla, finale aperto) o a sovvertire alcuni elementi propri del genere in questione. Il modo di approcciare il mistero, e di dargli (?) una soluzione mi ha fatto pensare a Michelangelo Antonioni, per il modo di rimescolare le carte, mentre è proprio tipico di Haneke l'uso di un caso personale per spingere lo spettatore (se questi ne ha voglia) ad allargare il campo e a considerare per analogia il funzionamento della nostra società.

Un tale (Daniel Auteuil) comincia a ricevere videocassette minatorie, che in realtà non mostrano niente di particolare, una inquadratura fissa della casa in cui vive con la moglie (Juliette Binoche) e figlio. Al ripetersi delle cassette, capiamo che c'è qualcosa di marcio nel suo lontano passato, di cui si vergogna a tal punto da negarne l'esistenza, alla moglie ma anche a sé stesso. Cerca di parlarne con sua madre (Annie Girardot), ma ad entrambi riesce impossibile rivangare questo fatto lontano.

Il fatto è davvero qualcosa di sconvolgente, nel cuore della civile Europa, premio Nobel per la pace 2012, mezzo secolo fa (17 ottobre 1961), la polizia parigina ha causato la morte di un numero indeterminato di algerini (correntemente stimati in duecento) gettandoli nella Senna. Costoro stavano pacificamente manifestando, era l'epoca della guerra d'Algeria, e la polizia era intervenuta sulla base di una folle, ed evidentemente anticostituzionale, ordinanza del prefetto locale che ordinava il coprifuoco limitato ai soli francesi musulmani di origine algerina.

Il protagonista aveva poi replicato nella sua storia personale questa nostra ignominia collettiva, causando una vita disagiata ad un orfano di quella strage. Ma la sua colpa non sta tanto in quello che fece ai tempi, era poco più di un bambino, quanto nel voler rimuovere il fatto, al punto di non parlarne con nessuno.

Tornando sulla trama gialla, chi è dunque che manda le cassette al nostro uomo? Il sospetto naturale sarebbe l'orfano di cui sopra, ma alcune circostanze sembrano mostrare che lui sia scagionabile. Ci sarebbe il figlio di lui, ma sembra una soluzione insoddisfacente. Chi è stato allora? Io una idea me la sono fatta ma non vorrei rovinare il piacere della soluzione dell'enigma a chi non abbia ancora visto il film. E dunque taccio.

Resterebbe da capire il perché, ma su questo punto, una volta capito il chi, mi pare che le cose filino via scorrevoli, se si fa attenzione ad alcuni particolari che Haneke ha astutamente nascosto qua e là nella pellicola.

Il tempo dei lupi

Post catastrofico scritto e diretto, con il suo solito stile, da Michael Haneke. Assenza quasi totale di musica, come del resto di quasi tutto quanto, non solo per noi, ma anche per i personaggi del film.

Ai nostri tempi, una catastrofe indefinita si è abbattuta sulla Francia, e forse sul mondo intero. All'inizio non lo sappiamo e ci pare che la gente si comporti in modo pazzesco (ancor più del solito, intendo), ma poi appare chiaro che il disastro ha fatto saltare non solo le reti di distribuzione ma, soprattutto, quelle sociali che definiscono l'umanità stessa.

Tematica affrontata da innumerevoli film di genere, e che quindi risulta meno interessante di altri lavori di Haneke, se non per paragonare il risultato ad altri prodotti simili.

Protagonista Isabelle Huppert (incolpevolmente meno incisiva, rispetto al precedente La pianista, madre di un paio di ragazzetti allo sbando nelle campagna francese. Un piccolo ruolo anche per Béatrice Dalle.

Cenerentola

Superclassico disneyano, con gran dispiego di animaletti carini (o perfidi) che ne fanno di tutti colori. Alcuni sono dotati anche del ben della parola, anche se con vocette distorte dall'elio (e non intendo Elio, quello delle Storie tese, ma elio il gas - da non confondere a sua volta con Gus Gus, topo grassottello) o da qualche manipolazione delle registrazioni.

Metafore sessuali si nascondono qui e là, ad esempio nella scarpina della futura principessa, che regola l'accesso al suo piede, zona erogena secondaria ma da non trascurare. Vedi ad esempio Pulp fiction di Tarantino.

Colonna sonora di gran successo, che include I sogni son desideri e Bibbidi bobbidi bu.

Il libro della giungla

Ultimo cartone della Walt Disney pensato da Walt Disney in persona che, pur figurando solo come produttore, è intervenuto decisamente nella impostazione della sceneggiatura, premendo per una semplificazione della fonte originaria (i racconti di Rudyard Kipling) risultando in una narrazione molto lineare.

Mowgli, cucciolo d'uomo, viene trovato da Bagheera la pantera, che la fa adottare da una famiglia di lupi. Dieci anni dopo, il passaggio della tigre Shere Khan rende evidente al branco dei lupi che Mowgli è meglio che torni tra gli uomini. Bagheera si incarica della missione, che però cozza contro il buon senso del ragazzino, che non vede perché dovrebbe abbandonarla. Intervengono altri personaggi, l'infido serpente Kaa, l'orso fricchettone Baloo, elefanti, scimmie eccetera.

Tra le differenze con la storia originale, vale forse la pena di notare come qui la morale sia che ognuno deve stare al suo posto, che è determinato sin dalla nascita. Mowgli, pur avendo conoscosciuto solo la giungla, non appartiene a quel mondo, e i suoi tentativi di integrarsi vengono mostrati come maldestri.

Madagascar

La qualità del disegno non mi aveva entusiasmato ai tempi, e sette anni dopo le perplessità direi che sono confermate. Produzione DreamWorks, con il solito corredo di citazioni più pensate per i genitori (ad esempio American beauty) che per il pubblico più giovanile che dovrebbe essere il riferimento principale del film.

Un gruppo di animali del New York Central Park zoo (o forse tutti), a causa di un equivoco (la zebra voleva passare una giornata nel "selvaggio" Connecticut) vengono rispediti in Africa. I folli pinguini si impossessano della nave, deviano per il polo sud, perdendo nell'operazione i protagonisti (leone, zebra, ippopotama, giraffa) che incontrano una colonia di lemuri, e altre vicissitudini.

Mi sfugge il senso della storia (New York non è un luogo adatto per una vita naturale, ma la vita nella natura è anche peggio?) ma comunque mi sono divertito anche alla corrente seconda visione, grazie soprattutto ai pinguini.