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The elephant man

Per ragioni che mi sfuggono, gli sceneggiatori hanno preso una storia vera estremamente tragica e hanno aggiunto dettagli inventati che la spingono verso il reame dell'eccesso privo di senso. Forse la maggior responsabilità di questa deriva è da imputare a David Lynch, entrato nel progetto solo in un secondo tempo, che potrebbe aver spinto la sceneggiatura in una direzione a lui congeniale. Si tratta del suo secondo lungometraggio dopo Eraserhead (1977), ma mi è difficile pensare che la produzione non sapesse a cosa andasse incontro, vista l'impostazione completamente folle che ha la sua opera prima. C'è anche da dire che si sente una certa aria di famiglia tra i due film, fosse anche solo che i rumori di fondo che emergono di tanto in tanto anche in questa pellicola.

Il dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins) cerca con insistenza di studiare il caso di un freak, noto nella Londra vittoriana come L'uomo elefante (John Hurt). Costui è un povero diavolo trasformato da una terribile e fortunatamente molto rara malattia, la sindrome di Proteo, in un essere di cui si fatica a distinguere la natura umana. Con qualche soldo lo strappa momentaneamente al suo impresario (Freddie Jones), tale Bytes (*), conduce qualche analisi su di lui, espone i risultati agli esimi colleghi, e lo rimanda nell'inferno nel quale viveva. La poca empatia del dottore viene giustificata dall'apparente mancanza di una qualunque scintilla di ragione di quel fenomeno da baraccone, il cui precario stato di salute però infine muove il nostro a trattarlo con più umanità, assegnandogli una stanzetta nell'ospedale in cui opera, nonostante le rimostranze di Bytes, che si vede privato della sua fonte di sostentamento.

In breve si scopre che L'uomo elefante ha una mente, un cuore, e anche un nome, John Merrick (**). Treves decide di aiutarlo, scoprendo in Merrick un animo molto upper class (***) il che gli permette di fare successo nella buona società del tempo. A fare da volano a Merrick è la simpatia che prova per lui Mrs. Kendal (Anne Bancroft), nota attrice teatrale di tendenza.

Sembra dunque che tutto vada per il meglio possibile, se non che (a) Treves ha una crisi morale, che lo porta a chiedersi se non sia altro che una versione ripulita di Bytes; (b) un losco collaboratore dell'ospedale organizza visite notturne organizzate (°) che non sono per niente piacevoli per Merrick; (c) Bytes decide di riprendersi con la forza il suo campione. Bytes e Merrick scappano oltremanica, ma la relazione tra i due, e la salute del secondo, risultano ormai gravemente minati. Merrick, in una serie di scene che ricordano molto il Freaks (1932) di Tod Browning, ma anche qualche film dei Monty Python, viene aiutato dagli altri freak ad evadere e a ritornare a Londra.

Curiosamente, mentre guardavo il film, m'è venuto spontaneo accostarlo a Frankenstein Junior (1974), nonostante l'evidente differenza di toni. Forse, mi dicevo, sarà che entrambi condividono una fonte comune, che sfruttano in direzioni diverse. Poi mi sono accorto che è prodotto dalla Brooksfilms di Mel Brooks.

In ogni caso, bravi un po' tutti gli attori, tra cui ovviamente Hurt che recita sotto una protesi impossibile, ma nonostante questo riesce a veicolare bene il suo carattere. Un po' come Michael Fassbender in Frank (2014).

(*) Personaggio fittizio, creato con l'evidente scopo di contrapporlo al dottore.
(**) O meglio Joseph. Tra le sbadataggini che compiono gli sceneggiatori c'è anche quella di usare un nome erroneo attribuitogli da alcune biografie poco precise.
(***) Decisamente poco giustificabile, visto che il vero Merrick era poverissimo di famiglia poverissima.
(°) Dettaglio che mi ha fatto pensare a Frances (1982), dove la protagonista (Jessica Lange), internata in manicomio, riceve un trattamento simile, ma a sfondo sessuale. Mi sono poi accorto che la sceneggiatura è degli stessi Eric Bergren e Christopher De Vore.

Il lenzuolo viola

Due americani, Milena (Theresa Russell) e Alex (Art Garfunkel) si incontrano a Vienna, ne nasce un tempestoso amore che si risolve tragicamente. Un poliziotto locale, l'ispettore Netusil (Harvey Keitel) ci vede qualcosa di strano, indaga, arriva ad un passo dalla soluzione e ...

Storia relativamente semplice, ma ci viene narrata da Nicolas Roeg, che decide di giocare con un montaggio labirintico in cui siamo spinti a perdere il senso della sequenzialità del tempo. Che questa sia la chiave attorno cui tutto ruota è dichiarato sin dal titolo originale, Bad timing (*), anche se non mi è chiarissimo il punto che vuole essere fatto.

La relazione tra i due protagonisti è di quelle che si immagina destinate alla catastrofe sin dall'inizio. Milena è una bella giovine donna con grossi problemi personali che cerca di curare con un ingente consumo di alcolici e sesso promiscuo. Alex un estremamente pomposo professore di psicologia in visita all'università locale, ossessionato dal controllo.

Ai tempi il film fece un certo scandalo, al punto che qualcuno me lo definì come quasi-porno. Niente di più sbagliato. Al contrario, ci sono due tra le scene di sesso più intenzionalmente deprimenti che credo di aver visto in vita mia.

Forse anche a causa dei decenni che sono passati, il gran lavoro di Roeg alla regia m'è risultato poco digeribile, in particolare nella prima ora, in cui si costruisce piuttosto faticosamente la base dell'azione. Meglio la seconda parte, quanto entra nel vivo la schermaglia tra il professore e l'ispettore.

Curiosa la colonna sonora che giustappone gli Who a Johann Pachelbel, Keith Jarrett a Billie Holiday, Ludwig van Beethoven a Thelonious Monk.

(*) Che potrebbe essere reso con Una cattiva scelta dei tempi.

Stardust memories

Un modo per affrontare le proprie paure è quello di ingigantirle, distorcerle, osservarle da angolazioni strane, al punto di renderle ridicole, così da farci scaricare la tensione con una bella risata. In questo senso, Stardust memories potrebbe anche essere considerato un film autobiografico.

Sandy Bates è un alter ego di Woody Allen (che ha ovviamente anche scritto e diretto il film) che si trova in un periodo di grossa crisi. Vorrebbe essere un autore all'europea, ma il film che ha realizzato è, ad essere gentili, molto inferiore ai suoi modelli. Il finale, in particolare, sembra senza capo né coda, e tutti cercano di convincerlo a cambiarlo. Inoltre, è un film serio (o almeno, vorrebbe esserlo), ma stampa, fan, produttori, hanno catalogato Bates come comico e si aspettano da lui la continua ripetizione del modello originale ("Amo il tuo lavoro, soprattutto i primi film", è il ritornello costante). Sul lato sentimentale, vorrebbe avere una relazione stabile, ma l'amore della sua vita (Charlotte Rampling) l'ha mollato, e lui è combattuto tra impegnarsi con una donna che sembra emotivamente stabile (Marie-Christine Barrault) o una affascinante pazzerella (Jessica Harper). La crisi verrà risolta nel finale da un colpo di genio che riuscirà a far quadrare il cerchio. Forse.

Anche solo nel mio debole riassuntino, il lettore più avveduto avrà ritrovato una somiglianza non marginale con 8½ di Federico Fellini. Ma c'è pure Ingemar Bergman che occhiegga burbero nella sequenza iniziale, un sogno che ha in sottofondo un inquietante ticchettio di un orologio che non promette niente di buono, e lascia pure un piccolo spazio al debutto sullo schermo di Sharon Stone (è la bella donna che viaggia sull'altro treno, quello allegro, e manda un bacio a Bates), e pure nel montaggio spezzato in una scena con la Rampling in primo piano. Sarei più cauto nell'attribuzione di altri spunti, forse Luis Buñuel per gli alto-borghesi che camminano incongruamente in una discarica, Pier Paolo Pasolini, e il neorealismo italiano (Pietro Germi?). Citazione invece esplicita per Ladri di biciclette di Vittorio De Sica.

Il sovraccarico citazionista potrebbe rendere la prima parte poco scorrevole. Consiglio comunque lo spettatore di non farsi prendere dall'impazienza, che il finale (potrebbe) ripagarlo adeguatamente. In particolare mi pare imperdibile la scena da cui il film prende il titolo. Bates indugia su un suo ricordo, uno di quelli che definiscono una vita. Stava mangiando un budino, un giorno di primavera, con un disco in sottofondo. Lei (nel senso della Rampling) era di fronte a lui e leggeva il giornale. Non succede molto altro, il disco è Stardust, nell'esecuzione di Louis Armstrong, lei continua a sfogliare distrattamente il giornale, ma ricambia lo sguardo (ovvero, guarda in camera). E sorride.

Star Wars V - L'impero colpisce ancora

In originale, The Empire Strikes Back, ovvero l'impero risponde all'attacco, ma la traduzione ufficiale scorre certamente meglio.

Come mi pare sia l'episodio della trilogia storica di Star Wars (episodi 4-6 nella numerazione corrente) che funzioni meglio tra i tre, e che porti meno i segni della vecchiaia.

Il suo difetto fondamentale è quello di non essere autonomo, dato che termina a metà, con Han Solo (Harrison Ford) ibernato e la storia più ingarbugliata che mai.