Questione di tempo

Il semplicissimo titolo originale, About time, nasconde nel suo significato una complessità destinata all'intraducibilità. Perché se è vero che un senso è quello della versione italiana, se ne perdono altri, in particolare quello idiomatico, che si potrebbe rendere con un Era ora. Potrebbe sembrare una questione secondaria, ma chi ha deciso il titolo, probabilmente Richard Curtis che ha scritto, diretto, co-prodotto il film, credo ci volesse dare una chiave interpretativa su tutta la faccenda, e che tutta questa storia, che inizialmente sembra essere sul viaggiare nel tempo, si risolva con la scoperta che, dopotutto, questo dono non sia per niente utile. E sembra quasi che il protagonista ci dica, sul finire del film, era ora che lo capissi.

Tim (Domhnall Gleeson), è un ragazzotto insicuro che vive in una famiglia mediamente bizzarra in Cornovaglia. Nel giorno del suo ventunesimo compleanno il padre (Bill Nighy) gli rivela che sono molto più bizzarri di quanto lui potesse immaginare e che lui, come tutti i maschi di famiglia, ha la capacità di viaggiare nel tempo, sia pure sotto alcune condizioni. Alcune le scopriamo subito (si può viaggiare solo nel proprio passato), altre ci verranno rivelate in seguito. La storia segue Tim per una decina di anni, in cui lo vediamo usare, abusare, rivedere, e infine abbandonare questo incredibile dono.

Lo spettatore distratto potrebbe pensare che si tratti di qualcosa alla Doctor Who. Tra l'altro mi accorgo solo ora che il magistrale episodio della quinta stagione delle avventure del Dottore, quello titolato Vincent e il Dottore è scritto proprio da Richard Curtis. Ma non si cada nell'inganno. Qui il tema fantastico del viaggio del tempo è smaccatamente secondario, malamente sviluppato, utilizzato in maniera pesantemente strumentale agli altri temi. Non è la necessità di mantenere una parvenza di coerenza nel viaggio nel tempo a dettare lo sviluppo della storia ma, viceversa, si cambiano allegramente le regole del viaggio a seconda di quello che richiedono le altre anime della storia. Chi voglia storie di viaggi nel tempo coerenti, beh, è spacciato, non ne esistono per definizione. Ma se accetta un po' wibbly wobbly timey wimey stuff, come ben chiarito da questo intervento del Dottore nel sembiante di David Tennant si possono trovare altrove (Timecrimes, ad esempio) alcune valide alternative.

Superato lo shock della non centralità della trama fantastica, si potrebbe cadere in una seconda trappola, la storia d'amore.

Tim, infatti, pensa di usare il suo potere per migliorare la sua vita affettiva, che fino a quel momento si sarebbe potuta riassumere con una singola parola: disastro.

Ci prova con la bellissima Charlotte (Margot Robbie, già seconda moglie del lupo di Wall Street) ma gli va miserabilmente buca.

Dopo un intermezzo in cui seguiamo Tim nella sua non particolarmente interessante vita come praticante avvocato a Londra, dove è andato a vivere ospite di Harry (Tom Hollander), un drammaturgo amico di famiglia in profonda crisi professionale e personale, lo vediamo incontrare il vero amore della sua vita, Mary (Rachel McAdams). O meglio, sentiamo l'incontro, perché, per curiose circostanze, avviene letteralmente al buio.

Succede però che per evitare ad Harry una catastrofe teatrale, Tim viaggia nel tempo scoprendo così che anche il suo potere ha dei limiti, che non si può avere tutto contemporaneamente. Nel caso specifico il salvataggio di Harry determina la scomparsa di Mary dalla sua storia. Solo con gran fatica, e altri viaggi nel tempo, riuscirà a raddrizzare il corso della sua vita.

Ma neanche la trama romantica è al centro del film, e dunque anche lo spettatore che si voglia semplicemente godere la storia d'amore di Tim e Mary potrebbe restare scontento. I due si amano, hanno una bella storia, abbastanza complicata, e anche con una discreta figliolanza. Però le modalità della riconquista di Mary possono sembrare un barare. Soprattutto se consideriamo che Tim non rivela a Mary il suo asso nella manica. E questo non è in linea con i canoni del racconto romantico.

Dunque potrebbe non piacere neanche a chi cerca un racconto fantastico che nasconde una commedia romantica. Meglio piuttosto titoli come I guardiani del destino dove Matt Damon fa di tutto per ritrovare la sua Emily Blunt, o Ricomincio da capo, con Bill Murray che riesce ad uscire da un loop temporale grazie alla scoperta dell'amore per Andie MacDowell.

Ma quel demonio di Richard Curtis è riuscito a stipare (almeno) un'altra trama nelle due ore del film. Ed è questa che, secondo me, è quella principale, a cui tutte la altre si piegano.

E' la relazione padre-figlio. A dire il vero è importante anche la relazione tra Tim e Kit Kat (Lydia Wilson), la sua sorella pazzerella. Ma quella con il padre ancora di più. Succede infatti che i due si vogliono molto bene, lo capiamo subito, ma hanno anche una enorme incapacità di dirselo. Ci riusciranno, ma faranno davvero tanta fatica. E gli accadimenti saranno tali da dare una impostazione di dramma a tutta la storia.

Ricca la colonna sonora, di quelle tipo greatest hits, dove troviamo cose come Friday I'm in love dei The cure o All the things she said delle tatu, altre come Into my arms di Nick Cave (scelta espressamente dal padre di Tim per una occasione importante) o Lived in bars di Cat Power, e brani ancor più sorprendenti, in particolare Il mondo di Jimmy Fontana, che ha pure una parte interessante nello sviluppo nella storia. Fra l'altro, mi pare di ricordare che fosse presente anche in Moliere in bicicletta, canticchiato da Maya Sansa.

House of cards 1 - Capitoli 7, 8, 9

Il sette e l'otto hanno la regia di Charles McDougall, per il nove assistiamo al ritorno a sorpresa di James Foley. A mio gusto, l'episodio 8 è il migliore della serie, almeno fino a questo punto.

Sette: Francis (Kevin Spacey) sponsorizza Peter Russo (Corey Stoll) per la corsa a governatore della Pennsylvania, nonostante il parere opposto del vicepresidente (che viene da lì). Peter comincia a pensare di non essere la persona adatta, ma Francis non si lascia impietosire. Zoe (Kate Mara) pensa di essere in una posizione di forza nei confronti di Francis (ah ah), mentre questo sente una certa immotivata gelosia per lei, e questo non gli piace per niente.

Otto: I due personaggi principali di questo blocco, ovvero Francis e (per me è una sorpresa) Peter, hanno modo di mostrare che cosa li ha fatti diventare quello che sono. Scopriamo così che Francis è gay ma che ha deciso di nascondere la sua inclinazione, e dunque la sua brutalità non è altro che una rivalsa contro il mondo che, nella sua distorta percezione, gli ha impedito di fare una vita come più gli aggradava. Peter, invece, ha subito una madre anaffettiva che continua a negargli anche il più piccolo segno di riconoscimento.

Nove: A sorpresa Peter riesce a superare le perplessità del vicepresidente e questo gli dà finalmente qualche possibilità concreta di vincere le elezioni. Francis, invece, si trova in un ginepraio a causa delle sue donne. Claire (Robin Wright), la moglie, decide che una legge che fa comodo a Francis (per l'elezione di Peter) non va bene a lei. Zoe scopre che non è stata una idea geniale mettere anche il sesso nel piatto della relazione con Francis, cerca di fare un passo indietro, ma Francis non è persona da accettare queste giravolte passivamente.

Il processo

Le variazioni rispetto al romanzo originale di Franz Kafka sono tutto sommato minori. La regia di Orson Welles rende bene le atmosfere da incubo grazie anche ad una bella gestione di luci, ombre e inquadrature che fanno pensare all'espressionismo tedesco.

Il ruolo di Josef K. è interpretato egregiamente da Anthony Perkins (su cui già pendeva l'alone che gli ha lasciato per tutta la carriera il personaggio di Norman Bates), attorno a lui si agitano una pletora di personaggi secondari che, a parte l'avvocato (lo stesso Orson Welles) che dovrebbe difenderlo dall'incomprensibile processo che perseguita il protagonista, sono soprattutto femminili, con in bella evidenza Romy Schneider (post-Sissi) nel ruolo della segretaria/infermiera/cuoca/amante dell'avvocato, e poi Elsa Martinelli (la moglie dell'usciere del tribunale) e Jeanne Moreau (coinquilina di K.). Piccolo ruolo anche per il recentemente scomparso Arnoldo Foà, è l'ispettore che arresta K.

La storia trasuda di un pessimismo che non si può fare a meno di definire kafkiano. K. si sveglia e scopre di essere in stato di arresto per un reato che non si sa quale sia. Tutti i suoi tentativi per difendersi, o almeno capire di cosa sia accusato, sono vani. La conclusione è tragica.

La via lattea

Due vagabondi decidono di lasciare Parigi alla volta di Santiago di Compostela, attirati dalla possibilità di guadagnare lì qualche quattrino. Pur senza essere pellegrini, seguiranno il cammino, anticamente chiamato per l'appunto anche Via lattea, nella sua versione Turonense (nel senso che passa da Tours).

Il loro percorso è costellato da incontri misteriosi, prodigiosi e che farebbero rizzare i capelli ai più, ma a loro scivola tutto sopra come acqua fresca.

Gran parte dei dialoghi sono serissime disquisizioni teologiche di cui Luis Buñuel (regia e co-sceneggiatura assieme a Jean-Claude Carrière) mostra l'assurdità per mezzo dell'espediente di metterle in un contesto improbabile. Vedasi ad esempio la scena del duello tra un gesuita e un giansenista, o quella dove il caposala di un ristorante di lusso disquisisce con i sottoposti sulle varie eresie nel cristianesimo sulla natura di Dio.

Apparizione per Michel Piccoli nel ruolo del marchese De Sade.

Amiche da morire

Commedia dark tutta al femminile, il cui difetto principale mi pare essere la cronica mancanza di fondi delle produzioni locali, e magari anche la poca esperienza della regista (e sceneggiatrice) Giorgia Farina, al suo primo lungometraggio.

In una indeterminata isoletta siciliana vivono e operano tre donne molto diverse tra loro. Olivia (Cristiana Capotondi) è bella e sciocca, ha sposato il pescatore più bello, che però la trascura. Crocetta (Sabrina Impacciatore) è bloccata da una relazione asfissiante con la madre che, per paura di perderla, le ha cucito addosso il personaggio della iettatrice. Gilda (Claudia Gerini), imprenditrice indipendente del sesso che ha inesplicabilmente scelto quest'angolo dimenticato del mondo per esercitare la sua professione.

La ricerca di un riscatto (e un milione di euro) le uniscono in una strana amicizia, che le vede contrapposte alle altre donne dell'isola e, soprattutto, agli uomini, ed in particolare il commissario (Vinicio Marchioni) che si trova ad indagare sulla misteriosa sparizione del marito di Olivia, principale indiziato per una serie di rapine.

House of cards 1 - Capitoli 5 e 6

Questa coppia di episodi è diretta da quel giovanotto di Joel Schumacher. Ma anche qui me ne sono accorto solo vedendo il suo nome sullo schermo, il risultato m'è sembrato indistinguibile dai precedenti. Direi che la produzione, e in particolare David Fincher con la direzione delle prime due puntate, ha stabilito il tono, e tutti quanti ci si devono adeguare.

In breve, così noioso il quinto che ho pensato di interrompere la visione della serie, mentre il sesto mi ha convinto a continuare.

Cinque: Francis (Kevin Spacey) ha accettato l'offerta di Zoe (Kate Mara) per far salire di tono la loro relazione. Probabilmente Zoe pensa di creare in questo modo un legame più solido tra loro due, così da poterne approfittare. Quello che non sa è che Claire (Robin Wright) condivide col marito anche l'idea che anche il sesso è solo uno altro strumento per ottenere quello che ai due interessa di più, ovvero il potere.

Peter (Corey Stoll), il deputato tossico che io davo per spacciato, decide invece di prolungare la sua agonia, proponendosi come fantoccio nelle mani Francis. Ma continuo a pensare che farà una brutta fine, non mi pare che abbia speranze.

Per la faccenda della legge sulla ristrutturazione della pubblica istruzione, Francis entra in rotta di collisione con un suo vecchio sodale. I due si beccano mica male, ma anche qui si vede lontano un miglio che Francis finirà per vincere lo scontro.

Sei: Gli insegnanti entrano in sciopero, e Francis se la vede brutta. Ha sottovalutato la forza del sindacato (o forse è meglio dire che la sceneggiatura ha immaginato un colpo di coda sindacale veramente poco credibile negli USA) e la determinazione del suo avversario di turno. Come spesso gli capita, si inventa spregevoli piani alternativi che prevedano il camminare sopra chiunque capiti nel percorso. Nonostante una serie di sfortunati casi - ad esempio rovina un dibattito televisivo inanellando una sorprendente serie di gaffe - finirà tutto come previsto.

Ci sono altre piccole avvisaglie che Claire potrebbe entrare in crisi. Ad esempio gli capita in incappare in qualcuno che riesce a stupirla, un vagabondo che rifiuta una ricca elemosina (una banconota da venti). Ma lei continua ad ignorarli.

Saving Mr. Banks

A questo film è stato dato uno dei titoli più spoilerosi che mente umana possa immaginare. Quasi come se Agatha Christie avesse titolato un suo giallo E' stato il maggiordomo.

Il racconto della genesi di Mary Poppins, il film Disney, con il relativo duello tra l'autrice del romanzo originale P.L. Travers (Emma Thompson) e il produttore cinematografico Walt Disney (Tom Hanks), viene utilizzato infatti come paravento per veicolare qualcosa di più profondo. Scopriremo infatti che il personaggio principale del romanzo non è la magica bambinaia, e nemmeno i bambini che accudisce, bensì il signor Banks in persona. Scopriremo anche che la fonte di ispirazione dell'autrice sia stata la sua storia familiare, dove Banks rappresentava suo padre (Colin Farrell).

La storia è narrata prevalentemente con un cipiglio molto disneyano, anche se, con un po' di buona volontà da parte dello spettatore, si riesce ad apprezzare anche il punto di vista della Travers. Da una parte c'è lei che vuole difendere l'integrità della sua opera, dall'altra c'è lui che, se potesse, la trasformerebbe in un musical ambientato a Topolinia. A far da mediatore è un personaggio apparentemente secondario, l'autista (Paul Giamatti) che scarrozza la Travers per Los Angeles.

House of cards 1 - Capitoli 3 e 4

La regia passa a James Foley, nato regista cinematografico, ha diretto Americani (in originale era Glengarry Glen Ross), roba da leccarsi i baffi, scritto da David Mamet, riuscendo a gestire ottimamente lo strepitoso cast che include Jack Lemmon, Al Pacino, Alec Baldwin, Alan Arkin, Ed Harris, Jonathan Pryce e anche Kevin Spacey, che è tra i numi tutelari di House of cards. Purtroppo, non mi pare che abbia poi fatto altro di paragonabile. Negli ultimi anni è passato alla televisione.

Non che abbia notato il cambio di mano rispetto a David Fincher, ho semplicemente letto il suo nome nei titoli di testa. Anche se in effetti in questi due episodi cambia qualcosa di significativo. Clair (Robin Wright) ha una incrinatura nel suo algido carattere, che la porta ad essere leggermente più umana. Interessante notare come cerchi di comunicare la cosa a Francis (Spacey), ma alla fine si trattenga, come se percepisca lei stessa questo suo cambiamento come una debolezza.

D'altro canto, Francis è il solito rullo compressore che elimina senza pietà nemici e gente che si trova lì a passare per caso senza nemmeno pensarci due volte. Lo sentiamo anche sperticarsi in una toccante meditazione sull'incomprensibilità del dolore, come questo rischi di portare all'odio, e come invece ci debba portare ad essere più forti e trasformare quella che potrebbe essere una sconfitta in nuova linfa creativa. Peccato che Francis non possa evitare di interromperlo per dirci (solo a noi spettatori) che non crede minimamente in quello che sta dicendo, è solo uno strumento che sta usando per i suoi scopi.

E a proposito di strumenti, Peter Russo (Corey Stoll), il deputato tossico, si accorge finalmente di quanto ami la sua assistente. Messo da lei alle strette, decide di cambiare, affrontando di petto i suoi problemi. Ma Francis ha altri piani, lui è troppo debole per sfidarlo, e finisce stritolato. Zoe Barnes (Kate Mara), la giornalista che Francis usa per far filtrare le notizie, vere o false, che a lui fanno comodo, si trova in una situazione simile. Ma non avendo ella alcuna moralità, non ha alcuna fatica a districarsi. Anzi, rilancia, aggiungendo al piatto del suo affare con Francis anche il suo corpo.

Se per i personaggi minori c'è poco da fare, sono destinati ad adeguarsi ai piani di Francis o essere distrutti, sarà interessante seguire l'evoluzione del carattere di Clair, che è l'unica che si è dimostrata capace di tener testa al marito.

House of cards 1 - Primi due episodi

Budget e cast come si trattasse di una produzione per il grande schermo, risultato che non mi ha coinvolto poi molto. Interessante l'aspetto produttivo. A metterci i soldi è stata infatti Netflix (flick, col ci-cappa, è il termine gergale che si usa per definire un film commerciale), azienda nata per distribuire DVD a noleggio, poi passata alla diffusione in streaming, e infine arrivata alla produzione di contenuti.

Dietro al prodotto ci sono David Fincher (produttore esecutivo e regista di questi primi due episodi) e Kevin Spacey (produttore esecutivo e protagonista) che devono essersi innamorati dell'omonima miniserie inglese. Beau Willimon (che è dietro a Le idi di marzo) la ha adattata alla realtà americana, trasformandola da una indagine romanzata nei meandri della struttura del partito conservatore inglese ad una del democratico americano. E visto i toni utilizzati, non direi che è stato per ragioni di affetto nei confronti di quest'ultimo.

Lo scopo della prima puntata mi pare sia quello di illustrare i personaggi principali e dar ragione dei loro comportamenti. In breve, tutta brutta gente che ha come unico scopo della vita accumulare potere, in una forma o quell'altra.

Protagonista/narratore (non disdegna di parlarci direttamente in camera) è Francis Underwood (Spacey), a cui era stato promesso il ruolo di segretario di stato in cambio del suo supporto per l'elezione del nuovo presidente della repubblica. E invece ciccia. Per vendicarsi crea un qualche complotto che ci viene fatto capire che farebbe rabbrividire il conte di Montecristo. E per mettere subito in chiaro di che pasta sia fatto, lo vediamo uccidere un cane a mani nude, per risparmiargli sofferenze (dice lui). Nota che in realtà il cane lo sentiamo solo uggiolare, ma resta sempre fuori quadro. Da comparare con quanto si dice in 7 psicopatici, accurata meditazione sull'uso della violenza nel cinema americano.

Se Francis ti pare una persona brutale è perché non ti hanno presentato sua moglie Claire (Robin Wright), che si occupa di una organizzazione non governativa con un cipiglio militaresco.

Ampio spazio in questa puntata è dato anche a Zoe Barnes (Kate Mara), giornalista principiante disposta a tutto per sfondare, e Peter Russo (Corey Stoll), un deputato che mi pare di poco conto (da noi lo si chiamerebbe peone) con notevoli problemi di dipendenza da sesso, droga e chissà che altro (ma escluderei il rock and roll). I due saranno evidentemente pedine del machiavellico piano di Francis.

Nel secondo episodio si tirano le prime immediate conseguenze del diabolico piano che Frank Underwood (Kevin Spacey) ha concepito nel primo capitolo. In parallelo seguiamo anche Claire (Robin Wright), sua perfida moglie, nella sua strategia di ristrutturazione della organizzazione non governativa che dirige.

Dunque il sangue, seppur metaforico, inizia a scorrere copioso. Grazie agli scagnozzi che ha reclutato, facendo persino credere a loro di aver fatto un piacere, riesce a far diventare improponibile quella che doveva essere la candidatura a segretario di Stato ufficiale, e a far sì che una sua protetta diventi l'alternativa naturale.

All'inizio della puntata Frank ci dice, parlando direttamente in camera, quello che anche i sassi dovrebbero aver già capito, ovvero che ciò che muove i personaggi principali è la sete di potere. Tutto il resto è un sottoprodotto. Questa iterazione esplicita, che sarebbe ridondante al cinema, viene naturale in un prodotto pensato espressamente per la televisione.

Entrambi gli Underwood in questa puntata mostrano un aperto disprezzo non solo per i loro avversari diretti, ma anche per chi si trova incidentalmente sul loro percorso.

Pur essendo indiscutibilmente un prodotto di gran classe, non riesco a pensare di immedesimarmi in nessuno dei personaggi principali. Tutti drogati dalla sete potere fine a se stesso. Non vedo una reale contrapposizione tra gli schieramenti in campo, e in effetti, se avessero dato subito a Frank quello che voleva lui se ne sarebbe stato buonino con quelli che adesso invece vede come suoi nemici mortali.

A ben vedere, vengono presentati alcuni personaggi minori che non seguono le logiche prevalenti, però sono dipinti tutti come irrilevanti. C'è ad esempio un liberal anti-sistema, ma ha uno spessore minimo, è in pratica una macchietta animata da confuse idee complottiste, che cambia opinione su chi ha davanti per una bottiglia e droghe assortite.

Quell'idiota di nostro fratello

Mia seconda visione per questa commedia indipendente molto newyorkese. Questa volta l'ho apprezzata maggiormente, forse anche perché l'ho vista in compagnia di una mia sorella, il che mi ha portato a valutare con maggior attenzione le dinamiche familiari presentate e immedesimarmi maggiormente nel protagonista (ehm, sì, l'idiota del titolo).

Ned (Paul Rudd, che ho appena rivisto anche in Noi siamo infinito e di cui ho potuto apprezzare la capacità di variare i toni, là era un posato insegnante di inglese) è un sempliciotto di buon cuore. Campa coltivando verdura biodinamica e vendendola ai mercatini locali e, già che c'è, non disdegna la coltivazione di piante che non hanno una buona fama presso le forze dell'ordine, delle quali sembra essere pure un felice consumatore.

Un po' tutti si approfittano di lui, compreso un poliziotto che migliora le sue statistiche arrestandolo per spaccio. Ma Ned non se ne cura, nemmeno la galera riesce a scalfire il suo buonumore. Anche quando scopre, uscendo in anticipo per buona condotta, che la sua donna nel frattempo l'ha sostituito con un altro tizio non particolarmente brillante e si è impossessata di casa e campicello annesso (non è chiaro di chi sia la proprietà del posto, Ned dice di esserci arrivato prima, come se si trattasse di un'area abbandonata), mostra solo un leggero stupore. Più fastidio gli dà che lei si rifiuti di lasciargli il cane (Obi-Wan Kenobi per noi italiani, ma in originale era Willie Nelson), ma nemmeno questa angheria - a lei evidentemente del cane non importa niente - riesce a farlo arrabbiare.

Questa debacle lo costringe a tornare in famiglia, venendo palleggiato tra una madre che non sembra pienamente in sé e, soprattutto, tre sorelle che hanno scelto tre modi di vita molto diversi, ognuno a suo modo rappresentativo di uno spicchio della New York culturale.

Miranda (Elizabeth Banks) sta cercando di diventare una giornalista di quelle riviste più inclini al pettegolezzo che alle notizie propriamente dette, e per questo ha sacrificato la sua vita privata.

Natalie (Zooey Deschanel) è una stand-up comedian molto alternativa. Ha una consolidata relazione lesbica (Rashida Jones) e una sessualità confusa e prorompente.

Liz (Emily Mortimer), si è sposata col documentarista Dylan (Steve Coogan), ha un paio di figli, e una evidente crisi coniugale.

L'approccio alla vita di Ned male si accoppia con quello delle sorelle, la sua candida semplicità finisce per magnificare i problemi che già esistevano nelle loro vite, per farli esplodere, con conseguente ostilità delle sorelle. E qui vediamo Ned finalmente reagire, seppure a suo modo, rifiutandosi di accettare il pagamento di una cauzione, preferendo tornare in galera.

Segue lieto fine come imposto dalle leggi della commedia.

Come dicevo, non è che si possa gridare al capolavoro. Ma la storia è ben scritta e diretta da Jesse Peretz e si giova dell'interpretazione di un buon cast.

Charlie viene prima di tuo marito - Tutte pazze per Charlie

I distributori italiani pensavano di farlo uscire al cinema col primo titolo (Charlie prima ...), poi devono avere avuto un inaspettato soprassalto di buon gusto, o forse è stata solo la fortuna che ha risparmiato allo spettatore disattento il rischio di sprecare il tempo e qualche euro con questa pellicola. Ormai il doppiaggio lo avevano fatto, e sembrava brutto buttare via il tutto. Hanno cambiato il titolo, evidentemente per strizzare l'occhio a Tutti pazzi per Mary, e ne hanno fatto un DVD. In televisione, però, potreste trovarlo col titolo cinematografico. Per essere sicuri di evitarlo, conviene tenere a mente anche il titolo originale, Good luck Chuck.

L'idea al cuore della sceneggiatura è una versione romanzata delle disgrazie amorose di Steve Glenn, un tizio che fa case prefabbricate (in versione eco-sostenibile e modaiola, e in California) che conosce gente di Hollywood. Gli capitò di parlarne ad un produttore cinematografico di troppo, e da qui, complice la scarsità di idee che aleggia da quelle parti, a pensare di farne un film il passo è stato breve. Non è neanche una cattiva storia, anche se tendente al paranoico. Lui esce con donne, con nessuna delle quali riesce ad avere una relazione a lungo termine, ma queste, come rompono con lui, trovano immediatamente in un altro l'amore della loro vita.

Il problema è che questo canovaccio è stato passato a Josh Stolberg che, evidentemente, ha un immaginario non molto maturo. Per dirla tutta, al confronto i Farrelly (giustamente citati nel secondo titolo italiano) sono dei raffinati geni. Per ridurre al minimo le possibilità che ne uscisse qualcosa di accettabile si è preso come regista Mark Helfrich, un bravo montatore che mai aveva diretto alcunché.

I protagonisti sono Dane Cook e Jessica Alba, che hanno meritato una candidatura ai Razzie per la loro interpretazione poco esaltante.

Skyfall

Mi pare che la produzione del cinquantennale franchise di 007 abbia voluto tentare una specie di reinvenzione del personaggio, muovendolo in una nuova direzione pur mantenendo un'aria di famiglia che non spaventi i vecchi fan. Ai due sceneggiatori che hanno pensato i James Bond da The world is not enough in avanti (Neal Purvis e Robert Wade) si è aggiunto John Logan, per la regia è stato preso niente meno che Sam Mendes. Un team creativo che mi fa pensare che si voglia fare qualcosa come quello che Christopher Nolan ha fatto con Batman, una trilogia crepuscolare su un personaggio che fino a quel momento sembrava destinato ad essere inchiodato ad un presente infinito.

Il protagonista resta Daniel Craig, ma viene introdotto un nuovo Q (Ben Whishaw), capiamo subito che M (Judi Dench) sta per uscire di scena, e non possiamo non pensare che ad ambire il suo ruolo ci sia un tal Mallory, anche perché ad interpretarlo è Ralph Fiennes. Tra le Bond girl di questo episodio alcune sono destinate a non apparire mai più, come Severine (Bérénice Marlohe), ma Eve (Naomie Harris) sembra qui per restare, e nel finale capiremo meglio in che ruolo. Nella parte del cattivo Javier Bardem, anche qui, come in Non è un paese per vecchi, dotato di una capigliatura memorabile.

L'azione è molto bondiana, ma le variazioni sono significative. Sin dall'inizio Bond sembra meno cinico del solito, il terribile cattivo arriva persino a mettere in dubbio la sua mascolinità, e lo vedremo pure commuoversi.

La cuoca del Presidente

O meglio, Il sapore del Palazzo (Les Saveurs du Palais) o anche, sbirciando quale sia il titolo internazionale, Haute cuisine.

Approssimativamente basato sulla storia di Danièle Mazet-Delpeuch, che tenne il ruolo di chef privata per François Mitterrand per un paio di anni durante il suo secondo mandato presidenziale, credo che sia stato prodotto mirando a chi sia interessato ad una vista obliqua sul quel presidente o, come meglio lascia intendere il titolo originale, i meccanismi che regolano i centri del potere politico francese (che poi non devono essere molto diversi da quelli di tutte le democrazie occidentali).

Hortense Laborie (Catherine Frot) viene convocata a Parigi per la sua capacità di interpretare la cucina francese storica, visto che il presidente non è convinto dalle nuove interpretazioni che i cuochi francesi le stavano dando. Chissà che avrebbe mai pensato della cucina molecolare.

Il presidente si entusiasma, ma Hortense si trova a combattere contro una burocrazia tentacolare, lotte intestine di potere, e persino (orrore!) i dietologi che cercano di evitare l'esplosione del fegato presidenziale.

Una specie di incrocio tra Chef e Il ministro - L'esercizio dello Stato. Meglio il primo, se si vogliono fare quattro risate ammirando nel contempo alcuni piatti spettacolari, o il secondo se si vuole ragionare sul potere.

La migliore offerta

Nonostante che dopo la prima visione abbia letto alcune recensioni piuttosto velenose, questa seconda visione mi ha rafforzato nell'opinione di aver ragione io a considerarlo un ottimo titolo e torto chi lo considera una ciofeca.

Credo che gli esponenti del partito avverso siano stati ingannati dalla struttura della narrazione, che segue gli stilemi del thriller, e non si siano accorti che il punto del film sia completamente diverso, essendo piuttosto una meditazione su quel che conta nella vita, su cosa valga la pena di fare la propria migliore offerta, e quanto alta questa puntata possa, o debba, essere.

L'appassionato di thriller, in effetti, potrebbe non essere soddisfatto dalla semplicità dell'inghippo. Troppo facile immaginarsi quello che gli sembra il colpo di scena del finale. Però, nel far questo, deve far finta che il film finisca alcuni minuti prima dell'inizio dei titoli di coda, declassando al livello di coda poco significativa quello che è il vero cuore dell'azione, che finisce per dare il senso complessivo alla storia.

Dopo il trailer dico qualcosa che potrebbe infastidire chi teme gli spoiler. Lettore avvisato, mezzo salvato.

Il protagonista è Virgil (Geoffrey Rush), un banditore d'asta incapace di relazionarsi con gli umani e che ha sublimato il suo desiderio d'amore nella creazione di una collezione di dipinti femminili da capogiro. Freddo nei rapporti interpersonali, al punto da indossare sempre un paio di guanti per evitare quelli che per lui sono sgradevoli contatti, riesce a empatizzare solo con i dipinti (praticamente l'unica cosa che tocca a mani nude).

Si circonda di persone che apprezza per le loro capacità ma di cui in pratica non sa nulla. In particolare lo vediamo interagire con Billy (Donald Sutherland), pittore scarso ma fidato compare quando si tratta di acquisire con modi poco puliti nuovi esemplari per la sua collezione, e Robert (Jim Sturgess), una specie di genio della meccanica.

Capita poi che Claire (Sylvia Hoeks), una giovane ereditiera con un grosso patrimonio di cui vuole liberarsi, chieda a Virgil di occuparsi del suo caso. Virgil è indeciso ma, a poco a poco, viene portato a dedicare sempre più tempo ed energie al complicato caso di Claire. Sia per la complessa personalità della donna, che ben si rapporta alle sue stesse spigolosità caratteriali, sia perché tra il materiale presente nella villa emergono ingranaggi che sembrano riconducibili ad un robot settecentesco dal favoloso valore.

Se questo fosse un semplice heist film, sapremmo già tutto. Virgil è il pollo. Billy è il genio. Robert e il guardiano della villa sono i compari, Clair è l'esca. Il bottino è la collezione di Virgil, il motivo è il senso di rivalsa di Billy, che si sente maltrattato da Virgil, pensando di essere un bravo pittore incompreso (ma vediamo un suo quadro, che alla fine chiarirà definitivamente questa parte del racconto, ed è difficile dare torto a Virgil).

Però stiamo guardando un film di Giuseppe Tornatore, che non è solo bravo come regista, ma sa anche scrivere sceneggiature di notevole spessore. Dobbiamo aspettarci qualcosa di più.

Succede infatti che Claire resti colpita da Virgil, capisca il suo dramma, e veda come l'amore di lui lo cambi. Non sappiamo come e perché sia entrata a far parte della banda, ma la vediamo sempre meno convinta di quello che sta facendo, lasciando a Virgil qualche piccolo indizio. Forse sperando che lui capisca e non inghiotta l'amo. L'amore, però, rende ciechi, e per il povero Virgil, che mai lo ha sperimentato in vita sua, è praticamente impossibile capire cosa stia davvero accadendo. Almeno fino a quando non è troppo tardi.

E siamo dunque al vero finale. Virgil ha perso la sua collezione dal valore incalcolabile, e ha perso la donna di cui è innamorato. Gli basta una piccola indagine personale per capire il poco che gli era rimasto oscuro, potrebbe denunciare il furto, e lasciare che la giustizia faccia il suo corso. Sarebbe difficile trovare Billy e Robert, ma per lo meno avrebbero vita più difficile. Questo però servirebbe solo per cercare di riavere indietro i quadri che, ora Virgil capisce, non valgono nulla in confronto al suo amore per Clair. Pensa dunque agli indizi che lei gli ha lasciato, e scopre di avere una piccola, tenue, speranza di rincontrarla. Quel che basta a permettergli di non sentirsi più solo.

Noi siamo infinito

Seconda visione a un anno di distanza, stessa ottima impressione. Stephen Chbosky dirige la materia che lui stesso ridotto in sceneggiatura a partire dal suo stesso romanzo young-adult.

Racconto di formazione che segue il punto di vista di Charlie (Logan Lerman), ragazzino che ha avuto una infanzia decisamente poco piacevole e ora si trova ad affrontare le scuole superiori. Per sua fortuna incontrerà un paio di mezzi-fratelli, Patrick (Ezra Miller) e Sam (Emma Watson) che, nonostante la differenza di età (sono all'ultimo anno), lo accoglieranno nella loro piccola comunità di "diversi". Qualcosa di simile a L'attimo fuggente di Peter Weir, dunque, e in effetti anche qui c'è la figura di un professore di inglese (Paul Rudd) che capisce il protagonista e lo aiuta nel suo percorso di crescita, ma ha molto meno spazio.

La localizzazione nel tempo e nello spazio è evidentemente influenzata dall'esperienza personale di Chbosky. Siamo infatti a Pittsburgh a fine anni ottanta, o poco più in là, come si evince anche dalla colonna sonora, che include brani dei Sonic Youth, Morrissey / The Smiths, New order. A fare la parte del leone, musicalmente parlando, è però Heroes, di David Bowie che, pur risalendo a a dieci, forse quindici anni prima dei fatti narrati, è sconosciuta ai protagonisti, che ne riescono a trovarne una copia solo dopo lunghe ricerche. Questo dettaglio può sembrare strano a chi non abbia vissuto l'epoca pre-web, però mi sento di confermarne plausibilità.

7 psicopatici

Mia seconda visione per il secondo lungometraggio di Martin McDonagh, che mi ha fatto ridere forse anche più della prima visione, anche se questa volta l'ho trovato un poco meno coinvolgente.

Forse conviene avvertire lo spettatore potenziale che c'è una dose di violenza non trascurabile, con alcuni omicidi piuttosto efferati. Ma conviene avvertire pure che non c'è alcuna indulgenza nei confronti della violenza, e dunque chi si aspettasse un film alla Quentin Tarantino o (dio non voglia) alla Michael Bay, potrebbe trovarsi a disagio nei confronti dell'impostazione data alla storia da McDonagh.

Siamo più dalle parti dei fratelli Coen (e basterebbe la colonna sonora di Carter Burwell a ricordarcelo) e di Michael Haneke (i riferimenti a Funny games mi sembrano piuttosto chiari). Le situazioni tarantiniane, invece, si risolvono con tali ribaltamenti di prospettiva da far pensare semmai ad uno spoof.

Il protagonista è Marty (Colin Farrell), uno sceneggiatore irlandese (evidente alter-ego di McDonagh) in trasferta ad Hollywood che dovrebbe consegnare la sceneggiatura di un film (che poi è proprio quello che stiamo guardando) del quale ha prodotto solo il titolo. Billy (Sam Rockwell), suo amico, cerca a suo modo di aiutarlo, ma essendo egli un personaggio piuttosto peculiare (attore spiantato, la sua occupazione principale sembra essere quella di rapire cani per poi restituirli dietro ricompensa), anche la sua idea di aiutare gli amici è alquanto bizzarra. Compagno di affari canini di Billy è Hans (Christopher Walken), polacco molto religioso la cui moglie è in ospedale per un tumore. Succede quindi che Billy e Hans rapiscono il cane di Charlie (Woody Harrelson), uno sciroccato boss della mafia italo-americana, che è stato appena mollato dalla sua fidanzata (Olga Kurylenko) e di cui ha commissionato la morte ad un paio di suoi sgherri (Michael Pitt e Michael Stuhlbarg). La ricerca del suo cane lo porterà a mettersi all'inseguimento di Marty, Billy e Hans, fino all'epilogo nel deserto che permetterà al protagonista di capire il senso della storia che stava cercando di scrivere.

Nella girandola di personaggi secondari, da notare Zachariah (Tom Waits), che si definisce un serial killer di serial killer, e che darà modo a Marty di farci vedere quanto la scrittura del film sia servita a cambiarlo in meglio.