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Il riccio

Una indisponente undicenne parigina di famiglia bene, che risponde all'inconsulto nome di Paloma (Garance Le Guillermic), alla sorella maggiore, Colombe, è andata anche peggio, ha deciso che si suiciderà al compimento dei dodici anni. Motivo, non vuole una vita vacua come quella della sua famiglia e di tutta la gente che conosce. Capita però un nuovo vicino, il giapponese Kakuro Ozu (Togo Igawa), che sovverte i suoi schemi e la porta ad interessarsi della portinaia Renée (Josiane Balasko) di cui entrambi hanno scoperto il segreto.

Tratto dal best seller L'eleganza del riccio di Muriel Barbery, a quanto mi dicono non mantiene le promesse del romanzo. Pare che anche la Barbery sia stata dello stesso avviso e abbia fatto il possibile per distanziare la sua opera da quella, cinematografica, di Mona Achache. Da cui il titolo, monco, e la nota sui titoli che avverte lo spettatore di quanto la sceneggiatura sia liberamente tratta dall'originale.

Simpatici alcuni passaggi, come le animazioni che prendono vita dai disegni di Paloma, o la scena in cui la protagonista cerca di provocare i genitori affermando di aver deciso cosa farà da grande, ottenendo, con suo gran dispiacere, una sorprendente approvazione incondizionata. Per il resto m'ha convinto molto poco.

Le svariate prove di suicidio di Paloma mi hanno ricordato Harold e Maude (1971), che però qui sono a solo uso e consumo dell'artefice, mentre là sono delle vere messe in scena decisamente più intriganti.

Il segreto dei suoi occhi

Non sto parlando del recente film di Billy Ray (*), che non ho visto, anche perché quello che ho letto sul suo conto non mi aveva convinto, nonostante il cast stellare che esibisce (**), ma dell'originale argentino di sei anni prima, firmato da Juan José Campanella, che ha conquistato l'Oscar come miglior film non in inglese, strappandolo a quello che sembrava il vincitore annunciato, Il nastro bianco di Michael Haneke. Io avrei votato per il candidato tedesco ma, almeno per una volta, non ho niente da ridire sulla scelta dell'Academy.

Siamo nei primi anni del duemila e Benjamín Esposito (Ricardo Darín) è appena andato in pensione. Per capire che lavoro facesse prima ho dovuto ragionarci sopra un attimo, seguendo la storia, narrata in flashback, avvenuta un quarto di secolo prima a Buenos Aires. Il suo capo allora era Irene Menéndez Hastings (Soledad Villamil), che a sua volta ha un capo che viene qualificato come giudice. Da quello che fanno mi sembra che il loro giudice sia quello che noi chiamiamo pubblico ministero, che Irene sia una specie di sostituto (***) e che entrambi si occupino solo del lavoro di ufficio, non uscendo praticamente mai dal palazzo. Benjamín, che non è nemmeno laureato, riassume nelle sue competenze parti di quelle di un PM quando si sporca le mani con la realtà e di quelle di un investigatore.

In pratica Benjamín era un piccolo burocrate che cercava di evitare il più possibile di fare qualunque cosa. In questo veniva assecondato con successo dal suo collega Pablo Sandoval (Guillermo Francella), a lui gerarchicamente inferiore, ma superiore nell'inventiva per allontanare ogni contatto lavorativo (°). In rapida successione succedono due fatti che gli scombussolano l'esistenza. Prima viene nominato il suo nuovo capoufficio, Irene per l'appunto, di cui lui si innamora perdutamente a prima vista. Un amore impossibile, decide lui immediatamente, data la differenza di età, censo, cultura, origine, e quant'altro. Lei è giovane, bella, con antenati scozzesi, laureata negli USA, di famiglia con origini nobili, destinata a un radioso futuro. Lui no. Poco dopo, gli viene assegnato un caso, che lui sente sarebbe dovuto essere assegnato ad un altro ufficio. Una seccatura, un omicidio con stupro, roba da doversi sbattere, mescolarsi col mondo, parlare con gente, un incubo insomma. Malvolentieri si reca sul posto per fare il minimo indispensabile, però poi vede la vittima, Liliana Coloto (Carla Quevedo), e improvvisamente questo gli cambia la prospettiva sul caso. Non è più un semplice nome su di un documento ma una giovane donna che nonostante il massacro che ha subito, la vediamo piena di sangue e lividi, riesce ancora a ricordare di che bellezza abbacinante fosse stata.

Sarà anche che Benjamín aveva dentro di sè l'amore inespresso per Irene, ma lo shock di vedere Liliana così ridotta è così forte da fare il miracolo di trasformare uno scansafatiche in un segugio. Parla col novello vedovo, Ricardo Morales (Pablo Rago), raccoglie indizi, si fa un idea di cosa deve essere accaduto. Scarta subito una soluzione di comodo che viene proposta per chiudere rapidamente il caso, e punta diretto verso quello che sembra il ragionevole indiziato principale, tal Isidoro Gómez (Javier Godino), amico di infanzia di Liliana. Sapendo di non essere un gran investigatore, chiede aiuto a Pablo, che avrebbe una mente sopraffina se non fosse che la sua passione per l'alcol non sia tale da fargli mettere tutto il resto in secondo piano. Sia come sia, l'improbabile due si impegna in una bizzarra indagine che, nonostante alcune intoppi, viene infine coronata da successo. In un drammatico (°°) confronto con l'indiziato, Benjamín, grazie anche all'inattesa collaborazione di Irene, riesce a strappare la confessione che chiarisce cosa effettivamente sia successo.

Eppure il caso non si chiude così facilmente. Isidoro, che sembrava destinato a passare decenni in carcere, in breve tempo è nuovamente fuori. E c'è di peggio, Pablo viene ucciso, e Benjamín deve scappare in una remota provincia per evitare di fare la stessa fine.

Un quarto di secolo dopo, Benjamín cerca di chiudere i conti con il suo passato. E' ancora innamorato di Irene, si sente colpevole per la morte di Pablo, si chiede cosa sia successo a Isidoro, che sembra sparito nel nulla, e sente di dover fare qualcosa per Ricardo, al quale aveva promesso di mandare in galera chi aveva distrutto la vita sua e di Liliana. Per fare tutto questo, decide di scrivere un libro sulla vicenda, che non è altro che un modo per fare ordine nei suoi pensieri raccontando, a se stesso, a Irene, e anche a noi, questa storia.

Tecnicamente, al centro del film c'è un lunghissimo e impossibile piano sequenza che parte dal cielo, scende su uno stadio, segue una rapida azione d'attacco della squadra di casa, piomba sui nostri due eroi, Benjamín e Pablo, che sono alla caccia di Isidoro, e seguono il terzetto nel concitato inseguimento che porta alla cattura dell'indiziato. Ma il vero effetto speciale, per quel che mi riguarda, è il bellissimo sorriso di Irene, che ci viene annunciato come irresistibile ma riservato ad un pubblico molto ristretto nella prima metà del film, e dobbiamo pazientare fino al finale per vederlo.

(*) Curiosa carriera, che include le sceneggiature di Captain Phillips, The hunger games, Breach, eccetera. Sembra che Ray sia specializzato nell'adattare testi preesistenti.
(**) Nicole Kidman, Julia Roberts e Chiwetel Ejiofor in un solo film non capitano tutti i giorni.
(***) Nel duemila è diventata giudice.
(°) Vedasi in particolare le inventive risposte che dà al telefono per evitare di dover parlare con possibili interlocutori.
(°°) Ed estremamente illegale.

X-Men le origini - Wolverine

Nonostante mi sia sparato X-Men, X2 e Conflitto finale senza stare troppo a sottilizzare sull'implausibilità di quel che vi succedeva, ho dovuto prendermi una pausa di qualche giorno prima di decidermi ad affrontare la seconda visione di questo capitolo che è veramente eccessivo. E questo, ribadisco, viene detto da uno che si è visto e rivisto i primi tre capitoli della saga degli X-men senza fiatare.

Conviene dire subito che non è vero che questa sia la quarta puntata di una quadrilogia, come dice il cofanetto DVD che ho comprato (*). Si tratta di una trilogia, che più o meno fila, più uno spin-off disgraziato fatto per capitalizzare il successo della serie. D'altronde il titolo mette bene in chiaro che il protagonista è Wolverine (Hugh Jackman), gli altri mutanti sono solo al contorno. Il Professor X (Patrick Stewart) fa solo una comparsata nel finale, Magneto è del tutto assente.

Si racconta che Logan, prima di diventare Wolverine, ha passato un paio di secoli in compagnia del fratello Victor (Liev Schreiber), per i conoscitori della saga Sabertooth (**). Come passatempo i due si sono impegnati in tutte le guerre americane che sono capitate. E verrebbe da chiedersi perché mai, visto che sono canadesi. Victor, col passare del tempo, diventa sempre più sanguinario, al punto che Logan, al suo confronto, finisce per sembrare un mollaccione. Durante la guerra del Vietnam, Victor esagera, i due vengono inutilmente fucilati per tradimento, dopodiché Stryker (***) li recluta per la sua squadra che si dedica ad affari molto sporchi.

Gli affari sono così sporchi che dopo un po' Logan si stufa, e torna in Canada a fare il boscaiolo. Stryker lo lascia in pace per qualche tempo, poi ordisce un piano, che sarebbe diabolico se non fosse così inutilmente complicato da farlo sembrare più che altro demente, per spingere Logan a farsi iniettare adamantio (°) nel corpo, allo scopo di renderlo indistruttibile. Nell'occasione Logan assume il nome d'arte di Wolverine, in omaggio alla donna che ama, Silverfox, che gli ha raccontato una triste storia indiana che ha per protagonista per l'appunto quel simpatico orsetto che noi chiamiamo ghiottone (°°).

Le cose si complicano ancora di più quando Stryker decide di tirare un (altro) tiro birbone a Wolverine, che però questa volta non ci casca, e si mette a spaccare tutto quello che incontra, deciso ad ammazzare prima Victor e poi Styker. Non riuscirà nel suo intento, ma farà tanti e tali danni da non passare inosservato. Tra l'altro, causerà la distruzione di una torre di raffreddamento di una centrale nucleare a Three miles island, giusto per gradire.

(*) Era in saldo ad un prezzo così basso che mi sono lasciato convincere.
(**) E nei fumetti non si capisce bene che legame abbia con Logan. L'ipotesi che i due siano fratelli non gode di gran considerazione.
(***) Ringiovanito e ingentilito nella forma al punto da essere interpretato da Danny Huston
(°) Lega metallica inesistente ma estremamente resistente.
(°°) O anche volverina. E lo so che non è parente degli orsi, bensì un mustelide.

Chéri

Si riforma il tandem creativo Christopher Hampton, scrittura, e Stephen Frears, regia, che venti anni prima ha prodotto quel gioiellino di Le relazioni pericolose. Tra gli attori, la sola Michelle Pfeiffer è in entrambi i film. Questa volta la storia è ambientata nei primi anni del novecento, basata sul romanzo omonimo di Colette. Il risultato è inferiore, ma comunque piacevole, grazie anche alla bella ricostruzione d'epoca e alla colonna sonora del solito Alexandre Desplat.

Lea (Michelle Pfeiffer) è una cortigiana di gran successo, nonostante l'età sia vicina al pensionamento per quella professione. La morale d'epoca considerava sconveniente frequentare cortigiane in società, se queste non erano accompagnate da un facoltoso cliente. Per questo motivo si era creata una specie di buona società parallela, piuttosto ristretta, ma alla moda come quella canonica. Lea, dunque, frequenta da sempre la casa di Madame Peloux (Kathy Bates), altra cortigiana che ai suoi tempi aveva mietuto successi, e che ora si gode i frutti della sua passata attività. La Peloux è preoccupata per il figlio, detto Chéri (Rupert Friend), un ragazzotto che sta rapidamente tendendo al deboscio più assoluto, e lo affida alle cure della sua amica Lea. Ella inizialmente pensa di giocare un po' con l'inesperto giovinetto, ma alla fine se ne affeziona, e i due passano sei anni assieme.

Ormai egli è in età da marito, e la mamma gli procura una pollastrella, Edmée (Felicity Jones in uno dei suoi primi ruoli cinematografici significativi), figlia di un'altra cortigiana, più giovane di Chéri, e dotata di succulenta dote. Lea accetta la cosa senza batter ciglio, ma scopre in breve di aver fatto un errore, di essere realmente innamorata di Chéri e non sopportare la separazione. Lo stesso Chéri scopre che Edmée non lo soddisfa, non avendo con lei la stessa intesa che aveva con Lea.

Riuscirà la coppia a riformarsi? Lo scopriremo all'ultima scena.

L'uomo che verrà

Martina (Greta Zuccheri Montanari) ha avuto la sfortuna di nascere alla metà degli anni trenta del secolo scorso in una famiglia contadina sulle pendici del Monte Sole, nel bolognese. Come se questo non bastasse, gli è pure morto tra le mani un fratellino neonato, causandole un comprensibile shock che si è tradotto in un ostinato mutismo che nulla sembra riuscire a vincere.

La già difficile lotta per la sopravvivenza è resa ancor meno sopportabile dalla guerra in corso. I tedeschi requisiscono quello di cui hanno bisogno, per che decidono sia un giusto prezzo, i partigiani non sono da meno, segnando quello che prendono con la promessa di pagare a tempo debito. La famiglia di Martina si arrabatta come può, gli uomini vorrebbero andare a cercare lavoro altrove, a Bologna, Milano, magari nella mitica America, ma sono legati alla terra da rigidi regolamenti governativi. Le donne avrebbero più libertà di movimento, e la zia Beniamina (Alba Rohrwacher) ogni tanto ne approfitta per andare a Bologna, cosa che sua madre vede molto male. I genitori di Martina, Lena (Maya Sansa) e Armando (Claudio Casadio), la seguono come possono, ma la piccola passa gran parte del tempo per conto suo, osservando dal suo punto di vista tutti gli strani accadimenti che le si parano davanti.

Nell'autunno del '44 le arriva un nuovo fratellino, che lei sembra vedere come un modo per riscattare la morte dell'altro, però arriva anche l'operazione militare tedesca che verrà ricordata come eccidio di Monte Sole o, più comunemente, come strage di Marzabotto. Il mondo sembra essere completamente impazzito, e viene da pensare che non ci sia più un futuro più degno di questo nome. Ma Martina non sembra d'accordo, e riesce a trovare ancora una fiammella di speranza.

E' il primo film di Giorgio Diritti che vedo, più noto per Il vento fa il suo giro. Mi avevano detto di tenere a mente il riferimento con Ermanno Olmi, e in effetti ci ho visto la stessa attenzione quasi-documentaristica alla storia narrata, seguendo tematiche minori, per quanto, come in questo caso, si vadano a legare a fatti di conoscenza generale.

The thick of it - Stagione 3, episodi 7 e 8

Gran finale con un doppio episodio che porta (finalmente) il governo alle elezioni. La prima avvisaglia dell'incombente catastrofe è la breve, e prima da tempo immemorabile, vacanza di Malcolm Tucker (Peter Capaldi). Come suo sostituto viene preso Steve Fleming (David Haig), antico rivale che Malcom aveva contribuito ad eliminare ancor prima dell'inizio della prima stagione. Costui riesce a far sì che il ministero retto da Nicola Murray (Rebecca Front) faccia ancor più disastri del solito, di cui Malcom, tornato dalle vacanze, non intende farsi carico.

La situazione politica è però così delicata che nemmeno Malcom si può più considerare intoccabile, e infatti Steve riesce ad usare le conseguenze del suo proprio errore per causare le dimissioni del suo avversario.

Breve periodo di smarrimento per Malcom, che pensa pure di dedicarsi ad altro, e sarebbe sul punto di accettare un'offerta della BBC, se non fosse una specie di suicidio mediatico. Per sua fortuna, le sue dimissioni non hanno stabilizzato la maggioranza, al contrario, le varie fazioni, ora che non c'è più il suo ferreo controllo, stanno affilando le armi per lo scontro finale. Julius Nicholson (Alex Macqueen), che pure ha contribuito alla sua cacciata, lo richiama al potere, sia pure in un ruolo esterno, affidandogli in pratica le stesse mansioni di prima.

Anche l'opposizione si prepara per le elezioni, e viene richiamato Cal Richards (Tom Hollander) a rimpiazzare, anche se teoricamente fornisce solo supporto esterno, lo spin doctor. I suoi modi sono brutali almeno quanto quelli di Malcom, al punto che è noto come "the fucker", e il ministro ombra Peter Mannion (Roger Allam) dopo pochi minuti si rende conto di quanto gli fosse andata relativamente bene, fino a questo punto.

The thick of it - Stagione 3, episodi 5 e 6

5. Confronto radiofonico tra il ministro Nicola Murray (Rebecca Front) e il suo omologo oppositore Peter Mannion (Roger Allam). Il risultato sembra un mesto pareggio per manifesta incapacità di entrambi. Avviene nel giorno del compleanno di Malcolm Tucker (Peter Capaldi) che lo (non-)festeggia ascoltando la radio e poi andando alla BBC dove incontrerà lo spin doctor dell'opposizione con il quale avrà una bell'incontro di lotta nel fango, sia pure in senso figurato. Anche questo destinato al pareggio data l'enorme quantità di porcherie che tirano fuori.

6. Sembrerebbe una giornata a danno limitato, al centro della quale ci dovrebbe essere la presentazione di una fumosa iniziativa del ministero alla quale nessuno è interessato. Però la Murray fa un paio di dichiarazioni piuttosto ambigue che vengono interpretate come una sua candidatura alla leadership del partito e un suo appoggio solo temporaneo al primo ministro. Questo non avrebbe nessuna rilevanza se non fosse che in effetti il governo è sull'orlo del collasso e basta un niente a far partire la crisi.

The thick of it - Stagione 3, episodi 3 e 4

Al centro del terzo episodio c'è il convegno del partito governativo. Come sempre, il punto di vista è quello del piccolo ministero maltrattato da tutti retto da una spaesata Nicola Murray (Rebecca Front). Per dare un minimo appeal al suo discorso, Glenn (James Smith) le ha procurato un caso patetico, Julie (Melanie Hill). Però anche il primo ministro teme che il suo intervento non susciti abbastanza interesse mediatico, e così Malcolm Tucker (Peter Capaldi) soffia Julie ai nostri. Segue una serie di piccolo disastri con Glenn che si prende un pugno, Julie che twitta cose che dovrebbero restar segrete, blogger che guadagnano e perdono visibilità nel giro di secondi.

Nel quarto episodio torna alla ribalta il ministero ombra. Le acque del governo corrente sono sempre più tempestose e Terri (Joanna Scanlan), che è dipendente statale e quindi non teme di perdere il posto col cambio di bandiera, vedrebbe di buon occhio se Nicola venisse sostituita dal suo avversario, Peter Mannion (Roger Allam). Questo giorno è per l'appunto prevista una visita della delegazione dell'opposizione al ministero. A questo si sovrappone il problema che Nicola sta avendo con la figlia che, su imposizione di Malcom, è stata mandata ad una scuola statale dove lei non conosce nessuno. In uno dei rari momenti della serie, alcuni personaggi mostrano di essere, dopotutto, degli esseri umani propriamente detti. Anche se questo non sembra di essere di grande aiuto all'ambiente.

The thick of it - Stagione 3, episodi 1 e 2

Chris Langham, che per le prime due stagioni ha interpretato Hugh Abbot, lo sconclusionato ministro di un trascurabile ministero del governo di Sua Maestà britannica, ha dovuto saltare i due special del 2007 e nemmeno nel 2009 può essere della partita.

Quindi che nel primo episodio della terza serie c'è una brutale sostituzione, e al suo posto viene nominata in fretta e furia Nicola Murray (Rebecca Front), a cui si giunge dopo che una lunga serie di candidati si è defilata da una posizione che garantisce solo grane e non promette nessun vantaggio reale.

Lo spin doctor Malcolm Tucker (Peter Capaldi), che ammette di non aver effettuato su di lei un check approfondito in quanto non si sarebbe mai aspettato che un personaggio di così bassa caratura arrivasse a quel posto (naturalmente glielo dice in faccia), scopre alcuni problemini di immagine in Nicky, la quale ha un marito che lavora in una azienda che ha commesse governative (che sarebbe poi quello che noi chiamiamo conflitto di interesse, senza dargli un gran peso), una figlia scapestrata, e una figlia che sta per andare all'equivalente del nostro liceo, e che lei vorrebbe mandare ad una scuola privata (il che sarebbe visto come segno di sfiducia nei confronti delle scuole statali, anche qui noi non riusciamo a vedere dove sia il problema). In più, è claustrofobica, dovendo così evitare gli ascensori.

Non avendo fatto in tempo a crearsi un suo gruppo di lavoro, si piglia quello del suo predecessore, con Glenn e Ollie (Chris Addison) che continuano a cercare di farsi le scarpe a vicenda.

Una settimana dopo, secondo episodio, la stampa è già scatenata contro il nuovo ministro, e si inizia già a spargere la voce che potrebbe saltare presto. Malcom la tranquillizza dicendole che, nonostante tutti i suoi punti deboli, il primo ministro non la può sostituire così presto, sarebbe accusato di avere sbagliato ad assegnarle l'incarico.

Succede però che si scopre un gigantesco disastro, mesi di registrazioni nel sistema informatico relative ai nuovi immigrati sono andati persi. Al che Malcom dice che forse per lei il primo ministro potrebbe fare una eccezione.

Si troverà un capro espiatorio e tutti gli altri tireranno un bel sospiro di sollievo.

In the loop

Il film deriva dalla serie televisiva BBC The thick of it, nata nel 2005 e che ha avuto la sua quarta (al momento ultima) stagione nel 2012. Sembra che sia destinata a continuare, ma il protagonista, un bravissimo Peter Capaldi, è correntemente impegnato con l'ottava stagione moderna di Doctor Who, e mica può monopolizzare gli schermi inglesi.

Il tema è lo stesso di House of cards, ma il tono è molto meno drammatico e molto più satirico. Non c'è nemmeno un accenno a quale partito appartengano i politici i vari personaggi (si dà quasi per scontato che i britannici siano laburisti, ma gli americani potrebbero essere indifferentemente repubblicani o democratici), e questo indica meglio come il bersaglio non sia una particolare schieramento, ma l'intero concetto di democrazia parlamentare occidentale. Da noi non è arrivata né la serie televisiva né il film. Si riescono agevolmente a trovare in DVD, ma non ho visto nessuna versione italiana. Ed è un peccato, anche perché il regista è Armando Iannucci, scozzese di nascita ma di evidente origine italica, meriterebbe di essere più conosciuto anche nel paese dei suoi avi.

In medio oriente soffiano venti di guerra, la linea del governo britannico è "vedremo". Simon (Tom Hollander), ministro che ha notevoli difficoltà a dire cose sensate ma che brama ad una maggiore visibilità, si lascia sfuggire in una intervista radiofonica un commento casuale che viene interpretato come se fosse di impronta pacifista. Malcolm (Capaldi), responsabile dei rapporti con i media per il governo, gli fa notare che non sta seguendo la linea stabilita.

Il dettaglio è che Malcom è uno sboccatissimo (per gli standard inglesi) can che abbaia e morde, e si mangerebbe vivo Simon, se non fosse che non saprebbe come giustificare la sua scomparsa alla stampa.

Capita però che la posizione da colomba di Simon viene notata oltreoceano, e lo scialbo ministro inglese viene sballottato tra le due sponde dell'oceano, conteso tra la fazione pro e contro la guerra, che finiranno per manovrarlo come un pupazzo, per poi farlo fuori.

Numerosi personaggi minori infarciscono l'azione di sottotrame minori. Tra i più riusciti c'è un generale americano contrario alla guerra (James Gandolfini), che minaccia le dimissioni, ma poi preferisce adattarsi all'andazzo, e un bizzarro omarino (Steve Coogan) residente nel collegio elettorale di Simon, ossessionato da un muro di proprietà governativa sul confine del suo terreno.

Colonna sonora firmata da Adem Ilhan, infarcita da musica classica d'epoca (tanto Bach, e un Debussy che finirà per avere una parte rilevante nella storia), con in più un interessante brano originale sui titoli di coda.

Invictus - L'invincibile

Non possono mica sempre vincere tutti. In questo film, ad esempio, è lo spettatore che perde.

Credo che il problema principale stia nello strabismo della produzione che ha voluto fare un film su Nelson Mandela che avesse un certo appeal per gli Oscar (come dire, mostrasse un certo impegno nel sociale parlando di una causa degna di questo nome) e riuscisse pure a fare un incasso ragionevole. A volte il gioco riesce, altre volte, e questo è un caso, no. Anche perché l'idea è stata quella di trattare il personaggio Mandela (interpretato da Morgan Freeman, chi altri?) per mezzo del rugby, uno sport sconosciuto all'americano medio e direi pure al regista (nientemeno che Clint Eastwood). Per ravvivare il tutto, poi, si è dato un taglio giallo, dando rilevanza all'operato della sua scorta che (spoiler) in realtà non ha avuto praticamente niente da fare per tutte le due ore abbondanti del film.

La vicenda di Nelson Mandela vale ben più di una narrazione di questo tipo, anche perché la si è depotenziata per far della sua figura poco più di un santino. Si è tolto tutto quello che poteva dar fastidio, lasciando una storiella che, privata dei lati oscuri, contraddizioni, spiacevolezze varie, è diventata una sbobba dimenticabile.

La sceneggiatura è centrata sui primi anni della presidenza Mandela, si accenna rapidamente ad alcuni tra gli innumerevoli problemi che ha affrontato, e ci si focalizza sul rebus della pacificazione post apartheid, e in particolare sulla sua idea di usare il rugby, che in Sudafrica ai tempi era sport praticamente solo per bianchi, come veicolo di riconciliazione. E qui entra in gioco il personaggio di Francois Pienaar (Matt Damon), capitano della nazionale, che farà un po' da ambasciatore del Mandela-pensiero nell'ostico mondo dei rugbisti.

Vincendo le perplessità di tutti, Mandela manterrà i simboli degli Springboks (la nazionale sudafricana) ma facendo sì che rappresenti l'intera nazione. Punto cardine di questa strategia, il mondiale del 1995, che per l'appunto si tenne in Sudafrica. La rappresentativa locale, sfavorita dalla mancanza di esperienza internazionale (figlia di un lungo embargo nei confronti del precedente regime razzista), avrebbe dovuto far di tutto per vincere la coppa. Sorpresa delle sorprese, ci riuscirà.

Peccato che si finga che per ottenere il risultato sia bastato l'adamantino sforzo di mostrare che una nazione intera si possa riconoscere in un unico simbolo condiviso, dimenticando le divisioni del passato. Certo, c'è stato anche quello. Però forse si sarebbe dovuto accennare, almeno di sfuggita, a tanti altri fatterelli che hanno aiutato.

Ad alcuni la smagliante forma fisica degli Springboks, che anche nel film viene indicata come superiore a quella di tutte le altre squadre, aveva creato qualche perplessità, facendo avanzare l'ipotesi che si fossero usati metodi non limpidissimi per ottenerla. Praticamente impossibile scoprire adesso se fosse vero, però si sa che usare sostanze dopanti aumenta il rischio di malattie rare. Se rugbisti sudafricani del tempo venissero colpiti col passare dei decenni da malattie neurologiche in percentuale significativamente superiore alla media, avremmo un altro indizio che spingerebbe in quella direzione (spoiler, effettivamente sta succedendo).

Che gli arbitraggi non siano sempre all'altezza dell'evento non è certo una novità, ma l'annullamento (perlomeno dubbio) di una meta negli ultimi secondi di una semifinale non è cosa che capiti spessissimo.

Succede praticamente sempre anche che alcuni giocatori risentano del cambio di alimentazione e non rendano come al solito. Meno comune che ad essere colpiti a frotte da una improvvisa debolezza di stomaco siano gli avversari della squadra di casa proprio quando la incontrano in occasione della semifinale e finale.

Tutta la parte relativa alla scorta presidenziale, come accennavo sopra, serve praticamente solo a portar via tempo inutilmente. Da un lato rinforza il concetto della contrapposizione tra bianchi e neri che viene smussata (o addirittura eliminata!) grazie alla passione sportiva, dall'altro viene usata per veicolare l'idea di un possibile attentato a Mandela. Ad un certo punto appare pure un tizio che sembra un killer che stia scegliendo il posto adatto per sparare al presidente, ma poi non se ne fa nulla. Viene pure reinventata la scena in cui un jet di linea sorvola a bassissima quota lo stadio dove si sta per tenere la finale, facendo finta che si tratti di una azione estemporanea del pilota, in modo da farci temere che sia un attacco terroristico quando invece era, ovviamente, tutto preparato.

La regia non mi è sembrata particolarmente ispirata. Nota di demerito per le scene di gioco, girate in modo confuso, e in particolare per il rallenty negli ultimi secondi della partita contro la Nuova Zelanda, che vorrebbe mostrare la tensione sul campo ma, almeno a me, ha fatto pensare agli epici scontri tra l'ispettore Clouseau e il fido Cato, causando un effetto comico del tutto fuori luogo.

Torchwood: I figli della Terra

Quando c'è una buona idea, non ci sono ostacoli che tengano. Anzi, gli ostacoli diventano aiuti insperati che spingono a migliorare ancor di più il prodotto. Vedasi il caso della terza stagione di Torchwood. La BBC si era trovata in ristrettezze economiche, e a farne le spese è stata, fra gli altri, anche la produzione di questa serie. Il buon Russell T. Davies si trovò a dover fare i conti con un budget limitato che lo constringeva a dimezzare il numero di puntate. Decise quindi di puntare tutto su un unica storia da distribuire su cinque puntata da un'ora, ognuna rappresentativa di una delle cinque giornate consecutive che vengono raccontate.

Primo giorno

Un misterioso flashback ci mostra alcuni bambini che negli anni sessanta vengono portati in autobus nel mezzo del nulla. Vengono mandati verso una luce accecante, e spariscono nel nulla. Tutti, meno uno. Che scappa.

Ai nostri giorni, Torchwood è alle prese con i soliti problemi. Il Capitano Jack Harkness (John Barrowman) e Ianto (Gareth David-Lloyd) incrociano il loro percorso con un medico che, in seguito alle tragedie del finale di stagione 2, potrebbe essere un nuovo elemento del team. Gwen (Eve Myles) si incarica da sola di parlarci assieme per valutare la candidatura quando un fatto inquietante avviene, che sembra coinvolgere tutti i bambini del mondo. E un adulto, che scopriremo essere proprio il bimbo che era scappato nel prologo.

In seguito alla crisi planetaria risultante, la burocrazia inglese reagisce in modo che sembra assurdo. Un oscuro burocrate, John Frobisher (Peter Capaldi, che già era stato un antico romano l'anno prima per il Doctor Who, e che presto sarà il Dodicesimo Dottore), consulta niente meno che il primo ministro perché si rende conto che l'episodio è originato da un alieno (noto come 456, dalla frequenza che usa per comunicare) con cui hanno avuto a che fare in passato, facendo qualcosa che sarebbe meglio restasse segreto.

Il politico evita di dire alcunché, ma fa in modo che Frobisher prenda una decisione draconiana, eliminare alcune persone, tra cui Jack Harkness. Essendo noto che il Capitano è una pellaccia, si pensa di farlo esplodere con tutto l'Istituto Torchwood.

Secondo giorno

Gwen, che ha appena scoperto di essere incinta, e Ianto si salvano dal botto. Capiscono che non si possono fidare di nessuno, e riescono fortunosamente a scappare. Gwen cerca di scoprire di più della trama, e punta verso Londra, da dove è evidentemente venuto l'ordine di eliminare Jack. Ianto conta invece sulle improbabili capacità di ripresa del Capitano e segue la pista che lo porta ai suoi resti.
Entrambe le strade portano a Jack, che viene "rubato" e torna in attività.

Terzo giorno

Ianto, prima di passare a Torchwood 3, lavorava per il Torchwood 1 di Londra. Ha quindi ancora qualche aggancio, e porta il team in un hangar abbandonato di proprietà dell'istituto, e quindi relativamente sicuro. Il terzetto riesce a guadagnare un alleato interno al governo inglese, Lois Habiba (Cush Jumbo), una segretaria neoassunta di Frobisher, che fa da talpa fornendo loro informazioni di prima mano.
L'episodio finisce con la drammatica rivelazione che il Capitano è stato colui che ha materialmente portato i bambini verso 456 quarant'anni prima (già perché questo è quello che era successo).

Quarto giorno

Jack spiega quello che sa, e scopriamo che 456 vuole bimbi umani per scopi suoi. La prima volta si è "accontentato" di una dozzina, ma questa volta ne vuole il 10% dell'intera popolazione. Dopo rapida consultazione, i governi del mondo decidono di cedere. Resta solo Torchwood ad opporsi. Jack e Ianto, sfruttando l'effetto sorpresa e l'appoggio interno di Lois, tentano una azione di forza, che si conclude catastroficamente.

Quinto giorno

Tutto sembra perso. L'unico che sembra riuscire ad uscirne bene è il primo ministro inglese, che sembra avere un piano per scaricare su un qualche capro espiatorio ogni possibile guaio. Lo stesso Frobisher scopre che ha finito la sua funzione, e gli resta solo il ruolo dell'agnello sacrificale. C'è però una possibile via di uscita, con Jack che dovrà compiere un ennesimo terribile sacrificio per salvare la partita.

Troppo amici

Un colp(ett)o di scena nel finale cambierà completamente la prospettiva del film, che si rivelerà essere narrato in flashback seguendo l'inaspettato punto di vista di quello che, fino a quel momento, sembrava essere un personaggio minore, e nemmeno tra i più simpatici.

Conviene non farsi ingannare dal titolo italiano, che crea un riferimento a Quasi amici con il solo scopo di attirare lo spettatore distratto. Anche perché quel film in originale si intitolava Intouchables e questo Tellement proches. Bizzarria ancor maggiore è che da noi è arrivato con tre anni di ritardo, appunto per sfruttare il successo di Quasi amici, scritto e diretto dalla stessa coppia di autori, Eric Toledano e Olivier Nakache. Poco altro hanno in comune i due lavori, come ad esempio la presenza di Omar Sy, che comunque interpreta due ruoli molto diversi.

La storia è quella di due sorelle (una è l'Isabelle Carré di Emotivi anonimi, l'altra Joséphine de Meaux che sarà anche in Quasi amici) e un fratello attaccati al punto che la sorella non ancor sposata (la de Meaux) sottopone al loro vaglio gli uomini con cui esce (nel caso particolare Sy) per valutare se sia il caso di procedere o meno.

Le complicate vicende delle tre coppie sembrano destinate a rendere impossibile un qualunque equilibrio, eppure, miracolosamente, si giungerà ad una stabilità finale propiziata dall'ennesima marachella di uno dei figli.

Il mio amico Eric

Il titolo originale, Looking for Eric (qualcosa come Alla ricerca di Eric), rende meglio il fatto che l'amico Eric è immaginario, anche se noi lo vediamo come se fosse in carne ed ossa, ed è il modo disperato che il protagonista (che si chiama anche lui Eric) usa per cercare di uscire da una brutta situazione.

l'Eric reale (Steve Evets) è un postino cinquantenne messo davvero male. Trent'anni prima ha mollato la moglie da poco sposata e che aveva appena avuto la loro figlia, senza sapere nemmeno bene perché. Da quel momento in poi la sua vita è andata sempre peggio. Per sua fortuna ha un nutrito gruppo di amici/colleghi che lo aiutano, per quanto possibile, a non fare naufragio completo.

La lenta deriva viene interrotta dalla necessità di incontrare la ex moglie, cosa che lo mette in grandissimo stato di agitazione, al punto che finisce per materializzare Eric Cantona (interpretato da lui medesimo), suo idolo calcistico.

Inizialmente le cose invece che migliorare peggiorano. Seguendo i consigli di Cantona, il vero Eric viene picchiato, minacciato, umiliato con un filmato su YouTube. Il suo tentativo di riconciliazione con ex-moglie e figlia si risolve in un disastro, con la polizia che gli piomba in casa e arresta tutti quanti.

Ma Eric non si arrende. Continua a seguire gli insegnamenti di Cantona, e alla fine una soluzione, per quanto bizzarra, si trova.

La coppia Ken Loach (regia) - Paul Laverty (sceneggiatura), a mio gusto, funziona benissimo. Laverty ha smussato i toni fin troppo combattivi di Loach fornendo comunque storie che ben si adattano alla verve popolar-contestataria del regista. L'espediente dell'amico immaginario superstar non è certo nuovo, vedasi l'Humphrey Bogart in Provaci ancora Sam di Woody Allen o, in tempi più recenti, Tony Hawk in Tutto per una ragazza di Nick Hornby, ma mi pare che sia gestita in modo molto naturale.

Doctor Who (dal 4 al 5) - Speciale finale

Sappiamo già da tempo che il decimo Dottore (David Tennant) è spacciato. E lo sa anche lui, ben due profezie pendono sul suo capo. Quella degli Ood, secondo cui il tempo del suo canto sta finendo, e quella di una anziana londinese di colore che gli ha predetto che un bussare ritmico in quattro tempi annuncerà il suo momento fatale.

Ben ci possiamo immaginare l'umore del nostro uomo (pardon, Signore del Tempo). Ha rinunciato perfino ad attirare donne nel TARDIS, attività in cui eccelle, e si è chiuso in una solitudine che non gli fa per niente bene. Al punto che nel precedente episodio si è trovato vicinissimo al punto di non ritorno, rischiando un delirio di onnipotenza dal quale è stato salvato solo grazie all'intervento deciso di una terrestre.

Anche dal punto di vista produttivo siamo in un momento drammatico per il Doctor Who. Il cambio di dottore coincide con il cambio di produttore e sceneggiatore principale. Con questo ultimo (doppio) speciale esce di scena Russell T. Davies, rimpiazzato da Steven Moffat. Riuscirà la transizione? Visto che scrivo nel tardo 2013, quando anche l'undicesimo Dottore (Matt Smith) ha completato il suo periodo e il dodicesimo (Peter Capaldi) si sta preparando ad entrare in gioco, è facile dire di sì. Ma ai tempi deve esserci stato qualche tremor di vene dei polsi.

The end of time - La fine del tempo

Il Dottore, controvoglia (e possiamo immaginare come mai), torna sul pianeta degli Ood, che lo hanno (chissà come) chiamato. Gli rivelano che sta per capitare qualcosa di grosso, "qualcosa" sta tornando, il che causerà la fine del tempo. I poteri psichici degli Ood non sono tali da chiarire meglio il messaggio. Ma risulta evidente che il Master (John Simm), l'altro Time Lord che si era salvato dalla catastrofe della loro razza, sta preparando il suo ritorno.

Saltiamo sulla Terra e vediamo un confuso inserto in cui lady Saxon (la tipetta terrestre che sposò Master e alla fine gli sparò causandone la morte) viene coinvolta in una specie di rito sabbatico volto a riportare in vita il di lei marito. Avendolo già ucciso una volta, non ci pensa due volte e tenta il doppio colpo. Che però non riesce benissimo.

Il malamente risorto Master e il depresso Doctor si incontrano e scontrano cercando di regolare i loro conti, quando si inserisce un umano, che ha bisogno delle capacità mentali del pur menomato Master per attivare un misterioso aggeggio extraterrestre che ha scippato dai depositi di Torchwood (ente evidentemente soppresso).

Ognuno pensa di essere in controllo, ma non hanno fatto i conti con Lord President (Timothy Dalton), il capo di tutti i Time Lord (o almeno, di tutti gli altri, visto che Master e Doctor sono usi a far per conto loro) che, a sorpresa, con un avvitamento temporale che è poco definire galattico, crea un bizzarro paradosso che gli dovrebbe permettere di salvare Gallifrey (il suo pianeta nativo) dalla terribile guerra che per lui è ancora in corso.

Però (forse) anche per Lord President è in agguato una sorpresa.

L'uscita di scena del Dottore è, come era lecito aspettarsi, da strappare il cuore. E subito arriva l'undicesimo.

Doctor Who (dal 4 al 5) - Speciale prenatalizio

Siamo nel limbo tra la quarta e la quinta stagione del Doctor Who, versione secondo millennio. A quanto ho letto, questo episodio era stato originariamente pensato come speciale natalizio, ma la necessità di passare dal decimo dottore (David Tennant) all'undicesimo (Matt Smith) ha richiesto un profondo ripensamento della faccenda. Lo si è quindi riscritto facendolo diventare un prologo al drammatico finale in due parti che si sta preparando.

The Waters of Mars - L'acqua di Marte

Il buon Dottore, che ha rifiutato nell'episodio precedente una compagna per evitarle troppi problemi (ed evitarsi altri dolori), sbarca su Marte in un futuro non troppo lontano (2059, mezzo secolo dopo il presente di riferimento), dove si trova la prima base umana, diretta con pugno di ferro da Adelaide (Lindsay Duncan).

Scopriamo rapidamente che siamo in una situazione molto simile a quella di Pompei. Anche adesso il Dottore sa che c'è una catastrofe in arrivo, e sa che non può far nulla, perché è uno snodo fondamentale del flusso del tempo. Con la sua morte, Adelaide scatenerà eventi che non intendo spoilerare qui.

Il Dottore sa bene cosa dovrebbe fare, togliersi dai piedi e lasciare che gli eventi si compiano, ma per un motivo o per l'altro non ci riesce. Alla fine decide addirittura di intervenire e fregarsene delle leggi del tempo. Non è una cosa che un Time Lord possa fare a cuor leggero, e infatti il Dottore agisce come in preda ad un delirio di onnipotenza.

Ci penserà Adelaide a fargli capire che sbaglia.

Povero Dottore.

Doctor Who (dal 4 al 5) - Speciale di Pasqua

Dalle indizi che si colgono in questo speciale capiamo che la profezia degli Ood sta per colpire, e lo farà molto duramente. Ma c'è ancora tempo per qualche avventura con il decimo Dottore (David Tennant).

Planet of the Dead - Il pianeta dei morti

L'inizio fa pensare che abbiamo sbagliato DVD e stiamo guardando un clone di Entrapment interpretato da un clone di Catherine Zeta-Jones (Michelle Ryan). Entra però in scena il Dottore, svagato come spesso gli accade, e un intero double-decker, il tipico autobus a due piani londinese, attraversa un wormhole e finisce in un pianeta desertico dall'altra parte della galassia. Per ragioni produttive i passeggeri sono solo una mezza dozzina, e anche così non è che ci sia tempo per delineare i loro caratteri. Se la cava meno peggio una coppia in cui lei ha sempre avuto una certa veggenza (vince costantemente poche sterline alla settimana giocando al lotto), che viene misteriosamente magnificata dal cambio di pianeta.

A parte l'incontro con un paio di insettoni antropomorfi, la storia ricorda vagamente Pitch black, primo episodio della saga di Riddick, ma per fortuna è sviluppata con molta più grazia e autoironia.

Dottore e ladra, che risponde al nome di Lady Christina de Souza, sembrano avere le carte giuste per far coppia fissa. Ma il Dottore, provato dalla serie di catastrofi emozionali che lo hanno colpito negli ultimi episodi, e forse anche a causa del rovello che gli ha lasciato la profezia oodiana, sembra che preferisca starsene per conto suo.

Greta

Visto su suggerimento di collega che, essendo molto più giovane del sottoscritto, conosceva la protagonista, Hilary Duff, a me ignota per questioni anagrafiche. Infatti credo che la Duff debba la sua fama alla serie televisiva Lizzie McGuire, produzione Walt Disney trasmessa dal 2001, quando Hilary era una ragazzina non ancora quattordicenne. Il passaggio dalla serie al grande schermo è stato breve, via Lizzie McGuire - Da liceale a popstar, del 2003, che non ha entusiasmato la critica ma ha fatto felici gli azionisti della Disney.

Greta sembra un tentativo di mostrare come la Duff possa affrontare personaggi di maggior spessore. Da notare che si tratta di una produzione indipendente, a bassissimo costo (per gli standard americani, da noi sarebbe un medio budget), che deve essere riuscita ad arrivare in porto perché la Duff stessa ci ha creduto al punto da farsi coinvolgere nella produzione.

Nonostante i limiti di portafoglio, il cast comprende anche un non-sconosciuto, Michael Murphy (nonno), una passata premio Oscar (su sei nomination), Ellen Burstyn (nonna - la migliore interpretazione del lotto, come era lecito aspettarsi), e pure Melissa Leo (madre - poco più che un cameo) che si guadagnerà il suo Oscar nel 2011. Più debole la parte creativa, con la sceneggiatura affidata a Michael Gilvary e la regia a Nancy Bardawil. Per entrambi si tratta di un debutto.

Non sono sicuro se Greta sia il titolo italiano, visto che il film è sbarcato da noi direttamente in televisione, saltando il grande schermo e pure la distribuzione su DVD. Chi fosse interessato, lo trova però facilmente (magia del mercato unico europeo) e a prezzi risibilmente bassi nei soliti canali distributivi - anche se in lingua originale.

Per la serie mal comune mezzo gaudio, anche gli anglofoni hanno vita complicata nell'identificare il film, visto che la prima uscita l'ha fatta come Greta, ma poi il titolo è stato cambiato in According to Greta (come dire, La versione di Greta, o Secondo Greta) per poi essere distribuito in alcuni Paesi con ancora un altro titolo, Surviving summer (Sopravvivere all'estate).

La storia è per l'appunto quella di Greta (la Duff), una immatura sedicenne newyorkese che pensa di essere la persona più disgraziata al mondo, pur avendo nel contempo un'altissima stima di sé stessa. Qualche motivo di lagnarsi della sua esistenza ce l'ha, a dire il vero, mancandogli il padre ed essendo emotivamente molto distante dalla madre. Però, che diamine, il suo essere adolescente di famiglia benestante a New York dovrebbe farle mettere le cose in prospettiva.

L'azione inizia con lei in viaggio verso il New Jersey, da lei descritto come un incrocio tra la Siberia e l'inferno, in direzione dei nonni materni, mandata (non certo come premio) dalla madre che sta cercando di salvare il suo terzo matrimonio (scopriremo più avanti che la sua pestifera figlia, che vede il patrigno come rivale, tra l'altro ha dato fuoco alla sua ventiquattrore). Da notare che la destinazione è Ocean Grove, paesino molto tranquillo e ignoto ai più che però confina con la turbolenta Ashbury Park, che è invece nota in tutto il mondo grazie a Bruce Springsteen.

L'incontro/scontro tra Greta e la vita reale porterà, dopo alcune vicissitudini, ad una crescita del suo carattere. Interessante che il cambiamento non sarà solo suo, ma la sua inquietudine avrà l'effetto positivo di risolvere antiche ruggini all'interno dell'intera famiglia della protagonista.

I love Radio Rock

Nonostante le apparenze, il titolo italiano ha poco a che fare con l'originale, The boat that rocked, qualcosa come La nave che spaccava, ma in questo caso non si tratta di una bizzarria limitata alla nostra distribuzione, perché un po' tutti si sono accaniti contro questo titolo. I francesi sono stati i più estrosi stabilendo, con Good morning England, una spericolata relazione con Good morning, Vietnam di Barry Levinson. I tedeschi hanno puntato al sodo, identificando il tema principale della pellicola, la novità introdotta dal nuovo modo di fare radiofonia, con Radio Rock revolution. Anche gli Stati Uniti non hanno mantenuto l'originale, per ripiegare su un più piatto Pirate radio. Nel resto del mondo il titolo è stato tradotto nella lingua locale veicolando il concetto di una barca musicale (come in Spagna, Radio encubierta o in Polonia, Radio na fali) o seguendo la via maestra indicata dagli americani, come i finlandesi con Merirosvoradio.

Questo fiorire di diversi nomi mostra che l'idea di base del film ha colpito un po' tutti, e ognuno l'ha sviluppata a suo modo. Il che è normalmente indice di buon funzionamento della storia. Purtroppo Richard Curtis, che l'idea l'ha avuta, l'ha messa su carta e l'ha pure diretta, si è perso per strada, e il risultato è decisamente inferiore alla aspettative.

Siamo negli anni sessanta, al tempo in cui la swinging London dominava nel mondo. In particolare ci si concentra con il gran ribollire in campo musicale che determinò l'affermarsi della musica pop come la conosciamo noi oggi.

Ci viene detto che nel 1966 la BBC dedicava meno di tre quarti d'ora al giorno a questa nuova musica. Sembra strano oggi, ma bisogna ricordare che BBC Radio One nacque solo nel 1967, appunto come risposta alle radio pirata, e che John Peel, il DJ per antonomasia per chi abbia una certa età, prima di passare alla neonata Radio One aveva per l'appunto lavorato brevemente in una radio pirata.

Si parla dunque di una fantomatica radio pirata che trasmette da una nave ormeggiata poco fuori dalle acque territoriali inglesi. I riferimenti (decisamente rielaborati) sono alla mitica Radio Caroline, la più popolare tra le sue simili.

Il capitano è Quentin (Bill Nighy) che gestisce commercialmente la baracca, è il padrino di Carl (Tom Sturridge) ragazzetto in crisi esistenziale, spedito dalla madre sulla nave dopo essere stato espulso da scuola. I problemi di Carl pare abbiano origine dal fatto che non sappia chi sia suo padre, e non ci vuole un genio per capire perché sia stato mandato proprio lì.

Il DJ più famoso a bordo è un americano che si fa chiamare il Conte (Philip Seymour Hoffman), almeno fino a quando arriva a bordo Gavin Kavanagh (Rhys Ifans) con conseguenti schermaglie tra i due. Tra gli altri DJ notiamo lo spaccone Doctor Dave (Nick Frost) e il timido Simple (Chris O'Dowd). Seguono svariate complicazioni, spesso di natura sessuale (in linea con il periodo, posto in una fortunata area di relativa pace sociale, in cui le malattie veneree erano meno problematiche che in passato, e l'AIDS era uno spettro ancora lontano nel futuro), esacerbate dalla decisione del governo inglese, rappresentato da un cattivissimo Kenneth Branagh e dal suo scagnozzo Jack Davenport, di mettere una fine all'esperienza di Radio rock.

Prima che possa giungere la catastrofe finale, arriva a bordo brevemente pure la madre di Carl, nientemeno che Emma Thompson, così che si risolva il mistero della paternità segreta.

Credo sia il primo film ad avere di nuovo assieme la Thompson e Branagh, ultima apparizione comune in Molto rumore per nulla del 1993. Entrambi hanno partecipato alla saga di Harry Potter, che è una specie di catalogo degli attori inglesi contemporanei, ma lui appare solo ne La camera dei segreti, mentre lei è ne Il prigioniero di Azkaban, L'ordine della Fenice, I doni della morte / 2. Ma anche in questo film quella che è stata la coppia più bella del cinema inglese non ha modo di scambiare nemmeno una battuta.

Soul kitchen

Direi che sia comprensibile sia l'entusiasmo di alcuni (vedi ad esempio i premi raccolti a Venezia) sia le perplessità di altri (tra cui La Tosca) per questo film scritto e diretto da Fatih Akin.

Nonostante il budget limitato, il risultato è tecnicamente ineccepibile (la macchina da presa è sempre al posto giusto, bella fotografia, simpatica colonna sonora, molto soul, ovviamente), la storia è piacevole, la recitazione di buon livello.

Lascia forse un po' a desiderare la sceneggiatura, che finisce per trascurare gran parte degli innumerevoli filoni presentati, e mescolando in modo a tratti non troppo convincente ingredienti fin troppo diversi tra loro.

Si narrano le comiche disavventure di un greco-tedesco (Adam Bousdoukos) che gestisce un ristorante di infima categoria ad Amburgo. Ci ha messo una gran passione per avviarlo, poi qualcosa deve essere andato storto, e ha finito per rassegnarsi ad una mesta sopravvivenza, offrendo pasti disillusi a clienti altrettanto desolati.

Il film inizia quando tutti i nodi vengono al pettine. La fidanzata se ne vola in Cina per seguire il suo sogno di carriera; il fratello galeotto (Moritz Bleibtreu) lo tampina; l'ufficio delle tasse gli pignora lo stereo, per stimolarlo a pagare gli arretrati; un vecchio amico (Wotan Wilke Möhring) è così interessato al suo posto (media l'interesse di un perfido speculatore, interpretato niente meno che da Udo Kier) da creargli una serie di problemi aggiuntivi. A completare il drammatico quadro, arriva pure un perfido mal di schiena che sembra essere la mazzata finale, rendendogli difficile quasi ogni movimento.

Come spesso accade (almeno al cinema), quella che sembra essere la stoccata conclusiva risulta essere il giro di volta. Costretto dagli eventi, finisce per contattare un burbero chef (Birol Ünel) che, se pur a modo suo, finisce per riportare il locale nella direzione "soul" iniziale che era andata chissacome persa. L'impossibilità di vedere un medico (non avendo una copertura sanitaria degna del nome) lo porta a frequentare una bella fisioterapista. La necessità di delegare, lo porterà a doversi fidare del fratello con amicizie pericolose.

Non che tutto fili liscio come l'olio, anzi, ma la necessità di un cambiamento finisce per avere un impatto positivo sulla vicenda.

Avrei preferito una minor complicazione della storia, e un maggior approfondimento dei personaggi minori, tutti disegnati con gusto, ma senza dare quasi a nessuno il tempo sufficiente per raccontare almeno una parte della loro storia.