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La scatola di cartone

Nonostante sia quasi Natale, Sherlock Holmes (Jeremy Brett) non ha nessuna intenzione di venire a patti col suo caratteraccio. Da un lato combatte con Mrs Hudson (Rosalie Williams) la battaglia, persa in partenza, contro gli addobbi di stagione, dall'altra caccia in malo modo una possibile cliente, Susan Cushing (Joanna David), colpevole di avergli presentato un caso poco interessante.

Sia il Natale che la Cushing si prendono la loro rivincita. Il primo spingendolo a comprare un regalo (orribile) per il dottor Watson (Edward Hardwicke) e a partecipare al veglione natalizio di Scotland Yard, su invito dell'ispettore Hawkins, la seconda vedendosi comparire in casa il consulting detective, sempre via Hawkins.

Ci sono ben tre sorelle Cushing. Susan è la più attempata e, dopo la morte dei genitori, ha fatto da capofamiglia al terzetto. Piuttosto rigida di carattere, non riesce a mediare con i diversi caratteri delle altre due. Sarah (Deborah Findlay) ha anche lei un carattere deciso, che la porta necessariamente in rotta di collisione con Susan. Spirito indipendente, pare sia l'unica delle tre a lavorare, ha una spiccata tendenza a mettersi nei pasticci per questioni di cuore. Mary è la più giovane, ed è il vaso di coccio del lotto. Sfuggita fisicamente alla famiglia via matrimonio con Jim Browner (Ciarán Hinds), non riesce a sottrarsi ai giochi di potere delle sorelle.

Susan si è rivolta a Holmes perché non riesce a contattare Mary, e alla polizia perché ha ricevuto per Natale un pacchetto, la scatola del titolo, contenente due orecchie mozzate. Lei crede si tratti di uno scherzo scemo dell'inquilino che ha sbattuto fuori di casa in quanto scandalosamente troppo affettuoso con Sarah. Hawkins sembra d'accordo, ma c'è di mezzo un caso di cadaveri trafugati, nel quale ha già coinvolto Holmes, e pensa bene di continuare la collaborazione in questo possibile sviluppo.

Il racconto di Conan Doyle è stato cambiato in alcuni dettagli, i fatti erano avvenuti in piena estate, ad esempio, ma sostanzialmente si segue la linea originale. Brett è estremamente provato, ma riesce a dare ancora una buona interpretazione in questo ultimo episodio della serie, alternando toni comici e tragici. Memorabile il breve monologo finale, in cui Holmes si dichiara sconcertato dalla pochezza dell'animo umano. Nel cast al contorno, come al solito di ottimo livello, una menzione di merito va a Hinds che riesce a dare uno spessore al suo personaggio nonostante il poco tempo a disposizione.

La pietra di Mazarino

Ecco, questo deve essere il peggiore episodio delle avventure di Sherlock Holmes tra tutti quelli prodotti dalla Granada. A parziale discolpa della produzione bisogna tener conto che il crollo psico-fisico di Jeremy Brett ha causato un repentino aggiustamento della sceneggiatura, e abbiamo così che Mycroft Holmes (Charles Gray) si vede costretto ad abbandonare la sua comoda poltrona al Diogenes Club per seguire una delicata indagine che sarebbe toccata al fratellino, se questi non avesse abbandonato Londra in cerca della tranquillità sulle Highlands.

Però il problema è molto più profondo, ha le sue radici nel racconto di Conan Doyle, debole e poco originale, conversione di uno dei rari tentativi (non riusciti) di Conan Doyle di portare il suo personaggio più noto sulla scena teatrale. Per dargli maggior sostanza si è scelto di fondere nella sceneggiatura un altro racconto, L’avventura dei tre Garrideb, che però non è nemmeno lui un granché, evidente rielucubrazione sul tema che era già stato meglio sviluppato ne La lega dei capelli rossi.

Ci sono parti simpatiche, come la bizzarra famiglia Garrideb che rischia di far diventar matto il dottor Watson (Edward Hardwicke), ma ne sconsiglierei la visione a chi non abbia già avuto modo di vedere qualche altra decina dei precedenti episodi.

Il perfido conte Sylvius (Jon Finch) ruba una pietra preziosissima che era stata promessa alla Francia, legittima proprietaria. Una crisi diplomatica è dietro l'angolo, e Sherlock dov'è? Irraggiungibile in vacanza. Mycroft ha un per niente caratteristico sprazzo di attività e in breve identifica il malfattore. La pietra però, dove sia nessun lo sa. Inoltre Sylvius, sententosi il fiato sul collo, tenta di scatenare una trama alternativa che dovrebbe distogliere l'attenzione del sostituto detective. Succede così che un americano, tal James Winter (Gavan O'Herlihy) si spacci per John Garrideb e convinca Nathan Garrideb (Richard Caldicot) che se riescono a trovare un terzo Garrideb (*) potranno dividere tra loro una fantastica eredità di un ricco Garrideb d'oltreoceano. Storia evidentemente farlocca, ma si sa che la speranza gioca strani scherzi.

(*) Rigorosamente maschio, e quindi le sue due sorelle non fanno testo.

Il cerchio rosso

Il racconto originale, tratto dalla raccolta L'ultimo saluto (*), non è tra i più brillanti della produzione di Conan Doyle. In questa versione della Granada si è perciò pensato di aggiungere un personaggio, tal Firmani (Joseph Long), che sarebbe in buoni rapporti con Sherlock Holmes (Jeremy Brett). Però Jeremy Paul (sceneggiatore) di questo Firmani non ha proprio idea di cosa farsene, e dunque lo fa rapidamente morire. La storia rimane perciò fiacca, e in più c'è questa figura che non si capisce che senso abbia.

Holmes fa pochissimo, in pratica segue lo svolgimento dell'azione. Watson causa involontariamente un disastro, attirando l'attenzione delle forze del male su Firmani, anche se non è che la correlazione mi sia sembrata chiarissima. A svolgere le indagini sono l'ispettore Hawkins (Tom Chadbon) di Scotland Yard e un poliziotto americano (Kerry Shale) giunto sulle tracce del pericolosissimo Gorgiano (John Hallam), che finiscono per lasciare poco spazio ai nostri.

La storia ruota tutta attorno ad una coppia di piccioncini italiani, Emilia (Sophia Diaz) e Gennaro (James Coombes), che hanno lasciato l'Italia in quanto in patria il loro sogno d'amore era contrastato dal padre di lei. Giunti a New York, Gennaro è stato contattato da Gorgiano, un brutto soggetto appartenente ad una società segreta definita come "carbonara", nonostante che i carbonai fossero estinti da svariati decenni, che ha, come da titolo, il nome di Cerchio rosso. Ma il racconto non segue un crinale complottesco-delinquenziale, succede bensì che Gorgiano si innamori della bella Emilia, e tenti di eliminare il concorrente con tutti i mezzi a sua disposizione.

I due fuggono a Londra, non volendo dare nell'occhio montano una complicata messinscena che li rende visibilissimi, con tutto quello che ne consegue.

(*) His last bow, nonostante il titolo non è l'ultima collezione dei racconti di Sherlock Holmes.

I pince-nez dorati

Terzo episodio dell'annata, che pare però sia stato il primo ad essere prodotto. Questo spiega la miglior forma fisica di Jeremy Brett, che ebbe un tracollo in quello che è stato trasmesso come prima puntata. Il motivo del rimescolamento non è solo la tendenza della produzione Granada a rimescolare le acque (*) ma anche un modo per dissimulare l'assenza di Edward Hardwicke, giunto in ritardo sul set in quanto occupato a farsi dirigere da Richard Attenborough in Viaggio in Inghilterra.

La mancanza del dottor Watson è una delle variazioni principali operate dalla sceneggiatura sulla trama originale. L'altra direi che sia la morte del "cattivo", che nella versione doyliana la feceva franca. A sostituire il dottore, che Mrs Hudson (Rosalie Williams) ci dice sia trattenuto dal suo lavoro, abbiamo Mycroft Holmes (Charles Gray) che si trova dal fratellino per discutere di storia medioevale quando irrompe l'ispettore Hopkins (Nigel Planer) per chiedere l'aiuto di Sherlock su un omicidio che gli pare privo di movente.

Scopriamo rapidamente che il pur volenteroso Hopkins ha trascurato una marea di dettagli, e i due Holmes riusciranno rapidamente a chiarire meglio la personalità del deceduto, non del tutto priva di lati oscuri, e soprattutto quella del suo datore di lavoro, tal professor Coram (Frank Finlay), che nasconde un passato poco onorevole.

Ad esempio, nel canone firmato da Conan Doyle, questo racconto breve è inserito nella raccolta Il ritorno di Sherlock Holmes. Granada invece ha chiamato questo blocco Le memorie di S.H., che in originale è precedente di un decennio al titolo in questione e raccoglie i racconti che terminano con il confronto con Moriarty.

Il detective morente

Molto meglio riuscito del precedente episodio, anche se il trucco su Jeremy Brett fa accapponare la pelle. La storia è piuttosto aderente all'originale, con piccoli cambiamenti che sembrano avere lo scopo di vedere se siamo stati attenti.

Un tal Victor Savage (Hugh Bonneville), nonostante la vita fortunata che include una bella villa, una rendita interessante, una moglie innamorata (Susannah Harker) e due bei bambini, sente che qualcosa gli manca. Vorrebbe essere un poeta ma proprio non ha l'ispirazione. Suo cugino, Culverton Smith (*), lo spinge ad una serie di comportamenti rischiosi che dovrebbero aiutarlo a trovare una vena, mentre in realtà sono un pretesto per portarlo ad una rapida fine.

La signora Savage subdora l'inghippo e cerca aiuto in Holmes ma, ohimè, è troppo tardi. Il diabolico piano del dottor Smith è già nella sua fase finale. Il dottor Watson (Edward Hardwicke), che è come sempre molto sensibile al fascino femminile, vorrebbe comunque aiutare la tapina, nonostante Holmes rimarchi che Smith è certamente colpevole, ma ha congegnato le cose in modo che nessuna giuria possa mai condannarlo. Però, sentendosi ancora in colpa per le botte che il suo amico ha preso nella puntata precedente, Holmes accompagna Watson ad un incontro tra Smith e la vedova Savage. E qui l'incredibile accade. Holmes si impietosisce alla sorte dei Savage e gioca una rischiosa carta, attirandosi l'ira del perfido Smith.

La scena finale, con la piccola Savage che, molto titubante, si avvicina al burbero Holmes per ringraziarlo, gli dà la manina, ottiene in cambio uno di quei folli e brevissimi sorrisetti che sono uno tra i tratti distintivi dello Sherlock secondo Brett, e tra il perplesso e il felice lo ricambia, basta da sola a giustificare la visione di questa puntata.

(*) Jonathan Hyde, che riesce benissimo nel ruolo di carogna, al punto che la sceneggiatura è stata adattata per permettegli di recitare in questa parte. Nell'originale il cattivo era lo zio.

I tre frontoni

Ultima blocco della lunga serie Granada dedicata alle avventure di Sherlock Holmes, a cui è stato dato il titolo di Le Memorie di S.H., continuando la pratica di mescolare le carte rispetto agli originali di Conan Doyle. Una sola stagione di soli sei episodi, quando c'era da scegliere ancora tra una ventina di storie originali. In particolare è restato fuori dalla serie Uno studio in rosso, primo racconto in cui si è creata la coppia Holmes-Watson. Purtroppo la ragione è da ricercarsi nella salute di Jeremy Brett, che già era declinante nelle ultime annate ma che in questa ultima serie è da spavento. Nonostante questo, grazie anche alle sceneggiature che vengono adattate per ridurre il carico di lavoro del protagonista, il risultato è accettabile e, in certi casi, ammirevole. Anche se resta il dolore nel vedere Brett così evidentemente affaticato.

L'avventura trattata in questa puntata, che da noi è nota anche col nome originale, che poi è il nome della villa al centro dell'intrigo, Three Gables, sarebbe centrato sulla bizzarra richiesta di un ignoto che vorrebbe comprare la proprietà, incluso tutto quello che contiene. La proprietaria, che in questa versione è una gentil vecchietta (*), immagina che ci sia qualcosa di losco e chiede lumi a Sherlock Holmes. Costui, che nel frattempo era stato minacciato da un pugile uso ad arrotondare eseguendo pestaggi per conto terzi (Steve Toussaint), affinché non si impegnasse in casi che lo portassero in quella zona, non può che darle ragione.

Un minimo di indagine gli basta per capire che la richiesta è legata alla morte del nipote della sua cliente (**), che in effetti, prima di morire, stava scrivendo un romanzo scandalistico, teoricamente di fantasia ma che chi era al corrente della vita londinese avrebbe fatto ben poca fatica a ricondurre a personaggi reali.

Causa i sopradescritti problemi, si è deciso di aumentare a dismisura il tempo dedicato all'antefatto, e dunque prima dell'inizio dell'indagine noi già sappiamo che il cattivo di turno è una donna, e che donna, una avventuriera che si fa chiamare Isadora Klein ed è interpretata da Claudine Auger, già Bond girl in Thunderball. Il che rovina un po' l'equilibrio del racconto.

Il povero Watson (Edward Hardwicke) viene picchiato di santa ragione, però in compenso la figlia (dell'attore, non del personaggio, Emma Hardwicke) ha modo di apparire in un ruolo minore.

(*) Mary Ellis, ultranovantenne. Dopo quest'ultima fatica si è ritirata dalle scene, per spegnersi solo dopo un decennio.
(**) In originale era il figlio. Probabilmente la produzione ci teneva a dare il ruolo alla Ellis, e così si è adattata la sceneggiatura alla attrice.

Intervista col vampiro

Nonostante il buon successo di pubblico, ai Razzie Award non passò inosservata la chimica molto scarsa tra i due protagonisti, che vennero premiati come peggior coppia sulla schermo dell'anno. Anni dopo Brad Pitt ammetterà che aveva subito il ruolo subordinato nei confronti di Tom Cruise che, pur avendo meno spazio, era la star del film. Cercò anche di uscire dal progetto, ma un blindatissimo contratto lo costrinse ad arrivare fino in fondo.

Credo però che il difetto principale stia nella sceneggiatura che Anne Rice ha tratto dal suo stesso romanzo con lo stesso titolo. Ad una prima parte dal passo molto lento, segue infatti una seconda parte in cui accade fin troppo, in cui vengono rapidamente introdotti e fatti sparire personaggi senza lasciar loro il modo di superare lo stato di semplice bozzetto.

Per quasi tutto il tempo sembra che si racconti la storia di Louis de Pointe du Lac (Brad Pitt) possidente creolo basato dalle parti di New Orleans, a partire da quando, sul finire del settecento, l'incontro con Lestat de Lioncourt (Tom Cruise) lo ha trasformato in un vampiro. Il tutto viene narrato in un lungo flashback da Luis al giornalista Daniel Malloy (Christian Slater), in una sorta di confessione/intervista. Solo alla fine scopriremo che il vero protagonista è Lestat, un imprevisto colpo di scena che però non mi sembri che cambi nulla nei confronti di quello che ci è stato detto.

Come da tradizione, il vampirismo serve da metafora per la relazione sessuale, sembrerebbe dunque che Louis e Lestat formino una coppia gay molto aperta, con Lestat estremamente promiscuo e Louis più bloccato. La cosa però viene notevolmente ingarbugliata con l'entrata in scena di Claudia (Kirsten Dunst), una bambina che viene anch'essa vampirizzata. Inizialmente pare che sia un artificio di Lestat per evitare la rottura della relazione con Louis, un po' come in certe coppie si pensa di fare un figlio per superare una crisi, però il legame tra Louis e Claudia si rafforza al punto da prendere una piega da disturbo mentale conclamato. Anche perché i vampiri della Rice hanno la curiosa particolarità di restare bloccati col loro sembiante al momento della "nascita". Succede così che Claudia, col passare dei decenni, resti bambina ma maturi una consapevolezza più adulta. Che del resto è resa spaventosamente bene dalla Dunst che, pur essendo ai tempi ancora una bambina, aveva già una certa carriera alle spalle e una maturità attoriale già notevole.

A semplificare (?) le cose ci avrebbe pensato l'incontro con Armand, vampiro che sembrerebbe francese ma è intrepretato dallo spagnolissimo Antonio Banderas, che si prende una cotta per Louis e cerca di rompere il malsano legame a suo vantaggio. Se avesse avuto pazienza, avrebbe potuto lasciare fare a Claudia che, in modo ancor più malato, decide di vampirizzare tal Madeleine (Domiziana Giordano, anche lei spacciata per francese) per lasciar libero Louis e trovarsi invece una madre adottiva (che però, proseguendo la metafora di base, è anche sua amante).

Ma, si sa, la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Qui invece è Armand che ha fretta, e fa sì che invece di guadagnarsi il bel Louis, resti con un pugno di mosche. Louis sceglierà una (non-)vita di solitudine, tornerà alla sua New Orleans e lì spenderà tristemente i suoi giorni, con l'unico diletto del cinema.

Tutto sommato mi è parso un pasticcio prodotto con lo scopo di scandalizzare, ma con moderazione. La cosa migliore mi è parsa la ricostruzione delle diverse epoche, affidata ai nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Ah, c'è anche una piccolo spazio per Thandie Newton, che interpreta Yvette, servetta fedele di Louis, finché le è possibile.

Il corvo - The crow

La morte sul set del protagonista, Brandon Lee, ha finito per oscurare ogni altro particolare relativo al film. Ed è un peccato, perché la colonna sonora ha un suo interesse, intessuta com'è di brani riconducibili al filone della musica post punk tendenzialmente in direzione gothic. Anche se il periodo d'oro del genere è negli anni ottanta, e le sonorità delle canzoni proposte, tutta roba contemporanea al film, mostrano una fase di ripensamento e superamento verso nuove direzioni. A mio gusto il brano più significativo è Burn dei Cure (subito all'inizio), scritto espressamente per l'occasione. Curiosa la rilettura da parte dei Nine inch nails in chiave industrial di Dead souls dei Joy division.

La sceneggiatura è tratta dal lavoro di James O'Barr, che ha per l'appunto creato il personaggio de Il corvo che agisce nell'omonima graphic novel. Il regista (Alex Proyas) ha deciso di mantenere un atmosfera da fumetto, non curandosi dell'inverosimiglianza della storia, della monodimensionalità dei personaggi, o di un basso tasso di espressività degli attori. Tecnicamente, ha puntato su inquadrature sghembe e un montaggio che fa pensare ai brutali tagli di scena in corrispondenza della fine di una tavola.

La storia è una specie di incubo vendicativo nei confronti della delinquenza comune tipica delle grandi città americane. Una coppia di fidanzatini viene uccisa il giorno prima del loro matrimonio, che era previsto per Halloween. Un anno dopo lui (Lee) torna in vita, e per di più con un corpo indistruttibile, con lo scopo di uccidere i quattro che gli hanno fatto questo brutto scherzo. Si trucca un po' come il Joker di Batman, di cui ricorda a tratti anche il comportamento da psicolabile, e si mette in azione. La quale perde interesse come scopriamo che nemmeno le pallottole gli fanno un baffo. Fortuna che verso la fine i pochi cattivi superstiti intuiscono il suo punto debole e almeno abbiamo uno scontro con qualche chance anche per loro.

Priscilla - La regina del deserto

I costumi hanno fatto strage di premi (Oscar e BAFTA, tra gli altri), il resto del film meno. In effetti sceneggiatura e regia (entrambi di Stephan Elliott) hanno una serie di alti e bassi da fare invidia alle montagne russe. Ho riso parecchio, e certe scene (come quella dove Guy Pearce drag queen esegue in playback un'aria dalla Traviata di Giuseppe Verdi in piedi sul tetto dell'autobus nel deserto australiano) sono a dir poco memorabili. Peccato che la discontinuità dell'azione, e anche un certo non saper dove andar a parare, rovinino il risultato finale.

La storia è quella di un travestito (Hugo Weaving, ben prima di diventare l'agente Smith in Matrix o Elrond ne Il signore degli anelli) che viene contattato dalla moglie, che aveva mollato anni prima per abbracciare appieno la sua carriera (e le sue confuse attrazioni sessuali) ma da cui non ha divorziato, affinché faccia uno spettacolo nel suo locale ad Alice Springs, nel mezzo dell'Australia. Visto che le cose a Sydney non gli vanno bene, non sottilizza sull'improbabilità che un suo spettacolo abbia una qualche possibilità di successo in tale ambiente, e si dà invece da fare per mettere su una compagnia, che include un anziano transessuale (Terence Stamp, meritatamente BAFTA come miglior attore) e una checca autodistruttiva (Pearce ad inizio carriera, L.A. confidential è di tre anni dopo).

Il terzetto si mette in viaggio su di un fatiscente scuolabus, battezzato Priscilla, verso l'interno, affrontando situazioni che fanno pensare ad un assurdo remake di Easy rider, anche se il lato tragico viene molto ridotto (e sarebbe stato meglio eliminarlo del tutto, che non sembra nelle corde di Elliott) e quello paradossale amplificato.

La colonna sonora è centrata su un repertorio trash pop che include roba come Go west dei Village people e I will survive di Gloria Gaynor. Gli Abba, esclusi tassativamente per tutto il viaggo, in quanto amati alla follia da Felicia (Pearce) ma odiati da Bernadette (Stamp), finiscono per riemergere trionfalmente nel finale con una (esplosiva) versione di Mamma mia.

Stargate

La parte simpatica del film è che riesce riportare in gioco l'immaginario egiziano (nel senso di faraoni e piramidi) adattandolo alla fantascienza delle civiltà sparse nell'universo (dalle parti Star Trek / Star Wars) ma senza la seccatura dei viaggi spaziali via astronave, risolvendo il problema delle distanze siderali per mezzo di un inesplicabile portale approssimativamente basato sull'idea del wormhole. Che sarebbe poi più o meno il mezzo usato dagli alieni in 2001 di Kubrick e in Contact.

Bravi dunque Dean Devlin e Roland Emmerich ad inventarsi un divertente universo parallelo, meno bravi a tirarci fuori una sceneggiatura credibile. Anzi, per dirla tutta, il risultato mi è parso molto scarso.

Forse l'interesse per l'antico egitto scatenato da questo film ha fatto sì che arrivasse l'OK alla produzione per La mummia. Ma non sono sicuro se si debba annoverare questa circostanza tra i lati positivi o negativi di Stargate. Come curiosità noterei che Erick Avari fa da collegamento esplicito tra i due titoli, essendo qui il capo della comunità egiziana in trasferta.

Cast ben poco memorabile. I protagonisti sono Kurt Russell nei panni di un colonnello depresso con tendenze suicide, richiamato all'attività per questa missione, e James Spader, un egittologo a cui nessuno dà retta, al punto che pare non avere un seguito nemmeno tra cacciatori di misteri improbabili, e che dunque viene reclutato dal governo americano per risolvere il mistero sul funzionamento di un oscuro macchinario, risalente a svariate migliaia di anni prima e in loro possesso da quasi un secolo.

Don Juan De Marco

Al titolo originale, Don Juan DeMarco, i distributori italiani hanno aggiunto "maestro d'amore" di cui si sarebbe potuto volentieri fare a meno.

Scritto e diretto da Jeremy Leven, più portato alla scrittura che alla regia (fra l'altro sta per uscire la sua opera seconda come regista - Girl on a bycicle - dove il protagonista dovrebbe essere Vincenzo Amato, spero che nel frattempo abbia migliorato le sue capacità nel campo) si avvale di un cast da favola: Johnny Depp, Marlon Brando, Faye Dunaway e persino Jo Champa (vabbè, scherzo, una particina da sultana per lei).

La storia non è male, ambientazione contemporanea, Depp si crede Don Giovanni e inscena un tentato suicidio per attirare attenzione sul suo caso, Brando è lo strizza sull'orlo del pensionamento che lo convince a scendere dal cornicione, e lo prende in cura. La Dunaway è la moglie (piuttosto trascurata) di Brando. Il film alterna la realtà alla fantasia di Depp - che parla con uno spiccato accento spagnolo. Una regia migliore avrebbe reso un miglior servizio al film. E se ne avessi avuto modo, avrei pure suggerito di cambiare la colonna sonora.

Legame assolutamente casuale con Out of sight, che ho visto ieri: lì protagonista JLo, qui particina per Selena. Nel 1997 JLo intepreta Selena nel film omonimo.

Léon

Variazione sul tema del gigante e la bambina. Probabilmente Léon è il film più amato di Luc Besson (sceneggiatura e regia), francese considerato quasi americano per la sua impostazione culturale e per il senso del ritmo che mette nei suoi lavori.

Non è un caso che l'azione si svolga a New York, dove Léon (Jean Reno probabilmente al suo meglio) ha un appartamentino nell'Upper West Side a due passi da Central Park, in un caseggiato piuttosto malfamato. D'altronde si tratta di un analfabeta, forse con qualche problema mentale, che di mestiere fa il killer per la cosa nostra newyorkese e non sta a badare a questi particolari. Fatto è che il suo vicino di casa prova a fregare Stansfield, un capetto della DIA (un notevole Gary Oldman) che, avendosene a male, lo ammazza con tutta la famiglia, esclusa la dodicenne Mathilda (Natalie Portman, all'inizio della sua carriera) che si rifugia da un perplesso Léon.

Da questo punto si dipana la storia che viene governata da diverse tensioni:

Léon comincia a rendersi conto che la sua vita non ha senso.
Mathilda vuole vendicarsi uccidendo Stansfield.
Stansfield vuole eliminare Mathilda, testimone scomoda, e poi Léon, quando questi gli ammazza un uomo e libera Mathilda.
Mathilda si innamora di Léon, alla fine ricambiata da questi.

Nel finale c'è uno scioglimento finale che porta Mathilda a tornare alla normalità, la scuola che aveva abbandonato all'inizio del film. E, in un certo senso, anche le due altre anime inquiete, Léon e Stanfield, troveranno pace.

Buona colonna sonora, che usa anche un pezzo di Bjork e, sui titoli di coda, Sting.