La regola del sospetto

Placidamente ignorabile. Se non fosse basato su una sceneggiatura con molti punti deboli, potrebbe essere considerato un prodotto medio. Regia accettabile del discontinuo Roger Donaldson, cast basato su due stelle, Al Pacino e Colin Farrell, e una stellina, Bridget Moynahan.

Pacino recluta Farrell nella CIA, da cui il titolo originale The recruit, e tra i due si instaura una simil-relazione padre-figlio. Durante la selezione Farrell e la Moynahan si invaghiscono, ma preferiscono anteporre il lavoro alla passione. E dato che il lavoro è quello della spia, mestiere in cui non ci si deve fidare di nessuno, e si deve essere disposti a tradire chiunque, non è che i due piccioncini abbiano grandi possibilità di convolare. A dire il vero a un certo punto convoleranno pure, ma con gran bagaglio di sospetti, retropensieri, dubbi vari che non deve aver reso la faccenda molto piacevole.

Il tutto ruota su un complesso giro di possibili tradimenti, e non si capisce bene, fino allo spiegone finale, chi tradisca chi, e perché.

La parte più ridicolmente interessante è quella informatica, del tutto implausibile e assurda, al punto da risultare amaramente comica.

Porco rosso

Evidentemente i lungometraggi di Hayao Miyazaki, anche se vecchiotti, funzionano bene anche al cinema. Infatti la distribuzione di Il castello nel cielo di questi giorni è stata preceduta nel 2010 da quella di Porco rosso, recuperato alle nostre sale con un ritardo quasi ventennale.

Anche ad un neofita come il sottoscritto, saltano subito all'occhio i molti i tratti in comune tra i due titoli, che li identificano chiaramente come prodotti di un autore con una sua voce molto specifica. Gli agganci alla realtà sono stravolti da una fervida fantasia che ci porta in un mondo dove l'impossibile viene accettato dai personaggi come fosse fatto quotidiano.

Se Il castello nel cielo era ambientato in un tardo ottocento piuttosto inglese, trasfigurato da influenze tra il fantasy e la fantascienza, in Porco rosso il setting è in Italia nei primi anni venti del secolo scorso nel mondo dell'aviazione, che a quei tempi era ancora in bilico tra il pionierismo iniziale e l'industrializzazione ormai prossima. Molti particolari fanno pensare ad un grande amore dell'autore per l'Italia e l'aviazione, anche se il tutto viene stravolto rimescolare storia, geografia, influenze esterne e qualunque cosa possa essere funzionale alla narrazione.

Il protagonista è un asso della prima guerra mondiale misteriosamente trasformatosi in maiale antropomorfo e che ora campa difendendo le navi da crociera dall'assalto di feroci pirati che infestano l'alto Adriatico. Sia lui che i pirati volano su bellissimi idrovolanti (più o meno) d'epoca e, anche se si odiano cordialmente, a fine giornata di incontrano tutti quanti al bar che colonizza un'isoletta, gestito da una affascinante Gina, che canta in francese.

Siamo dunque anche qui in un mondo parallelo, che ha solo una certa somiglianza con quello reale di riferimento. In questo caso direi che le distorsioni arrivano principalmente da influssi hard-boiled, con il suino protagonista che mi pare un classico personaggio alla Raymond Chandler, ci starebbe bene una sua interpretazione da parte di Bogart, solitario, con un mistero nel passato, cinico ma dal buon cuore. I pirati sono molto simili a quelli de Il castello nel cielo, teoricamente cattivi, ma dopo tutto neanche tanto, molto buffi. Anche qui sono le donne ad avere capacità decisionale, gli uomini in genere sono tendenzialmente dei bambinoni poco affidabili.

Molti i dettagli curiosi. In primo luogo il vero nome di Porco rosso (detto così per via delle sembianze, e per il colore del suo idrovolante, probabile accenno al triplano del più noto barone) è Marco Pagot, che sarebbe poi il nome del figlio di Nino Pagot, che col fratello ha creato, tra l'altro, Calimero. Si cita dunque la gloriosa scuola dell'animazione italiana, ridotta ormai ad un fuoco che cova sotto la cenere.

Si citano alcuni veri assi dell'aria italiani, in particolare Arturo Ferrarin viene presentato come amico di Pagot, e lo salva un paio di volte da situazioni pericolose. Ferrarin ha fatto veramente la prima guerra mondiale (anche se non risulta una sua amicizia con un aviatore poi trasformatosi in maiale), una delle sue imprese più ardite è stato il volo Roma-Tokio (guarda caso). Lo sviluppo dell'aviazione italiana di quegli anni è legato anche al suo contributo, che ha riguardato anche indicazioni ai progettisti di idrovolanti, come nel caso della macchina su cui lo vediamo nel film, no stupendo Macchi M.39, velivolo all'avanguardia ai suoi tempi (che sono successivi a quelli narrati, è del 1926) e che ha influenzato la progettazione aeronautica per un paio di decenni.

Storicamente, sappiamo di essere nel 1922 in quanto si accenna al cambiamento di regime in Italia, e nella seconda parte del film Pagot è pedinato da agenti della polizia segreta fascista. In realtà una vera e propria polizia segreta fascista sarà attiva solo dopo alcuni anni dalla marcia su Roma, anche questo, dunque, potrebbe essere considerato un anacronismo.

Si parla anche della Coppa Schneider, che era una sorta di Coppa America per idrovolanti, vinta ad esempio dal suddetto M.39, e si accenna al fatto che gli americani l'abbiano vinta in passato. Questo è successo nel 1923, su di un Curtiss che poi è il nome dell'antagonista americano di Pagot.

L'idrovolante di Pagot non mi pare sia un modello reale, anche se assomiglia a prodotti d'epoca della SIAI e della Macchi. Fatto è che, a seguito dello scontro con il rivale Curtiss, ingaggiato dai pirati, Porco Rosso lo porta ad aggiustare e migliorare in un cantiere milanese, e qui gli viene proposto di cambiare motore per metterci un "Ghibli". Beh, Ghibli è il nome dello studio di Miyazaki, e uno potrebbe pensare che si tratti di una citazione della produzione, mentre in realtà si cita un altro aereo italiano, un Caproni del decennio successivo, che appunto era noto con quel nome. Se ho capito bene, la passione di Miyazaki per l'aviazione italiana è addirittura precedente alla fondazione dello studio di produzione.

Ma tutti questi sono dettagli, relativamente poco interessanti. Il vero cuore della storia sta nella vicenda del protagonista, che pensa di espiare una colpa che a ben vedere non ha, della sua complicata relazione con le donne, e con gli umani in generale - lui sente addirittura di non fare più parte del nostro genere, di essere qualcosa di estraneo all'umanità. Solo in due momenti verrà intravisto come umano, da Fio, la giovane progettista che gli rimette a nuovo l'aereo, quando le parla di come è diventato un maiale, e da Curtiss, suo arci-rivale, nel finale.

Il castello nel cielo

Non sono propriamente un fan dell'animazione made in Japan. Anzi, per dirla tutta, non ne capisco un tubazzo. Per cui quando su Componente instabile ho letto che il vestito della protagonista è lo stesso di Kiki, non è che mi si sia chiarito un granché. Studio Ghibli? Hayao Miyazaki? Per me parole al vento.

E non mi riuscivo a spiegare come mai si distribuisse nelle sale adesso questo film, a ventisei anni dalla prima uscita. Ma sono diventati tutti matti alla Lucky red? Forse sì. Ma spero che l'avventura finisca bene anche per loro e non gli passi la voglia di fare altre pazzie come questa.

Perché, c'è poco da girarci attorno, si tratta davvero di un bel lavoro che credo/spero riesca a ritagliarsi un'adeguata fetta di pubblico. La storia è a dir poco bizzarra, ambientata in un curioso mondo parallelo che ricorda da vicino la fantascienza di Jules Verne, con improbabili macchine volanti che appartengono al futuribile ottocentesco. Protagonisti due ragazzini, lei orfanella contadina che nasconde un mistero, lui orfanello minatore con un gran desiderio di riscatto per la memoria di suo padre. Un attacco tipico da letteratura per giovani adulti di quello stesso periodo, alla David Copperfield. C'è però un folle intrigo fantascientifico che include buffi pirati volanti e un possente esercito diviso da lotte di potere al suo interno, che fanno pensare agli intrighi della fantascienza imperiale, tipo Dune, o anche Star Wars. Ma il tutto punta verso un'altra dimensione della fantascienza, quella di 2002: la seconda odissea (in originale il titolo era un ben più sobrio Silent running).

Il rischio nel mettere assieme una tale accozzaglia di temi e influssi è quello di ottenere una sbobba indigeribile, invece Miyazaki riesce ad amalgamare il tutto in un assieme che lascia un po' straniti ma funziona benissimo. Nota finale sulla colonna molto efficace sonora. Spero mi passi di mente presto, che la sto canticchiando ancora adesso.

Edit: Ho appena finito di leggere la recensione su Prevalentemente anime e manga. Consiglio di fare un salto da quelle parti.

Tropic thunder - Unisciti a loro

Mi ha fatto ricordare I tre amigos! per il punto chiave della vicenda, un gruppo di attori vengono scambiati per quello che fingono di essere e si trovano a dover agire come avrebbero agito i loro personaggi. Tema che è sviluppato meglio nel film di John Landis, perché Ben Stiller (che ha co-scritto, diretto, interpretato, e co-prodotto il film) aveva in mente anche altra roba, in particolare lo spoof dei film sul Vietnam (Il cacciatore, Apocalypse Now, Platoon, ma anche Rambo, etc etc ...) e una bonaria critica al sistema cinematografico hollywoodiano. Troppa carne al fuoco, e il risultato mi pare confuso.

Partenza bruciante, in cui vengono presentati gli esilaranti trailer che ci spiegano la storia dei protagonisti del film. Ben Stiller è un action hero alla Stallone, ingabbiato in un ruolo alla Rambo e condannato a ripetere un film sempre uguale. Robert Downey Jr. è attorone che fa collezione di Oscar (una sorta di super Jack Nicholson - Sean Penn - Marlon Brandon). Brandon T. Jackson (chi?) è un rapper dalle nulle capacità attoriali ma dal folto seguito giovanile. Jack Black è un comico bloccato in un multiruolo scatologico che ricorda vagamente il peggior Eddie Murphy.

Questo improbabile cast viene messo assieme da un cinico produttore, violento e sboccato, (un irriconoscibile Tom Cruise) e mandato nel Vietnam a girare un ennesimo film di quel filone. Sceneggiatura basata sui ricordi di un veterano (Nick Nolte, solo una particina, purtroppo), regia affidata al solito inglese senza esperienza ma con belle speranze.

Le stelle litigano tra loro, il gigantesco carrozzone produttivo va per conto suo, un clamoroso incidente alla Hollywood party causa l'ennesimo gigantesco spreco di denaro, e il film sembra destinato a finire nel nulla. Il regista decide di giocare la carta della disperazione, porta gli attori principali (i suddetti più un pivello, che risulterà essere l'unico ad aver letto il copione) nella giungla per riprenderli con telecamere nascoste. Ma il regista esplode su una mina di mezzo secolo prima, e un cartello di produttori di droga pensa di avere a che fare con agenti della DEA.

Svariati gli spunti divertenti, ad esempio il personaggio di Downey Jr (il migliore in scena) è così calato nella sua parte che, pur essendo un biondo australiano, è diventato afroamericano, parla come tale, oltretutto dei diritti della sua gente, facendo ammattire il rapper. Stiller è così stonato che non capisce che il regista è morto, non capisce nemmeno che i narcos sono veri se non dopo essere torturato a lungo (nelle pause urla al regista di tagliare). Al produttore non importa un bel niente di quello che sta succedendo, anzi, fa i conti di quanto potrebbe rendere la morte del cast.

Comunque tutto finisce bene, a parte per i nativi, si intende.

Super 8

Una specie di Stand by me - ricordo di una estate, solo che quello aveva una sceneggiatura basata su di un romanzo di Stephen King ed era diretto da un Rob Reiner nel suo periodo di grazia, mentre qui J.J. Abrams, che scrive e dirige, ha cercato di fondere la trama adolescenziale con l'intrigo fantascientifico, con risultati che mi paiono discutibili.

Siamo nel 1979, come la colonna sonora stile compilation sottolinea senza requie, e un gruppo di ragazzini sta cercando di realizzare un filmino in superotto, per partecipare ad un festival locale. Alcuni problemi rallentano le riprese, prima muore la mamma del truccatore (che poi è il protagonista), poi c'è un drammatico incidente ferroviario che stravolge l'intera vita cittadina. Solo sui titoli di coda riusciremo a vedere il risultato del loro lavoro, un curioso incrocio tra hard boiled e zombie, che ha un suo perverso fascino.

E questa è la parte del film che mi è piaciuta. Bravi i ragazzini, bella la rappresentazione della vita di un paesino vista dal loro punto di vista, simpatico il racconto delle dinamiche interne del gruppo di cineasti in erba, turbate dall'ingresso nel cast di una ragazzina (secondo il giovane regista una donna è essenziale per far decollare il lato zombi della vicenda) bella e brava senza nemmeno saperlo.

Purtroppo è anche la storia di un alieno catturato dall'esercito americano, tendezialmente "buono" ma reso crudele dalla lunga prigionia, che approfitta dell'incidente per scappare. Questo versante del racconto è terribilmente scarso. Esagerato, fracassone, zeppo di luoghi comuni. Una noia.

The Rum Diary - Cronache di una passione

Un giornalista/scrittore di belle speranze ma dal presente molto incerto (Johnny Depp) arriva in Porto Rico per lavorare nel giornale locale. Fa amicizia con un paio di colleghi (Michael Rispoli e Giovanni Ribisi) con cui ha in comune l'amore per gli alcolici e altre sostanze non bene identificate. Conosce inoltre un tipetta che ama vivere pericolosamente (Amber Heard) fidanzata con un tizio (Aaron Eckhart) dedito ad affari poco puliti.

Regia e sceneggiatura di Bruce Robinson su di un romanzo di Hunter S. Thompson, che sarebbe poi un giornalista/scrittore vagamente riconducibile al protagonista della storia, e che ha scritto anche il libro da cui è stata tratta la sceneggiatura di Paura e delirio a Las Vegas. Terry Gilliam ha fatto un lavoro migliore. La vicenda qui sonnecchia spesso, un bel taglio deciso credo avrebbe giovato.

Si mescola il romanzo di formazione, alla fine il protagonista dirà di aver finalmente trovato la propria voce e di essere pronto a fare sfracelli, alla storia romantica travagliata, o direi meglio sconclusionata.

Crazy, stupid, love.

È una di quelle commedie romantiche che si usava fare un buon mezzo secolo fa, mi ha fatto pensare, chessò, a L'erba del vicino è sempre più verde. E questo lo intendo come complimento. Tutti si vogliono bene, o almeno non si odiano, e anche se a un certo punto c'è una scazzottata che coinvolge tutti i protagonisti maschili (le donne, come si usava un tempo, per l'occasione restano sullo sfondo manifestando la loro preoccupazione con qualche gridolino), è più che altro una sorta di gigantesco equivoco. C'è molto sesso, ma tutto fuori scena. Ci sono dei nudi, ma sono fuori quadro, o impallati. A me va benissimo così, non sono dettagli essenziali, e a tagliarli non si perde nulla.

La sceneggiatura di Dan Fogelman (quello di Cars e Rapunzel) è complicata, ma fila via liscia come l'olio, alternando commedia e momenti più drammatici, anche se a volte tocca tasti un po' consunti dall'uso, rischio comune dei film di genere, d'altronde.

La regia è di Glenn Ficarra e John Requa, a loro volta sceneggiatori di Babbo Bastardo, che riescono a tenere nei giusti limiti la sceneggiatura e l'incredibile cast che sono riusciti a coinvolgere.

La scena iniziale dà bene il tono del film. Sera, ristorante di buon livello, la macchina da presa dopo aver vagabondato per la sala, giunge su una coppia (Julianne Moore e Steve Carell). Prima ancora che parlino sappiamo che c'è qualcosa che non va, solo lui sembra esserne all'oscuro. Chiede a lei cosa vuole per dessert, lei nicchia un po' e poi sbotta: "Voglio il divorzio". Potrebbe essere un inizio tragico e invece, inesplicabilmente (o meglio, si spiega facendo attenzione a come la scena è stata costruita) fa ridere.

Passiamo poi a seguire un seduttore da bar (Ryan Gosling) che cerca di agganciare una tipetta affascinante (Emma Stone) che però non è interessata all'articolo, nonostante le incitazioni dell'amica, che la sostituirebbe volentieri.

Torniamo sulla coppia in via di dissoluzione, che fa mesto ritorno a casa, dove il loro figlio tredicenne cerca di corteggiare la baby-sitter diciassettenne (Analeigh Tipton) che non ne vuol sapere anche perché ha una evidente (solo per noi) cotta per Carell.

Carell frequenta il bar di cui sopra, ma solo per fini alcolici e per lagnarsi con chiunque della moglie. Va finire che Gosling ne prende a cuore il caso, e cerca di trasformarlo in un altra macchina per sedurre. Dopo un lungo apprendistato, le istruzioni, sia pure in un modo poco canonico, funzionano. La pollastrella è una insegnante (Marisa Tomei) che al dunque si dimostra vulcanica.

E questo è solo l'inizio. Ah, non ho accennato al fatto che la Moore è entrata in crisi (lei si chiede se quella di mezza età colpisce anche le donne, notando che nei film succede solo agli uomini) perché ha tradito il marito per un collega, che poi è Kevin Bacon.

L'intreccio poi si infittisce, con una serie di colpi di scena che, pur non essendo molto probabili, non sono mai assurdi. Ci stanno. Perlomeno nell'ambito della commedia elegante.

Bravi gli attori a rendere passaggi anche complicati. Tipo, è possibile pensare che un Ryan Gosling in splendida forma, donnaiolo, pieno di soldi, susciti compassione per la vuotezza della sua vita? Beh, sì, almeno con me c'è riuscito.

Le avventure di Tintin: il segreto dell'Unicorno

Tecnicamente interessante per l'uso del motion capture, che sta guidando sempre più la cinematografia verso un terreno in cui è sempre più difficile discriminare tra quello che può essere chiamato animazione e quello che no, ma niente di più.

Un po' come L'alba del pianeta delle scimmie, con cui condivide uno dei protagonisti, Andy Serkis, qui nei panni del capitano amico di Tintin, più che un film siamo al primo episodio di una serie, di cui i principali responsabili sono Steven Spielberg (regista e produzione) e Peter Jackson (solo produzione, ma sarà alla regia della seconda puntata). Notevole il team britannico che ha curato la sceneggiatura, Steven Moffat (televisivo per la BBC), Edgar Wright (L'alba dei morti dementi, Hot fuzz), e Joe Cornish), anche se mi sembra uno spreco di talento, visto che si mirava ad una semplice trasposizione di un fumetto restando vicini il più possibile all'originale.

Come mi sembra uno spreco il cast artistico che include, Jamie Bell/Tintin (già con Jackson nel suo King Kong, come del resto Serkis, ma probabilmente ricordato più che altro per Billy Elliot), Daniel Craig (cattivo), Nick Frost e Simon Pegg (poliziotti che sembrano gemelli ma non lo sono), e Toby Jones (ladruncolo). Che senso ha avere questi notevoli attori quando vengono resi irriconoscibili dalle tecniche di animazione? Bah, buon per loro, in ogni caso.

Non sono un gran estimatore di Tintin, ma per il poco che sapevo su di lui direi che abbiamo a che fare con una trasposizione cinematografica di una sua tipica avventura. Suo malgrado viene coinvolto in una avventura densa di spari, misteri, viaggi e tesori, riesce a venirne a capo grazie all'apporto fondamentale di quello della compagnia che ha più sale in zucca (il cane), il cattivo viene sconfitto e il bene trionfa. Finale aperto per lasciare spazio all'episodio successivo.

PS: Me ne ero totalmente dimenticato, ma ho fatto attenzione all'intelligenza canina grazie alle buone letture che hanno preceduto la visione.

Campioni di razza

Mockumentary affettuoso (o almeno così mi è parso) sul bizzarro mondo dei concorsi di bellezza canini. Il film è americano, e dunque si indulge sull'ossessione per la vittoria, in questo caso rivolta al sogno che il proprio cane sia, come recita il titolo originale, il migliore dell'esibizione (Best in show).

Diretto e interpretato da Christopher Guest, This is spinal tap è anche roba sua e si vede, che ha scritto la sceneggiatura assieme a Eugene Levy (sì, quello di American pie) che ha anche un'altro tra i molti ruoli protagonisti. Già perché l'idea è quella di seguire cani e scombicchierati proprietari nella preparazione e partecipazione ad un importante evento a Philadelphia.

Cast affiatato (pieno di personaggi che fanno pensare "ma io quello lo conosco", anche se pochi sono i nomi di primo piano), sceneggiatura che lascia spazio all'improvvisazione. Il documentarismo, scacciato dall'intento parodistico, riemerge prepotente dagli aspetti secondari, e danno un immagine buffamente desolante di mondo ricco e vacuo.

Come Walt Disney faceva notare in La carica dei 101, padroni e cani finiscono per assomigliarsi in una maniera preoccupante. Al punto la coppia che attraversa una fase di cambiamento finisce per cambiare pure cane.

Il poco tempo a disposizione non permette di approfondire le vicende degli umani, che sono alla fine poco di più di caricature, ma è sufficiente per darci uno spaccato interessante, e tutto sommato pure divertente, della nostra società.

La promessa dell'assassino

C'è una pallida somiglianze con Rocknrolla, sono infatti entrambe storie di malavita ambientate a Londra, con una certa enfasi (qui più marcata) sulla mafia russa rilocata oltre la Manica. Ma un vero confronto è improponibile, il film di David Cronenberg vince per manifesta superiorità nel giro di pochi minuti.

Più interessante paragonare Eastern promises (Promesse orientali, checché ne dica la distribuzione italiana) alla saga de Il padrino di Coppola. Si parla infatti di una famiglia mafiosa (ma russa e stabilita a Londra) e della complicata relazione tra il capofamiglia (Armin Mueller-Stahl), il figlio (Vincent Cassel), e la stella nascente dell'organizzazione (Viggo Mortensen - molto bravo). Anche se lo svolgimento è completamente diverso, i due film ci permettono di sbirciare nelle meccaniche di queste due diverse società delinquenziali.

Sensato anche pensare a A history of violence, di due anni prima e sempre di Cronenberg-Mortensen, per notare come un tema tutto sommato simile venga svolto sostanzialmente meglio grazie al contributo di una ottima sceneggiatura (Steven Knight).

La scintilla che fa partire la storia è il contatto casuale tra quel mondo e una infermiera di origine russa (Naomi Watts). Una ragazzina viene infatti portata d'urgenza nel suo ospedale con una gravidanza quasi completata, i medici riescono a salvare la figlia ma non la madre. Dal suo diario l'infermiera scopre che la poveretta era stata rapita, drogata, stuprata, in vista del suo uso come prostituta. Nel cercare di rintracciare la sua famiglia di origine, per evitare alla figlia l'orfanotrofio, l'infermiera si trova a doversi relazionare con l'organizzazione che la stava schiavizzando.

Come spesso accade nei film di Cronenberg, ci sono alcune scene piuttosto raccapriccianti, anche se c'è una solo scena molto violenta, il combattimento in una sauna tra Mortensen, armato solo dei suoi tatuaggi, e due sgherri della mafia cecena che cercano di farlo fuori con dei semplici coltellini. Da notare la totale assenza in tutto il film di armi da fuoco, visto che siamo nel Regno Unito, dove gira ben poca polvere da sparo (confrontare con l'implausibile ricchezza di botti in Rocknrolla).

Rocknrolla

Scritto e diretto da Guy Ritchie, simile a Lock & Stock e Snatch, più danaroso e lisciato, ma tutto sommato meno divertente.

Tom Wilkinson è un boss della mala londinese, che ha come spalla Mark Strong, e sta cercando di combinare un losco affare edilizio per conto di un miliardario russo (Karel Roden), anche lui con una certa propensione per la delinquenza, e che ha come spalla finanziaria Thandie Newton in versione femme fatale, ma con marito gay. Una banda di deliquenti di medio calibro, guidata da Gerard Butler, e che include anche Tom Hardy si troverà ad essere presa nel mezzo dall'azione delle diverse forze in campo, scatenate, oltre che dalla cupidigia per gli svariati milioni che l'operazione fa girare, anche da il desiderio di vendetta del figliastro del boss londinese, il rockettaro del titolo (Toby Kebbell), per il suo patrigno.

Come nei due blasonati antecedenti, l'azione è molto complessa ma si svolge con precisione cronometrica, fino ad arrivare al gran finale. Violentuccio, qualche risata, titoli di testa e coda in stile fumetto, e anche la recitazione (vedi il rocker nel finale) sembra a tratti più tarantiniana che nello stile classico del regista.

Tra le scene divertenti, quella di sesso tra Butler e la Newton, risolta forse in meno due secondi, con un montaggio frenetico sui primi piani dei due protagonisti che dicono alternativamente "oh" o "ah". Come dire, già lo sapete quello che succede, inutile perdere tempo a raccontarlo.

Star System - Se non ci sei non esisti

Sinceramente non capisco come mai How to lose friends & alienate people (questo il titolo originale del film, qualcosa come Come perdere amici e alienarsi la simpatia della gente) sia stato una mezza catastrofe al botteghino, e non sia piaciuto molto nemmeno alla critica (vedi Rotten tomatoes), visto che mi pare una tra le commedie più divertenti che abbia mai visto, supportata da una sceneggiatura brillante, una regia piacevole, capace di dirigere a dovere un cast notevole. Ci sono dei punti deboli, ad esempio il lato romantico è puramente funzionale e non regge da solo, ma il bersaglio grosso mi pare pienamente raggiunto.

A ben vedere un'altra debolezza sarebbe che si tratta dell'ennesima storia vera adattata alle esigenze cinematografiche, ma in questo caso mi pare che il lavoro dello sceneggiatore (Peter Straughan) abbia mirato a trasformare una storia folle, il racconto autobiografico del soggiorno americano di Toby Young, in un qualcosa di narrabile in una pellicola da un centinaio di minuti. Normalmente alle storie vere viene aggiunto pepe per renderle più interessanti, qui invece l'impressione che il problema fosse opposto. Da quello che ho visto in rete Young è uno di quegli inglesi molto estroversi, con una vita molto sopra le righe, e ci si può ben immaginare cosa può aver combinato quando era giovane, single, a New York, con un lavoro a diretto contatto con il mondo del cinema.

Il film segue dunque una parte della vita della versione edulcorata di Young (Simon Pegg, perfetto nella parte), iniziando da un breve prologo londinese, quando la sua rivista scandalistica, oltraggiosamente satirica, sta per collassare. Lo vediamo cercare in imbucarsi alla cerimonia dei BAFTA asserendo di accompagnare Babe, il famoso maialino coraggioso, alla premiazione. Sgamato, ripiega sul piano B, il travestimento da cameriere che funziona, ma solo fino a che il maialetto non gli brucia la copertura. LO rivediamo il giorno dopo, in quella che è contemporaneamente la sua abitazione e la sede della rivista, entrambe sull'orlo del tracollo. Riceve una telefonata dal direttore di Sharps (nella vita reale sarebbe Vanity fair) che, contro tutte le aspettative, invece di insultarlo e fargli causa (era stato pesantemente preso in giro nell'ultimo numero della rivista) lo assume.

Si passa dall'altra parte dell'oceano. Young ha trovato un appartamento orribile quanto il suo precedente londinese, forse persino peggio ma, hey, siamo a New York! Esce subito per agganciare qualche strepitosa donna, senza alcun risultato. L'unica persona con cui riesce ad avere qualche scambio di battute è Kirsten Dunst, niente meno, ma lui ha in mente donne di un altro tipo, e finisce per portarsi a casa un travestito. Nota a margine: uno pensa, bah, questa sarà una invenzione dello sceneggiatore, e invece pare di no.

Il giorno dopo, al lavoro, Young scoprirà che il direttore (Jeff Bridges) l'ha assunto ma non sa nemmeno lui bene perché e che la Dunst è una sua collega. Si chiarisce il fatto che lui è completamente un pesce fuor d'acqua. Il suo stile diretto, che mira a far uscire dai gangheri i soggetti di cui parla, è completamente fuori luogo. Il vincente è il suo viscido capo (Danny Huston), e per riuscire a parlare con le star bisogna ingraziarsi il loro ufficio stampa. Lui invece ha una pessima relazione con Gillian Anderson che cura gli interessi di una stellina in crescita (Megan Fox) per cui lui ha una sbandata, e un pretenzioso regista (Max Minghella) considerato il nuovo Tarantino, ma che lui trova insopportabile.

Abbiamo dunque un carattere geniale ma in un ambiente completamente estraneo, che tutto sommato disprezza ma per cui ha una forte attrazione. Inevitabile il contrasto che, sommato ad alcune sfortunate circostanze, genera una quantità di situazioni comiche che mi hanno fatto sbarellare dalle risate. L'aspetto romantico è dato, ovviamente, dalla attrazione di Young per la Fox, che evidentemente lo attizza in quanto trofeo, e anche per la Dunst, che sarebbe la scelta intelligente. Per motivi vari con la Dunst non funziona, e allora lui decide di fare successo sul lavoro (in fin dei conti è semplice, deve solo rinunciare ad essere se stesso e alla sua dignità) e di puntare sulla Fox. Ancor più ovviamente nel finale le cose si aggiusteranno.

Le citazioni cinematografiche si sprecano, e funzionano molto bene dato che siamo in un film che parla del mondo del cinema. Il riferimento a Il diavolo veste Prada, invece, mi pare marginale. Vero che si tratta di storie simili, ma lo sviluppo è completamente diverso. Tanto per dirne una, se in Prada è la protagonista che nel finale ammette di ammirare la (carogna) direttrice della rivista, qui vediamo come sia il direttore (che non è poi una carogna, ma si è solo piegato ad un sistema che pure non approva) a mostrare di apprezzare il suo sottoposto per essere capace di uscire dalla gabbia dorata in cui si è andato a ficcare. Chissà, forse è questo che non è piaciuto a molti critici, che magari preferiscono i vantaggi che dà loro restarsene in gabbia.

Un errore da non fare è quello di pensare che Young sia un imbecille. Vero che dice che il miglior film mai fatto sia Con Air, che cita Troy come fonte di saggezze, e che riconosce una attrice per essere apparsa in Love boat, ma cita con la stessa nonchalance La vita è meravigliosa, e quando la Dunst dice che il suo film preferito è La dolce vita, lui non cade dal pero, anzi riesce pure a procurarsi la colonna sonora (in vinile!) per fargliene omaggio.

Il film abbonda anche di citazioni indirette. E in effetti, avendo Bridges ("the dude", o "il drugo" in italiano) nel cast, era difficile farsi scappare qualche ghiotto accenno a Il grande Lebowski. Oppure, la struttura narrativa, una lunga parentesi che si apre con l'applauso per la premiazione di una attrice, lascia partire un lunghissimo flashback narrato da un critico cinematografico che arriva fino quasi alla fine del film, mi pare una esplicita citazione di Eva contro Eva, che sarebbe utile avere presente per dare una chiave interpretativa (!) al film che non sia troppo banale.

In cerca di Bobby Fischer / Sotto scacco

Abbastanza conosciuto negli USA, praticamente ignoto nel resto del mondo, è la prima regia di Steven Zaillian, a cui faranno seguito A civil action e Tutti gli uomini del re. Tutti film con un notevole cast, una storia interessante, anche se sempre molto americana, il cui difetto principale direi che è sempre proprio nella regia poco coinvolgente.

Forse Zaillian dovrebbe limitarsi a fare lo sceneggiatore, e lasciare la regia ad altri. Sue le sceneggiature del film che ha diretto, oltre a svariati altri, tra cui il recente Moneyball, e la riscrittura di Millennium per la versione di Fincher.

Qui, come dice uno dei due titoli con cui il film è noto in Italia, si parla di Bobby Fischer, ma non direttamente (vedi semmai il recente documentario HBO, Bobby Fischer against the World, se interessato all'argomento) bensì dal punto di vista della carriera scacchistica di Josh Waitzkin, un altro bambino prodigio che ha fatto faville per qualche anno in quel campo, per poi dedicarsi ad altro. Pur trattando una vicenda reale, è uno di quei casi dove quando la realtà incontra la cinematografia, è la seconda che vince. Nonostante tutto finisce per avere un suo interesse, direi quasi sociologico più che narrativo.

Un bambinetto di sette anni impara a giocare a scacchi guardandolo fare da una banda di balordi in un parco cittadino newyorkese. Già, perché gli scacchi negli USA sono (anche) un gioco di malaffare. La figura del barbone con scacchiera che batte i passanti in cambio di pochi dollari è abbastanza popolare. Vedi anche Basta che funzioni di Woody Allen per qualcosa di simile. Ancora più sorprendente che pure i piccoli delinquenti siano dediti agli scacchi, che vengono integrati egregiamente nella loro subcultura, puntando tutto sul lato emotivo del gioco, riducendo al minimo il tempo disponibile, e privilegiando uno stile di gioco aggressivo al massimo livello. Nel film finisce che uno di costoro (Laurence Fishburne) vede nel bambino un potenziale nuovo Fischer, e gli insegna la sua visione del gioco. In parallelo, il padre (Joe Mantegna) si accorge della capacità del figlio e va in visibilio. E qui si finisce nell'ossessione principe della cultura americana per il vincitore. Il giovane Waitzkin può essere un numero uno. Non importa in cosa, importa essere vincenti. Dunque occorre puntare tutto su quella potenzialità, tutto il resto conta zero. In questa prospettiva, cerca qualcuno che possa dargli migliori basi teoriche, e lo trova in uno scalcagnato gestore di un club di scacchisti (Ben Kingsley), con un passato da giocatore ma ormai disilluso. Costui cerca di dissuadere il padre, facendogli capire che la vita di uno scacchista professionista non è quello che una persona normale dovrebbe volere per il proprio figlio. Argomento che cade nel nulla.

Anche una maestra (Laura Linney) tenta di fare notare che un bambino dovrebbe avere una vita più varia, ma ottiene l'unico risultato di spingere il padre a iscrivere il figlio ad un altra scuola. Qualche piccolo risultato lo ottiene la madre, che si oppone al tentativo di dare a suo figlio una mentalità da squalo - l'unica cosa che conta è vincere, e l'avversario deve essere distrutto - anche se accetta placidamente tutto il resto. La famigliola si mette così a frequentare il folle ambiente dei tornei giovanili (mi verrebbe da dire infantili), dove i più intemperanti sono, come è naturale aspettarsi, i genitori, che scaricano sui figli le loro frustrazioni. Occasione per noi per vedere all'opera una strana galleria di personaggi interpretati, tra gli altri, da William H. Macy e Robert Stephens.

Il succo è che il mini-scacchista si trova a dover tenere a bada forze diverse, e lui, in maniera molto zen, sembra riuscire a trovare la giusta via di mezzo. Su tutto ciò aleggia il fantasma di Fischer che, non essendo riuscito a trovare un bilanciamento, ha finito per andare completamente fuori di testa.

Casinò

Il secondo episodio de Il padrino di Coppola parla delle infiltrazioni della cosa nostra americana nel Nevada nella metà del secolo scorso. Qui Martin Scorsese ci parla della situazione a fine anni settanta, poco prima dell'attacco dell'FBI che portò ad una decisa ripulitura dell'ambiente.

Seguendo la falsa riga di una vicenda reale - nei fatti di mafia la realtà è spesso più incredibile della finzione - si seguono le vicende di un tale (Robert De Niro) che se avesse vissuto la sua storia in Italia avrebbe potuto essere incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa (oltre ad altre cosettine). Amico sin da bambino di un vero delinquente, di quelli capaci di uccidere per uno sgarbo (Joe Pesci), pur non essendo italo-americano, bensì di evidenti origini ebraiche (il personaggio di cognome fa Rothstein), viene notato dalle famiglie per le sue capacità nel gioco d'azzardo, e viene reclutato per gestire un importante casinò a Las Vegas. Terzo protagonista è una prostituta di alto bordo (Sharon Stone) che bazzica l'ambiente dei casinò, facendo la sua parte nello spolpare i clienti.

Rothstein pensa di poter ottenere l'impossibile, fare affari "puliti" con la mafia, e un matrimonio "pulito" con una prostituta. Tutto a questo mondo è possibile, almeno in teoria. Vero dunque che ai suoi referenti interessano solo i soldi, ma difficile tenere a freno uno psicopatico come il suo amico, che vede in Las Vegas una specie di paradiso disponibile ad ogni sua attività delinquenziale. E lo stesso dicasi per sua moglie, che gli ha detto chiaramente di non amarlo, di essere interessata solo ai soldi, e di non riuscire a fare a meno di un legame con il suo magnaccia (James Woods) che la segue da sempre.

Tre ore di film, ma che filano via rapidamente, grazie alla storia interessante, per lunghi tratti vista quasi come un documentario, all'impeccabile regia, anche nel mostrare gli aspetti più deteriori degli anni settanta, e all'ottimo livello del cast, comprese le parti minori, tra cui si notano molti caratteristi che fanno il giro un po' di tutti i film di questo genere.

Revolutionary Road

Sonnacchioso polpettone melodrammatico, questo pensavo del film fino a circa la sua metà. Una versione anni cinquanta di una puntata non particolarmente riuscita di Desperate Housewives, avrei azzardato. Il flusso dei pensieri mi ha portato ad American beauty, e mi è sembrato di notare una certa somiglianza nello stile narrativo del regista che, per la miseria, è proprio Sam Mendes. Il che spiega l'arcano.

Stavo ancora meditando su somiglianze e differenze, quando il film è finalmente decollato con una seconda parte, e soprattutto un finale, a grande intensità emotiva.

Ricapitolando, nei primi secondi del film si forma una splendida coppia (Kate Winslet e Leonardo DiCaprio, ogni riferimento a Titanic è destituito di fondamento) ricca di speranze e ambizioni che vengono rapidamente stroncate. Lei vorrebbe essere una attrice, ma è scarsa oltre misura, lui vorrebbe semplicemente essere vivo, ma finisce per fare uno di quei lavori che non si riesce nemmeno a descrivere ma che pagano abbastanza da permettere alla famiglia (si sono sposati e hanno due figli) di avere una bella villa nel tranquillo Connecticut.

Ora sono sulla trentina e sono indirizzati a seguire la stessa routine fino alla fine dei loro giorni. Lui esce di casa, piglia il treno, arriva a Grand Central con una masnada di lobotomizzati che mi hanno fatto pensare a Metropolis, fa il suo lavoro insulso, tradisce la moglie con una segretaria - così, giusto per impegnare un pomeriggio - mentre lei si annoia nella sua bella casetta.

Lei però ha una idea. Perché non mollare tutto e andarsene a Parigi? È rischioso, ma meglio che vivere una non-vita come quella. Lui è titubante, ma alla fine accetta. Contro-colpo di scena, il suo capo gli offre uno scatto di carriera che lo porterebbe a fare un lavoro altrettanto inutile e insoddisfacente ma meglio retribuito, e questo basta a farlo dubitare di Parigi. Meglio starsene nel proprio bozzolo, no?

Forse alla fine lui capirà che, no, non era meglio. Ma sarà troppo tardi.

Quando i due dicono di voler lasciare la loro inutile vita per cercare di ripartire altrove nessuno li capisce, se non il figlio di una vicina (Kathy Bates) che si è fatto un soggiorno in manicomio con corredo di numerosi elettroshock. A quanto pare la sua pazzia consiste nel fatto di dire la verità, cosa che in un mondo basato sulla menzogna risulta folle.

Alien - La clonazione

Dopo l'Alien di Ridley Scott, gli Aliens di Cameron, l'Alien al cubo di Fincher, tocca a Jean-Pierre Jeunet darci la sua interpretazione della saga.

Ai tempi Jeunet non aveva ancora prodotto quello che credo sia il suo film più noto, Amelie, ma aveva già piazzato un paio di titoli, Delicatessen e La città dei bambini perduti, che lo caratterizzavano molto bene. Dunque penso che la produzione sapesse a cosa andava incontro, e mirassero consapevolmente ad un ennesimo deciso cambiamento di stile. E tutto sommato direi che il regista se la cava bene, pur in una storia che non è esattamente nelle sue corde, portando il suo tocco tra il comico e il truculento in una saga che fino a questo momento si era presa fin troppo sul serio.

La sceneggiatura, purtroppo, non è che sia delle meglio riuscite. Far notare l'irragionevolezza di gran parte dell'intreccio mi pare che sia come sparare sulla croce rossa. L'assurdità di quello che accade è tale che anche i personaggi non se ne capacitano - vedasi la scena in cui il generale cerca di farsi spiegare dagli scenziati (pazzi) come sia possibile che un clone umano possa attingere alla memoria dell'originale, ma dopo un tentativo di improbabile spiegazione, li manda tutti a quel paese.

Due secoli dopo al suo suicidio Ripley (sempre Sigourney Weaver) risorge dalle sue ceneri (il titolo originale infatti è Alien: Resurrection) per mano di un manipolo di scienziati privi di ogni scrupolo che operano su una astronave militare stanziata da qualche parte all'esterno del nostro sistema solare. Lo scopo è quello di estrarre da lei l'ape regina Alien che ospitava. Assurdo, anche senza stare a vedere che partivano da poche cellule del sangue della Ripley originale, ma tant'è. Ci riescono all'ottavo tentativo, e la Ripley-8 che ottengono è un ibrido umano-Alien con tutti i problemi del caso. A complicare la vicenda si aggiunge l'equipaggio di una (astro)nave pirata che include i soliti tipi molto diversi tra loro, oscillanti tra una Winona Ryder che sembra una militante ecologista e un Ron Perlman (già ne La città dei bambini perduti) brutto ceffo d'ordinanza.

L'idea di studiare gli Alien è evidentemente insensata, e porta alla rapida catastrofe. E, come se non bastasse una astronave che pullula di Alien rapidamente mutanti verso nuove forme sempre più distruttive, si aggiunge anche il fatto che un demente sistema di sicurezza fa sì che l'astronave si diriga automaticamente verso la Terra, con il suo distruttivo carico. Quanto ci mette a fare il viaggetto? Circa tre ore. Plutone - Terra in tre ore. Viaggiando senza nessuna fretta, naturalmente. Fortuna che già Ripley era un osso duro, figuriamoci Ripley-8.

Si accentua in questo episodio il pessimismo sull'uomo, sia nel senso di essere umano, sia in quello della parte maschile dello stesso. I personaggi positivi (o almeno, non negativi) sono femminili e non (completamente) umani. Se non altro gli Alien non sono visti solo come mostri, almeno non totalmente. O forse si sottolinea a tal punto la nostra mostruosità che la loro non sembra nemmeno eccessiva.

Alien³

La regia del terzo episodio della saga di Alien viene affidata ad un ragazzotto che fino a quel momento aveva fatto solo video musicali, tale David Fincher. Dopo sarebbe diventato Fincher, il regista (anche se, devo dire la verità, non è che mi faccia impazzire) ma qui non è che faccia una bella figura. Nonostante il cospicuo budget, sembra una produzione a basso costo, e il buon livello medio degli attori (molto inglese, facce note come Pete Postlethwaite, Danny Webb, Charles Dance, Ralph Brown) non riesce a coprire le magagne di una sceneggiatura ballerina e di una regia distratta.

Questa volta Ripley (Sigourney Weaver) naufraga su un pianeta-prigione, gli altri viventi che erano con lei muoiono senza aver tempo di emettere una singola vocale, l'androide è così malridotto che riuscirà a fare solo una piccola scena a metà film prima di chiedere di essere lasciato in pace nel suo nulla. Causa della catastrofe il solito Alien piantagrane che è riuscito a intrufolarsi nella scialuppa. Ne faranno le spese, come al solito, tutti gli umani presenti sul pianeta. Eccezione: Danny Webb, che seppur malconcio ne esce vivo, e un cane, che invece fa la fine di John Hurt nell'Alien originale.

Si poteva fare abbondantemente a meno di questa puntata, se non per contraddire la distribuzione italiana, che avava avuto l'ardire di marcare come finale l'Aliens di Cameron. Ma erano tutti così evidentemente stufi della serie, che hanno pensato di distruggere definitivamente sia gli Alien che Ripley stessa. Illusi. Soprattutto nella fantascienza, c'è sempre un modo di continuare la storia.

Aliens - scontro finale

Strano pensare come negli anni ottanta una major come la Twentieth Century Fox ci stesse a pensare e ripensare prima di dare l'OK a un sequel, accettando solo dopo aver verificato che James Cameron (regia e storia originale) fosse capace di far incassare cifre mirabolanti con Terminator.

Pare anche che Sigourney Weaver fosse ritenuta troppo esosa (avrebbe chiesto un milioncino tondo tondo) e che si pensasse risolvere il problema riscrivendo la sceneggiatura per fare a meno di lei. Tra gli attori maschili al contorno, si nota Michael Biehn, già in Terminator, e Paul Reiser, completamente fuori parte (lui, comico, a fare il perfido dipendente della gigantesca multinazionale che aleggia dietro alla storia, ci quaglia poco).

In pratica, questo episodio inizia dove Alien era finito. Il capitano in terza, e unica sopravvissuta, della Nostromo viene ripescata dalla sua scialuppa e risvegliata. La sua azienda non è molto contenta di come ha gestito la faccenda, e in effetti li si può capire, un'astronave come quella sarà costata (o forse dovrei dire "costerà") una fortuna, e dopotutto farla esplodere non sembra un'idea geniale. La sua spiegazione (un mostruoso alieno ci stava mangiando) sembra una di quelle scuse che si davano a scuola per giustificare la propria pigrizia (il cane mi ha mangiato il quaderno dei compiti).

Però il pianeta su cui gli Alien si sono installati è stato scelto, con scarsa lungimiranza, per essere terraformato, e una piccola colonia umana vi si è insediata. Che fine abbia fatto il radiofaro che segnalava di stare alla larga (e che era stato male interpretato come una richiesta di aiuto, o viceversa, nel primo film) non è chiaro. Anzi, si tace bellamente il punto. Inoltre, per dare tempo alla terraformazione di agire, si sposta la vicenda avanti di un buon mezzo secolo, ottenendo come effetto collaterale la morte per vecchiaia della figlia di Ripley, che per lei è ancora una bimbetta undicenne. Bizzarrie dei viaggi spaziali.

In un baleno gli Alien si mangiano (anzi, peggio) i terrestri, che non hanno nemmeno tempo di comunicare il problema a nessuno. Per inciso, nell'universo di Alien le comunicazioni fanno davvero schifo. Per risolvere il mistero della base terrestre silenziosa viene mandato una squadra di marines sullo sperduto pianeta. Una dozzina di persone. Ma santo cielo, non potevano mandarne un centinaio? Con quello che deve costare un viaggio interstellare stanno a fare i micragnosi con i militari? In compenso invitano Ripley a partecipare come esperta in materia. Lei, malvolentieri, accetta, ma avrebbe anche potuto stare a casa, tanto nessuno se la fila.

Gli Alien sono di bocca buona, e si pappano pure i marines, senza fare tanto gli schifiltosi. Ma Ripley è più tosta di loro.

L'aspetto horror viene messo in secondo piano, e maggior attenzione viene data alla parte militare. Sembra quasi di assistere ad una trasposizione fantascientifica di un film sul Vietnam, grande incubo americano che ha faticato a trovare una sua via esplicita al cinema. Per intenderci, Apocalipse now è dello stesso anno di Alien, e Platoon è successivo, sia pure di pochi mesi, ad Aliens. I militari vengono presentati come macchiette, la colpa viene scaricata sulla perfida corporation che ha male organizzato il tutto, il nemico è visto come un mostro e, a ben vedere, Ripley si comporta in modo idiota, oltre che esageratamente violento. Saremmo dunque a un livello elaborativo molto grossolano. Meglio sarebbe stato se Cameron avesse avuto modo di fare un piccolo salto temporale in avanti, guardarsi Good morning, Vietnam, tornare indietro e riscrivere la storia.

Una seconda trama riguarda il formarsi di una famiglia. Ripley riversa la sua maternità (molto mascolina, invero) sulla bimba unica superstite della colonia, a cui fa da padre un po' l'unico marine superstite, un po' l'umano sintetico (o meglio, una sua parte, quella metà superiore). Pare che secondo Cameron sia la madre al centro della famiglia, ma una madre molto mascolina. Forse l'idea è di una Ripley contemporaneamente madre e padre, in modo da risolvere così i conflitti tra i due diversi poli. O esacerbandoli.

Alien

Alien sarebbe il nome della razza aliena che lo sfortunato equipaggio del Nostromo incontra nel suo viaggio di ritorno verso la Terra. Però lo spettatore che vedesse questo storico film del filone horror fantascientifico pensando di scoprire dettagli su questo curioso extraterrestre resterebbe deluso. Si viene a sapere il minimo indispensabile, si insiste più che altro sulla sua (quasi) invincibilità. Si può sperare di saperne di più nel prequel/spin-off Prometheus, che dovrebbe essere tra poco in sala.

Qui in realtà la storia è quella di Sigourney Weaver, capitano in seconda (o in terza?) della suddetta astronave e del suo incontro-scontro con quest'essere che pare voglia solo distruggere tutto quello che vede. Per godersi il film bisogna avere una certa magnanimità nei confronti dei molto datati effetti speciali, non badare alla terribile colonna sonora, ed essere ben consci che siamo nell'ambito dell'horror, dove i protagonisti seguono una logica tutta loro, piuttosto autodistruttiva, verrebbe da dire.

Ma tenendo conto di tutto ciò, pazientando inoltre per una immotivata gran rumorosità (dice, "nello spazio nessuno può sentirti gridare", ma pensavo a causa del vuoto, e non per i rumori di fondo), ci si può godere una storia tutto sommato ben diretta da Ridley Scott, al suo secondo lungometraggio dopo il folgorante esordio de I duellanti.

La storia è simile a quella narrata in La cosa da un altro mondo, filmone fantascientifico anni '50, in cui un vegetale (!) extraterrestre faceva strage di umani in una base polare. Ne ha fatto un remake anni '80 Carpenter ma proprio non me lo ricordo. Dovrò rinfrescare la memoria. Fatto è che la Nostromo viene distolta dalla sua rotta, e suoi occupanti vengono richiamati in servizio, a causa di un segnale sospetto che arriva da un pianeta ignoto. Scendono, e trovano un gigantesco alieno ucciso in modo sospetto e raccapricciante. Sfidando ogni buon senso, continuano le indagini, e si procurano un incontro ravvicinato molto doloroso, soprattutto per il personaggio interpretato da John Hurt, che farà la terribile fine che tutti (credo) sanno.

Seguono altri ammazzamenti, colpo di scena robotico e maldestro, ultimo gruppo di ammazzamenti, strip tease della Weaver, e regolamento di conti finale.

High spirits - fantasmi da legare

Non ho avuto lo spirito di arrivare fino in fondo, ma penso di essermi perso ben poco. Si tratta di una commedia paranormale piuttosto disneyana nell'ispirazione, ma carente in praticamente ogni aspetto. Con una certa dose di pazienza si potrebbero tagliar fuori alcuni minuti accettabili da quel disastro che è questa pellicola, ma credo che il gioco non valga la candela.

Credo che Neil Jordan (sceneggiatura e regia) abbia dato qui il peggio di sé, con una storia mal congegnata e una direzione svagata di un cast non indifferente. Un castellano irlandese (Peter O'Toole) è sull'orlo della bancarotta, un ricco americano è sul punto di costringerlo al fallimento per papparsi il suo castello, nel senso di smontarlo e ricostruirlo in California (già sentita, vero?). Disturbato dalla madre mentre è col cappio al collo, deciso a farla finita, prende spunto dalla follia materna, che vede fantasmi ad ogni angolo del castello, e pensa di sfruttare l'attrazione per l'occulto per fare affari. Arriva dunque una comitiva di americani, che vengono accolti con trucchi pietosi, generando la loro contrarietà. Solo che i fantasmi ci sono davvero, si infuriano per la pietosa messinscena del loro ultimo erede e decidono di dar una lezione a tutti quanti, finendo per salvare capra e cavoli (questa è una deduzione, non ho visto il gran finale, ma sarei veramente sorpreso se succedesse qualcosa di diverso).

A questa trama se ne sovrappone una rosa. C'è infatti una coppia americana in seconda luna di miele. Lui (Steve Guttenberg) sperava con questo viaggio di risvegliare la passione della moglie, che però non sembra molto interessata all'articolo. Scontento, si ubriaca col padrone di casa, e quindi vede un bel tocco di fantasma (Daryl Hannah) condannata a replicare la sua fine, uccisa dal marito (Liam Neeson) la notte del matrimonio. Forse a causa dei fumi dell'alcool, si intromette nell'azione causando un contatto tra i due mondi. Abbiamo dunque un marito che vorrebbe stare con la moglie, ma se ne sente rifiutato ed è invece attratto da una bella fantasma, sposata a sua volta, ma anche lei con una relazione non molto stabile. Non bisogna essere dei geni per capire come andrà a finire questa storia.

Storia poco nuova e poco interessante, dunque, ma che avrebbe potuto anche essere guardabile se non fosse stata diretta e recitata così malamente. Poco chiaro anche chi sia il pubblico di riferimento. Penserei a famiglie e ragazzetti, dato anche lo stile disneyano degli effetti speciali, e direi che l'interpretazione di O'Toole è in questa direzione. Ma Guttenberg mi sembra replichi (fuori contesto) il suo ruolo da scuola da polizia, più adatto a ragazzetti un po' più cresciutelli.

Da notare il ruolo terribile per il povero Neeson, ai tempi ancora illustre sconosciuto.

Un giorno per caso

L'interesse principale del film sta nell'incontro tra i due protagonisti, non nel senso dei personaggi, ma degli attori: Michelle Pfeiffer e George Clooney. La prima aveva già girato cosettine come lo Scarface di De Palma con Al Pacino, Le streghe di Eastwick con Jack Nicholson, Le relazioni pericolose di Frears, un Batman di Burton. Mentre Clooney, beh, aveva fatto molta gavetta, era reduce da Dal tramonto all'alba di Rodriguez, e sarebbe da lì a poco uscito con il fallimentare Batman & Robin di Schumacher. Le cose gli andranno meglio a partire da La sottile linea rossa.

Nella storia, i due protagonisti sono in situazione speculare (divorziati, in carriera, lui con figlia, lei con figlio), si piacciono ma hanno paura di essere nuovamente feriti. La sceneggiatura li obbliga però a interagire ripetutamente in quella che è una giornata molto complicata per entrambi (nel titolo originale il giorno è memorabile e non semplicemente casuale: One fine day), fino ad aver ragione della loro riottosità e costringerli al lieto fine.

Sceneggiatura fumosa, con i personaggi disegnati malamente. A lui va meglio, gli è capitato il solido cliché del tosto giornalista investigativo, lei invece fa un lavoro incomprensibile (architetto?) in una azienda di alto livello di cui vediamo solo lei, il suo capo mezzo rimbambito, e la segretaria/receptionist. La regia (Michael Hoffman) si salva grazie al mestiere del cast, e spostando l'attenzione sulla città, proponendoci i soliti scorci turistici di New York.

Tra i ruoli minori, si fa notare Charles Durning (sovrappeso), che sarebbe poi quel caratterista di lungo corso già aveva fatto innumerevoli film come La stangata e Tootsie, e che sarà di nuovo con Clooney in Fratello, dove sei?, oltre che in altre decine di altri film dopo questo.

Tra le non molte scene divertenti direi che spicca quella in cui il giornalista cerca di convincere una tipa a fargli un piacere, ma lei gli dice che è inutile, ha una nidiata di figli maschi, e se lui gli fa quello sguardo lei gli prepara un pollo arrosto.

Following

Primo lungometraggio di Christopher Nolan, girato evidentemente a basso costo (oltre che in bianco e nero) ma con la cura che Nolan dedicherà a tutti i suoi successivi lavori. Per tagliare i costi, oltre che scrivere, dirigere, produrre, ha pure girato e curato il montaggio. Fortuna vuole che non sia portato all'interpretazione, però ha fatto in modo di dare una particina allo zio (il poliziotto che interroga il protagonista).

Il modo di raccontare ricorda molto quello di Memento, con salti in avanti e indietro nel tempo, anche se qui è più strumentale al semplice mantenere la suspense nella storia.

Si racconta l'avventura di un giovinastro innominato (Jeremy Theobald) che vorrebbe fare lo scrittore ma gli manca l'ispirazione (ricorda Limitless come situazione di partenza, sembra quasi che Burger sia colpito dalla maledizione di confrontarsi di continuo con Nolan). Per ingannare il tempo e cercare di cavare qualche idea dal prossimo, si mette a pedinare sconosciuti. Il problema è finisce per incocciare un tipo ancor più strano che per passatempo svaligia appartamenti, con lo scopo più di incasinare la vita altrui che di sottrarre cose di valore. Tra le vittime delle strana coppia c'è una biondona (Lucy Russell) che è coinvolta in un giro delinquenziale ancor più pericoloso, il protagonista si prende una cotta, e cerca di aiutarla in un suo problemino con un boss poco raccomandabile. E a questo punto le cose diventano ancora più complicate.

La sceneggiatura cede leggermente nel finale, dove viene data qualche spiegazione di troppo. Ma avercene di opere prime di questo livello.

Io sono un autarchico

Filmino in superotto, recitazione approssimativa ripresa quasi esclusivamente da una camera fissa, sceneggiatura a tratti incomprensibile o semplicemente insopportabile. Eppure il risultato complessivo non è male. È il primo lungometraggio di Nanni Moretti e a vederlo oggi spiccano più i difetti che i tratti interessanti della pellicola, principalmente la presa in giro dall'interno di quello strano animale che è la media borghesia progressista italiana.

Nel gran parlarsi addosso dei personaggi, senza capire neanche bene di cosa stanno parlando, spicca un tale, registra teatrale, che nonostante i fallimenti precedenti vuole mettere in scena un ennesimo spettacolo di avanguardia, ottenendo risultati sconsolanti. Ma, come dire, almeno lui ci prova. Invece Michele (Moretti) protagonista del film, e attore secondario del pezzo teatrale, non ci prova neanche. Partecipa, ma con interesse scarso o nullo. Come lascia scorrere la sua vita, lasciando che il suo matrimonio vada a monte, e non riuscendo a dare un minimo spessore al suo rapporto con il figlio. Si pensa comunista ma, quando cerca di leggere Il capitale, si accorge di non capire un tubo di quello che c'è scritto, e gli viene il dubbio di aver sbagliato ideologia. Non riesce a produrre niente, ma se la prende con il cinema prodotto in Italia (in particolare ce l'ha con Lina Wertmüller e l'appena uscito Pasqualino Settebellezze - e quando gli dicono del suo successo negli USA gli viene la bava alla bocca), anche se poi ammette che ormai da anni vede solo film pornografici - non erotici, che disprezza, ma proprio pornografici.

Molte ingenuità, lentezze, scene non riuscite, bassa qualità complessiva (a tratti sembra un film sovietico), ma riscattata da invenzioni e battute fulminanti che verranno sviluppate meglio nel seguito della produzione morettiana. Alcune sono diventate quasi proverbiali, come la reazione "No! Il dibattito no!" alla fine del catastrofico spettacolino.

Hilary and Jackie

La tragica storia di Jackie Du Pré, una delle più note violoncelliste del secolo scorso e prima moglie di Daniel Barenboin, narrata dal punto di vista della sorella.

L'attendibilità storica della vicenda è perlomeno dubbia. Come è naturale che sia, la visuale troppo ravvicinata potrebbe aver distorto parti non secondarie della vicenda, direi quindi che non conviene dare troppo credito ai fatti narrati, ma concentrarsi piuttosto sul lato emozionale della vicenda, che del resto direi è anche il taglio complessivo dato dalla regia (Anand Tucker).

Jackie (Emily Watson) e Hilary (Rachel Griffiths) sono musiciste più per obbligo familiare che per passione, e sembrano indirizzate ad una carriera musicale di quelle che finiscono per cancellare la vita privata, se non che Hilary, meno dotata, viene salvata dall'incontro con un estroso direttore d'orchestra che vede la musica come solo un aspetto della vita, e non la vita nella sua interezza. I due si sposano e vanno a vivere in campagna, tra galline e una nutrita figliolanza.

Jackie viene tratteggiata come sfortunata nella fortuna, praticamente costretta ad abbracciare una carriera da pendolare perenne, sacrificando tutto il resto, diventando quasi una propaggine del suo strumento musicale. Lo stesso Barenboin viene descritto come attirato di lei soprattutto in quanto virtuosa del violoncello. Quando la sclerosi multipla la colpisce, portandola prima all'incapacità di suonare, poi, con una inenarrabile lentezza alla morte, Jackie sembra drammaticamente regredire a poco a poco, per tornare la bambina che era all'inizio del film.

Bella l'idea di riproporre la parte centrale del film, quando le due sorelle si separano, dai due punti di vista diversi, mostrando come la stessa vicenda sembri completamente diversa a causa delle diverse prospettive. Sarebbe stato interessante vederla narrata anche da Barenboin.

L'alba del pianeta delle scimmie

È fatto comune che le sit-com siano precedute da un episodio pilota, in cui non succede poi molto, a parte la presentazione dei personaggi e del setup della storia. In base alla reazione del pubblico, si valuta quanto investire nella serie o, nel caso peggiore, si decide di cancellarla.

Mi pare che questa impostazione sia trasbordata in ambito cinematografico e, se finora si lasciava nel finale un aggancio ad un possibile sequel, forse questo è il primo caso di un pilot per una serie per il grande schermo.

Direi che questa è la debolezza principale di Rise of the planet of the apes. Rispetto ad un classico film di fantascienza non succede molto. Ma visto che, secondo mojo, è costato relativamente poco (sotto i 100 milioni) è ha generato incassi per quasi mezzo miliardo, ci si può aspettare che la serie incombente sia lunga e prosperosa.

Si tratta del reboot della serie che ebbe la sua origine in Il pianeta delle scimmie del 1968, con Charlton Heston protagonista. Film che diede molte soddisfazioni alla produzione e che generò una confusa progenie di film e telefilm a cui è difficile dare un senso che non sia prettamente economico.

Un primo tentativo di remake portò allo sconsolante Il pianeta delle scimmie del 2001 che, nonostante la regia di Tim Burton e il cast molto promettente, lo definirei come sostanzialmente dimenticabile. Qui i produttori hanno deciso di lasciare da parte le velleità artistiche, puntare su un regista semisconosciuto (Rupert Wyatt) ma di sostanza, e una coppia di sceneggiatori che paiono pescati quasi a caso. Hanno però curato a dovere gli effetti speciali affidandosi alla Weta di Peter Jackson (Signore degli anelli, King Kong, Avatar, X-men), e hanno fatto una curiosa scelta nel cast, reclutando James Franco (Osborn junion in Spider-Man, anche qui scienziato, anche qui comprimario in una relazione complessa con il protagonista), Andy Serkis (Gollum nel Signore degli anelli, e Kong in King Kong) e Tom Felton (il Draco Malfoy di Harry Potter, qui il suo personaggio è monodimensionale, ma tutto sommato simile). Tre attori che richiamano immediatamente altre tre serie.

Scopo del film, dicevo, è costruire i personaggi che agiranno nelle prossime puntate. Abbiamo dunque lo scienziato (Franco) che, come nei vecchi film di fantascienza, causa la mutazione genetica che genererà una superscimmia intelligentissima (Serkis). La variazione è che non lo fa per pazzia, ma per cercare un rimedio all'Alzaheimer, argomento che gli sta molto a cuore per via del padre malato. Il pazzo, o meglio quello che per soldi venderebbe anche sua nonna, è il capo della ditta farmaceutica (David Oyelowo) che si becca l'etichetta di supercattivo con le relative conseguenze. Lo scienziato ha invece una connotazione più da sciocco, tipo scienziato sbadato, che non fa caso al fatto che la scimmietta che ha salvato dall'istituto è diventato uno scimmione e che non sarebbe più il caso di tenerlo in semicattività in una villetta dei sobborghi di San Francisco. Abbiamo poi la madre adottiva (Freida Pinto) della scimmia, ruolo fondamentale, uno penserebbe, anche grazie al fatto che i primati sembrano essere il suo campo. Che però non spiaccica quasi parola. Forse ci risparmiano per uno sviluppo del personaggio nei capitoli successivi.

Il ruolo principale è quello di Cesare (Serkis), la scimmia che assume consapevolezza di sé, e guida la ribellione dei suoi pari, grazie ai sieri sperimentali dello scienziato. Da notare che la parte centrale del film è in pratica una bizzarra variazione di un tipico film di prigione (mi ha fatto pensare a Le ali della libertà con Tim Robbins) dove i galeotti sono scimmie ma i guardiani sono i soliti sadici aguzzini visti in mille film di quel genere. E questo mi ha fatto venire la curiosità di vedere Prison escape, precedente film di Wyatt. Chissà se lo hanno preso perché capace in film di evasione (nel senso tecnico del termine) o se ha portato la sua conoscenza nel campo a contributo della sceneggiatura.

Gli ottimi effetti speciali sono dunque la chiave del film, ma a mio avviso ne sono anche il secondo punto debole. Potrebbe essere colpa della poca voce in capitolo del regista, o forse della sua inesperienza, fatto è che direi che si sarebbe potuto ottenere di più usandoli meno.

Little Miss Sunshine

Film visto grazie alla recensione di La Tosca non è per tutti, e post scritto sull'onda emozionale seguita al prestigioso premio "My beautiful lipstick" di Componente instabile.

Una famiglia normalmente folle, o follemente normale, viaggia con un pulmino Wolkswagen molto anni settanta da Albuquerque, Nuovo Messico a Redondo Beach, California (qualcosa come 1300 chilometri) per far sì che la piccola di famiglia (Abigail Breslin, ennesima bambina prodigio del cinema americano, vedi anche Certamente, forse) partecipi al concorso del titolo, sorta di orrenda Miss California per bambine.

Ricorda un po' i film di Alexander Payne (soprattutto A proposito di Schmidt e Sideways, ma anche Paradiso amaro), un po' Harold e Maude (che del resto è in periodo con il furgone di famiglia). Ben diretto (Jonathan Dayton e Valerie Faris), basato su una solida sceneggiatura (Michael Arndt - Toy story 3), un buon cast, e commentato a dovere da una piacevole colonna sonora (i DeVotchKa corretti in chiave minimalista da Mychael Danna).

Commedia che in mani meno capaci avrebbe rischiato di deragliare su temi come sesso, droga, morte, omosessualità, pornografia, conflitti generazionali, scivola leggera e colpisce al cuore quello che è il tema principale, l'ossessione americana per riuscire nella vita. Già, perché i protagonisti sono degli sfigati pazzeschi (o, come si direbbe oltreoceano, pathetic loser). Colmo dei colmi, il capofamiglia tiene fallimentari corsi in cui insegna niente di meno che ad essere vincenti. Ma ognuno ha il suo pesante carico di sfiga che lo perseguita, il fratello della moglie (Steve Carell, ottimo), teoricamente quello che "ha fatto successo", professore universitario che si definisce come il più grande esperto su Marcel Proust, ha appena tentato il suicidio dopo essere stato rifiutato dal suo amore (omosessuale) che si è messo con il suo arcirivale (il secondo esperto su Proust), aver per questo sbroccato, causando il suo licenziamento, e aver appreso che un istituto ha preferito premiare il suo avversario in amore e in carriera piuttosto che lui.

Date le premesse, risulta chiaro che la situazione sia sull'orlo del tracollo, la tensione è al massimo e aspetta solo un pretesto per esplodere. Fortuna vuole che arrivi l'inaspettata convocazione della piccola al concorso e, pur con una certa fatica, vincendo alla fine anche l'opposizione del riottoso figlio maggiore (Paul Dano) che da nove mesi non parla (!), si parte per l'assurdo viaggio che finirà per dare un nuovo assetto alla famiglia.

Molte le scene memorabili. Mi è piaciuta molto quella in cui i sei agiscono finalmente come un gruppo omogeneo. È partita la frizione al furgone, il viaggio sembra già finito, ma scoprono che possono andare avanti lo stesso, partendo a spinta. Però devono collaborare, spingere, saltare, aiutarsi a salire. Ci riescono, e finalmente la tensione tra loro si allenta, per la prima volta dio sa da quando. A proposito, da notare lo stile (chiamiamolo così) con cui Carell corre. Come se pensasse ad ogni suo movimento, ad ogni muscolo e a ogni osso del suo corpo. Come se ne facesse l'analisi logica e grammaticale, da buon professore di letteratura.

Senza spoilerare più di quanto ho già fatto, direi che l'idea della sceneggiatura è che i protagonisti sono dei falliti perché stanno cercando di realizzare degli ideali che non sono i loro. Quando capiscono che per essere felici non devono ricorrere gli obiettivi che altri hanno fissato per loro, ma badare esclusivamente ai loro, la sfigatezza sparisce come per magia.

Real steel

Sceneggiatura basata su di un racconto di Richard Matheson, tra i produttori spiccano i nomi di Steven Spielberg e Robert Zemeckis, musiche originali di Danny Elfman. Sapendo tutto ciò, si può andare incontro a questo film mitigando le preoccupazioni di trovarsi davanti un clone della temibile serie di Transformer.

E in effetti, i robottoni combattenti di Real steel sono solo accessori ad una storia ben articolata e sviluppata con diligenza da Shawn Levy, regista non noto per una espressività memorabile, ma comunque capace di gestire budget notevoli senza far danni.

Niente di particolarmente innovativo nella trama, un adulto che non è riuscito a diventar grande (Hugh Jackman), ex pugile a cui hanno sottratto lo sport sotto i piedi (siamo nel 2020, e i combattimenti ora li fanno solo i robot) che campa malamente manovrando, altrettanto malamente, i suddetti robot, scopre di avere un figlio undicenne. Nel giro di poche settimane dovrà costruire un rapporto con il ragazzino, scoprire di non essere un fallito, e magari riuscire pure a mettersi assieme al bel pezzo di figliola (Evangeline Lilly) che lo sopporta da anni senza protestare.

L'aspetto fantascientifico e le scazzottate tra robot sono rese in modo funzionale e tutto sommato piacevole, anche se non è che si possa dire che il realismo sia di casa. Molta pubblicità, qualche spiacevole ingenuità nella trama, ma tutto sommato un prodotto accettabile.