In cerca di Bobby Fischer / Sotto scacco

Abbastanza conosciuto negli USA, praticamente ignoto nel resto del mondo, è la prima regia di Steven Zaillian, a cui faranno seguito A civil action e Tutti gli uomini del re. Tutti film con un notevole cast, una storia interessante, anche se sempre molto americana, il cui difetto principale direi che è sempre proprio nella regia poco coinvolgente.

Forse Zaillian dovrebbe limitarsi a fare lo sceneggiatore, e lasciare la regia ad altri. Sue le sceneggiature del film che ha diretto, oltre a svariati altri, tra cui il recente Moneyball, e la riscrittura di Millennium per la versione di Fincher.

Qui, come dice uno dei due titoli con cui il film è noto in Italia, si parla di Bobby Fischer, ma non direttamente (vedi semmai il recente documentario HBO, Bobby Fischer against the World, se interessato all'argomento) bensì dal punto di vista della carriera scacchistica di Josh Waitzkin, un altro bambino prodigio che ha fatto faville per qualche anno in quel campo, per poi dedicarsi ad altro. Pur trattando una vicenda reale, è uno di quei casi dove quando la realtà incontra la cinematografia, è la seconda che vince. Nonostante tutto finisce per avere un suo interesse, direi quasi sociologico più che narrativo.

Un bambinetto di sette anni impara a giocare a scacchi guardandolo fare da una banda di balordi in un parco cittadino newyorkese. Già, perché gli scacchi negli USA sono (anche) un gioco di malaffare. La figura del barbone con scacchiera che batte i passanti in cambio di pochi dollari è abbastanza popolare. Vedi anche Basta che funzioni di Woody Allen per qualcosa di simile. Ancora più sorprendente che pure i piccoli delinquenti siano dediti agli scacchi, che vengono integrati egregiamente nella loro subcultura, puntando tutto sul lato emotivo del gioco, riducendo al minimo il tempo disponibile, e privilegiando uno stile di gioco aggressivo al massimo livello. Nel film finisce che uno di costoro (Laurence Fishburne) vede nel bambino un potenziale nuovo Fischer, e gli insegna la sua visione del gioco. In parallelo, il padre (Joe Mantegna) si accorge della capacità del figlio e va in visibilio. E qui si finisce nell'ossessione principe della cultura americana per il vincitore. Il giovane Waitzkin può essere un numero uno. Non importa in cosa, importa essere vincenti. Dunque occorre puntare tutto su quella potenzialità, tutto il resto conta zero. In questa prospettiva, cerca qualcuno che possa dargli migliori basi teoriche, e lo trova in uno scalcagnato gestore di un club di scacchisti (Ben Kingsley), con un passato da giocatore ma ormai disilluso. Costui cerca di dissuadere il padre, facendogli capire che la vita di uno scacchista professionista non è quello che una persona normale dovrebbe volere per il proprio figlio. Argomento che cade nel nulla.

Anche una maestra (Laura Linney) tenta di fare notare che un bambino dovrebbe avere una vita più varia, ma ottiene l'unico risultato di spingere il padre a iscrivere il figlio ad un altra scuola. Qualche piccolo risultato lo ottiene la madre, che si oppone al tentativo di dare a suo figlio una mentalità da squalo - l'unica cosa che conta è vincere, e l'avversario deve essere distrutto - anche se accetta placidamente tutto il resto. La famigliola si mette così a frequentare il folle ambiente dei tornei giovanili (mi verrebbe da dire infantili), dove i più intemperanti sono, come è naturale aspettarsi, i genitori, che scaricano sui figli le loro frustrazioni. Occasione per noi per vedere all'opera una strana galleria di personaggi interpretati, tra gli altri, da William H. Macy e Robert Stephens.

Il succo è che il mini-scacchista si trova a dover tenere a bada forze diverse, e lui, in maniera molto zen, sembra riuscire a trovare la giusta via di mezzo. Su tutto ciò aleggia il fantasma di Fischer che, non essendo riuscito a trovare un bilanciamento, ha finito per andare completamente fuori di testa.

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