La dea dell'amore

La possente Afrodite (Mighty Aphrodite) deve essere sembrato alla distribuzione italiana un titolo troppo oscuro, invece avrebbe fatto capire subito allo spettatore che il film si gioca su due piani, apparentemente inconciliabili, che però si fondono miracolosamente senza problemi.

Le due location principali sono New York e la Magna Grecia (Teatro Greco di Taormina). Si parte con un coro greco che introduce una tragedia, che però si svolge a Manhattan, e ha come protagonista un giornalista sportivo (Woody Allen), sposato ad una gallerista (Helena Bonham Carter) che sembra avere una certa vena di agitazione interna (sapete com'è la Bonham Carter). Vorrebbe un figlio ma non ha tempo per una gravidanza, e così preme per una adozione. Lui non è convinto, ma lei l'ha vinta rapidamente, con gran soddisfazione di entrambi.

I problemi nasceranno dopo alcuni anni, quando lui vorrà indagare sui veri genitori del figlio, che si rivela essere un bel bambino intelligente. Contro tutte le sue aspettative, scoprirà che la madre è una prostituta (una strepitosa Mira Sorvino) non molto brillante, che viene da una famiglia disastrata, e non si sa chi possa essere il padre.

Nel cercare di aiutare la madre naturale del figlio, cerca di piazzarla con un altrettanto poco brillante pugile in disarmo. Sembra che tutto proceda per il meglio, ma la catastrofe è imminente. Il pugile scopre la carriera precedente della fidanzata, e non è felice. La moglie, d'altro canto, pensa ad una rottura.

Tragedia e commedia, dunque, si fondono. Personaggi del teatro greco appaiono a New York, e interagiscono con protagonista, il quale non disdegna di continuare le discussioni a Taormina, seguito anche dalla moglie.

Geniale il personaggio della prostituta/attrice porno. Teoricamente dovrebbe essere una figura disprezzabile, per la sua professione, per aver abbandonato il figlio, per la sua scarsa intelligenza, per i suoi gusti, e anche per le sue ambizioni impossibili, vorrebbe fare l'attrice "seria", ma ha una impossibile vocetta acuta e una capacità attoriale inesistente. Eppure, anche solo a prima vista, non si può fare a meno di volerle bene, e non per il prorompente fisico messo in mostra senza risparmio.

Interessante notare come, in un modo o nell'altro, tutti i personaggi principali siano dei perdenti, eppure (magia delle commedie) avranno tutti modo di avere, ognuno a loro modo, il proprio happy ending.

La cura alleniana si vede anche nella scelta di attori come Jack Warden, Olympia Dukakis e Paul Giamatti per ruoli minori.

La talpa

La prima visione non mi aveva convinto, ma avevo avuto immediatamente la netta percezione che il problema fosse più in me che nel film, e la seconda visione me lo ha confermato.

Credo che il mio problema stesse nell'intricatezza della trama spionistica narrata, che mi ha distolto da quello che credo sia il tema principale del film, ovvero uno studio sulla fiducia bene (o male) riposta nelle relazioni di amicizia e amore. Dato l'ambiente spionistico in tempi di guerra fredda, è tutto un fiorire di casi in cui ci si deve fidare di altri, o anche affidare completamente, lasciando che la propria vita dipenda dalle decisioni altrui.

E sì che se avessi fatto maggiormente caso al nome del regista (Tomas Alfredson) e avessi ragionato sul suo precedente film (Lasciami entrare), avrei avuto un buon indizio nella direzione giusta da seguire.

Ma prima di spoilerare senza ritegno, piazzo il trailer del film, così da dare il tempo di allontanarsi a chi non apprezzi.

Protagonista della vicenda è Smiley (un eccellente Gary Oldman), spia di alto rango del servizio di Sua Maestà britannica che, in seguito ad un pasticciaccio brutto a Budapest di cui lui non sa praticamente nulla, viene dimissionato a forza da Control, capo supremo (John Hurt), come ultimo atto prima di lasciare il comando.

Vive la cosa molto male, un vero tradimento della fiducia che aveva riposto in Control, anche perché aveva appena scoperto che la moglie lo tradiva con un piacente collega (Colin Firth).

Passa qualche tempo, Control muore, e vertici si convincono che dopotutto aveva ragione lui, l'origine dei problemi nello spionaggio inglese era la talpa che l'avventata missione ungherese avrebbe dovuto smascherare, ma i russi era stati più furbi. Chiaro? No? Non c'è da preoccuparsi, le cose poi diventano molto più complicate.

Intanto Smiley scopre che quella che aveva pensato fosse una ingiustizia nei suoi confronti, non era altro che l'ultima mossa di Control a vantaggio del suo protetto. Essendo la talpa ancora al lavoro dopo l'epurazione di Smiley, risulta evidente la sua innocenza, e dunque diventa il candidato ideale per lo sporco lavoro di ricerca del vero colpevole.

A questo punto la storia prosegue in due direzioni temporali, nel passato, a seguire le indagini e i ricordi di Smiley, e nel presente, dove si svolgono le conseguenze di tutto quello che era successo prima. Praticamente tutti i personaggi principali sono legati da una intricata rete di relazioni di fiducia (e/o amore, anche omosessuale, e per di più a vari livelli di esplicitazione) che si risolvono spesso con la morte di qualcuno e con gran rammarico per molti tra i sopravvissuti. Tra i pochi che ne escono relativamente bene c'è il protagonista, che riuscirà a dipanare l'intricata matassa sia spionistica sia personale.

Nonostante la regia di Alfredson sia encomiabile nel gestire la complessità dell'azione, anche questa volta mi è scappato qualche particolare, e mi è rimasto qualche dubbio su alcuni aspetti secondari. Direi dunque che è meglio arrivare preparati, leggendosi prima il romanzo di John le Carré. O di non preoccuparsi troppo se qualcosa non quadra, e magari mettere in conto più di una visione.

Ciliegine

Scritto (assieme a Daniele Costantini), diretto e interpretato da Laura Morante che, se si conferma tra le migliori attrici italiane, mostra di avere qualche incertezza negli altri ruoli, anche se c'è da dire che trattandosi di opera prima se l'è cavata egregiamente.

Il titolo originale (è una coproduzione italo-francese girata a Parigi) è La cerise sur le gâteau, che avrebbe potuto essere reso in italiano come La ciliegina sulla torta. Chissà perché invece no.

Mi è sembrato di vedere una versione al femminile di una commedia di Woody Allen, anche grazie alla bella colonna sonora retrò di Nicola Piovani. Cast artistico di ottimo livello, quasi tutto al francese, con un minuscolo ruolo per Ennio Fantastichini.

Lei, la Morante, ha un evidente problema con gli uomini, iper-razionalizza tutto e considera ogni minima disattenzione del partner come dimostrazioni esplicite di mancanza di interesse. Vediamo sin dall'inizio come tartassa il suo povero fidanzato corrente al punto che, pur ammettendo che abbia commesso una incresciosa serie errori marchiani (in occasione del primo anniversario le regala un accendino quando lei ha la fissa di voler smettere di fumare, ordina champagne assieme al dolce, non pensando che a lei danno fastidio le bollicine, e finisce pure per mangiarsi distrattamente l'unica ciliegina sulla torta) non sono riuscito a non solidarizzare con lui.

Che non riesca ad accettare le sue debolezze? E che dunque agisca d'anticipo sottolineando quelle del suo partner? Non mi è chiaro. Fatto è che pare veda tutti gli uomini come ammassi semoventi di difetti ed insensibilità. Del resto anche con le donne non è che leghi moltissimo, in pratica ha una sola amica (Isabelle Carré, brava, un po' sacrificata nel ruolo) che cerca di indurla ad essere meno rigida, ma senza gran successo.

Come può un caratterino del genere trovare un compagno? Ci vorrebbe un miracolo, oppure un equivoco. Infatti un clamoroso fraintendimento fa sì che pensi che un collega della sua amica (Pascal Elbé, costretto dal ruolo ad una interpretazione molto trattenuta, ma se la cava egregiamente) sia gay, questo lo spinge a non considerarlo una minaccia, e a lasciarsi andare con lui.

Tutto bene per lei, grosso guaio per lui che, quando scopre l'inghippo si trova incapace di rivelare la verità alla donna di cui si è innamorato, per timore di perderla, e si vede costretto a giocare un doppio ruolo che, oltre a non dargli risultati, finisce pure per mandarlo sull'orlo di una crisi di nervi.

La soluzione è un po' arzigogolata, e coinvolge un paio di psicologi (quello di lui e il marito dell'amica di lei) che sembrano, in puro stile alleniano, più parte del problema che strumentali alla risoluzione.

Conclusione raccontata con un semplice sguardo della protagonista, che vale più di mille parole.

Il braccio violento della legge

Primo grande successo di William Friedkin, che continua con alti e bassi la sua attività fino al recente Killer Joe, è anche il suo primo approccio al genere che in Italia chiameremmo poliziottesco. Prima si era dedicato prevalentemente a commedie, spesso venate da sfumature satiriche, come il simpatico Quella notte inventarono lo spogliarello, dove una amish si trova improbabilmente a diventare una acclamata stripper newyorkese.

Qui cambia completamente registro, siamo sul quasi-documentaristico, sottolineato dall'uso frequente della macchina da presa a mano, al servizio di una vicenda che è centrata su un poliziotto dell'antidroga newyorkese (Gene Hackman), dal comportamento a dir poco questionabile. A fargli da spalla ci sono niente meno che Roy Scheider, compagno di avventure, e Fernando Rey, la mente della "French connection" del titolo originale.

I due comprimari, nonostante la presenza scenica, sono costretti in un ruolo di puro supporto, Scheider caratterizza il poliziotto "buono" che si fida quasi ciecamente del compagno, pur cercando di contenere il suo strabordante carattere; Rey è l'ingegnoso "cattivo", confusamente straniero (sarebbe francese, ma quando parla inglese lo fa con uno smaccato accento spagnolo, come è lecito aspettarsi), che organizza un piano (che a ben vedere è pieno di falle) per portare alla mafia italo-americana un carico di eroina, e averne in cambio un bel gruzzoletto.

Hackman, in teoria, dovrebbe essere il personaggio di cui lo spettatore dovrebbe prendere le parti. Il problema è che mescola tratti relativamente positivi ad altri decisamente spiacevoli. È rissoso, irascibile (non per niente soprannominato Popeye), parte come un segugio alla ricerca del traffico solo per cercare di raddrizzare una carriera traballante (si accenna a tragici errori precedenti), maltratta sospetti e informatori e, a ben vedere, anche comuni cittadini che si trovano casualmente a passargli davanti. E, infine, pur avendo tra le mani un caso importante, finirà per fare un pasticcio.

Punto chiave del film, che lo rende memorabile, è l'inseguimento di Popeye di un presunto pericolosissimo killer francese (che si rivela essere un incapace male organizzato) che ha appena tentato di ucciderlo. Il killer dirotta un treno della metropolita, Popeye requisisce l'auto di un povero disgraziato (la ridurrà ad un rottame) e gli corre dietro - o meglio, sotto, visto che è una di quelle linee che corrono sopra la strada.

Sembra quasi che la regia segua il carattere del protagonista, sviluppando l'azione includendo episodi evidentemente insensati, come quando vanno in un bar, per contattare un informatore. Tutti gli avventori (di colore) sembrano essere spacciatori, con le tasche piene di varie droghe. Nella vita reale è semplicemente assurdo, cosa fanno, se la scambiano tra di loro? Sembra dunque più una proiezione della fantasia bacata di Popeye, che vede in ogni "nigger" un delinquente. Ma del resto non ce l'ha solo con loro. Italiani, ebrei, francesi, sono tutti pericolosi. Gli altri, al massimo, se ne devono stare fuori dai piedi per lasciargli fare il suo lavoro.

C'è anche una scena di sesso, anche questa completamente assurda. Popeye ha passato una notte ad ubriacarsi, si risveglia al mattino sul bancone del bar. Guida in una qualche maniera fino a tornare a casa, quando vede una bella figliola in bicicletta. Taglio, e si riprende che il collega lo cerca a casa, e lo trova (in un caos primigenio) in compagnia della suddetta. Come diavolo ha fatto non dico a portarsela a casa, ma anche solo a dirle le sue intenzioni, date le sue condizioni fisiche e mentali resta un mistero senza soluzione.

Ma tutta la storia è piena di fatti insensati, alternati a lunghe sequenze in cui non succede nulla (appostamenti, pedinamenti che non portano a nulla). Eppure questo marasma ha un suo strano fascino, sia perché è denso di episodi che poi abbiamo visto e rivisto in numerosi film di genere, sia grazie alla regia che riesce a tenere insieme i vari elementi portandoci, in un modo o nell'altro, al finale.

Chico & Rita

Candidato all'Oscar, multipremiato in patria con un Goya e due Gaudì, e in Europa per il miglior film di animazione. Da noi o non è arrivato o ha fatto un passaggio così fuggevole che non me ne sono accorto.

Se ne parla bene nel blog de La Tosca, da cui è scaturita la mia ricerca che, con un po' di pazienza ha dato i suoi frutti. Non ho trovato il DVD italiano, ma ho ripiegato sulla versione inglese, facilmente rintracciabile e a prezzi contenuti.

La storia è parzialmente basata sulle avventure giovanili di Bebo Valdés, che ha pure scritto l'eccellente colonna sonora. Un po' mi ha ricordato Appuntamento a Belleville, visionaria animazione francese, con cui spartisce l'interesse per il lato musicale del racconto, e naturalmente il Buena Vista Social Club di Wim Wenders.

Ci sono due filoni narrativi, da una parte abbiamo una tormentata e lunghissima storia d'amore tra i due protagonisti, che si svolge tra Cuba, New York, Parigi, Las Vegas (con scampoli nel finale in giro un po' per tutto il mondo). Dall'altra seguiamo gli anni ruggenti del jazz cubano, e del suo influsso su quello americano (come guest star appaiono Dizzy Gillespie, Cole Porter, Thelonious Monk). C'è anche modo di offrire qualche considerazione sull'ambigua situazione degli artisti non WASP nell'America di quei tempi, accettati e corteggiati, a patto che stessero nei loro ranghi.

Punto debole del lavoro è la qualità dell'animazione, immagino per tenere il budget dentro limiti ragionevoli. Ma nonostante gli evidenti limiti generali, la cura messa nella rappresentazione delle architetture cittadine è quasi maniacale, la Cuba pre-rivoluzionaria, con tutte quelle insegne pubblicitarie, è veramente notevole. Molto belle anche le scene in cui Rita balla, e altre sequenze minori, come quelle in cui si mostra la tendina trasparente mossa dal vento nella casa di Chico, o lo schianto di una vettura (interessanti tutte le vecchie auto disegnate con evidente gusto) mostrato al rallentatore.

Le avventure del barone di Munchausen

Il barone di cui si narrano alcune vicende in questo film è realmente esistito, e la sceneggiatura e regia di Terry Gilliam ha solo adattato alla sua sensibilità e intenzioni quelli che sono i fatti come furono narrati dal barone stesso - e successivamente ripresi e abbelliti da altri narratori. Sulla veridicità dei quali, checché ne dica il Munchausen, io non mi sbilancerei troppo.

Tecnicamente il film è di una bellezza estasiante, merito di nomi come Giuseppe Rotunno, Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Gabriella Pescucci, che hanno dato un cuore italiano alla bizzarra visionarietà di Gilliam. Purtroppo la sceneggiatura non regge per tutte le due ore del film, in particolare ho trovato la parte centrale (viaggio sulla Luna) un po' noiosetta.

La storia è quella di una compagnia teatrale che recita le avventure del barone in una città sotto assedio dei turchi. Ma recitano così male che il barone stesso decide di intervenire per ristabilire la realtà, e raccontare come sono andate davvero le cose. Spiega dunque che la guerra è tutta colpa sua, perché ha tirato un tiro birbone al sultano, che l'ha fatto uscire dai gangheri. Però si dice disposto a rimediare, con l'aiuto delle damigelle presenti, costruisce una mongolfiera per scappare dall'assedio, e recupera i suoi servitori dai poteri favolosi, andandoseli a cercare sulla Luna, in fondo a un vulcano (l'Etna, credo), e persino nella pancia di un mostruoso pesce. Ricreata la combriccola, si deve superare l'ultimo piccolo problema: sono tutti quanti vecchi e sfiduciati, e non hanno più voglia di avventure incredibili. Ma il barone troverà il modo di superare anche questo ostacolo, sconfiggendo nuovamente il sultano.

In realtà ci sono svariati sottotesti, che rendendo la visione anche più interessante. Il barone è vecchissimo, e spesso si fa prendere dal desiderio di darla vinta alla sua vera grande nemica (la morte che, con tanto di falce, tenta più volte di chiudere la partita con questo cocciuto avversario), ma c'è sempre qualcosa, le belle donne, in genere, ma anche il senso di responsabilità dovuto dal suo ruolo, o anche solo la cocciutaggine del bastian contrario, che gli fanno cambiare idea. Eccetera.

Notevole il cast, a partire dallo strepitoso barone, interpretato da un ottimo John Neville, che nonostante l'età direi che era al suo primo ruolo importante. È morto giusto un anno fa, o forse se ne è volato sulla Luna, a cercare nuove avventure.

Nel film, la Luna è governata da due giganti con problemi di personalità, interpretati da Robin Williams e Valentina Cortese. Jonathan Pryce, invece, è un ufficiale francese molto razionale, molto mediocre, che naturalmente ha in grande antipatia la generosa irrazionalità del barone. Ma non è che ce l'abbia solo con lui, neanche con Sting, un suo valoroso commilitone, ha un rapporto molto felice. Nella sezione mitologica incontriamo Vulcano (Oliver Reed) e Venere (Uma Thurman), che ovviamente si invaghirà del barone.

Eric Idle, tra i servitori del barone, è l'unico (altro) pitoniano nel film.

E Johnny prese il fucile

Racconta la storia di un giovane americano che parte volontario per la prima guerra mondiale, una bomba lo coglie, e rimane senza braccia e gambe, e pure la testa subisce danni consistenti, lasciandolo incapace di vedere, sentire, parlare. Per fortuna del protagonista (Timothy Bottoms al suo primo ruolo cinematografico), buona parte dell'azione si svolge in flash-back o in suoi sogni/incubi dove appare senza com'era prima dello scempio. Quando lo vediamo nella condizione reale è sempre coperto da maschere e teli che nascondo l'orrore della sua condizione, ma non aiutano molto l'attore a bucare lo schermo.

È una evidente condanna della stupidità della guerra in genere, e degli ufficiali in particolare, considerando che Johnny viene beccato dalla bomba a causa di uno sciocco ordine, e viene mantenuto in vita in quelle condizioni pietose per un non ben chiaro esperimento di un medico militare.

Il film è basato sull'omonimo romanzo di Dalton Trumbo, che ha estratto la sceneggiatura (con il supporto di Luis Buñuel) e lo ha diretto, ritagliandosi pure una particina secondaria. È stata l'unica regia di Trumbo, ma non ci siamo persi molto. Infatti il suo talento era come sceneggiatore, e la prova sta in sue creature come Papillon, Spartacus, Vacanze romane.

Pare che il contributo di Buñuel al film sia relativo in particolare alle sequenze in cui il soldatino sogna di parlare con Gesù (Donald Sutherland), scene che hanno effettivamente una visionarietà che ricorda quella del maestro spagnolo.

Non è il Messia (È un ragazzaccio)

Oltre a non essere il Messia, non è nemmeno un film. È la ripresa di esecuzione dell'oratorio scritto da Eric Idle e John Du Prez, tenuto al Royal Albert Hall nel 2009 per celebrare il quarantesimo dei Monty Python, e adattato per dare spazio ai tre altri Pyhton che hanno partecipato (assente ingiustificato John Cleese). Regia affidata a Aubrey Powell, che aveva già ben dimostrato in passato di saper seguire eventi live, come i Deep purple, sempre all'Albert Hall dieci anni prima.

Si tratta di una folle rielaborazione del Messiah di Georg Friedrich Händel, incrociata con Brian di Nazareth, film che racconta la vicenda di un vicino di casa di Gesù Cristo, scritto dai Monty Python al gran completo (in ordine alfabetico: Graham Chapman, John Cleese, Terry Gilliam, Eric Idle, Terry Jones e Michael Palin).

Forse conviene sconsigliarne la visione a chi sappia di cosa sto parlando, o meglio, consigliare di vedersi almeno il film originale prima di gustarsi questa variazione musicale. Inoltre, alcune gag risulteranno poco chiare a chi non si sia visto il Monty Python's Flying Circus, serie televisiva BBC di quarant'anni fa, per l'appunto.

Gli altri si godranno l'affascinante messa in scena supportata dall'orchestra della BBC al gran completo.

I banditi del tempo

Un Terry Gilliam ancora in periodo Monty Python (John Cleese e Michael Palin sono nel cast artistico e il secondo ha anche collaborato alla sceneggiatura) ha creato questo strano incubo infantile, che m'è venuta voglia di rivedere in seguito alla visione della Biancaneve di Tarsem Singh, in cui compaiono dei bizzarri nanetti che direi ispirati proprio da questo titolo.

Il mio animo grettamente razionalista mi fa leggere la vicenda come una elucubrazione infantile su una vicenda drammatica, in modo da (a) trovare una spiegazione in un fatto inspiegabile, la perdita di tutto nel breve passaggio di una notte (b) difendersi da un irrazionale senso di colpa che comunque pesa.

Un bambino mediamente sveglio, e con un certo interesse per la storia, è afflitto da una coppia di genitori demoralizzanti, interessati solo ad un bieco consumismo che li porta a pensare solo all'ultimo modello di forno a microonde, a sedersi su divani ancora incellophanati, per guardare programmi televisivi in cui per i soldi si è disposti a sacrificare tutto (magari trent'anni fa sembrava assurdo, oggi un po' meno).

Una notte ha uno strano incubo, un cavaliere medioevale passa al galoppo nella sua stanza, e la notte successiva decide di prepararsi con macchina fotografica, pila, e altro a quant'altro può accadere. E in effetti accade qualcosa di molto strano, una banda di rissosi nanetti piomba nella sua stanzetta. Costoro affermano di essere briganti internazionali e mostrano di avere una improbabile mappa di buchi spazio-temporali, che hanno sgraffignato niente di meno che all'Essere Supremo ("Dio?", chiede il ragazzino, "Non siamo così in confidenza con Lui", rispondono loro). Lo scippato non sembra molto contento della perdita, e dunque la banda fugge, trascinandosi dietro il nuovo elemento.

Seguono curiose avventure che ci portano a conoscere gente come Napoleone (Ian Holm), ossessionato dalla sua altezza; Agamennone (Sean Connery), amante dei giochi da prestigiatore; uno svampito Robin Hood (John Cleese). Un salto sul Titanic (dove la banda ha modo di interrompere per una seconda volta la relazione amorosa di una improbabile coppia interpretata da Michael Palin e Shelley Duvall) fa da tramite poi verso il mondo della fantasia, dove avranno a che fare un un orco (Peter Vaughan) e signora (Katherine Helmond), e un inesplicabile gigante anfibio, prima di arrivare alla corte del genio del male, dove si consumerà l'ennesimo capitolo della sua lotta contro l'Essere Supremo, che ci apparirà nelle sembianze di Ralph Richardson.

Una struttura narrativa che temo possa piacere più ad un pubblico adolescente (o a chi conosce e apprezza i Monty Python) che ad uno spettatore medio. Però sono trattati, con molta leggerezza, alcuni temi profondi che dovrebbero dare di che ragionare un po' a tutti quanti.

La divina commedia

Regia di Manoel de Oliveira, su sua sceneggiatura che pesca a piene mani dalla Bibbia, e da opere di Fyodor Dostoevsky, Friedrich Nietzsche e José Régio (importante autore portoghese novecentesco a me sconosciuto). Il risultato mi pare estremamente ostico, nonostante l'altissima qualità di tutti gli ingredienti in campo. La durata eccessiva, l'impostazione centrata su lunghissimi dialoghi tra i diversi personaggi, la tesi stessa dell'opera, la rendono poco fruibile. Ed è un peccato, perché mi pare che un minimo di attenzione allo spettatore avrebbe potuto portare ad una tragicommedia surrealista alla Buñuel molto più godibile.

In un certo senso, la storia narrata mi ha fatto pensare a Il medico dei pazzi, commedia degli equivoci di Eduardo Scarpetta portata sullo schermo da Mario Mattioli, protagonisti Totò e Aldo Giuffrè. L'azione si svolge infatti in una strana clinica psichiatrica privata che sembra essere una gigantesca messa in scena. Al punto che a metà film viene un visitatore che si presenta come Ivan Karamazov venuto a parlare col fratello Aliosha, e il direttore non si mostra minimamente stupito. Al contrario, è Ivan che chiede di essere internato, in quanto usurato dalla fatica di vivere.

Il riferimento a Dante credo voglia dare una chiave di lettura, indicando come tema la ricerca di un dio che dia un senso alla vita. Anche se qui non si arriva da nessuna parte, nessuno sembra avere una risposta convincente, lo stesso direttore dell'istituto (che immagino essere l'alter ego del regista) alla fine finisce per gettare la spugna (in modo molto Buñueliano).

Da notare che, a parte il fatto che la macchina da presa è fissa, sembra quasi si assistere ad un film Dogma 95 ante litteram. Ad esempio la (eccellente) musica del film è solo quella suonata al pianoforte da una paziente.

Italiano per principianti

Da quello che ho letto, sarebbe stato distribuito ai tempi in Italia in lingua originale (danese, Italiensk for begyndere) sottotitolato, e dovrebbe esistere il DVD che riporta quella edizione. Io invece mi sono imbattuto nell'edizione americana (Italian for beginners) "Miramax classics", sempre in lingua originale ma sottotitolata inglese. Noto anche come Dogma #12, in quanto dodicesimo film prodotto seguendo il terribile manifesto Dogma 95.

Scritto e diretto da Lone Scherfig (ma la regia non è accreditata, regola 10), si tratta di una vivace commedia sentimentale, resa meno fruibile dalle altre regole del manifesto, in particolare nella prima parte, quando non si capisce bene cosa sta succedendo. Girato dunque in formato quattro terzi, con macchina da presa a mano, senza luci che non siano quelle naturali, mai in studio, niente colonna sonora, se non un O sole mio cantato per i turisti a Venezia e un brano per piano solo sui titoli di coda.

Chi non si sia spaventato da quanto sopra, dovrebbe godersi una storia non banale che coinvolge principalmente un gruppetto di danesi (e una italiana, interpretata dall'italo-danese Sara Indrio Jensen) che hanno in comune la partecipazione ad un corso di italiano, come da titolo.

Nonostante il poco tempo a disposizione, i personaggi principali non sono dei bozzetti, ma mostrano tutti la complessità del loro carattere. Abbiamo un prete (protestante) che ha appena perso la moglie, e si trova a far da supplente per un collega che sembra essere andato fuori di testa; un burbero barista che maltratta la clientela e la cameriera (la Jensen); una piacente parrucchiera (Ann Eleonora Jørgensen) che ha un rapporto complicato con la madre alcolizzata; una pasticcera maldestra con un padre tremendo; un'impacciato dipendente d'albergo con notevoli problemi con le donne, e altri personaggi minori.

Si inizia con una carneficina, muoiono infatti in rapida successione padre, madre, e pure insegnante del corso (strano, no? come se si volesse fare piazza pulita di tutti coloro che hanno un qualche potere autoritario), e i protagonisti si danno da fare per trovare un nuovo equilibrio, scoprendo capacità in loro stessi e negli altri.

Un maggior affrancamento dal verbo del Dogma avrebbe giovato, ma il risultato è comunque interessante.

L'arte di cavarsela

Produzione indipendente molto newyorkese e molto young adult, con la particolarità di mettere assieme Emma Roberts, figlia di Eric ma soprattutto nipote di Julia (nel senso che lei è la zia, non la nonna!), e Sasha Spielberg, figlia di Steven e Kate Capshaw. Emma protagonisteggia e non bisogna essere dei geni per vaticinare una sua rapida scalata nello star-system, mentre Sasha ha una parte secondaria e non mi è chiaro se faccia cinema per passatempo o se stia aspettando una buona occasione.

Protagonista maschile è Freddie Highmore, già Charlie nella Fabbrica di cioccolato versione Tim Burton, che qui è un ragazzino in piena crisi depressiva ma che per sua fortuna incontra una serie di persone (in particolare la giovane Roberts, ma che te lo dico a fare - cit. Donnie Brasco) che lo spingono ad uscire dalla melma in cui era finito per ... non si sa, il film finisce prima.

Prima regia (e sceneggiatura) di Gavin Wiesen, fa bene il paio con La collina dei papaveri, per il tema trattato e lo stesso piglio lieve e sbarazzino, anche se il risultato è inferiore, a mio gusto rovinato da un finale troppo scontato. Forse Wiesen ha voluto evitare di clonare la fine di Manhattan, eppure mi pare che sarebbe stata la scelta migliore.

Adeguata e piacevole la colonna sonora, stile compilation e quasi completamente a cura di artisti indie come i Mates of state o i Pavement, ma con la notevole eccezione di Winter lady di Leonard Cohen.

La collina dei papaveri

Lo spettatore che notasse una riduzione della complessità delle animazioni di questa ultima produzione dello studio Ghibli, dovrà ricordare che il film è stato realizzato ai tempi dello tsunami, in condizioni estremamente disagiate, riuscendo nonostante tutto ad arrivare alla distribuzione nei tempi previsti.

È la seconda regia di Goro Miyazaki, che ha questa volta ottenuto un maggior supporto dal babbo Hayao (gli sarà passata l'arrabbiatura per I racconti di Terramare?). Storia completamente diversa, che mi ha fatto pensare al nostro neorealismo, tratta da un manga che converrebbe leggersi per capire alcuni passaggi che la sceneggiatura ha considerato sacrificabili.

Colonna sonora affidata a Satoshi Takebe che ha realizzato uno strano miscuglio di canzonette anni sessanta e musiche di ispirazione più remota, anni venti o giù di lì, che comunque direi funzioni.

Vicenda molto semplice, due ragazzi si conoscono a scuola, lei è molto metodica e ordinata, lui irruento. Si piacciono e sembra che parta un amoretto adolescenziale, ma c'è l'impiccio da romanzo d'appendice, pare che i due siano fratello e sorella. Cercano dunque di accantonare l'amore e restare amici, ma è praticamente impossibile. Fortunatamente si arriva allo scioglimento finale che rimette a posto le cose.

Minimalismo nei primi anni sessanta (vediamo manifesti che annunciano la incombente olimpiade di Tokio del 1964), che lascia anche un piccolo spazio ad una sottotrama pre-sessantottina, con gli studenti che combattono per salvare un vecchio edificio (chiamato Quartiere Latino) che per loro è un modo per difendere la loro storia, per quanto minore.

Non ci sono grosse sorprese, tutto fila nel registro della quotidianità, ma non sono riuscito a togliermi dalla faccia un sorriso dalla sequenza iniziale (la protagonista che al mattino prepara da mangiare per tutta la famiglia) a quella finale.

A beautiful mind

Dal poco che ne so, la vita di John Nash è molto più complicata e meno presentabile di quello che ci viene fatto vedere nel film. E anche il suo apporto alla matematica moderna è molto più significativo di quello che si lascia vedere. Ma tenendo conto delle necessità di una produzione hollywoodiana non è che ci si poteva aspettare qualcosa di diverso.

Suona strana la decisione di dare la parte del protagonista a Russell Crowe che, anche se ci mette tanta buona volontà, non è che risulti molto credibile come nerd all'ennesima potenza, soprattutto considerando che veniva da Il gladiatore, e stava andando verso Master and Commander. Meglio nella seconda parte, dove appare molto invecchiato, quando il pesante trucco, e il mestiere, gli permettono di dissimulare la notevole muscolatura.

La regia di Ron Howard non mi ha entusiasmato, con alcune idee carine (l'illuminazione del protagonista mostrata illuminando l'oggetto) ma iterate fino allo sfinimento. Bella la colonna sonora di James Horner.

Non è facile raccontare al cinema la vita di un matematico con problemi mentali non indifferenti (schizofrenia paranoide, tanto per gradire). L'approccio seguito è quello di puntare ad sorta di thriller, lasciando nel dubbio lo spettatore se il protagonista sia matto o vittima di un complotto. Succede perciò che Paul Bettany non si capisce bene, fino a metà film, se sia un amico bizzarro o immaginario, e non è chiaro se Ed Harris sia un militare paranoico o se è un prodotto della paranoia del protagonista. Si arriva al punto che quando entra in scena Christopher Plummer nelle vesti di uno psichiatra (dai metodi che al giorno d'oggi fanno venire la pelle d'oca) ci si chiede se sia reale o una ennesima fantasia.

Superata la metà, si abbandona il mistero, e si passa alla parte più interessante. Come può fare il protagonista a superare il guaio che gli è capitato? Se prende i medicinali le visioni scompaiono, ma scompare pure la creatività, la possibilità di vivere una vita che valga la pena di essere vissuta. La soluzione sarà quella indicata dalla moglie (Jennifer Connelly), non cercare di attaccare il problema con la mente ma con il cuore. Accettare di avere amici inesistenti, ma non dare loro confidenza, cercare di entrare in relazione con gli umani, anche se sembra difficilissimo, chiedere aiuto per capire se uno sconosciuto che lo contatta (Austin Pendleton che gli comunica che stanno pensando di dargli il Nobel - per l'economia, che per la matematica non esiste, causa ruggini tra Alfred Nobel e il matematico Mittag-Leffler, le malelingue mormorano per questioni di donne) sia reale o una allucinazione.

Monsters

Sembra fatto apposta per attirare, nella migliore delle ipotesi, commenti misti. Nel mio caso, guardandolo ho trovato alcuni passaggi particolarmente lenti, o scontati, o semplicemente stonati. Ripensandoci con calma, però, ho finito per apprezzare la costruzione ben più solida di quello che lascia immaginare il budget minimale, e una certa profondità della sceneggiatura (che pure risulta a tratti confusa e improbabile).

In breve, si può dire che è un film di Gareth Edwards, prima sua regia per un lungometraggio, di cui ha curato anche la sceneggiatura (storia originale), la fotografia, gli effetti speciali e le scenografie, che lo ha trasformato da emerito sconosciuto a debuttante da tenere sott'occhio, al punto che gli hanno affidato il prossimo reboot di Godzilla, progetto che coinvolge studios del peso della Legendary e Vertigo, e dunque dovrebbe significare svariate decine (se non centinaia) di milioni di dollari in ballo. Sarà interessante vedere se questo (relativamente) giovane regista inglese riuscirà a non farsi distrarre dalle megaproduzioni americane per riuscire invece ad imporre il suo punto di vista.

La parte fantascientifica consiste nel fatto che una missione NASA ha raccolto esseri viventi alieni (i contenuti speciali del DVD spiegano che l'idea è che vengano da una missione su Europa, luna gioviana), ma si è schiantata sulla via del ritorno. Sospendendo l'incredulità, dobbiamo accettare la premessa che questi alieni (simili a dei giganteschi molluschi anfibi) sono sopravvissuti all'incidente e si sono adattati a vivere nel Messico. L'azione parte sei anni dopo, al punto in cui pare che la politica di contenimento nel nord del Messico non regga, e i calamaroni minacciano di sfondare un gigantesco muro costruito sul confine tra USA e Messico (espandendosi nel contempo anche verso sud).

Un breve prologo ci mostra una azione militare americana, che sembrerà fuori contesto fino alla fine del film. Un consiglio a chi vedrà il film: memorizzare quello che succede, e ricordarsene al termine, perché in realtà tutto il film è un enorme flash-back, e scopriremo che non di prologo si tratta, ma di epilogo.

Il resto del film racconta di un giornalista-fotografo americano (Scoot McNairy) che si trova in centro-america quasi come fosse in zona di guerra (e mi ha fatto pensare a titoli come Salvador o Sotto tiro), che viene costretto dal suo capo a far da balia alla figlia (Whitney Able), ferita lievemente da un incontro con gli extraterrestri, e che dovrebbe tornare in patria - cosa complicata dai reciproci attacchi di molluschi ed eserciti umani, e da una sbronza inopportuna del protagonista.

A questo punto m'è sembrato che l'azione diventasse un misto di Jurassic park, Apocalypse now, e Lamerica. I due infatti cercano di rientrare negli USA seguendo vie da immigrati clandestini, risalendo corsi d'acqua e poi marciando nella giungla (cosa ci faccia una giungla nel nord del Messico non è chiaro, ma pazienza), sotto la minaccia di mostruosi esseri. Cammino che finisce per essere metaforico, rappresentando una la crescita della consapevolezza dei due protagonisti.

Anche gli inesplicabili alieni mi sono parsi molto simbolici. I centroamericani ci convivono senza molti problemi, e si chiedono perché mai i gringos abbiano quell'isteria da fortezza assediata nei loro confronti. I due americani all'estero, cambiando prospettiva, scoprono quanto sia bizzarro il proprio modello isolazionista, pur rendendosi conto che, una volta superato il muro, si dimenticheranno di quella loro osservazione. La reazione militare al problema alieno viene catalogata come sciocca, i cosiddetti danni collaterali sono più drammatici di quelli causati dai bestioni.

Detto tutto ciò, mi pare naturale che sia da chiedersi chi siano realmente i mostri citati nel titolo.

I racconti di Terramare

Lo studio Ghibli è una certezza, Goro Miyazaki, invece è qui alla sua prima regia. Nonostante sia figlio del mitico Hayao, non ha precedentemente fatto altro, alcuni dicono per la difficoltà di sostenere il cognome paterno, altri sono meno simpatetici.

E in effetti, tenendo conto delle altissime aspettative che generano la casa di produzione e il cognome Miyazaki, il risultato non convince appieno. Il confronto con i migliori prodotti della Ghibli, e di Miyazaki senior, sono ineludibili, e non si risolvono mai a favore di questo titolo. La qualità del disegno è buona, ma non mi ha mai (o quasi) lasciato senza fiato, bella colonna sonora (Tamiya Terashima) ma senza raggiungere l'impatto emotivo dei lavori di Joe Hisaishi, eccetera.

Non giova poi la scelta del soggetto, una rielaborazione di alcuni libri appartenenti alla saga di Earthsea di Ursula K. Le Guin, estremamente complesso e che lascia aperta una infinita serie di interrogativi a chi non sia addentro nelle storie (come il sottoscritto). C'è da dire anche che la riscrittura è stata così pesante da rendere irriconoscibile la vicenda alla stessa Le Guin, per cui penso che nemmeno gli appassionati dei romanzi siano rimasti molto soddisfatti.

Nonostante tutto ciò, si tratta di un'opera interessante, con alcuni passaggi magistrali, che lascia ben sperare per il futuro.

Per quanto detto sopra, è impossibile raccontare in poche parole quel che succede. Si inizia con una tempesta in mare, vista dalla prospettiva di una nave che mi pare in stile europeo-medioevale. Compaiono un paio di draghi, che combattono tra loro fino alla morte di uno dei due. Gran stupore tra la ciurma, non per l'apparizione in sé, ma per il fatto che i draghi siano in quella zona, e che combattano tra loro. Passiamo poi ad una corte in cui un re cerca di gestire una situazione complicata a base di pestilenze e carenze di risorse. Ma non ha modo di fare molto, visto che il figlio lo accoltella e scappa con la sua spada.

Cambio di scena, un tale viaggia su di un placido mare su una barchetta che sa tanto di Grecia antica, accosta tra rovine di case abbandonate e giganteschi galeoni, e poi si incontra con il ragazzetto di cui sopra, salvandolo da un attacco di feroci lupi. I due decidono di viaggiare assieme. Andranno in un città in cui si pratica lo schiavismo, da cui trae vantaggio un ambiguo mago androgino. Le cose si complicano ancora di più, ma il succo è uno scontro tra chi vuole mantenere il bilanciamento tra le forze della natura e chi mira a sovvertirlo per un proprio vantaggio (tema tipico dello studio Ghibli).

Il giovane parricida è mosso dal terrore della morte, non accetta che la sua vita sia limitata, e questo gli impedisce di vivere, e questo lo porta ad avvicinarsi al lato oscuro della forza, che promette (vanamente) di superare questo scoglio.

Come sempre (o almeno spesso) accade nei film Ghibli, saranno le donne a dare un apporto fondamentale alla conclusione positiva della storia.