Joe Wright torna in carreggiata dopo il non etusiasmante Pan, richiamandosi al suo precedente Espiazione (*) ed affidandosi ad una prova d'attore eccellente, ad opera di un Gary Oldman che riesce, grazie anche ad un supporto al trucco molto efficace, a rendere in modo a tratti stupefacente Winston Churchill. Molto brava anche Kristin Scott Thomas (moglie), efficaci anche gli altri comprimari, anche se a loro restano poco più che le briciole. Ha un poco più di spazio Lily James, nel ruolo della dattilografa che ha l'improbo compito di mettere su carta quello che le detta Churchill.
Il fuoco dell'azione è il breve periodo in cui Churchill assume la carica di primo ministro in un momento in cui nessuno se la sente di farlo. La Germania nazista è sul punto di mangiarsi l'intera Europa continentale, digerendosi nell'atto praticamente l'intero esercito inglese, schierato in quel momento in Francia. Viene fatto capire che l'idea del suo maggior nemico interno, il visconte Halifax, sarebbe quella di lasciarlo friggere nella situazione impossibile, per poi entare in gioco come salvatore della patria proponendo una umiliante resa che però possa evitare guai peggiori.
Le cose andranno ovviamente in maniera diversa, e dovremmo ben saperlo tutti, ma la narrazione è tale da tenere inchiodati per le due ore per vedere come la matassa verrà sgarbugliata.
Ovvio il riferimento a Dunkirk, che ci mostra fondamentalmente la stessa cosa ma dal punto di vista delle persone fuori dalle stanze del potere, e a Il discorso del re, dove lo spazio se lo mangia quasi tutto re Giorgio VI.
Come al solito, ottimo il lavoro di Dario Marianelli alla colonna sonora, che gioca benissimo in accordo alla regia di Wright.
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Morto Stalin se ne fa un altro
Come spiegato icasticamente dal titolo (*) si racconta della morte del Baffone sovietico, preceduta da un prologo in cui veniamo resi edotti del terrore che dominava la società del tempo, e seguita dalla lotta di potere che ne seguì. Sapendo che si tratta di un film di Armando Iannucci (**), il tono narrativo usato non dovrebbe sorprenderci, e infatti si satirizza senza risparmio sul potere e su chi lo mette al centro della propria vita.
Se nel prologo vediamo come anche solo trasmettere un concerto di musica classica da Radio Mosca poteva essere un'esperienza da perderci la testa, almeno per il responsabile del programma (Paddy Considine), nel proseguio assistiamo ad una lotta per il potere senza esclusione di colpi tra due partiti, uno capeggiato dal terribile Beria (Simon Russell Beale), l'altro dall'apparentemente inconsistente Nikita Chruščёv (Steve Buscemi). Il primo riesce a legare a sé Georgy Malenkov (Jeffrey Tambor), ufficialmente seconda carica del Partito e quindi nella posizione di succedere, almeno temporaneamente, al Piccolo Padre, in realtà un imbecille incapace di avere un qualunque sentore su cosa stia succedendo. Il secondo trama per costruire una qualche rete di protezione contro quello che potrebbe essere lo strapotere del suo avversario, ma si scontra con una specie di ipnosi collettiva che avvolge i suoi colleghi, vedasi ad esempio il ministro degli esteri Molotov (Michael Palin), che avrebbe dovuto essere morto per effetto dell'ultima purga staliniana, e che già avrebbe dovuto essere vedovo in seguito ad una precedente epurazione, e che nonostante questo mantiene una limpida quanto inesplicabile linea stalinista.
A indebolire la apparente inattaccabile posizione di Beria ci pensa lui stesso, abusando del proprio potere di capo del NKVD (***) scontentando l'esercito, che vediamo rappresentato nella figura del generale Zhukov (Jason Isaacs °), eroe dell'Armata Rossa nella seconda guerra mondiale, e facendo balenare agli altri elementi del comitato l'ipotesi di fare a breve una bruttissima fine, se e quando ne avesse la possibilità.
Svariati colpi di scena, e di pistola, cambiano più volte gli equilibri in campo, fino ad una soluzione che però sappiamo già avere al suo interno i germi per un ulteriore ribaltamento.
Difficilmente chi è ancora legato al mito stalinista gradirà la pellicola, ma questo non credo che sorprenderà nessuno. Meno chiara mi è sembrata la critica al film che ho sentito da parte di chi lo ha trovato non abbastanza rispettoso delle vittime di quella drammatica pagina di Storia. A mio parere Iannucci ha bilanciato adeguatamente gli aspetti tragici e quelli comici, e pur ridendo spesso delle battute e situazioni non ho potuto fare a meno dal rabbrividire per gli accadimenti mostrati spesso solo sullo sfondo.
(*) Meglio ancora il più asciutto originale The death of Stalin, traduzione letterale di quello della fonte su cui è basata la sceneggiatura, la graphic novel francese La mort de Staline.
(**) Vedasi In the loop (2009) e la precedente serie televisiva, due stagioni e uno speciale The thick of it (2005-2007).
(***) Quello che poi diventerà il KGB.
(°) Hello!
Se nel prologo vediamo come anche solo trasmettere un concerto di musica classica da Radio Mosca poteva essere un'esperienza da perderci la testa, almeno per il responsabile del programma (Paddy Considine), nel proseguio assistiamo ad una lotta per il potere senza esclusione di colpi tra due partiti, uno capeggiato dal terribile Beria (Simon Russell Beale), l'altro dall'apparentemente inconsistente Nikita Chruščёv (Steve Buscemi). Il primo riesce a legare a sé Georgy Malenkov (Jeffrey Tambor), ufficialmente seconda carica del Partito e quindi nella posizione di succedere, almeno temporaneamente, al Piccolo Padre, in realtà un imbecille incapace di avere un qualunque sentore su cosa stia succedendo. Il secondo trama per costruire una qualche rete di protezione contro quello che potrebbe essere lo strapotere del suo avversario, ma si scontra con una specie di ipnosi collettiva che avvolge i suoi colleghi, vedasi ad esempio il ministro degli esteri Molotov (Michael Palin), che avrebbe dovuto essere morto per effetto dell'ultima purga staliniana, e che già avrebbe dovuto essere vedovo in seguito ad una precedente epurazione, e che nonostante questo mantiene una limpida quanto inesplicabile linea stalinista.
A indebolire la apparente inattaccabile posizione di Beria ci pensa lui stesso, abusando del proprio potere di capo del NKVD (***) scontentando l'esercito, che vediamo rappresentato nella figura del generale Zhukov (Jason Isaacs °), eroe dell'Armata Rossa nella seconda guerra mondiale, e facendo balenare agli altri elementi del comitato l'ipotesi di fare a breve una bruttissima fine, se e quando ne avesse la possibilità.
Svariati colpi di scena, e di pistola, cambiano più volte gli equilibri in campo, fino ad una soluzione che però sappiamo già avere al suo interno i germi per un ulteriore ribaltamento.
Difficilmente chi è ancora legato al mito stalinista gradirà la pellicola, ma questo non credo che sorprenderà nessuno. Meno chiara mi è sembrata la critica al film che ho sentito da parte di chi lo ha trovato non abbastanza rispettoso delle vittime di quella drammatica pagina di Storia. A mio parere Iannucci ha bilanciato adeguatamente gli aspetti tragici e quelli comici, e pur ridendo spesso delle battute e situazioni non ho potuto fare a meno dal rabbrividire per gli accadimenti mostrati spesso solo sullo sfondo.
(*) Meglio ancora il più asciutto originale The death of Stalin, traduzione letterale di quello della fonte su cui è basata la sceneggiatura, la graphic novel francese La mort de Staline.
(**) Vedasi In the loop (2009) e la precedente serie televisiva, due stagioni e uno speciale The thick of it (2005-2007).
(***) Quello che poi diventerà il KGB.
(°) Hello!
Blade runner 2049
Sono passati trenta anni e Deckard (Harrison Ford) non sa ancora bene se è un replicante o un umano a tutti gli effetti. Lui, comunque, sembra aver messo da parte il problema e ha deciso indipendentemente da quale sia la risposta la sua via, che consiste fondamentalmente nel tenersi lontano da tutto e tutti - il che ha l'effetto collaterale di farlo apparire in scena solo molto avanti nell'azione. A spiegagli come sono andate le cose potrebbe essere Wallace (Jared Leto), big boss dell'azienda omonima che ha assorbito la Tyrell. Trattandosi però di torbido personaggio, si limita a pungolare il nostro vecchio blade runner, pensando probabilmente di spingerlo a dire o fare qualcosa di sbagliato. Niente da fare, Deckard è una pellaccia, e seguirà la sua strada senza deviazioni.
Al centro della storia, però, c'è un altro blade runner, che risponde al kafkiano nome di K (Ryan Gosling). Costui non ha il dilemma di Deckard, sa bene di essere un replicante, epperò spera in un qualcosa di apparentemente impossibile che, sorprendentemente, scopriamo essere effettivamente avvenuto, anche se non si capisce bene se e quanto questo lo coinvolga davvero (*).
Se nell'originale il tema dominante quanto i replicanti dovessero essere considerati umani a tutti gli effetti o se potessero essere "ritirati" senza starci a pensare tanto sopra quando non più utili, ora questa sembra essere rimasta solo una scusa degli umani per mantenere la loro posizione di potere. Il punto chiave qui è trovare il modo di fare cadere le deboli argomentazioni umane. Anche la tecnologia ha cospirato ad indebolire la posizione umana, con le intelligenze artificiali, vedasi in particolare
Joi (Ana de Armas), che pur partendo da un setup iniziale di puro sfruttamento (**) evolve in qualcosa di molto più umano.
Ottima la regia di Denis Villeneuve che non mi ha fatto per niente rimpiangere la decisione di Ridley Scott di occuparsi solo della produzione, che mi sembra di aver capito sia il ruolo che più gli piace tenere. Molto adatta anche la colonna sonora, del solito Hans Zimmer.
(*) Apparentemente il finale dà una risposta definitiva sulla questione. Viene lasciato solo un piccolo spiraglio aperto, in modo da lasciare la massima libertà a chi scriverà il seguito, se si deciderà di farlo.
(**) L'incontro ravvicinato tra K e la gigantesca versione pubblicitaria di Joi ci chiarisce di quella che era l'idea del produttore, la si confronti con la "vera" Joi di K per notare gli imprevisti sviluppi.
Al centro della storia, però, c'è un altro blade runner, che risponde al kafkiano nome di K (Ryan Gosling). Costui non ha il dilemma di Deckard, sa bene di essere un replicante, epperò spera in un qualcosa di apparentemente impossibile che, sorprendentemente, scopriamo essere effettivamente avvenuto, anche se non si capisce bene se e quanto questo lo coinvolga davvero (*).
Se nell'originale il tema dominante quanto i replicanti dovessero essere considerati umani a tutti gli effetti o se potessero essere "ritirati" senza starci a pensare tanto sopra quando non più utili, ora questa sembra essere rimasta solo una scusa degli umani per mantenere la loro posizione di potere. Il punto chiave qui è trovare il modo di fare cadere le deboli argomentazioni umane. Anche la tecnologia ha cospirato ad indebolire la posizione umana, con le intelligenze artificiali, vedasi in particolare
Joi (Ana de Armas), che pur partendo da un setup iniziale di puro sfruttamento (**) evolve in qualcosa di molto più umano.
Ottima la regia di Denis Villeneuve che non mi ha fatto per niente rimpiangere la decisione di Ridley Scott di occuparsi solo della produzione, che mi sembra di aver capito sia il ruolo che più gli piace tenere. Molto adatta anche la colonna sonora, del solito Hans Zimmer.
(*) Apparentemente il finale dà una risposta definitiva sulla questione. Viene lasciato solo un piccolo spiraglio aperto, in modo da lasciare la massima libertà a chi scriverà il seguito, se si deciderà di farlo.
(**) L'incontro ravvicinato tra K e la gigantesca versione pubblicitaria di Joi ci chiarisce di quella che era l'idea del produttore, la si confronti con la "vera" Joi di K per notare gli imprevisti sviluppi.
Kreuzweg - Le stazioni della fede
Questo dei Brüggemann (*) sembra uno di quei film che si va a cercare gli spettatori a piccoli numeri. Dieci qua, una mezza dozzina là. Ogni tanto capita nel pubblico qualche sbadato, che non si è accorto che non era stato chiamato alla visione. E ci resta molto male.
Da un lato la distribuzione italiana ha aiutato la tendenza all'autolimitazione del pubblico con uscite centellinate e mantenendo il titolo originale tedesco, accompagnato da un sottotitolo sibillino. Ma chissà, se avessero avuto il coraggio di tradurlo, se questo avrebbe avuto un impatto positivo o negativo sul numero di biglietti staccati.
Lo stile è di una totale asciuttezza, la storia è divisa in quattordici capitoli, quanti sono le tappe della Via Crucis, e seguono pochi giorni nella vita di Maria (Lea van Acken), una quattordicenne, attorno al momento della sua cresima. Ogni capitolo si svolge sotto l'occhio vitreo della macchina da presa, immobile, che lascia che l'azione si svolga senza che, almeno apparentemente, ne prenda parte, in un unico ininterrotto piano sequenza. A me ha fatto pensare a Michael Haneke, vedasi Amour, Niente da nascondere, o un po' tutta la sua filmografia. L'impressione che abbiamo è di avere a che fare con un quasi documentario, che vediamo i fatti come davvero sono andati e non come ce li sta proponendo il regista. Il che può risultare di una certa pesantezza per lo spettatore abituato ai montaggi sempre più frenetici del cinema ad alto budget, ma che permette, a chi abbia pazienza, una maggiore partecipazione alla vicenda.
Solo due quadri fanno eccezione, quello centrale, la cresima, in cui la camera compie tre o quattro movimenti, e quello finale in cui la tensione si spezza e la macchina da presa ci riporta quella che deve essere il respiro di sollievo di Maria, finalmente libera.
(*) Fratello e sorella. Lei, Anna, si è occupata della scrittura, lui, Dietrich, ha firmato anche la regia.
(**) Nato anche lui a Monaco di Baviera, come i Brüggemann, ma una trentina di anni prima.
Da un lato la distribuzione italiana ha aiutato la tendenza all'autolimitazione del pubblico con uscite centellinate e mantenendo il titolo originale tedesco, accompagnato da un sottotitolo sibillino. Ma chissà, se avessero avuto il coraggio di tradurlo, se questo avrebbe avuto un impatto positivo o negativo sul numero di biglietti staccati.
Lo stile è di una totale asciuttezza, la storia è divisa in quattordici capitoli, quanti sono le tappe della Via Crucis, e seguono pochi giorni nella vita di Maria (Lea van Acken), una quattordicenne, attorno al momento della sua cresima. Ogni capitolo si svolge sotto l'occhio vitreo della macchina da presa, immobile, che lascia che l'azione si svolga senza che, almeno apparentemente, ne prenda parte, in un unico ininterrotto piano sequenza. A me ha fatto pensare a Michael Haneke, vedasi Amour, Niente da nascondere, o un po' tutta la sua filmografia. L'impressione che abbiamo è di avere a che fare con un quasi documentario, che vediamo i fatti come davvero sono andati e non come ce li sta proponendo il regista. Il che può risultare di una certa pesantezza per lo spettatore abituato ai montaggi sempre più frenetici del cinema ad alto budget, ma che permette, a chi abbia pazienza, una maggiore partecipazione alla vicenda.
Solo due quadri fanno eccezione, quello centrale, la cresima, in cui la camera compie tre o quattro movimenti, e quello finale in cui la tensione si spezza e la macchina da presa ci riporta quella che deve essere il respiro di sollievo di Maria, finalmente libera.
(*) Fratello e sorella. Lei, Anna, si è occupata della scrittura, lui, Dietrich, ha firmato anche la regia.
(**) Nato anche lui a Monaco di Baviera, come i Brüggemann, ma una trentina di anni prima.
Sherlock 1.0: Uno studio in rosa
Il pilota di una serie televisiva in genere ha un doppio scopo, convincere la produzione della validità del prodotto, e quindi far sganciare il capitale necessario per produrre un'intera stagione, e poi convincere gli spettatori che valga la pena seguire la stagione stessa. A volte la produzione non resta particolarmente convinta dal pilota, e questo viene mandato in onda per valutare la risposta del pubblico prima di impegnarsi nell'intera stagione.
Qui siamo di fronte ad un caso molto peculiare. La BBC aveva sganciato il necessario (*) per la produzione di questo pilota, chiedendo che durasse un ora. Visto il risultato, hanno deciso che non era necessario attendere il responso del pubblico e hanno dato l'ok per la produzione dell'intera stagione, chiedendo però che le puntate durassero mezz'ora di più.
Difficile modificare questo episodio per gonfiarlo a novanta minuti senza rischiare di fare una mezza porcheria. E allora si è deciso di aggiustare la sceneggiatura e di rigirare tutto quanto cambiando quel che c'era da cambiare.
Il pilota originale così non è mai stato trasmesso, e lo si può vedere adesso come bonus allegato alla prima stagione in DVD. Vale la pena di guardarselo? Sì, ma solo per i fan della serie, direi.
Gran parte dell'azione è contenuta, con cambiamenti minimi (**), nel primo episodio come è conosciuto al mondo. Le aggiunte riguardano la partecipazione di Mycroft Holmes e gli accenni a Moriarty. La seconda circostanza concorre anche a rendere il caso del serial killer slegato da quanto avverrà nei successivi episodi.
Un difetto di questa prima versione è nello spiegone che illustra i punti oscuri del caso. Nella versione lunga, sparisce e i particolari vengono portati alla nostra conoscenza nel corso dello svolgimento dei fatti. In compenso, ci sono anche alcuni particolari, poi rimossi, che sono simpatici da vedere. Come nel finale, quando si esplicita sia che l'ispettore Lestrade (Rupert Graves) ha capito come sono andate le cose, anche se evita di dirlo per non creare inutili problemi, sia che Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) ha, tra i suoi innumerevoli difetti, anche la gran vanità di volere un pubblico a cui mostrare le sue capacità, e la difficoltà di sottrarsi ad una sfida che metta alla prova le sue capacità intellettive.
(*) Una cosetta come un milioncino, facendo i conti in Euro.
(**) Scopriamo ad esempio che il ristorantino take-away sotto all'appartamento della signora Hudson (Una Stubbs) aveva in questa versione il suo nome.
Qui siamo di fronte ad un caso molto peculiare. La BBC aveva sganciato il necessario (*) per la produzione di questo pilota, chiedendo che durasse un ora. Visto il risultato, hanno deciso che non era necessario attendere il responso del pubblico e hanno dato l'ok per la produzione dell'intera stagione, chiedendo però che le puntate durassero mezz'ora di più.
Difficile modificare questo episodio per gonfiarlo a novanta minuti senza rischiare di fare una mezza porcheria. E allora si è deciso di aggiustare la sceneggiatura e di rigirare tutto quanto cambiando quel che c'era da cambiare.
Il pilota originale così non è mai stato trasmesso, e lo si può vedere adesso come bonus allegato alla prima stagione in DVD. Vale la pena di guardarselo? Sì, ma solo per i fan della serie, direi.
Gran parte dell'azione è contenuta, con cambiamenti minimi (**), nel primo episodio come è conosciuto al mondo. Le aggiunte riguardano la partecipazione di Mycroft Holmes e gli accenni a Moriarty. La seconda circostanza concorre anche a rendere il caso del serial killer slegato da quanto avverrà nei successivi episodi.
Un difetto di questa prima versione è nello spiegone che illustra i punti oscuri del caso. Nella versione lunga, sparisce e i particolari vengono portati alla nostra conoscenza nel corso dello svolgimento dei fatti. In compenso, ci sono anche alcuni particolari, poi rimossi, che sono simpatici da vedere. Come nel finale, quando si esplicita sia che l'ispettore Lestrade (Rupert Graves) ha capito come sono andate le cose, anche se evita di dirlo per non creare inutili problemi, sia che Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) ha, tra i suoi innumerevoli difetti, anche la gran vanità di volere un pubblico a cui mostrare le sue capacità, e la difficoltà di sottrarsi ad una sfida che metta alla prova le sue capacità intellettive.
(*) Una cosetta come un milioncino, facendo i conti in Euro.
(**) Scopriamo ad esempio che il ristorantino take-away sotto all'appartamento della signora Hudson (Una Stubbs) aveva in questa versione il suo nome.
Il diritto di uccidere
Il colonnello britannico Katherine Powell (Helen Mirren) sta conducendo da una base inglese una complessa operazione per catturare una sua compatriota che ha preso la via di Al-Qaida. Da sei anni le è alle calcagna, e ora finalmente sembra averla a portata di mano. Grazie all'appoggio degli americani, che fornisco l'occhio nel cielo (*), e ai keniani, che fanno il lavoro sporco a terra, sta per scattare l'operazione che dovrebbe concludersi con l'arresto di una mezza dozzina di persone (**). La situazione è così delicata che la Powell, oltre ad avere un esperto legale al suo fianco che le evidenzia quelli che possono essere elementi discutibili del suo operato, riferisce al suo capo, il generale Frank Benson (Alan Rickman), che a sua volta è in riunione con legali e politici inglesi, per accertarsi che l'operazione abbia tutte le coperture del caso.
Le cose diventano ancora più complicate quando i pedinati si recano in una casa in un area controllata da Al-Shabaab (***), zona in cui i keniani non hanno, di fatto, il controllo, e si mettono all'opera per preparare un attentato suicida. A questo punto lo scopo della missione della Powell cambia, l'arresto non è più possibile, e le circostanze premono per l'eliminazione fisica della cellula. A tirare il grilletto dovrà essere il pilota del drone, Steve Watts (Aaron Paul), che non ha mai sparato prima, e che si trova di fronte ad una situazione che è pure moralmente dubbia, come viene evidenziato dal fatto che, come minimo, oltre ai terroristi morirà anche una bambina che sta vendendo pane nel posto sbagliato.
Assistiamo così ad un penoso tira e molla in cui tutti cercano di fare quello che ritengono essere la cosa giusta, forse rendendosi conto che, nel vicolo cieco in cui ci si è cacciati, non c'è niente di giusto in nessuna delle possibili opzioni.
Ho letto da qualche parte che Michael Bay avrebbe diretto un film paragonabile a questo (°). Mi sono immaginato cosa potrebbe venir fuori da questa sceneggiatura (°°) se finisse nelle mani di Bayhem (°°°). Per fortuna qui la responsabilità della regia se l'è presa Gavin Hood e il risultato è molto diverso, poche esplosioni, molta sottigliezza di recitazione, in particolare grazie alla Mirren e a Rickman (§).
Il titolo italiano fa pensare che il punto di vista sia sbilanciato nei confronti delle colombe, come se i falchi si arrogassero un diritto di uccidere che non si capisce bene da dove verrebbe loro. Niente di più sbagliato. Anche se la regia si mantiene molto asciutta, si capisce bene come la Powell e Benson siano così decisi nella loro azione perché ritengano che sia la via meno dannosa. Entrambi non lasciano trasparire quasi nulla della loro tensione interiore e solo nel finale Benson si lascia sfuggire un discorsetto che dovrebbe chiarire la sua posizione anche al più tetragono degli spettatori. D'altro canto è difficile non rendersi conto come la scelta dei falchi abbia implicazioni estremamente negative.
Good kill (2014) di Andrew Niccol è un ovvio candidato al confronto con questo film. E finisce per evidenziare quelli che mi erano sembrati i difetti di quel film che, nonostante la evidente buona volontà di tutti quanti, aveva alcune debolezze strutturali che qui sono assenti. Là il racconto era centrato sui dubbi esistenziali del protagonista, la situazione era più un accidente che gli complicava il già non semplice percorso di vita. Qui invece la situazione, con tutte le sue sottigliezze morali, legali, politiche, sociali, domina la narrazione. La complessità è resa ottimamente seguendo i diversi punti di vista, lasciando quanto spazio possibile a ogni carattere in azione, ma mantenendo sempre una grande linearità narrativa.
(*) Un drone armato pilotato a distanza da un equipaggio basato a Las Vegas. Il titolo originale è, per l'appunto, Eye in the sky.
(**) Tra cui c'è anche un americano, il cui rende le cose ancor più complicate.
(***) La fazione somala di Al-Qaida.
(°) Credo si alludesse a 13 hours (2016)
(°°) Firmata da Guy Hibbert.
(°°°) Soprannome di Michelino che, giocando sul termine mayhem, lo accosta ad una situazione caotica, possibilmente con gran spargimento di sangue.
(§) Ultima sua apparizione sullo schermo, come sempre ad altissimi livelli.
Le cose diventano ancora più complicate quando i pedinati si recano in una casa in un area controllata da Al-Shabaab (***), zona in cui i keniani non hanno, di fatto, il controllo, e si mettono all'opera per preparare un attentato suicida. A questo punto lo scopo della missione della Powell cambia, l'arresto non è più possibile, e le circostanze premono per l'eliminazione fisica della cellula. A tirare il grilletto dovrà essere il pilota del drone, Steve Watts (Aaron Paul), che non ha mai sparato prima, e che si trova di fronte ad una situazione che è pure moralmente dubbia, come viene evidenziato dal fatto che, come minimo, oltre ai terroristi morirà anche una bambina che sta vendendo pane nel posto sbagliato.
Assistiamo così ad un penoso tira e molla in cui tutti cercano di fare quello che ritengono essere la cosa giusta, forse rendendosi conto che, nel vicolo cieco in cui ci si è cacciati, non c'è niente di giusto in nessuna delle possibili opzioni.
Ho letto da qualche parte che Michael Bay avrebbe diretto un film paragonabile a questo (°). Mi sono immaginato cosa potrebbe venir fuori da questa sceneggiatura (°°) se finisse nelle mani di Bayhem (°°°). Per fortuna qui la responsabilità della regia se l'è presa Gavin Hood e il risultato è molto diverso, poche esplosioni, molta sottigliezza di recitazione, in particolare grazie alla Mirren e a Rickman (§).
Il titolo italiano fa pensare che il punto di vista sia sbilanciato nei confronti delle colombe, come se i falchi si arrogassero un diritto di uccidere che non si capisce bene da dove verrebbe loro. Niente di più sbagliato. Anche se la regia si mantiene molto asciutta, si capisce bene come la Powell e Benson siano così decisi nella loro azione perché ritengano che sia la via meno dannosa. Entrambi non lasciano trasparire quasi nulla della loro tensione interiore e solo nel finale Benson si lascia sfuggire un discorsetto che dovrebbe chiarire la sua posizione anche al più tetragono degli spettatori. D'altro canto è difficile non rendersi conto come la scelta dei falchi abbia implicazioni estremamente negative.
Good kill (2014) di Andrew Niccol è un ovvio candidato al confronto con questo film. E finisce per evidenziare quelli che mi erano sembrati i difetti di quel film che, nonostante la evidente buona volontà di tutti quanti, aveva alcune debolezze strutturali che qui sono assenti. Là il racconto era centrato sui dubbi esistenziali del protagonista, la situazione era più un accidente che gli complicava il già non semplice percorso di vita. Qui invece la situazione, con tutte le sue sottigliezze morali, legali, politiche, sociali, domina la narrazione. La complessità è resa ottimamente seguendo i diversi punti di vista, lasciando quanto spazio possibile a ogni carattere in azione, ma mantenendo sempre una grande linearità narrativa.
(*) Un drone armato pilotato a distanza da un equipaggio basato a Las Vegas. Il titolo originale è, per l'appunto, Eye in the sky.
(**) Tra cui c'è anche un americano, il cui rende le cose ancor più complicate.
(***) La fazione somala di Al-Qaida.
(°) Credo si alludesse a 13 hours (2016)
(°°) Firmata da Guy Hibbert.
(°°°) Soprannome di Michelino che, giocando sul termine mayhem, lo accosta ad una situazione caotica, possibilmente con gran spargimento di sangue.
(§) Ultima sua apparizione sullo schermo, come sempre ad altissimi livelli.
La ricompensa del gatto
Nonostante il buon successo ottenuto in Giappone, è uscito da noi solo quest'anno, grazie alla Lucky Red. E adesso è disponibile in DVD. Trattasi dell'unica regia di Hiroyuki Morita, che ha iniziato la sua carriera come disegnatore allo Studio Ghibli con Kiki (1989) e che poi non ha avuto altre opportunità direttoriali.
La sceneggiatura è nata in modo peculiare, un progetto su richiesta di un parco a tema giapponese che aveva commissionato un cortometraggio specificando che ci dovevano essere dentro tanti gatti. Hayao Miyazaki pensò di sfruttare il nucleo de I sospiri del mio cuore, dove un gatto sovrappeso pareva saperla molto più lunga di quanto sia lecito aspettarsi e una statuetta di gatto antropomorfo sembrava dotato di una scintilla di vita indipendente. Il committente cambiò idea poco dopo, ma la storia ormai aveva preso una sua consistenza, e si decise di rimpolparla fino a farla diventare un lungometraggio.
La protagonista è Haru, ragazzina sul punto di diventare una giovane donna, che però ha alcuni problemi risolvere prima di compiere il passo. In particolare è distratta e piuttosto dormigliona (*), il che le complica le relazioni sociali, al punto che il compagno di classe di cui s'è infatuata non le presta la minima attenzione.
Un giorno di ordinarie delusioni, Haru ha modo di salvare la vita ad un gatto, che si rivela essere addirittura Lune, il principe del regno dei gatti. La gratitudine di suo padre il re è tale che Haru viene omaggiata di una quantità enorme di erba gatta e di topolini vivi in scatola (**). In più, le viene prospettato il matrimonio con il principe.
La risposta di Haru è così confusa che viene presa per un sì, e il meccanismo per trasferirla nel regno dei gatti parte. Come se ne rende conto, Haru, grazie anche ad una misteriosa soffiata, cerca un ufficio affari felini che è tenuto da Muta (***), il quale lo porta da Baron, meglio noto come Barone Humbert von Gikkingen, che, con l'aiuto di una garguglia-corvo a nome Toto, si interessano alla vicenda della ragazza.
Seguono una serie di folli avventure, con Haru che si rimpicciolisce e assume sembianze sempre più feline, Muta che combatte da par suo con ingenti quantità di cibo, Baron che dispensa validi consigli, e Toto che interviene come deus ex-machina nei momenti più delicati.
Il bello è che Haru riesce a trovare il bandolo della matassa, capire quello che apparentemente potrebbe sembrare una storia priva di senso, ed usarla come quello stimolo che le mancava per crescere.
(*) Caratteristiche che me la rendono automaticamente molto simpatica.
(**) A scopo ludico-gastronomico, temo.
(***) Il gatto bianco diversamente snello da I sospiri del mio cuore, che più avanti scopriremo chiamarsi Renaldo Moon ed essere stato bandito dal regno dei gatti a causa della sua mancanza di rispetto e per il suo appetito prodigioso.
La sceneggiatura è nata in modo peculiare, un progetto su richiesta di un parco a tema giapponese che aveva commissionato un cortometraggio specificando che ci dovevano essere dentro tanti gatti. Hayao Miyazaki pensò di sfruttare il nucleo de I sospiri del mio cuore, dove un gatto sovrappeso pareva saperla molto più lunga di quanto sia lecito aspettarsi e una statuetta di gatto antropomorfo sembrava dotato di una scintilla di vita indipendente. Il committente cambiò idea poco dopo, ma la storia ormai aveva preso una sua consistenza, e si decise di rimpolparla fino a farla diventare un lungometraggio.
La protagonista è Haru, ragazzina sul punto di diventare una giovane donna, che però ha alcuni problemi risolvere prima di compiere il passo. In particolare è distratta e piuttosto dormigliona (*), il che le complica le relazioni sociali, al punto che il compagno di classe di cui s'è infatuata non le presta la minima attenzione.
Un giorno di ordinarie delusioni, Haru ha modo di salvare la vita ad un gatto, che si rivela essere addirittura Lune, il principe del regno dei gatti. La gratitudine di suo padre il re è tale che Haru viene omaggiata di una quantità enorme di erba gatta e di topolini vivi in scatola (**). In più, le viene prospettato il matrimonio con il principe.
La risposta di Haru è così confusa che viene presa per un sì, e il meccanismo per trasferirla nel regno dei gatti parte. Come se ne rende conto, Haru, grazie anche ad una misteriosa soffiata, cerca un ufficio affari felini che è tenuto da Muta (***), il quale lo porta da Baron, meglio noto come Barone Humbert von Gikkingen, che, con l'aiuto di una garguglia-corvo a nome Toto, si interessano alla vicenda della ragazza.
Seguono una serie di folli avventure, con Haru che si rimpicciolisce e assume sembianze sempre più feline, Muta che combatte da par suo con ingenti quantità di cibo, Baron che dispensa validi consigli, e Toto che interviene come deus ex-machina nei momenti più delicati.
Il bello è che Haru riesce a trovare il bandolo della matassa, capire quello che apparentemente potrebbe sembrare una storia priva di senso, ed usarla come quello stimolo che le mancava per crescere.
(*) Caratteristiche che me la rendono automaticamente molto simpatica.
(**) A scopo ludico-gastronomico, temo.
(***) Il gatto bianco diversamente snello da I sospiri del mio cuore, che più avanti scopriremo chiamarsi Renaldo Moon ed essere stato bandito dal regno dei gatti a causa della sua mancanza di rispetto e per il suo appetito prodigioso.
Brooklyn
Anni cinquanta. Eilis (Saoirse Ronan), una ragazzina sveglia e sensibile, è un pesce fuor d'acqua nel paesino irlandese in cui vive. Per sua fortuna sua sorella riesce a trovargli un appoggio americano, che si traduce in un visto di ingresso negli USA, un alloggio e un lavoro a Brooklyn.
Il risultato è che ora Eilis è un pesce fuor d'acqua a New York. Non conosce nessuno, ha una fortissima nostaglia di casa e della sua famiglia, non riesce a vedere un senso nella sua vita. Poi però incontra Tony (Emory Cohen) un ragazzetto italo-americano (*) affascinato dalle donne irlandesi in generale e da Eilis in particolare, e le cose cambiano. Tutto sembra filare per il meglio, simpatico Tony, simpatica la famiglia, che ha il suo improbabile quanto divertente punto di riferimento nel più piccolo della tribù, Frankie (James DiGiacomo), quando arriva una brutta notizia dall'Irlanda che spinge Eilis a tornare a frettolosamente casa.
Eilis ha tutte le intenzioni di restare in Irlanda il meno possibile, ma una cosa tira l'altra, i tempi si allungano, conosce un bravo ragazzotto (Domhnall Gleeson), trova un lavoro che le piace, e finisce che si trova tirata da due forze opposte. Vincerà il richiamo delle sue radici, o l'attrazione del nuovo mondo?
Gran parte del peso dell'azione è sulle spalle di Saoirse Ronan, che ha fatto un bel po' di strada da Espiazione, già bravissima allora, ma era una bambina, qui è una giovane donna capace di veicolare sentimenti con un semplice sguardo.
La sceneggiatura, basata sul romanzo di Colm Tóibín, è firmata da Nick Hornby, bravo come al solito a dare spessore anche a personaggi secondari, grazie anche alla regia di John Crowley. La adeguata colonna sonora è scritta da Michael Brook.
(*) L'impegno di Cohen nel ruolo è ammirevole, il risultato mi ha lasciato qualche dubbio. Possibile che non siano riusciti a trovare qualcuno di origine italiana adeguato al ruolo?
Il risultato è che ora Eilis è un pesce fuor d'acqua a New York. Non conosce nessuno, ha una fortissima nostaglia di casa e della sua famiglia, non riesce a vedere un senso nella sua vita. Poi però incontra Tony (Emory Cohen) un ragazzetto italo-americano (*) affascinato dalle donne irlandesi in generale e da Eilis in particolare, e le cose cambiano. Tutto sembra filare per il meglio, simpatico Tony, simpatica la famiglia, che ha il suo improbabile quanto divertente punto di riferimento nel più piccolo della tribù, Frankie (James DiGiacomo), quando arriva una brutta notizia dall'Irlanda che spinge Eilis a tornare a frettolosamente casa.
Eilis ha tutte le intenzioni di restare in Irlanda il meno possibile, ma una cosa tira l'altra, i tempi si allungano, conosce un bravo ragazzotto (Domhnall Gleeson), trova un lavoro che le piace, e finisce che si trova tirata da due forze opposte. Vincerà il richiamo delle sue radici, o l'attrazione del nuovo mondo?
Gran parte del peso dell'azione è sulle spalle di Saoirse Ronan, che ha fatto un bel po' di strada da Espiazione, già bravissima allora, ma era una bambina, qui è una giovane donna capace di veicolare sentimenti con un semplice sguardo.
La sceneggiatura, basata sul romanzo di Colm Tóibín, è firmata da Nick Hornby, bravo come al solito a dare spessore anche a personaggi secondari, grazie anche alla regia di John Crowley. La adeguata colonna sonora è scritta da Michael Brook.
(*) L'impegno di Cohen nel ruolo è ammirevole, il risultato mi ha lasciato qualche dubbio. Possibile che non siano riusciti a trovare qualcuno di origine italiana adeguato al ruolo?
Ave, Cesare!
Non mi aspettavo la sala piena, ma neanche la vuotezza che ho sperimentato, e sì che era la prima serata del sabato. Non mi aspettavo una tale freddezza del pubblico e tantomeno che una tipa, sui titoli di coda, dicesse ad alta voce che voleva indietro i suoi soldi. Anche un paio di membri del mio gruppetto di visione sono rimasti scontenti del film, adducendo una eccessiva complicazione della trama come motivo fondamentale per il loro giudizio negativo.
A me, al contrario, è piaciuto molto. Commedia in puro stile fratelli Coen (*), curatissima in tutti gli aspetti, compresa la colonna sonora del solito Carter Burwell, che include anche un paio di brani interpretati dal coro dell'armata rossa e uno da Channing Tatum, che ha sullo sfondo il loro solito cruccio: come è possibile che l'umanità sia così mal messa? Questa volta il finale è positivo, un invito a non sottilizzare troppo sulle parti negative e godersi di più quel che c'è di buono.
Si narra una giornata di lavoro di Eddie Mannix (Josh Brolin), che viene pagato perché gli innumerevoli problemi che afffliggono gli studi della Capitol Pictures non rallentino la produzione di film destinati ad inondare le sale americane e di tutto il mondo. Siamo nei primi anni cinquanta, la guerra è cosa del passato, e il pubblico scalpita per sempre nuove storie. Il buon Mannix non ha orari, anche nel cuore della notte c'è bisogno del suo intervento, magari per evitare che una stellina si faccia coinvolgere in un giro di foto scandalistiche (**), un po' come Philip Marlowe ne Il grande sonno di Howard Hawks (1946).
Una delle grosse produzioni in corso è proprio Ave, Cesare! (un racconto della vita di Cristo), polpettone del genere peplum che ricorda Quo vadis (1951), Ben Hur (1959), La tunica (1953), eccetera (***). Il protagonista Baird Whitlock (George Clooney) è un imbecille che ha anche dei lampi di notevole espressività attoriale, non sembra che ci siano guai in vista da parte sua, anche se ha una tendenza all'ubriachezza molesta e al tradimento della moglie, succede però che una cellula comunista hollywoodiana (°) lo rapisca per motivi ideologici e per denaro. Inoltre, due giornaliste scandaliste, le gemelle Thora e Thessaly Thacker (Tilda Swinton) indagano su di lui, con una delle due che pensa di riesumare un vecchio pettegolezzo secondo cui il Whitlock si sarebbe concesso a Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) per avere la parte del film che lo ha lanciato.
Da qui in poi le cose diventano ancor più complicate, con Mannix che deve tenere sotto controllo svariati film, il che ci dà modo di vedere numeri da un film dove il nuoto sincronizzato la fa da padrone, una cosettina alla Esther Williams con Scarlett Johansson nel ruolo della protagonista; un film di marinai ballerini che invece di Gene Kelly ha al centro Channing Tatum; un film di cowboy da cui il poco loquace Alden Ehrenreich viene dirottato verso una commedia sofistica causando il panico nel regista (°°) che si vede costretto a gestire un bifolco nel ruolo di un damerino di città.
Inoltre, Mannix è richiesto dalla Lockheed per fare lo stesso lavoro ma in un contesto molto più tranquillo. Che fare? Deve abbandonare quella gabbia di matti per un lavoro "serio"? Ma è davvero più importante costruire aeroplani che raccontare storie? Per tutto il film sembra che la produzione di film sia un lavoro insensato, con sceneggiature scritte a caso, modificate per non dispiacere a nessuno (°°°) o per rimediare ad accidenti che succedono sul set, dirette alla meno peggio con attori che non hanno idea di quello che stanno facendo. Eppure, ogni tanto, misteriosamente, ci sono dei momenti che riescono da soli a giustificare tutto quanto.
(*) Regia di Ethan e Joel, sceneggiatura di Joel ed Ethan.
(**) Per quei tempi, si intende. A noi sembrano solo buffe.
(***) Alcuni dettagli fanno pensare anche al Brian di Nazareth dei Monty Python (1979).
(°) Vedasi il recente Dalton Trumbo per dettagli.
(°°) Che poi è il Laurence Laurentz che avrebbe approfittato in passato di Baird Whitlock.
(°°°) Vedasi la scena in cui Mannix incontra rappresentanti delle principali confessioni attive in America al tempo per chiedere un commento su Ave, Cesare! Mi ha ricordato una scena simile che c'è in Vita di Pi, ma solo nel libro, non nel film.
A me, al contrario, è piaciuto molto. Commedia in puro stile fratelli Coen (*), curatissima in tutti gli aspetti, compresa la colonna sonora del solito Carter Burwell, che include anche un paio di brani interpretati dal coro dell'armata rossa e uno da Channing Tatum, che ha sullo sfondo il loro solito cruccio: come è possibile che l'umanità sia così mal messa? Questa volta il finale è positivo, un invito a non sottilizzare troppo sulle parti negative e godersi di più quel che c'è di buono.
Si narra una giornata di lavoro di Eddie Mannix (Josh Brolin), che viene pagato perché gli innumerevoli problemi che afffliggono gli studi della Capitol Pictures non rallentino la produzione di film destinati ad inondare le sale americane e di tutto il mondo. Siamo nei primi anni cinquanta, la guerra è cosa del passato, e il pubblico scalpita per sempre nuove storie. Il buon Mannix non ha orari, anche nel cuore della notte c'è bisogno del suo intervento, magari per evitare che una stellina si faccia coinvolgere in un giro di foto scandalistiche (**), un po' come Philip Marlowe ne Il grande sonno di Howard Hawks (1946).
Una delle grosse produzioni in corso è proprio Ave, Cesare! (un racconto della vita di Cristo), polpettone del genere peplum che ricorda Quo vadis (1951), Ben Hur (1959), La tunica (1953), eccetera (***). Il protagonista Baird Whitlock (George Clooney) è un imbecille che ha anche dei lampi di notevole espressività attoriale, non sembra che ci siano guai in vista da parte sua, anche se ha una tendenza all'ubriachezza molesta e al tradimento della moglie, succede però che una cellula comunista hollywoodiana (°) lo rapisca per motivi ideologici e per denaro. Inoltre, due giornaliste scandaliste, le gemelle Thora e Thessaly Thacker (Tilda Swinton) indagano su di lui, con una delle due che pensa di riesumare un vecchio pettegolezzo secondo cui il Whitlock si sarebbe concesso a Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) per avere la parte del film che lo ha lanciato.
Da qui in poi le cose diventano ancor più complicate, con Mannix che deve tenere sotto controllo svariati film, il che ci dà modo di vedere numeri da un film dove il nuoto sincronizzato la fa da padrone, una cosettina alla Esther Williams con Scarlett Johansson nel ruolo della protagonista; un film di marinai ballerini che invece di Gene Kelly ha al centro Channing Tatum; un film di cowboy da cui il poco loquace Alden Ehrenreich viene dirottato verso una commedia sofistica causando il panico nel regista (°°) che si vede costretto a gestire un bifolco nel ruolo di un damerino di città.
Inoltre, Mannix è richiesto dalla Lockheed per fare lo stesso lavoro ma in un contesto molto più tranquillo. Che fare? Deve abbandonare quella gabbia di matti per un lavoro "serio"? Ma è davvero più importante costruire aeroplani che raccontare storie? Per tutto il film sembra che la produzione di film sia un lavoro insensato, con sceneggiature scritte a caso, modificate per non dispiacere a nessuno (°°°) o per rimediare ad accidenti che succedono sul set, dirette alla meno peggio con attori che non hanno idea di quello che stanno facendo. Eppure, ogni tanto, misteriosamente, ci sono dei momenti che riescono da soli a giustificare tutto quanto.
(*) Regia di Ethan e Joel, sceneggiatura di Joel ed Ethan.
(**) Per quei tempi, si intende. A noi sembrano solo buffe.
(***) Alcuni dettagli fanno pensare anche al Brian di Nazareth dei Monty Python (1979).
(°) Vedasi il recente Dalton Trumbo per dettagli.
(°°) Che poi è il Laurence Laurentz che avrebbe approfittato in passato di Baird Whitlock.
(°°°) Vedasi la scena in cui Mannix incontra rappresentanti delle principali confessioni attive in America al tempo per chiedere un commento su Ave, Cesare! Mi ha ricordato una scena simile che c'è in Vita di Pi, ma solo nel libro, non nel film.
Il caso Spotlight
Fresco di nomina all'Oscar come miglior film e per la migliore sceneggiatura originale, e mia seconda visione a breve distanza dalla prima. Sapendo già tutto quello che sarebbe successo, ho potuto godermi con calma i particolari, quale la piacevole colonna sonora originale firmata da Howard Shore.
Bravo Tom McCarthy ad orchestrare la sua stessa sceneggiatura (*) di una notevole complessità per il gran numero di personaggi coinvolti e per i temi trattati. Bravi un po' tutti gli attori, dove nessuno in particolare spicca ma ognuno dà il suo contributo alla riuscita dell'insieme.
Se è vero che al centro del racconto c'è la scoperta di come la pedofilia non fosse un accidente ma un problema strutturale del clero cattolico, ed è probabilmente questo che fa più colpo sullo spettatore, credo che le tesi principali siano che l'omogeneità culturale sia più un rischio che un vantaggio e che il giornalismo investigativo continui ad essere importante anche ai nostri giorni.
Si sottolinea infatti che Spotlight, il team del Boston Globe che si occupa di stanare le notizie più complicate che necessitano approfondimenti, avrebbe mancato la notizia non per mancanza di buona volontà, ma per incapacità di vedere il problema. 'Robby' Robinson (Michael Keaton), a capo del gruppetto, scopre con sua stessa sorpresa di non aver voluto dare peso agli indizi che pure aveva sotto il naso. Se non fosse stato per il nuovo direttore (Liev Schreiber) che, in quanto completamente estraneo alla città e al cattolicesimo, aveva modo di vedere quel che capitava da una visuale altra, l'attrazione di Mike (Mark Ruffalo) per questo caso probabilmente non sarebbe bastata per impegnarci sopra abbastanza tempo. E se non fosse stato per un avvocato di origine armena (Stanley Tucci) che aveva annusato un'aria di connivenza troppo soffocante per essere tollerata, difficilmente si sarebbero riusciti a raccogliere indizi sufficienti.
(*) Scritta a quattro mani con Josh Singer.
Bravo Tom McCarthy ad orchestrare la sua stessa sceneggiatura (*) di una notevole complessità per il gran numero di personaggi coinvolti e per i temi trattati. Bravi un po' tutti gli attori, dove nessuno in particolare spicca ma ognuno dà il suo contributo alla riuscita dell'insieme.
Se è vero che al centro del racconto c'è la scoperta di come la pedofilia non fosse un accidente ma un problema strutturale del clero cattolico, ed è probabilmente questo che fa più colpo sullo spettatore, credo che le tesi principali siano che l'omogeneità culturale sia più un rischio che un vantaggio e che il giornalismo investigativo continui ad essere importante anche ai nostri giorni.
Si sottolinea infatti che Spotlight, il team del Boston Globe che si occupa di stanare le notizie più complicate che necessitano approfondimenti, avrebbe mancato la notizia non per mancanza di buona volontà, ma per incapacità di vedere il problema. 'Robby' Robinson (Michael Keaton), a capo del gruppetto, scopre con sua stessa sorpresa di non aver voluto dare peso agli indizi che pure aveva sotto il naso. Se non fosse stato per il nuovo direttore (Liev Schreiber) che, in quanto completamente estraneo alla città e al cattolicesimo, aveva modo di vedere quel che capitava da una visuale altra, l'attrazione di Mike (Mark Ruffalo) per questo caso probabilmente non sarebbe bastata per impegnarci sopra abbastanza tempo. E se non fosse stato per un avvocato di origine armena (Stanley Tucci) che aveva annusato un'aria di connivenza troppo soffocante per essere tollerata, difficilmente si sarebbero riusciti a raccogliere indizi sufficienti.
(*) Scritta a quattro mani con Josh Singer.
I sospiri del mio cuore
Unica regia di Yoshifumi Kondô, che si sperava diventasse la nuova mente creativa dello Studio Ghibli e che invece morì solo tre anni dopo. L'idea di convertire un manga per ragazzine scritto e disegnato da Aoi Hiiragi è stata di Hayao Miyazaki, che ne ha curato la sceneggiatura ma ha affidato la regia a Kondô, sapendo di potersi fidare di chi, tra l'altro, aveva curato i personaggi e diretto le animazioni de Una tomba per le lucciole, supervisionato le animazioni di Kiki - Consegne a domicilio, ed essere stato tra gli animatori di Porco Rosso. Quest'ultimo titolo è citato direttamente, e incongruamente, facendolo diventare la marca della bella pendola con nanetti che si vede in una scena iniziale.
La storia è fondamentalmente quella di una ragazzina, Shizuku, che sta per diventare giovine donna. Si trova a dover prendere alcune decisioni importanti, nei confronti del suo futuro, della famiglia, dell'amica del cuore, Yuko, di un paio di ragazzi che le girano attorno. Una vicenda piuttosto minimale, che però è svolta con gran maestria. Molte le digressioni che danno spessore al racconto. C'è ad esempio un gatto ciccioso e molto indipendente, che gira per Tokio in treno, frequentando diverse case, e che aiuterà Shizuku, sa il cielo quanto involontariamente, in almeno un paio di occasioni a trovare la sua via.
Subito all'inizio vediamo Shizuku affrontare un compito. Deve tradurre in giapponese Take me home, country roads, di John Denver. Lo fa su istigazione di Yuko, che la vuole cantare con il coro scolastico. Shizuku prova una traduzione letterale, che non la convince, poi ne fa una umoristica (*), e infine ha l'inspirazione vincente, tradire l'originale e metterci del suo. Che è un po' quello che ha fatto anche Miyazaki con la storia originale, facendo diventare il prescelto da Shizuku un ragazzino con la passione per i violini, che vuole andare a Cremona per imparare a diventare liutaio.
(*) Che le causerà un imbarazzante contrattempo.
La storia è fondamentalmente quella di una ragazzina, Shizuku, che sta per diventare giovine donna. Si trova a dover prendere alcune decisioni importanti, nei confronti del suo futuro, della famiglia, dell'amica del cuore, Yuko, di un paio di ragazzi che le girano attorno. Una vicenda piuttosto minimale, che però è svolta con gran maestria. Molte le digressioni che danno spessore al racconto. C'è ad esempio un gatto ciccioso e molto indipendente, che gira per Tokio in treno, frequentando diverse case, e che aiuterà Shizuku, sa il cielo quanto involontariamente, in almeno un paio di occasioni a trovare la sua via.
Subito all'inizio vediamo Shizuku affrontare un compito. Deve tradurre in giapponese Take me home, country roads, di John Denver. Lo fa su istigazione di Yuko, che la vuole cantare con il coro scolastico. Shizuku prova una traduzione letterale, che non la convince, poi ne fa una umoristica (*), e infine ha l'inspirazione vincente, tradire l'originale e metterci del suo. Che è un po' quello che ha fatto anche Miyazaki con la storia originale, facendo diventare il prescelto da Shizuku un ragazzino con la passione per i violini, che vuole andare a Cremona per imparare a diventare liutaio.
(*) Che le causerà un imbarazzante contrattempo.
Il caso Spotlight
Basta vedere il trailer per rendersi conto che Spotlight non è il nome del caso trattato ma quello del team investigativo del Boston Globe che lo ha seguito. Siamo dalle parti di Tutti gli uomini del presidente, un tema scottante, una verità fastidiosa che fatica ad emergere, ma che quando arriva sulla prima pagina cambia la realtà delle cose.
A dire il vero non siamo arrivati ancora alla fine della storia perché riguarda la chiesa cattolica e, come si dice anche nel film, quella è una istituzione abituata a ragionare in termini di secoli. Qui ci si concentra su una serie di fatti avvenuti all'inizio del secolo, e si accenna solo molto rapidamente a cosa è successo nel decennio successivo. Chissà quanti altri decenni serviranno per arrivare ad un punto fermo più soddisfacente.
La scintilla che fa scoccare la storia sta nell'arrivo al Boston Globe di un nuovo responsabile, Marty Baron (Liev Schreiber), che ha il solito compito, tagliare le spese, aumentare la tiratura. La sua idea che ci interessa in questo contesto è quella di spingere Spotlight a lavorare su di tema piuttosto spinoso che non sembra piacere a nessuno, ovvero il caso di un prete molestatore seriale che è sempre riuscito a evitare problemi con la giustizia. E si tenga presente che a Boston, e in tutto il Massachusetts, il cattolicesimo è molto forte.
A capo di Spotlight c'è Walter Robinson (Michael Keaton), che accetta l'incarico del suo capo ma non sembra troppo entusiasta, al contrario di Mike Rezendes (Mark Ruffalo), che ci si butta a capofitto. Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) è presente per ragioni di verosimiglianza storica, anche se non aggiunge molto alla narrazione. Tra i molti personaggi che entreranno nel racconto ricordo Mitchell Garabedian (Stanley Tucci), l'avvocato che, in pratica, ha fornito il materiale necessario all'indagine.
La sceneggiatura e regia di Tom McCarthy (*) riescono ad evitare i tranelli di un manicheismo che finirebbe per risultare stucchevole. Se le colpe principali sono ascrivibili alla chiesa cattolica, nessuno può chiamarsi fuori dalla tragedia a cuor leggero. In un certo senso, sarebbe una buona cosa vedere il film in accoppiata con Philomena, anch'esso un film in cui si evita un bianco e nero disneyano per riflettere invece sulle sfumature.
(*) Ha debuttato una dozzina di anni fa con The station agent, a cui sono seguite altre cose buone come L'ospite inatteso e Mosse vincenti. Forse questa volta ci siamo, e diventa un nome noto.
A dire il vero non siamo arrivati ancora alla fine della storia perché riguarda la chiesa cattolica e, come si dice anche nel film, quella è una istituzione abituata a ragionare in termini di secoli. Qui ci si concentra su una serie di fatti avvenuti all'inizio del secolo, e si accenna solo molto rapidamente a cosa è successo nel decennio successivo. Chissà quanti altri decenni serviranno per arrivare ad un punto fermo più soddisfacente.
La scintilla che fa scoccare la storia sta nell'arrivo al Boston Globe di un nuovo responsabile, Marty Baron (Liev Schreiber), che ha il solito compito, tagliare le spese, aumentare la tiratura. La sua idea che ci interessa in questo contesto è quella di spingere Spotlight a lavorare su di tema piuttosto spinoso che non sembra piacere a nessuno, ovvero il caso di un prete molestatore seriale che è sempre riuscito a evitare problemi con la giustizia. E si tenga presente che a Boston, e in tutto il Massachusetts, il cattolicesimo è molto forte.
A capo di Spotlight c'è Walter Robinson (Michael Keaton), che accetta l'incarico del suo capo ma non sembra troppo entusiasta, al contrario di Mike Rezendes (Mark Ruffalo), che ci si butta a capofitto. Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) è presente per ragioni di verosimiglianza storica, anche se non aggiunge molto alla narrazione. Tra i molti personaggi che entreranno nel racconto ricordo Mitchell Garabedian (Stanley Tucci), l'avvocato che, in pratica, ha fornito il materiale necessario all'indagine.
La sceneggiatura e regia di Tom McCarthy (*) riescono ad evitare i tranelli di un manicheismo che finirebbe per risultare stucchevole. Se le colpe principali sono ascrivibili alla chiesa cattolica, nessuno può chiamarsi fuori dalla tragedia a cuor leggero. In un certo senso, sarebbe una buona cosa vedere il film in accoppiata con Philomena, anch'esso un film in cui si evita un bianco e nero disneyano per riflettere invece sulle sfumature.
(*) Ha debuttato una dozzina di anni fa con The station agent, a cui sono seguite altre cose buone come L'ospite inatteso e Mosse vincenti. Forse questa volta ci siamo, e diventa un nome noto.
Mr. Holmes - Il mistero del caso irrisolto
Sherlock Holmes (Ian McKellen) ha superato i novant'anni ma, nonostante gli acciacchi, non è cambiato poi di tanto. A scanso di equivoci, lo vediamo subito in treno maltrattare verbalmente una giovane madre col suo pargolo, in quanto rei di aver confuso vespe e api, e il ragazzino anche per aver pensato di infastidire un insetto posato sul finestrino.
La sdegnosa sociopatia del consulting detective per eccellenza è ancora tutta lì. I problemi sono sul lato fisico e mentale. In particolare la memoria è quella che è. Lo vediamo ricorrere a trucchetti per non mostrare come si dimentichi anche il nome delle persone con cui sta parlando. Il suo medico curante (*) gli dà una agendina e lo invita a segnare con un puntino ogni volta che non si ricorda qualcosa. E abbiamo una rappresentazione visuale della catastrofe che stringe il cuore.
Ma c'è qualcosa che lo tormenta e lo ha spinto a lasciare la sua residenza nel East Sussex per andare fino in Giappone, alla ricerca di una pianticella, il pepe del Sichuan, che potrebbe aiutarlo a recuperare la sua memoria. Il fatto è che non sa più cosa è successo trent'anni prima, quando affrontò il suo ultimo caso, che si deve essere concluso così malamente da spingerlo a ritirarsi in campagna. Come ci si può aspettare, il resoconto che ne ha fatto il dottor Watson di quell'avventura è ben poco fedele a quella che deve essere stata la realtà dei fatti. Holmes ne vede pure la versione cinematografica (**) e non può che restarne estremamente deluso per l'incongruità e l'abuso di punti esclamativi nelle battute degli attori.
Il pepe del Sichuan, oltre ad essere disgustoso, non serve a niente. Lunghe ore passate davanti ad un foglio bianco anche meno. Holmes scopre con sorpresa che alcuni brandelli di memoria gli tornano parlando con Roger (Milo Parker), il figlio della sua governante (Laura Linney). Roger lo idolatra, sia perché ha una mente sveglia ed è affascinato da quest'uomo che con un occhiata riesce a estrarre informazioni che sembrano prima così misteriose ma poi, una volta spiegato il processo, diventano così naturali, sia perché ha perso il padre che era ancora un frugoletto, e gli manca una figura maschile di riferimento. Quasi senza accorgersene, Holmes ricambia l'attenzione, e così matura una relazione proficua per entrambi.
Lentamente i contorni del caso emergono. Un marito che non capisce la moglie, lei (Hattie Morahan) che cerca aiuto da una strana insegnante di musica (Frances de la Tour), e poi si trova a dover competere con niente meno che il grande Sherlock Holmes. Lui affronta il caso usando le armi che conosce così bene, quelle della logica, e ritiene di averlo risolto. Per scoprire troppo tardi di aver sbagliato tutto, e non perché ci fossero difetti nei suoi ragionamenti, ma per non aver applicato lo strumento giusto nella giusta circostanza. Per trovare la giusta chiave di lettura della vicenda avrebbe dovuto fidarsi di cosa gli diceva il suo cuore. Non ne era stato capace, aveva nascosto la sua sensibilità dietro la corazza del ragionamento, e questa scoperta lo aveva annientato.
Mentre ricorda questo dramma nel passato, un altro si svolge nel presente, centrato in Roger. Anche qui Holmes si trova a dover gestire una sfida ai limiti delle sue possibilità, dovendo usare capacità che non gli sono per niente familiari, quando quelle per le quali è rinomato sono annebbiate dal degrado fisico.
C'è anche un terzo mistero che Holmes deve risolvere, la scomparsa del padre di Tamiki Umezaki (Hiroyuki Sanada), il suo corrispondente giapponese che lo aveva contattato con la scusa del pepe del Sichuan. Dal punto di vista della logica, la soluzione è di una banalità sconcertante, ma finalmente Holmes ha capito quando sia il momento di usarla, e quando no.
(*) No, non si tratta di John Watson, deceduto decenni prima.
(**) Abbiamo così modo di vedere un'altro Sherlock Holmes. In questo fittizio film in bianco e nero, ad interpretare il nostro è Nicholas Rowe, che qui riprende il ruolo che ebbe già in Piramide di paura (1985), il prequel ambientato nell'infanzia sherlockiana diretto da Barry Levinson.
La sdegnosa sociopatia del consulting detective per eccellenza è ancora tutta lì. I problemi sono sul lato fisico e mentale. In particolare la memoria è quella che è. Lo vediamo ricorrere a trucchetti per non mostrare come si dimentichi anche il nome delle persone con cui sta parlando. Il suo medico curante (*) gli dà una agendina e lo invita a segnare con un puntino ogni volta che non si ricorda qualcosa. E abbiamo una rappresentazione visuale della catastrofe che stringe il cuore.
Ma c'è qualcosa che lo tormenta e lo ha spinto a lasciare la sua residenza nel East Sussex per andare fino in Giappone, alla ricerca di una pianticella, il pepe del Sichuan, che potrebbe aiutarlo a recuperare la sua memoria. Il fatto è che non sa più cosa è successo trent'anni prima, quando affrontò il suo ultimo caso, che si deve essere concluso così malamente da spingerlo a ritirarsi in campagna. Come ci si può aspettare, il resoconto che ne ha fatto il dottor Watson di quell'avventura è ben poco fedele a quella che deve essere stata la realtà dei fatti. Holmes ne vede pure la versione cinematografica (**) e non può che restarne estremamente deluso per l'incongruità e l'abuso di punti esclamativi nelle battute degli attori.
Il pepe del Sichuan, oltre ad essere disgustoso, non serve a niente. Lunghe ore passate davanti ad un foglio bianco anche meno. Holmes scopre con sorpresa che alcuni brandelli di memoria gli tornano parlando con Roger (Milo Parker), il figlio della sua governante (Laura Linney). Roger lo idolatra, sia perché ha una mente sveglia ed è affascinato da quest'uomo che con un occhiata riesce a estrarre informazioni che sembrano prima così misteriose ma poi, una volta spiegato il processo, diventano così naturali, sia perché ha perso il padre che era ancora un frugoletto, e gli manca una figura maschile di riferimento. Quasi senza accorgersene, Holmes ricambia l'attenzione, e così matura una relazione proficua per entrambi.
Lentamente i contorni del caso emergono. Un marito che non capisce la moglie, lei (Hattie Morahan) che cerca aiuto da una strana insegnante di musica (Frances de la Tour), e poi si trova a dover competere con niente meno che il grande Sherlock Holmes. Lui affronta il caso usando le armi che conosce così bene, quelle della logica, e ritiene di averlo risolto. Per scoprire troppo tardi di aver sbagliato tutto, e non perché ci fossero difetti nei suoi ragionamenti, ma per non aver applicato lo strumento giusto nella giusta circostanza. Per trovare la giusta chiave di lettura della vicenda avrebbe dovuto fidarsi di cosa gli diceva il suo cuore. Non ne era stato capace, aveva nascosto la sua sensibilità dietro la corazza del ragionamento, e questa scoperta lo aveva annientato.
Mentre ricorda questo dramma nel passato, un altro si svolge nel presente, centrato in Roger. Anche qui Holmes si trova a dover gestire una sfida ai limiti delle sue possibilità, dovendo usare capacità che non gli sono per niente familiari, quando quelle per le quali è rinomato sono annebbiate dal degrado fisico.
C'è anche un terzo mistero che Holmes deve risolvere, la scomparsa del padre di Tamiki Umezaki (Hiroyuki Sanada), il suo corrispondente giapponese che lo aveva contattato con la scusa del pepe del Sichuan. Dal punto di vista della logica, la soluzione è di una banalità sconcertante, ma finalmente Holmes ha capito quando sia il momento di usarla, e quando no.
(*) No, non si tratta di John Watson, deceduto decenni prima.
(**) Abbiamo così modo di vedere un'altro Sherlock Holmes. In questo fittizio film in bianco e nero, ad interpretare il nostro è Nicholas Rowe, che qui riprende il ruolo che ebbe già in Piramide di paura (1985), il prequel ambientato nell'infanzia sherlockiana diretto da Barry Levinson.
La corrispondenza
Ed Phoerum (Jeremy Irons) è una brutta persona. Astrofisico geniale fin che si vuole ma manipolativo, egocentrico e megalomane. Aggiungiamoci pure che ha sedotto una sua studentessa, Amy (Olga Kurylenko), giovane, bella, intelligente e atletica, che è diventata sua amante e si accontenta del poco tempo che lui riesce a togliere al suo lavoro e alla sua famiglia per completare un quadretto poco edificante che non può che rendermelo antipatico.
Però ci sono un paio di circostanze che lo salvano. In primo luogo sta per morire a causa di un brutto malanno che non è per niente gentile con lui. E poi è sinceramente e profondamente innamorato di Amy. Questo lo spinge ad ordire un complicato piano volto ad uscire di scena mettendo le cose a posto. Nel senso che, dopo essersi spupazzato la sua bella per sei anni, si è fatto una paio di domande su di lei, (a) cosa l'ha predisposta ad innamorarsi di un uomo con quaranta/cinquanta anni più di lei sulle spalle? (b) perché come lavoretto parallelo agli studi fa la stunt woman in film di una pericolosità al limite dell'assurdo? Ed si è dato delle risposte, che non gli sono piaciute mica tanto. Ovvero, ha capito che Amy ha un grosso problema, che forse la sua morte acuirà.
Cerca così di fare in modo che la sua uscita di scena ottenga il risultato opposto, mettendo Amy in condizione di affrontare le sue paure, e magari superarle. Non è facile orchestrare un piano del genere, in particolare essendo morto. Ed però può contare su una diffusa rete di conoscenti e amici che sono disposti ad aiutarlo in questa folle impresa.
Faccia attenzione lo spettatore a non tirare conclusioni affrettate su questo lavoro di Giuseppe Tornatore, tutta la prima parte del film è piuttosto nebulosa, visto che Ed vuole nascondere a Amy, per quanto possibile, quello che sta accadendo, e ci riesce egregiamente nascondendosi dietro una corrispondenza mediata da diverse tecnologie (*) che impediscono alla destinataria di capire a quando effettivamente risalgano le loro generazioni. Conviene aspettare la seconda parte per azzardare commenti.
Come il precedente La migliore offerta, cast internazionale e girato in inglese (**). Se quello era pensato come storia mitteleuropea, qui siamo più in ambito britannico, anche se l'Italia fa capolino in più punti. Non ho capito perché Orta San Giulio è stata rinominata nel finzione Borgoventoso. Forse per scatenare la curiosità in chi non la conosca?
(*) Dalla vecchia cara lettera, al filmato mandato via posta elettronica o su DVD.
(**) Il doppiaggio spegne necessariamente la recitazione dei protagonisti, Irons in particolare. Mi piacerebbe vederlo in originale.
Però ci sono un paio di circostanze che lo salvano. In primo luogo sta per morire a causa di un brutto malanno che non è per niente gentile con lui. E poi è sinceramente e profondamente innamorato di Amy. Questo lo spinge ad ordire un complicato piano volto ad uscire di scena mettendo le cose a posto. Nel senso che, dopo essersi spupazzato la sua bella per sei anni, si è fatto una paio di domande su di lei, (a) cosa l'ha predisposta ad innamorarsi di un uomo con quaranta/cinquanta anni più di lei sulle spalle? (b) perché come lavoretto parallelo agli studi fa la stunt woman in film di una pericolosità al limite dell'assurdo? Ed si è dato delle risposte, che non gli sono piaciute mica tanto. Ovvero, ha capito che Amy ha un grosso problema, che forse la sua morte acuirà.
Cerca così di fare in modo che la sua uscita di scena ottenga il risultato opposto, mettendo Amy in condizione di affrontare le sue paure, e magari superarle. Non è facile orchestrare un piano del genere, in particolare essendo morto. Ed però può contare su una diffusa rete di conoscenti e amici che sono disposti ad aiutarlo in questa folle impresa.
Faccia attenzione lo spettatore a non tirare conclusioni affrettate su questo lavoro di Giuseppe Tornatore, tutta la prima parte del film è piuttosto nebulosa, visto che Ed vuole nascondere a Amy, per quanto possibile, quello che sta accadendo, e ci riesce egregiamente nascondendosi dietro una corrispondenza mediata da diverse tecnologie (*) che impediscono alla destinataria di capire a quando effettivamente risalgano le loro generazioni. Conviene aspettare la seconda parte per azzardare commenti.
Come il precedente La migliore offerta, cast internazionale e girato in inglese (**). Se quello era pensato come storia mitteleuropea, qui siamo più in ambito britannico, anche se l'Italia fa capolino in più punti. Non ho capito perché Orta San Giulio è stata rinominata nel finzione Borgoventoso. Forse per scatenare la curiosità in chi non la conosca?
(*) Dalla vecchia cara lettera, al filmato mandato via posta elettronica o su DVD.
(**) Il doppiaggio spegne necessariamente la recitazione dei protagonisti, Irons in particolare. Mi piacerebbe vederlo in originale.
Poirot 3.5: Nido di vespe
Ancora un racconto breve, che è stato necessariamente rimpolpato (*), per evitare che venisse reso con uno scarno cortometraggio minimalista. Al contrario, la produzione si è sbizzarrita, aggiungendo una festa paesana, una sfilata di alta moda, una corsa in automobile, e persino un ricovero ospedaliero con operazione per l'ispettore Japp (Philip Jackson).
L'aggiunta di materiale, e anche la traslazione di battute verso altri personaggi, non intaccano comunque lo spirito originale del racconto di Agatha Christie. La sostanza della storia non cambia. Hercule Poirot (David Suchet) questa volta non interviene a giochi fatti, ma riesce addirittura a prevenire un omicidio. E c'è da dire che questa volta è più facile del solito empatizzare con vittima e perpetratore. Solitamente si tratta di persone che vivono su di un loro mondo che sembra abbia ben poco a vedere col nostro. Qui, invece, abbiamo a che fare con personaggi relativamente accessibili, che farebbe più dispiacere del solito pensare destinati a morire.
L'apparenza è quella di un triangolo. Il filosofo John Harrison (Martin Turner) è fidanzato con la bella Molly Deane (Melanie Jessop), una top model che si è appena guadagnata la copertina di Vogue. Solo un'anno prima, Molly era fidanzata con Claude Langton (Peter Capaldi), un artista locale, ma qualcosa tra i due non è andato come doveva andare, ne è seguita una rottura e Molly si è messa con John. A complicare le cose, John e Claude sono grandi amici.
Il padre di John è stato uno dei primi amici di Poirot al suo arrivo in Inghilterra, e il nostro investigatore ha una gran simpatia per il giovane Harrison. Quindi, quando ha modo di vedere la meccanica delle relazioni tra John, Molly e Claude, si accorge subito che c'è un pericolo nell'aria. La sua azione riuscirà ad impedire la catastrofe, facendo sì che il potenziale assassino si ravveda e che l'amore trionfi.
Nonostante questo, il finale è ben poco allegro, con l'accettazione della irrimediabilità della fine che domina la morale del racconto.
Fino a questo punto, e per il mio gusto, il miglior episodio della serie.
(*) Questa volta da David Renwick.
L'aggiunta di materiale, e anche la traslazione di battute verso altri personaggi, non intaccano comunque lo spirito originale del racconto di Agatha Christie. La sostanza della storia non cambia. Hercule Poirot (David Suchet) questa volta non interviene a giochi fatti, ma riesce addirittura a prevenire un omicidio. E c'è da dire che questa volta è più facile del solito empatizzare con vittima e perpetratore. Solitamente si tratta di persone che vivono su di un loro mondo che sembra abbia ben poco a vedere col nostro. Qui, invece, abbiamo a che fare con personaggi relativamente accessibili, che farebbe più dispiacere del solito pensare destinati a morire.
L'apparenza è quella di un triangolo. Il filosofo John Harrison (Martin Turner) è fidanzato con la bella Molly Deane (Melanie Jessop), una top model che si è appena guadagnata la copertina di Vogue. Solo un'anno prima, Molly era fidanzata con Claude Langton (Peter Capaldi), un artista locale, ma qualcosa tra i due non è andato come doveva andare, ne è seguita una rottura e Molly si è messa con John. A complicare le cose, John e Claude sono grandi amici.
Il padre di John è stato uno dei primi amici di Poirot al suo arrivo in Inghilterra, e il nostro investigatore ha una gran simpatia per il giovane Harrison. Quindi, quando ha modo di vedere la meccanica delle relazioni tra John, Molly e Claude, si accorge subito che c'è un pericolo nell'aria. La sua azione riuscirà ad impedire la catastrofe, facendo sì che il potenziale assassino si ravveda e che l'amore trionfi.
Nonostante questo, il finale è ben poco allegro, con l'accettazione della irrimediabilità della fine che domina la morale del racconto.
Fino a questo punto, e per il mio gusto, il miglior episodio della serie.
(*) Questa volta da David Renwick.
Il segreto dei suoi occhi
Non sto parlando del recente film di Billy Ray (*), che non ho visto, anche perché quello che ho letto sul suo conto non mi aveva convinto, nonostante il cast stellare che esibisce (**), ma dell'originale argentino di sei anni prima, firmato da Juan José Campanella, che ha conquistato l'Oscar come miglior film non in inglese, strappandolo a quello che sembrava il vincitore annunciato, Il nastro bianco di Michael Haneke. Io avrei votato per il candidato tedesco ma, almeno per una volta, non ho niente da ridire sulla scelta dell'Academy.
Siamo nei primi anni del duemila e Benjamín Esposito (Ricardo Darín) è appena andato in pensione. Per capire che lavoro facesse prima ho dovuto ragionarci sopra un attimo, seguendo la storia, narrata in flashback, avvenuta un quarto di secolo prima a Buenos Aires. Il suo capo allora era Irene Menéndez Hastings (Soledad Villamil), che a sua volta ha un capo che viene qualificato come giudice. Da quello che fanno mi sembra che il loro giudice sia quello che noi chiamiamo pubblico ministero, che Irene sia una specie di sostituto (***) e che entrambi si occupino solo del lavoro di ufficio, non uscendo praticamente mai dal palazzo. Benjamín, che non è nemmeno laureato, riassume nelle sue competenze parti di quelle di un PM quando si sporca le mani con la realtà e di quelle di un investigatore.
In pratica Benjamín era un piccolo burocrate che cercava di evitare il più possibile di fare qualunque cosa. In questo veniva assecondato con successo dal suo collega Pablo Sandoval (Guillermo Francella), a lui gerarchicamente inferiore, ma superiore nell'inventiva per allontanare ogni contatto lavorativo (°). In rapida successione succedono due fatti che gli scombussolano l'esistenza. Prima viene nominato il suo nuovo capoufficio, Irene per l'appunto, di cui lui si innamora perdutamente a prima vista. Un amore impossibile, decide lui immediatamente, data la differenza di età, censo, cultura, origine, e quant'altro. Lei è giovane, bella, con antenati scozzesi, laureata negli USA, di famiglia con origini nobili, destinata a un radioso futuro. Lui no. Poco dopo, gli viene assegnato un caso, che lui sente sarebbe dovuto essere assegnato ad un altro ufficio. Una seccatura, un omicidio con stupro, roba da doversi sbattere, mescolarsi col mondo, parlare con gente, un incubo insomma. Malvolentieri si reca sul posto per fare il minimo indispensabile, però poi vede la vittima, Liliana Coloto (Carla Quevedo), e improvvisamente questo gli cambia la prospettiva sul caso. Non è più un semplice nome su di un documento ma una giovane donna che nonostante il massacro che ha subito, la vediamo piena di sangue e lividi, riesce ancora a ricordare di che bellezza abbacinante fosse stata.
Sarà anche che Benjamín aveva dentro di sè l'amore inespresso per Irene, ma lo shock di vedere Liliana così ridotta è così forte da fare il miracolo di trasformare uno scansafatiche in un segugio. Parla col novello vedovo, Ricardo Morales (Pablo Rago), raccoglie indizi, si fa un idea di cosa deve essere accaduto. Scarta subito una soluzione di comodo che viene proposta per chiudere rapidamente il caso, e punta diretto verso quello che sembra il ragionevole indiziato principale, tal Isidoro Gómez (Javier Godino), amico di infanzia di Liliana. Sapendo di non essere un gran investigatore, chiede aiuto a Pablo, che avrebbe una mente sopraffina se non fosse che la sua passione per l'alcol non sia tale da fargli mettere tutto il resto in secondo piano. Sia come sia, l'improbabile due si impegna in una bizzarra indagine che, nonostante alcune intoppi, viene infine coronata da successo. In un drammatico (°°) confronto con l'indiziato, Benjamín, grazie anche all'inattesa collaborazione di Irene, riesce a strappare la confessione che chiarisce cosa effettivamente sia successo.
Eppure il caso non si chiude così facilmente. Isidoro, che sembrava destinato a passare decenni in carcere, in breve tempo è nuovamente fuori. E c'è di peggio, Pablo viene ucciso, e Benjamín deve scappare in una remota provincia per evitare di fare la stessa fine.
Un quarto di secolo dopo, Benjamín cerca di chiudere i conti con il suo passato. E' ancora innamorato di Irene, si sente colpevole per la morte di Pablo, si chiede cosa sia successo a Isidoro, che sembra sparito nel nulla, e sente di dover fare qualcosa per Ricardo, al quale aveva promesso di mandare in galera chi aveva distrutto la vita sua e di Liliana. Per fare tutto questo, decide di scrivere un libro sulla vicenda, che non è altro che un modo per fare ordine nei suoi pensieri raccontando, a se stesso, a Irene, e anche a noi, questa storia.
Tecnicamente, al centro del film c'è un lunghissimo e impossibile piano sequenza che parte dal cielo, scende su uno stadio, segue una rapida azione d'attacco della squadra di casa, piomba sui nostri due eroi, Benjamín e Pablo, che sono alla caccia di Isidoro, e seguono il terzetto nel concitato inseguimento che porta alla cattura dell'indiziato. Ma il vero effetto speciale, per quel che mi riguarda, è il bellissimo sorriso di Irene, che ci viene annunciato come irresistibile ma riservato ad un pubblico molto ristretto nella prima metà del film, e dobbiamo pazientare fino al finale per vederlo.
(*) Curiosa carriera, che include le sceneggiature di Captain Phillips, The hunger games, Breach, eccetera. Sembra che Ray sia specializzato nell'adattare testi preesistenti.
(**) Nicole Kidman, Julia Roberts e Chiwetel Ejiofor in un solo film non capitano tutti i giorni.
(***) Nel duemila è diventata giudice.
(°) Vedasi in particolare le inventive risposte che dà al telefono per evitare di dover parlare con possibili interlocutori.
(°°) Ed estremamente illegale.
Siamo nei primi anni del duemila e Benjamín Esposito (Ricardo Darín) è appena andato in pensione. Per capire che lavoro facesse prima ho dovuto ragionarci sopra un attimo, seguendo la storia, narrata in flashback, avvenuta un quarto di secolo prima a Buenos Aires. Il suo capo allora era Irene Menéndez Hastings (Soledad Villamil), che a sua volta ha un capo che viene qualificato come giudice. Da quello che fanno mi sembra che il loro giudice sia quello che noi chiamiamo pubblico ministero, che Irene sia una specie di sostituto (***) e che entrambi si occupino solo del lavoro di ufficio, non uscendo praticamente mai dal palazzo. Benjamín, che non è nemmeno laureato, riassume nelle sue competenze parti di quelle di un PM quando si sporca le mani con la realtà e di quelle di un investigatore.
In pratica Benjamín era un piccolo burocrate che cercava di evitare il più possibile di fare qualunque cosa. In questo veniva assecondato con successo dal suo collega Pablo Sandoval (Guillermo Francella), a lui gerarchicamente inferiore, ma superiore nell'inventiva per allontanare ogni contatto lavorativo (°). In rapida successione succedono due fatti che gli scombussolano l'esistenza. Prima viene nominato il suo nuovo capoufficio, Irene per l'appunto, di cui lui si innamora perdutamente a prima vista. Un amore impossibile, decide lui immediatamente, data la differenza di età, censo, cultura, origine, e quant'altro. Lei è giovane, bella, con antenati scozzesi, laureata negli USA, di famiglia con origini nobili, destinata a un radioso futuro. Lui no. Poco dopo, gli viene assegnato un caso, che lui sente sarebbe dovuto essere assegnato ad un altro ufficio. Una seccatura, un omicidio con stupro, roba da doversi sbattere, mescolarsi col mondo, parlare con gente, un incubo insomma. Malvolentieri si reca sul posto per fare il minimo indispensabile, però poi vede la vittima, Liliana Coloto (Carla Quevedo), e improvvisamente questo gli cambia la prospettiva sul caso. Non è più un semplice nome su di un documento ma una giovane donna che nonostante il massacro che ha subito, la vediamo piena di sangue e lividi, riesce ancora a ricordare di che bellezza abbacinante fosse stata.
Sarà anche che Benjamín aveva dentro di sè l'amore inespresso per Irene, ma lo shock di vedere Liliana così ridotta è così forte da fare il miracolo di trasformare uno scansafatiche in un segugio. Parla col novello vedovo, Ricardo Morales (Pablo Rago), raccoglie indizi, si fa un idea di cosa deve essere accaduto. Scarta subito una soluzione di comodo che viene proposta per chiudere rapidamente il caso, e punta diretto verso quello che sembra il ragionevole indiziato principale, tal Isidoro Gómez (Javier Godino), amico di infanzia di Liliana. Sapendo di non essere un gran investigatore, chiede aiuto a Pablo, che avrebbe una mente sopraffina se non fosse che la sua passione per l'alcol non sia tale da fargli mettere tutto il resto in secondo piano. Sia come sia, l'improbabile due si impegna in una bizzarra indagine che, nonostante alcune intoppi, viene infine coronata da successo. In un drammatico (°°) confronto con l'indiziato, Benjamín, grazie anche all'inattesa collaborazione di Irene, riesce a strappare la confessione che chiarisce cosa effettivamente sia successo.
Eppure il caso non si chiude così facilmente. Isidoro, che sembrava destinato a passare decenni in carcere, in breve tempo è nuovamente fuori. E c'è di peggio, Pablo viene ucciso, e Benjamín deve scappare in una remota provincia per evitare di fare la stessa fine.
Un quarto di secolo dopo, Benjamín cerca di chiudere i conti con il suo passato. E' ancora innamorato di Irene, si sente colpevole per la morte di Pablo, si chiede cosa sia successo a Isidoro, che sembra sparito nel nulla, e sente di dover fare qualcosa per Ricardo, al quale aveva promesso di mandare in galera chi aveva distrutto la vita sua e di Liliana. Per fare tutto questo, decide di scrivere un libro sulla vicenda, che non è altro che un modo per fare ordine nei suoi pensieri raccontando, a se stesso, a Irene, e anche a noi, questa storia.
Tecnicamente, al centro del film c'è un lunghissimo e impossibile piano sequenza che parte dal cielo, scende su uno stadio, segue una rapida azione d'attacco della squadra di casa, piomba sui nostri due eroi, Benjamín e Pablo, che sono alla caccia di Isidoro, e seguono il terzetto nel concitato inseguimento che porta alla cattura dell'indiziato. Ma il vero effetto speciale, per quel che mi riguarda, è il bellissimo sorriso di Irene, che ci viene annunciato come irresistibile ma riservato ad un pubblico molto ristretto nella prima metà del film, e dobbiamo pazientare fino al finale per vederlo.
(*) Curiosa carriera, che include le sceneggiature di Captain Phillips, The hunger games, Breach, eccetera. Sembra che Ray sia specializzato nell'adattare testi preesistenti.
(**) Nicole Kidman, Julia Roberts e Chiwetel Ejiofor in un solo film non capitano tutti i giorni.
(***) Nel duemila è diventata giudice.
(°) Vedasi in particolare le inventive risposte che dà al telefono per evitare di dover parlare con possibili interlocutori.
(°°) Ed estremamente illegale.
Doctor Who 9.12: Hell bent
Ricapitolando, qualcuno vuole ottenere dal Dottore (Peter Capaldi) un informazione a cui tiene molto e che ha buoni motivi per pensare che lui abbia. Il tema comune di tutta l'annata è stato quello dell'ibridazione, e questo ci fa pensare che quel qualcuno sia in cerca di un qualche ibrido che abbia una qualche importante capacità. Nel primo dei tre episodi che costituiscono il finale di stagione, Face the raven, una serie di sfortunate concomitanze fa sì che la cattura del Dottore abbia lo spiacevole effetto collaterale di far morire Clara Oswald (Jenna Coleman). A ben vedere la principale responsabile della sciagura è lei medesima, ma il Dottore non ha nessuna intenzione di andar leggero nei confronti del mandante (a quel momento ancora ignoto), della facilitatrice Ashildr/Me (Maisie Williams), e nemmeno di se stesso.
In Heaven sent scopriamo che il mandante ha modificato il disco confessionale del Dottore per trasformarlo in una tortura potenzialmente infinita nei suoi confronti, progettata per terminare solo quando il Dottore riveli l'identità del misterioso ibrido. Scopriamo anche che il mandante non è altri che il presidente di Gallifrey, e il punto cruciale della tortura è quello di mostrare al Dottore la possibilità di tornare a casa, facendogliela vedere lì, a due passi di distanza, ma praticamente irraggiungibile, separata com'è da un muro di super-diamante. Il presidente (Donald Sumpter) ha però sottovalutato la cocciutaggine e l'ira del Dottore, che non si perde d'animo e per quattro miliardi e mezzo di anni ripete instancabilmente il suo ciclo di fatica, dolore e spavento al fine di tirare qualche pugno a mani nude al muro, guadagnandosi la libertà atomo dopo atomo.
Ora il Dottore è a Gallifrey, più furibondo che mai, animato dalla diabolica determinazione (*) di salvare Clara. C'è da rabbrividire nel pensare cosa si agiti dentro di lui. Da quando è diventato Dodicesimo sa che casa sua non è persa per sempre, come pensava prima, ma è nascosta da qualche parte. Ora, che finalmente ci riesce a tornare, non può godersi il momento. La gioia del ritorno è completamente oscurata dal dolore della situazione, e sa bene che, qualunque cosa faccia, non ci potrà restare che per brevissimo tempo, e dovrà invece tornare a peregrinare senza requie.
In uno scenario alla Sergio Leone, il Dottore sfida il Presidente e, a modo suo, ne ha ragione. Ora viene la parte difficile, salvare Clara. Ci sono alcune difficoltà tecniche quasi insormontabili, oltre al fatto che Clara non è molto d'accordo a giocare alla damsel in distress, preferisce essere trattata da pari. Ed è appunto così che si svolgerà la partita. Che, sia detto per inciso, il Dottore perde, anche se non si capisce bene quanto involontariamente.
(*) Da cui il titolo dell'episodio.
In Heaven sent scopriamo che il mandante ha modificato il disco confessionale del Dottore per trasformarlo in una tortura potenzialmente infinita nei suoi confronti, progettata per terminare solo quando il Dottore riveli l'identità del misterioso ibrido. Scopriamo anche che il mandante non è altri che il presidente di Gallifrey, e il punto cruciale della tortura è quello di mostrare al Dottore la possibilità di tornare a casa, facendogliela vedere lì, a due passi di distanza, ma praticamente irraggiungibile, separata com'è da un muro di super-diamante. Il presidente (Donald Sumpter) ha però sottovalutato la cocciutaggine e l'ira del Dottore, che non si perde d'animo e per quattro miliardi e mezzo di anni ripete instancabilmente il suo ciclo di fatica, dolore e spavento al fine di tirare qualche pugno a mani nude al muro, guadagnandosi la libertà atomo dopo atomo.
Ora il Dottore è a Gallifrey, più furibondo che mai, animato dalla diabolica determinazione (*) di salvare Clara. C'è da rabbrividire nel pensare cosa si agiti dentro di lui. Da quando è diventato Dodicesimo sa che casa sua non è persa per sempre, come pensava prima, ma è nascosta da qualche parte. Ora, che finalmente ci riesce a tornare, non può godersi il momento. La gioia del ritorno è completamente oscurata dal dolore della situazione, e sa bene che, qualunque cosa faccia, non ci potrà restare che per brevissimo tempo, e dovrà invece tornare a peregrinare senza requie.
In uno scenario alla Sergio Leone, il Dottore sfida il Presidente e, a modo suo, ne ha ragione. Ora viene la parte difficile, salvare Clara. Ci sono alcune difficoltà tecniche quasi insormontabili, oltre al fatto che Clara non è molto d'accordo a giocare alla damsel in distress, preferisce essere trattata da pari. Ed è appunto così che si svolgerà la partita. Che, sia detto per inciso, il Dottore perde, anche se non si capisce bene quanto involontariamente.
(*) Da cui il titolo dell'episodio.
Dio esiste e vive a Bruxelles
Come da titolo italiano, Dio (Benoît Poelvoorde) vive in un appartamento (*) di Bruxelles. Lì vive con sua moglie (Yolande Moreau) e la figlia, Ea (Pili Groyne) una bambina che sta diventando ragazzina, con le conseguenti inquietudini di quell'età. Ci sarebbe anche un figlio, JC (David Murgia), che però è scappato di casa anni prima, e di cui resta poco più che il ricordo.
Dio è davvero una brutta persona. Più avanti spiegherà che si odia, da cui deduciamo che la spinta a creare l'uomo a sua immagine e somiglianza è finalizzata a poterlo odiare come se stesso. Esercita il suo potere via il computer nel suo studio, per mezzo del quale gestisce varie catastrofi in giro per il mondo. Il rapporto tra Dio ed Ea è molto teso, e le cose peggiorano quando Ea si intrufola nello studio del padre e scopre quanto dolore causi agli uomini per puro divertimento. Punita dal Padre per la sua ribellione, seguendo le indicazioni del Figlio che le spiega come ha fatto a raggiungere il mondo (**), Ea ordisce un piano vendicativo. Manda a tutti gli umani (***) un messaggio che li mette al corrente di quando sarà la loro morte, blocca il computer paterno, e fugge a Bruxelles con lo scopo di seguire le orme del Fratello, raccogliere sei discepoli e scrivere un Nuovissimo Testamento (°), che non parlerà di lei, ma di loro.
Seguiamo così in parallelo tre storie. Ea che contatta i suoi discepoli, Dio che cerca Ea per riportala a casa e farle rimettere a posto il computer (°°), la moglie di Dio che a poco a poco si abitua a vivere da sola nell'appartamento e finisce per riprendere confidenza con la sua divinità, bislacca quanto quella del marito, ma almeno guidata dall'amore e non dall'odio.
Dio, supponente, odioso, incapace, si prenderà una serie di legnate fisiche e metaforiche e alla fine, causa del suo male, verrà estradato in Uzbekistan dove troverà lavoro in una fabbrica di lavatrici, nella speranza di riuscire a ritrovare una connessione con il suo appartamento.
Ea riuscirà nel suo progetto, e questo porterà ad una rivoluzione nella vita sulla Terra, che diventa ancora più assurda di quella a cui siamo abituati, però in un modo che, a occhio, sembra migliore.
Tra i discepoli c'è anche Catherine Deneuve, sposata ad un ricco manager che non prova niente per lei, riuscirà, grazie anche a Ea a trovare un nuovo equilibrio, per quanto molto improbabile.
La colonna sonora è costruita anche attorno all'idea che Ea, tra i pochi attributi divini che ha, ha anche la capacità di sentire la musica che ogni persona si porta dentro, da Lascia ch’io pianga di Händel a La mer di Charles Trenet, e la usa sui suoi discepoli, riuscendo così a dar loro la possibilità di capirsi meglio.
La storia è decisamente surreale, ed è narrata da Jaco Van Dormael con il suo consueto stile che riesce a mantenere l'equilibrio tra comicità, profondità, sensibilità, dolore e affetto per i personaggi.
(*) Non molto diverso da un qualunque altro appartamento, se non fosse per alcuni dettagli, ad esempio non ha porte, ed è dotato di uno studio con pareti altissime, forse infinite.
(**) La lavatrice ha un programma segreto che genera una specie di uscita di emergenza.
(***) Invero, solo quelli dotati di telefono cellulare.
(°) Da cui il titolo originale, Le tout nouveau testament.
(°°) Dio, oltre ad essere una pessima persona, è anche un gran incapace, non sa fare niente. Non dico miracoli, ma nemmeno ripararsi il computer.
Dio è davvero una brutta persona. Più avanti spiegherà che si odia, da cui deduciamo che la spinta a creare l'uomo a sua immagine e somiglianza è finalizzata a poterlo odiare come se stesso. Esercita il suo potere via il computer nel suo studio, per mezzo del quale gestisce varie catastrofi in giro per il mondo. Il rapporto tra Dio ed Ea è molto teso, e le cose peggiorano quando Ea si intrufola nello studio del padre e scopre quanto dolore causi agli uomini per puro divertimento. Punita dal Padre per la sua ribellione, seguendo le indicazioni del Figlio che le spiega come ha fatto a raggiungere il mondo (**), Ea ordisce un piano vendicativo. Manda a tutti gli umani (***) un messaggio che li mette al corrente di quando sarà la loro morte, blocca il computer paterno, e fugge a Bruxelles con lo scopo di seguire le orme del Fratello, raccogliere sei discepoli e scrivere un Nuovissimo Testamento (°), che non parlerà di lei, ma di loro.
Seguiamo così in parallelo tre storie. Ea che contatta i suoi discepoli, Dio che cerca Ea per riportala a casa e farle rimettere a posto il computer (°°), la moglie di Dio che a poco a poco si abitua a vivere da sola nell'appartamento e finisce per riprendere confidenza con la sua divinità, bislacca quanto quella del marito, ma almeno guidata dall'amore e non dall'odio.
Dio, supponente, odioso, incapace, si prenderà una serie di legnate fisiche e metaforiche e alla fine, causa del suo male, verrà estradato in Uzbekistan dove troverà lavoro in una fabbrica di lavatrici, nella speranza di riuscire a ritrovare una connessione con il suo appartamento.
Ea riuscirà nel suo progetto, e questo porterà ad una rivoluzione nella vita sulla Terra, che diventa ancora più assurda di quella a cui siamo abituati, però in un modo che, a occhio, sembra migliore.
Tra i discepoli c'è anche Catherine Deneuve, sposata ad un ricco manager che non prova niente per lei, riuscirà, grazie anche a Ea a trovare un nuovo equilibrio, per quanto molto improbabile.
La colonna sonora è costruita anche attorno all'idea che Ea, tra i pochi attributi divini che ha, ha anche la capacità di sentire la musica che ogni persona si porta dentro, da Lascia ch’io pianga di Händel a La mer di Charles Trenet, e la usa sui suoi discepoli, riuscendo così a dar loro la possibilità di capirsi meglio.
La storia è decisamente surreale, ed è narrata da Jaco Van Dormael con il suo consueto stile che riesce a mantenere l'equilibrio tra comicità, profondità, sensibilità, dolore e affetto per i personaggi.
(*) Non molto diverso da un qualunque altro appartamento, se non fosse per alcuni dettagli, ad esempio non ha porte, ed è dotato di uno studio con pareti altissime, forse infinite.
(**) La lavatrice ha un programma segreto che genera una specie di uscita di emergenza.
(***) Invero, solo quelli dotati di telefono cellulare.
(°) Da cui il titolo originale, Le tout nouveau testament.
(°°) Dio, oltre ad essere una pessima persona, è anche un gran incapace, non sa fare niente. Non dico miracoli, ma nemmeno ripararsi il computer.
Doctor Who 9.11: Heaven sent
Seconda parte del finale di stagione, conviene aver visto il precedente episodio per capirci qualcosa, e bisogna aspettare la chiusa del prossimo per chiarire alcuni dettagli che sono oscuri. Senza contare che Steven Moffat è uso a disseminare le sue storie di false piste, e a volte non si cura troppo di dettagli secondari, magari anche con lo scopo di lasciare porte aperte per possibili future reinterpretazioni.
Per quanto successo in Face the raven, il Dottore (Peter Capaldi) è da solo e molto arrabbiato. Chi ha ordito il diabolico piano nei suoi confronti (*) lo ha spedito in una specie di assurdo castello simil-medioevale costruito sul mare e che ha la capacità di ricombinarsi a discrezione del suo castellano. Costui è una specie di monaco meccanico con capacità dissennatrici, disegnato per ricordare uno spaventevole incubo che il Dottore si trascina dalla sua infanzia, e con la capacità di uccidere i Signori del Tempo impedendone la rigenerazione (**).
Il Dottore ci mette poco a capire che lo scopo è quello di spaventarlo a morte, per costringerlo a confessare cose che non ha mai detto a nessuno. Per far ciò la sua prigione è ingegnerizzata per dargli una speranza di uscita, rendendola nel contempo incredibilmente piccola. Una serie di prove lo guidano verso la via di uscita, che però è ostruita da un inimmaginabile muro in super-diamante. E lui non ha alcuno strumento a disposizione per romperlo.
Nonostante tutto questo, chi ha concepito questa impossibile tortura ha sottovalutato il Dottore. E Clara (Jenna Coleman). Clara è morta, il Dottore lo sa bene, ma quello che nessuno potrà uccidere è il ricordo di Clara che il Dottore si porta dentro, e a cui lui fa riferimento nei suoi momenti più cupi, quando sarebbe sul punto di arrendersi.
Così il Dottore riesce a immaginarsi un piano di fuga che sconfigga la logica del castello, sfruttandone le sue debolezze. Scopre infatti le stanze sono progettate per ritornare allo stato iniziale ogni volta che lui cede un suo segreto, ma il sistema non va troppo per il sottile, e trascura i cambiamenti che il progettista ha considerato irrilevanti. Il Dottore ragiona poi sulla natura del teleporter che lo ha fatto arrivare nella prigione. Dopotutto non è altro che un meccanismo per immagazzinare un essere vivente in tutti i suoi dettagli per poi stamparlo, come se fosse una stampante 3D.
Ricorda poi una favola dei fratelli Grimm, quella che da noi è nota come Il pastorello. Il protagonista della storia deve rispondere a tre domande di un re, la terza delle quali è sulla natura del tempo. Quanti secondi ci sono nell'eternità? Il pastorello dice che esiste un monte di diamante, un cubo esteso per chilometri, e che ogni cento anni un uccellino vi si reca per affilarsi il becco. Quando avrà consumato il monte, sarà passato un secondo dell'eternità.
Il suo compito, decide il Dottore, non è impossibile, ma solo inumano. Dovrà ripetere lo stesso percorso per miliardi di volte (***), dimenticandosi ogni volta di cosa è successo, ricostruendo dai pochi indizi che riesce a lasciare come arrivare al muro quasi indistruttibile, per tirargli qualche pugno, venire ridotto in fin di vita dal castellano, e uccidersi per ricominciare il ciclo.
(*) Abbiamo una serie di indizi che ci guidano nel corso dell'episodio a capire di chi si tratta, così che la sorpresa finale non sia troppo traumatica.
(**) Semplice, basta danneggiare l'intero organismo. I Time lord sono delle pellacce, e comunque anche in questo caso avranno una lunga agonia dalla quale però non c'è via di uscita.
(***) Numero stimato per difetto. Sappiamo che passano miliardi di anni, non sappiamo quanto duri una singola vita del Dottore, potremmo stimare un giorno, forse anche meno. Centinaia di miliardi di vite, forse migliaia, usate per abbattere un muro. Si può immaginare quanto sia furibondo il Dottore a questo punto.
Per quanto successo in Face the raven, il Dottore (Peter Capaldi) è da solo e molto arrabbiato. Chi ha ordito il diabolico piano nei suoi confronti (*) lo ha spedito in una specie di assurdo castello simil-medioevale costruito sul mare e che ha la capacità di ricombinarsi a discrezione del suo castellano. Costui è una specie di monaco meccanico con capacità dissennatrici, disegnato per ricordare uno spaventevole incubo che il Dottore si trascina dalla sua infanzia, e con la capacità di uccidere i Signori del Tempo impedendone la rigenerazione (**).
Il Dottore ci mette poco a capire che lo scopo è quello di spaventarlo a morte, per costringerlo a confessare cose che non ha mai detto a nessuno. Per far ciò la sua prigione è ingegnerizzata per dargli una speranza di uscita, rendendola nel contempo incredibilmente piccola. Una serie di prove lo guidano verso la via di uscita, che però è ostruita da un inimmaginabile muro in super-diamante. E lui non ha alcuno strumento a disposizione per romperlo.
Nonostante tutto questo, chi ha concepito questa impossibile tortura ha sottovalutato il Dottore. E Clara (Jenna Coleman). Clara è morta, il Dottore lo sa bene, ma quello che nessuno potrà uccidere è il ricordo di Clara che il Dottore si porta dentro, e a cui lui fa riferimento nei suoi momenti più cupi, quando sarebbe sul punto di arrendersi.
Così il Dottore riesce a immaginarsi un piano di fuga che sconfigga la logica del castello, sfruttandone le sue debolezze. Scopre infatti le stanze sono progettate per ritornare allo stato iniziale ogni volta che lui cede un suo segreto, ma il sistema non va troppo per il sottile, e trascura i cambiamenti che il progettista ha considerato irrilevanti. Il Dottore ragiona poi sulla natura del teleporter che lo ha fatto arrivare nella prigione. Dopotutto non è altro che un meccanismo per immagazzinare un essere vivente in tutti i suoi dettagli per poi stamparlo, come se fosse una stampante 3D.
Ricorda poi una favola dei fratelli Grimm, quella che da noi è nota come Il pastorello. Il protagonista della storia deve rispondere a tre domande di un re, la terza delle quali è sulla natura del tempo. Quanti secondi ci sono nell'eternità? Il pastorello dice che esiste un monte di diamante, un cubo esteso per chilometri, e che ogni cento anni un uccellino vi si reca per affilarsi il becco. Quando avrà consumato il monte, sarà passato un secondo dell'eternità.
Il suo compito, decide il Dottore, non è impossibile, ma solo inumano. Dovrà ripetere lo stesso percorso per miliardi di volte (***), dimenticandosi ogni volta di cosa è successo, ricostruendo dai pochi indizi che riesce a lasciare come arrivare al muro quasi indistruttibile, per tirargli qualche pugno, venire ridotto in fin di vita dal castellano, e uccidersi per ricominciare il ciclo.
(*) Abbiamo una serie di indizi che ci guidano nel corso dell'episodio a capire di chi si tratta, così che la sorpresa finale non sia troppo traumatica.
(**) Semplice, basta danneggiare l'intero organismo. I Time lord sono delle pellacce, e comunque anche in questo caso avranno una lunga agonia dalla quale però non c'è via di uscita.
(***) Numero stimato per difetto. Sappiamo che passano miliardi di anni, non sappiamo quanto duri una singola vita del Dottore, potremmo stimare un giorno, forse anche meno. Centinaia di miliardi di vite, forse migliaia, usate per abbattere un muro. Si può immaginare quanto sia furibondo il Dottore a questo punto.
I dimenticati
Mi chiedo cosa ha pensato Preston Sturges quando ha scoperto il titolo che la distribuzione italiana ha dato a questo suo film. Lui aveva scelto Sullivan's travels, una evidente citazione dei Gulliver's travels. Anche se c'è ben poco di Jonathan Swift in questa storia, se non il taglio satirico con cui è affrontata la faccenda. E questo viene completamente perso in italiano, indicando invece una pista completamente sbagliata.
Si narra infatti di John L. Sullivan (Joel McCrea), un regista commerciale di buon successo grazie a commedie di facile presa popolare. Il buon Sullivan però è scontento, vuole diventare un Autore, come Ernst Lubitsch o, meglio ancora, Frank Capra (*). Per far questo, ha deciso di adattare il romanzo Fratello, dove sei? (**) per farne un film di impegno civile che scuota le coscienze dei cittadini sulla condizione dei numerosi poveri, vagabondi, senza un soldo, che sopravvivevano malamente al tempo. Il problema, gli fanno notare i capi dello studio, per tentare di dissuaderlo, è che lui non ha nessuna esperienza della materia, in quanto nato ricco, e arricchitosi ancor di più con il suo cinema di cassetta.
Sullivan ci pensa un secondo, decide che hanno ragione, e che si travestirà da povero per vedere come davvero vivono. Il tentativo di una mediazione, con Sullivan che fa il povero mentre un pullman di supporto lo segue a breve distanza, fallisce rapidamente, e Sullivan riesce ad assaporare la vita del poveraccio, il che lo porta rapidamente sul rischio della catastrofe. Per sua fortuna un paio di incontri fortunati gli evitano guai peggiori, tra cui una gentil donzella di cui non ci è dato sapere il nome (Veronica Lake) che, disillusa da Hollywood, vorrebbe far ritorno a casa. Caso vuole che lui finisca per dover rivelare a lei la sua vera identità e il suo progetto e lei, che preferisce rinunciare ad una bella lettera di raccomandazione per Lubitsch in cambio della possibilità di seguire Sullivan nel suo pellegrinaggio.
Nemmeno la partenza in coppia ha successo, e qui Sullivan è sul punto di perdersi d'animo. Sembra infatti che il caso si opponga ad ogni suo tentativo e lo faccia sempre ritornare al punto di partenza. Ma i due perseverano, e finalmente incontrano la povertà vera, una povertà da far rizzare i capelli, miseria al limite della sopravvivenza, docce comuni, lunghe code per una ciotola di qualcosa appena commestibile. Questa parte è narrata come se fosse un film muto, il che aumenta l'effetto citazionista rispetto alle comiche di Charlie Chaplin. Quando giungono al punto di cercare cibo nei bidoni dell'immondizia, i due decidono che hanno fatto abbastanza, e tornano allo studio.
C'è però un colpo di coda della vita disperata. Sullivan, infatti, viene derubato e colpito duramente alla testa mentre era in abiti da vagabondo, al suo risveglio reagisce rudemente ad un ferroviere e, ancora in stato confusionale, viene portato rapidamente in giudizio e condannato per direttissima a sei anni di lavori forzati. In pratica venduto come schiavo ad un possidente che fa lavorare lui e altri galeotti in un ambiente che ricorda molto 12 anni schiavo. La situazione sembra grama, ma era proprio quello di cui Sullivan aveva bisogno. Una domenica viene portato con i suoi compagni di sventura in chiesa (***) per vedere un film, che risulta essere una comica di Walt Disney con il povero Pluto a cui ne capitano di tutti i colori. E lì capisce finalmente quanto sia importante un film che riesce a strappare una risata anche all'ultimo dei derelitti.
Segue lieto fine d'ordinanza. Grazie ad un'idea geniale Sullivan riesce a far riconsiderare il suo caso e, lussi dei ricchi, esce di galera in un batter d'occhio. Però ha imparato la lezione. Ha capito di non saperne abbastanza per parlare degli ultimi. O forse finalmente ne sa, e proprio per questo vuole tornare a fare commedie.
Sessant'anni dopo i fratelli Coen si sono chiesti che film avrebbe fatto Sullivan dopo i fatti qui narrati. Chissà, magari gli riescono a far cambiare idea e utilizzare qualcosa del materiale che ha raccolto di prima mano con la sua esperienza.
E così nasce, per l'appunto, il loro Fratello, dove sei.
(*) Che Lubitsch sia inferiore a Capra è una opinione di Sullivan, non mia, e nemmeno di Sturges. Per me hanno fatto cose molto diverse, tali da non renderli paragonabili, ma sono entrambi tra i Grandi. Ho il sospetto che Sturges preferisse Lubitsch.
(**) In originale, "O Brother, Where Art Thou?", nel finale vediamo la copertina del libro, l'autore è inesistente, ma il suo cognome ricorda Steinbeck.
(***) Una chiesa per neri. Da notare che siamo nel Sud e ancora in pieno segregazionismo. Puoi essere bianco quanto vuoi, ma la galera ti porta al livello più basso della società.
Si narra infatti di John L. Sullivan (Joel McCrea), un regista commerciale di buon successo grazie a commedie di facile presa popolare. Il buon Sullivan però è scontento, vuole diventare un Autore, come Ernst Lubitsch o, meglio ancora, Frank Capra (*). Per far questo, ha deciso di adattare il romanzo Fratello, dove sei? (**) per farne un film di impegno civile che scuota le coscienze dei cittadini sulla condizione dei numerosi poveri, vagabondi, senza un soldo, che sopravvivevano malamente al tempo. Il problema, gli fanno notare i capi dello studio, per tentare di dissuaderlo, è che lui non ha nessuna esperienza della materia, in quanto nato ricco, e arricchitosi ancor di più con il suo cinema di cassetta.
Sullivan ci pensa un secondo, decide che hanno ragione, e che si travestirà da povero per vedere come davvero vivono. Il tentativo di una mediazione, con Sullivan che fa il povero mentre un pullman di supporto lo segue a breve distanza, fallisce rapidamente, e Sullivan riesce ad assaporare la vita del poveraccio, il che lo porta rapidamente sul rischio della catastrofe. Per sua fortuna un paio di incontri fortunati gli evitano guai peggiori, tra cui una gentil donzella di cui non ci è dato sapere il nome (Veronica Lake) che, disillusa da Hollywood, vorrebbe far ritorno a casa. Caso vuole che lui finisca per dover rivelare a lei la sua vera identità e il suo progetto e lei, che preferisce rinunciare ad una bella lettera di raccomandazione per Lubitsch in cambio della possibilità di seguire Sullivan nel suo pellegrinaggio.
Nemmeno la partenza in coppia ha successo, e qui Sullivan è sul punto di perdersi d'animo. Sembra infatti che il caso si opponga ad ogni suo tentativo e lo faccia sempre ritornare al punto di partenza. Ma i due perseverano, e finalmente incontrano la povertà vera, una povertà da far rizzare i capelli, miseria al limite della sopravvivenza, docce comuni, lunghe code per una ciotola di qualcosa appena commestibile. Questa parte è narrata come se fosse un film muto, il che aumenta l'effetto citazionista rispetto alle comiche di Charlie Chaplin. Quando giungono al punto di cercare cibo nei bidoni dell'immondizia, i due decidono che hanno fatto abbastanza, e tornano allo studio.
C'è però un colpo di coda della vita disperata. Sullivan, infatti, viene derubato e colpito duramente alla testa mentre era in abiti da vagabondo, al suo risveglio reagisce rudemente ad un ferroviere e, ancora in stato confusionale, viene portato rapidamente in giudizio e condannato per direttissima a sei anni di lavori forzati. In pratica venduto come schiavo ad un possidente che fa lavorare lui e altri galeotti in un ambiente che ricorda molto 12 anni schiavo. La situazione sembra grama, ma era proprio quello di cui Sullivan aveva bisogno. Una domenica viene portato con i suoi compagni di sventura in chiesa (***) per vedere un film, che risulta essere una comica di Walt Disney con il povero Pluto a cui ne capitano di tutti i colori. E lì capisce finalmente quanto sia importante un film che riesce a strappare una risata anche all'ultimo dei derelitti.
Segue lieto fine d'ordinanza. Grazie ad un'idea geniale Sullivan riesce a far riconsiderare il suo caso e, lussi dei ricchi, esce di galera in un batter d'occhio. Però ha imparato la lezione. Ha capito di non saperne abbastanza per parlare degli ultimi. O forse finalmente ne sa, e proprio per questo vuole tornare a fare commedie.
Sessant'anni dopo i fratelli Coen si sono chiesti che film avrebbe fatto Sullivan dopo i fatti qui narrati. Chissà, magari gli riescono a far cambiare idea e utilizzare qualcosa del materiale che ha raccolto di prima mano con la sua esperienza.
E così nasce, per l'appunto, il loro Fratello, dove sei.
(*) Che Lubitsch sia inferiore a Capra è una opinione di Sullivan, non mia, e nemmeno di Sturges. Per me hanno fatto cose molto diverse, tali da non renderli paragonabili, ma sono entrambi tra i Grandi. Ho il sospetto che Sturges preferisse Lubitsch.
(**) In originale, "O Brother, Where Art Thou?", nel finale vediamo la copertina del libro, l'autore è inesistente, ma il suo cognome ricorda Steinbeck.
(***) Una chiesa per neri. Da notare che siamo nel Sud e ancora in pieno segregazionismo. Puoi essere bianco quanto vuoi, ma la galera ti porta al livello più basso della società.
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