Trash

In principio era il romanzo omonimo, scritto da Andy Mulligan e pensato per un pubblico molto giovanile. Tre ragazzini che campano miserevolmente ai margini di Rio de Janeiro si trovano al centro di un'intrigo hitchcockiano della mala politica locale.

L'improbo compito di trasformarlo in un film che non risulti troppo imbarazzante allo spettatore occidentale è stato affidato a Richard Curtis, sceneggiatura, e Stephen Daldry, regia. Niente meno. Ci sono riusciti? Abbastanza. La lievità della scrittura e lo sguardo attento di Daldry hanno fatto quello che hanno potuto, ma non mi è stato facile immedesimarmi nei tre giovanissimi protagonisti. Per mia fortuna la mia vita è stata, relativamente parlando, una passeggiata rispetto alla loro.

Forse sarei riuscito a seguirlo meglio se si fosse dato più spazio alla trama adulta, rappresentata da un prete che segue la comunità locale, Padre Juilliard (Martin Sheen) e dalla missionaria (*) che l'affianca, Olivia (Rooney Mara), che si vedono contrapposti ad uno spregevole poliziotto José Angelo (Wagner Moura).

Ma non è che a Daldry abbia mai cercato di rendere facile la vita al suo pubblico. E poi il risultato sarebbe stato, oltre che un tradimento sostanziale del testo di partenza, molto meno interessante.

(*) Invero non ho capito bene a che titolo fosse presente nella baraccopoli. Per quel che ne so, potrebbe essere stata una ricercatrice universitaria che stava facendo un qualche studio sui nativi.

The Danish girl

La regia di Tom Hooper (*) riesce nel miracolo di trasformare una storia che il buonsenso considerebbe destinata ad una nicchia molto limitata in un film mainstream che anche da noi è riuscito ad incassare qualche milione. Ma tutto si paga, e in questo caso Hooper ha ingentilito il racconto, smussando gli angoli, mettendoci più melodramma di quanto mi sarei aspettato.

Alla base della pellicola c'è lo strano caso di Einar Wegener (Eddie Redmayne), pittore paesaggista danese che circa un secolo fa sentì di non poter più resistere alla spinta interiore a diventare Lili Elbe, prima vestendosi da donna, poi affrontando pericolose operazioni (**) che ne hanno fatto il primo transgender.

Il tutto è visto dal punto di vista della moglie, Gerda Wegener (Alicia Vikander ***), che scatena inconsapevolmente la trasformazione del marito, la accetta, sia pur con gran fatica, ma non riesce a smettere di amarlo, mentre Einar, diventando Lili, non vede più il più il senso di essere sposata ad una donna.

Il notevole cast include anche Ben Whishaw nel ruolo di Ben, omosessuale danese che si prende una cotta per Einar, quando lo vede in abiti da donna, ma senza concludere nulla (in quanto Lili si sente donna, non uomo omosessuale); Matthias Schoenaerts come Hans, primo amore di Einar, quando i due erano ancora bambini, il quale ricambia l'affetto ma è sessualmente attratto dalle donne; e Sebastian Koch, il dottore che interverrà chirurgicamente su Einar.

(*) E la sceneggiatura di Lucinda Coxon.
(**) Si pensi a quale potesse essere lo stato dell'arte della chirurgia di inizio novecento.
(***) Premiata con l'Oscar. A mio avviso un errore, non perché la sua recitazione non lo valesse, ma perché è stata fatta partecipare nella categoria "attrice non protagonista" quando il suo personaggio è a tutti gli effetti al centro della storia quanto quello di Redmayne. Al punto che è lei che viene identificata da una battuta come "ragazza danese".

Zootropolis

In un inesplicabile mondo parallelo targato Walt Disney, svariati mammiferi si sono umanizzati apprendendo un linguaggio comune e l'uso di vestirsi, oltre ad aver imparato a non mangiarsi a vicenda. Al centro del loro mondo c'è una utopica metropoli (*) in cui tutti gli animali convivono in armonia.

Judy Hopps è una coniglietta che, sin da piccola, ha nutrito il sogno di muoversi dalla sua cittadina campagnola alla grande città e lì fare la poliziotta. Testona com'è, ci riesce, si imbarca su un treno che sembra preso di peso da Hunger games (**) e ... scopre che l'utopia non è per niente realizzata. Gli animali vivono sì tutti nella stessa città, ma la diffidenza e i pregiudizi tra le diverse razze imperano, e lei ne paga il fio. In quanto piccola tenera coniglietta viene considerata incapace di compiere lavoro investigativo serio, e viene mandata a controllare il traffico.

Non è certo un problema solo suo. Tra gli altri, incontra una volpe, Nick Wilde, che si è rassegnato ad essere un imbroglioncello, assecondando il pregiudizio che lo aveva colpito sin da piccolo. Per una serie di concomitanze, i due si trovano a dover lavorare assieme ad un caso complicato avendo solo 48 ore di tempo per risolverlo (***). Si dipana quindi una storia che sembra adattata da un racconto hardboiled, dove i due devono seguire tracce evanescenti, vengono aiutati da personaggi curiosi, come un lentissimo bradipo che lavora alla motorizzazione civile e Mr. Big, il big boss della mafia locale, stranamente somigliante a Don Vito Corleone.

(*) Da cui i due titoli, Zootropolis, come è capitato a noi, agli inglesi e a buona parte degli europei, Zootopia, usato sul mercato americano. Regola che ha le sue eccezioni. Ad esempio i francesi lo conoscono come Zootopie, e i tedeschi, chissà come mai, hanno un titolo tutto loro particolare, Zoomania.
(**) Con la spassosa variante di avere porte di diverse taglie, in modo da permettere un agevole sbarco e imbarco della variegata moltitudine che ha cittadinanza in questo buffo mondo.
(***) Ogni riferimento a 48 ore di Walter Hill, con la strana coppia Nick Nolte - Eddie Murphy, deve essere intenzionale.

Don Jon

Opera prima di Joseph Gordon-Levitt (*), basata su una idea che non mi sembra per niente male, fare una versione più leggera di Shame incrociandolo con (500) giorni insieme. Sfortunatamente il risultato è inferiore alla somma dei due modelli originari. Come commedia ha troppi momenti di stanca, come tragedia manca un approfondimento della situazione e dei personaggi, che troppo spesso sono più tratteggiati che sviluppati. Non voglio nemmeno pensare che il titolo sia un riferimento al Don Giovanni di Da Ponte - Mozart, il paragone è così fuori scala che nessun filmmaker in possesso del ben dell'intelletto lo azzarderebbe.

Jon Martello (Gordon-Levitt) è un ragazzotto italo-americano che ha un solo grosso interesse nella sua vita, il sesso. Non ha nessuna difficoltà a procurarsi donne affascinanti per rapide avventure (**) che però non riescono a soddisfarlo. Il fatto è che si è assuefatto alla pornografia, e gli sembra che il sesso reale non ne sia all'altezza. Il perfido meccanismo sembra incepparsi quando incontra Barbara (Scarlett Johansson), che gli sembra la personificazione dei suoi sogni molto materialistici sulle donne. Il problema è che anche Barbara ha una sua deviazione, cresciuta come una principessina dalla sua famiglia, in una casa che sembra quella di Barbie (***), si nutre di film rosa come Jon di porno, e ritiene che l'uomo della sua vita debba seguire quel modello.

La fortuna di Jon sta nell'incontrare Esther (Julianne Moore), una donna molto più matura (°) di lui, che riuscirà a fargli capire in che razza di vicolo cieco si sia ficcato, e forse lo aiuterà ad uscirne.

Un certo peso nella narrativa è preso dalla famiglia di Jon, una famiglia italo-americana molto stereotipata, con il padre (Tony Danza) interessato solo allo sport e la madre (Glenne Headly) ossessionata dal voler vedere Jon sposato, in modo che lei possa realizzarsi come nonna. In questo contesto si ritaglia un piccolo spazio anche Brie Larson nel ruolo della sorella, che per tutto il film sembra essere presente solo col corpo, assorbita com'è dal suo telefono, ma che nel finale avrà modo di scodellare la sua unica battuta in cui spiega la natura della relazione tra Barbara e Jon, dimostrandosi come l'unica della famiglia con una buona capacità di osservazione e interpretazione dei fatti.

(*) Scritta, diretta e interpretata da lui medesimo. Per essere precisi Gordon-Levitt aveva già diretto una manciata di corti, questo è il suo primo lungometraggio.
(**) Tra i punti forti del film c'è anche l'ottimo casting.
(***) Nel senso della bambola. E ora che ci penso, forse il legame tra i nomi, Barbie-Barbara, non è casuale.
(°) In tutti i sensi.

La vita è facile ad occhi chiusi

Primo film dello spagnolo David Trueba che arriva in Italia. Distribuito l'autunno scorso, non l'ha visto praticamente nessuno, nonostante avesse nelle sue credenziali ben sei Goya (*). Per mia fortuna è stato rimesso in cartellone dal cinemino sotto casa, che spesso cerca la competizione insensata con i multisala (**) ma a volte fa un lavoro più utile di recupero di pellicole che hanno avuto poca o nulla visibilità.

L'idea è simile a quella di Marilyn, il risultato inferiore ma comunque buono. Anche qui al centro della storia c'è un mito della cultura popolare novecentesca, che però è visto da un punto di vista molto laterale. Qui la lateralità del racconto è ancor più accentuata, al punto che lui, il mito, ovvero John Lennon, lo vediamo fugacemente in materiale d'archivio e, dal vivo, solo per pochi secondi (***) in campo lungo.

Il protagonista è invece Antonio (Javier Cámara) un professore spagnolo di inglese e latino che ha una grande passione per i Beatles e cerca di usarla come mezzo per spingere i suoi alunni a studiare la lingua d'Albione. Siamo alla metà degli anni sessanta, c'è già un po' di crisi tra i Fab Four e John Lennon si è preso una vacanza dal gruppo per girare Come ho vinto la guerra di Richard Lester (1967). Erano i tempi in cui la Spagna era una meta tipica per girare film spendendo poco, vedasi gli spaghetti western che approfittavano anche dei locali paesaggi desertici.

Un problema di Antonio è che in quegli anni non era così facile avere i testi delle canzoni, che spesso non erano pubblicati nemmeno nei dischi, e così lui le traduzioni se le faceva da solo. Però non è sempre facile capire una canzone, a volte nemmeno quando viene cantata nella nostra lingua. Così spesso le sue versioni avevano dei buchi in corrispondenza delle sue incertezze di traduttore. Così decide di fare un viaggio e chiedere a Lennon di risolvergli i dubbi. Sulla strada incontra un paio di ragazzetti, prima Belén (Natalia de Molina) e poi Juanjo (Francesc Colomer). Dà un passaggio ad entrambi, e l'anomalo terzetto collabora ad un'avventura di pochi giorni, che diventa maggiore della somma delle loro tre storie.

Strawberry Fields forever è nata proprio mentre John Lennon era in Spagna, e nella sua prima versione non aveva quella che diventerà la strofa iniziale ("Let me take you down ...") ma attaccava con "Living is easy with eyes closed", che è diventato il titolo di questo film e ne dà la chiave interpretativa. Siamo infatti in piena dittatura franchista, e le cose su cui è meglio tenere gli occhi chiusi, se non si voglio avere problemi, abbondano. Antonio, che non è certo un eroe, si barcamena nella situazione. Evitando gli scontri diretti (°), cerca di seminare qualcosa tra le giovani generazioni, per il poco che può fare.

Chissà come andranno a finire le storie dei nostri personaggi. Forse riusciranno a tenere aperti gli occhi anche quando questo è difficile. E sarà già un piccolo passo in avanti.

(*) Miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura, miglior protagonista, miglior attrice debuttante, e miglior colonna sonora, affidata a niente meno che Pat Metheny.
(**) Programmando film che sono già passati dai fratelli più potenti, facendo così la fine di quelle che erano decenni fa le seconde o terze visioni, attirando cioè solo il pubblico dei distratti che si sono persi la prima uscita. Il che qualche volta è utile, almeno per me, così mi sono recuperato l'ultimo Star wars, ma in genere non è che abbia molto senso.
(***) Interpretato dalla stesso Trueba.
(°) Ci riesce per quasi tutto il tempo. Solo una volta, nel finale, si lascia andare ad un piccolo atto di violenza ribelle, più comico che altro.

Il libro della giungla

Misto di animazione al computer, con un personaggio reale, il protagonista Mowgli (Neel Sethi) e tanta motion capture. Il risultato è da perderci la testa, al punto che all'uscita dal cinema ho sentito una spettatrice chiedere dove fosse stato girato - la risposta è sconcertante, Los Angeles.

La storia segue con solo piccoli cambiamenti la versione classica Disney di mezzo secola fa, che penso tutti conoscano. Il piccolo Mowgli viene adottato da un branco di lupi, grazie all'intercessione della pantera nera Bagheera, che lo ha trovato dopo che la tigre Shere Khan gli ha ucciso il padre. Dopo anni la tigre lo vede e chiede ai lupi di consegnarglielo, il che scatena una serie di tragedie e avventure varie con l'orso Baloo, lo scimmione Re Luigi (*), eccetera. Ridotti di molto i numeri musicali, che comunque fanno capolino.

Doppiaggio di lusso, con Toni Servillo a dar voce a Bagheera (Ben Kingsley), Vittoria Mezzogiorno Kaa (Scarlett Johansson), Neri Marcorè Baloo (Bill Murray).

(*) Che in questa versione mantiene il nome originale, Louie, e diventa così grosso da sembrare un sodale di King Kong. La sua cupezza, invece, ricorda quella Kurz in Apocalypse now.

Race: Il colore della vittoria

Per una volta capisco il problema di chi ha deciso il titolo italiano. Trovandosi davanti ad una sola parola di significato ambiguo, ha pensato di rendere la stessa ambiguità nel sottotitolo. Il risultato non è esaltante, ma poteva andare peggio.

Non sono sicuro quale sia il punto che si voglia fare. Sicuramente al centro c'è Jesse Owens (Stephan James) e la sua impresa berlinese. Seguiamo perciò il nostro da quando si iscrive all'università con il solo scopo di lavorare con Larry Snyder (Jason Sudeikis), allenatore di cui gli hanno detto un gran bene, fino a quando torna da Berlino con i suoi quattro ori.

A fianco, ci viene proposto il lato politico della vicenda. C'erano dubbi sulla partecipazione americana a quelle Olimpiadi, che vengono sintetizzati nel personaggio di Jeremiah Mahoney (William Hurt) a cui si contrappone Avery Brundage (Jeremy Irons) che, non si capisce bene se per ingenuità o per interesse personale, chiude un occhio su quanto sa del nazismo per spingere il comitato olimpico dalla sua parte.

Si accenna anche ai problemi in Germania. Joseph Goebbels (Barnaby Metschurat) vedeva nelle Olimpiadi un mezzo per propagandare l'immagine nazista, e avrebbe voluto gestirsi l'evento per conto suo. Per sua sfortuna il suo capo era rimasto colpito dalle capacità di Leni Riefenstahl (Carice van Houten) e aveva affidato a lei la creazione di un film che ne raccontasse lo svolgimento. La Riefenstahl meriterebbe un film tutto per lei. Pur affascinata da Hitler, non era identificabile come una nazista. Sapeva fare il suo lavoro, e voleva solo farlo al meglio. Non si fa perciò cruccio di bisticciare con Goebbels, e persino di girare scene che non piacciono per niente ad Adolf. Il risultato è un documentario, Olympia (1938), considerato come una delle migliori cose nel suo ambito.

Mi sembra quasi che la produzione non abbia creduto abbastanza nel film. La sceneggiatura è stata affidata ai non particolarmente brillanti Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, che hanno finito per mettere dentro tanta roba (*) senza però dare una direzione ben definita alla narrativa. Il regista, Stephen Hopkins (**), se la cava tutto sommato decentemente, ma non riesce a dare una caratterizzazione alla sceneggiatura.

(*) C'è anche un accenno alla Adidas di Adolf "Adi" Dassler che ha fornito le scarpette (anche) a Owens.
(**) Più noto per i suoi lavori televisivi, ha fatto per il cinema cose come Lost in space (1998).

I tre amigos!

Un secolo fa (*), tre disadattati dal quoziente intellettivo limitato sono diventati chissà come delle star del cinema muto. Diventati inseparabili, come Gianni e Pinotto o i Tre marmittoni (**), si sono specializzati nel ruolo di tre amici pistoleri che, come Zorro, pur essendo di nobili origini, combattono contro i delinquenti che vessano i poveri. I loro personaggi dovrebbero essere ispanici, come da titolo, ma loro sono evidentemente molto bianchi e anglosassoni, e la incongruenza viene anche sottolineata nel titolo originale, ¡Three amigos!, che mescola allegramente inglese e spagnolo senza stare a farsi troppe domande.

Lucky Day (Steve Martin) è il capo del terzetto, anche se non si capisce per quale merito, forse per carenza di demeriti; Dusty Bottoms (Chevy Chase) è il bello che ha successo con le donne; Ned Nederlander (Martin Short) è velocissimo e dotato di mira infallibile. Seguendo questo schema hanno fatto la fortuna dello studio cinematografico, ma non la loro, perché il burbero magnate Harry Flugleman (Joe Mantegna), si approfitta bellamente di loro. Il peggio è che quando cercano di farsi valere, Flugleman non ci mette più di pochi secondi per buttarli fuori dallo studio letteralmente in mutande, mostrando come ai tempi il potere contrattuale delle star fosse veramente esiguo.

Nello stesso momento, da qualche parte in un incongruo Messico in cui tutti parlano inglese, buttando al più una qualche parolina in spagnolo qua e là, si sta consumando una triste vicenda. La banda di delinquenti capitanata dal famigerato El Guapo (Alfonso Arau) infierisce così duramente sul villaggio di Santo Poco (***) che Carmen (Patrice Martinez), la tenera figlia di quello che sembra essere qualcosa come il sindaco, va nella città più vicina a chiedere aiuto. Non solo non lo trova, ma viene pure sbeffeggiata.

Per fortuna scopre l'esistenza dei tre amigos, ne equivoca la natura, e manda loro un telegramma per convocarli. Complice anche un telegrafista acculturato di buon cuore che sintetizza il messaggio per restare nel budget di Carmen usando usando una parola (infame - infamous) di cui né lei né gli amigos conoscono il significato, i nostri pensano di essere scritturati per una apparizione speciale in uno spettacolo di El Guapo.

Sono andato a ripescare il DVD e me lo sono rivisto perché una scena di Kung fu panda 3 me l'ha ricordato, e non è certo il solo film che attinge a quanto qui raccontato, vedasi ad esempio Tropic thunder.

La regia è di John Landis, ma andrebbe più considerato come un film di Steve Martin, che oltre ad interpretarlo lo ha scritto (°) e prodotto (°°). Mentre lo riguardavo mi sono accorto che ha qualcosa in comune anche con Ave, Cesare! dei fratelli Coen, e non mi riferisco al punto esclamativo nel titolo. Entrambi sono un atto d'amore per il cinema. Per quanto possano essere scarsi certi film (°°°) a volte, per vie imperscrutabili, possono esserci più utili di tante cose che sembrano essere più serie.

In questo caso il riferimento dichiarato sarebbe quello ai film di un secolo fa, ma non è difficile accorgersi di come la trama sia presa da I magnifici sette (1960), e quindi ovviamente a I sette samurai (1954) dell'imperatore Akira Kurosawa, incrociato con Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, da cui si è preso il personaggio del tedesco, consigliere militare del cattivo, e Alfonso Arau in persona.

Tra le parti minori, menzione d'onore alla bella Rebecca Ferratti che premia nel finale Ned Nederlander per il suo operato.

(*) 1916, o almeno, così vieni dichiarato. Non che ci sia troppo da fidarsi. Più avanti Ned Nederlander racconterà ai suoi fan di come, quand'era ancora alle prime armi, incontrò sul set una già famosa Dorothy Gish che gli disse una parola buona. Sì, proprio la Dorothy Gish a cui, assieme a Lillian, sorella più nota, è dedicato Effetto notte (1973) di François Truffaut. Ma i tre amigos hanno una lunga carriera alle spalle, e la Gish girò il suo primo film del 1912.
(**) The three stooges. Quasi ignoti da noi, molto popolari oltreoceano. C'è un film dei fratelli Farrelly del 2012 che porta il loro nome e vorrebbe ispirarsi al loro umorismo. Non è riuscito nell'intento.
(***) In originale Santa Poco. Per un ispanico non avrebbe senso, ma per gli anglofoni Babbo Natale è Santa Claus.
(°) Lavoro a tre. Un altro è Randy Newman, che ha scritto le canzoni e dà la voce al cespuglio canterino che appare brevemente nel mezzo della storia. La colonna sonora è firmata da Elmer Bernstein
(°°) Assieme a Lorne Michaels, che è il terzo responsabile della scrittura, e altri.
(°°°) Vediamo parte di un film dei tre amigos all'inizio, quello che vede Carmen, ed è di una bruttezza esemplare.