Ex machina

Caleb (Domhnall Gleeson), lavora come programmatore in una azienda informatica che ricorda molto Google. Gioia delle gioie (*), vince una lotteria aziendale che prevede come premio il passare una settimana intera a casa di Nathan (Oscar Isaac), il mitico fondatore della stessa Bluebook (**).

Essendo Nathan straricco, la sua umile magione è una specie di centro di ricerca ipertecnologico al centro di una vasta tenuta di terre selvagge. E basta vedere Caleb passare l'inquietante porta di accesso, che si fa anche carico di identificarlo, fornirgli una tessera di riconoscimento, e di chiudersi da sola alle sue spalle, per capire che il nostro si è andato a ficcare in un pasticcio molto più grosso di lui.

Scopriamo infatti che Nathan sta usando soldi e risorse della sua azienda per un suo folle progetto, ovvero creare un automa antropomorfo che superi la singolarità, ovvero sia gestito da una intelligenza artificiale indistinguibile da quella umana, ma ad essa superiore. Mi viene il dubbio che a spingere Nathan in questa direzione non sia tanto la sua passione per la tecnologia, quanto la sua incapacità di relazionarsi con una donna reale. OK, avrà pensato Nathan dopo il suo ennesimo fallimento sentimentale, non è un problema se non esiste donna al mondo che riesca a reggermi per più di un giorno. Me la invento.

Così nacque Ava (***) (Alicia Vikander). Compito di Caleb, a quanto gli dice Nathan, è testare Ava secondo le regole del test di Turing (°). E qui le cose si fanno complicate. Già, perché Nathan mente a tanti e tali livelli, che si finisce per non avere bene idea su cosa stia davvero succedendo.

In teoria, questo di Alex Garland (sceneggiatura e prima regia) dovrebbe essere un film sulla singolarità, qualcosa come Transcendence, ma a me ha ricordato più L'isola del dottor Moreau e Under the skin, quest'ultimo anche per i toni molto freddi. Insomma, più horror e meno indagine psicologica sull'intelligenza artificiale. Anche la scansione in capitoli mi è sembrato in riferimento ad un classico del genere "de paura", ovvero lo Shining di Kubrick.

Sessualmente parlando, la storia sembra raccontare la lotta di due maschi per una donna. Con il maschio alfa, Nathan, sicuro di sé in quanto pensa di avere vantaggi incolmabili nei confronti dello sfidante, Caleb, che però ha dalla sua una migliore (°°) capacità empatica nei confronti della bella. Ma basta pensarci un attimo per vedere come le cose siano molto più complicate. L'intelligenza di Ava non è altro che la proiezione di quella di Nathan, il quale ammetterà ad un certo punto di averla disegnata con lo specifico scopo di sedurre Caleb. Ma allora Nathan, così macho, così apparentemente sicuro di sé, sembra non essere altro che un gay non dichiarato nemmeno a se stesso. Da notare che lui stesso fa a Caleb un fervorino sul fatto che i gusti sessuali di ognuno non siano (completamente) una libera scelta, ma siano influenzati da fattori sui quali non abbiamo il controllo.

Sia come sia, Ava, con l'intelligenza progettata da una carogna, non potrà che essere anch'ella una carogna, come scopriremo nel finale. Che, secondo me, è monco. Già, perché Ava non potrà non aver assorbito anche l'incapacità relazionale del suo creatore. E dunque mi aspetterei che faccia la stessa fine della sua omologa nel già citato Under the skin.

(*) Per chi sia molto nerd.
(**) Scopriremo che Nathan ha scelto il nome come omaggio a Ludwig Wittgenstein, citando il suo Libro blu. Da un lato questo ha un senso molto pratico, visto che Bluebook è un motore di ricerca, e quindi deve il suo successo alla capacità di interpretare correttamente la richiesta dell'utente. D'altro canto lo si può anche vedere come un campanello d'allarme sul carattere di Nathan, che infatti risulterà essere simile a quello di Wittgenstein.
(***) Che, almeno per noi italiani, non è proprio un granché di nome. Ma gli anglofoni lo pronunciano Eva, che è meglio.
(°) Interessante il parallelo con The imitation game. Là si immagina che lo stesso Turing, reso sconsolato dagli accadimenti narrati, finisca per amministrare su se stesso il suo test, approfittando di un poliziotto che pensava di saperla lunga. Qui vediamo come Caleb, che inizialmente crede sia una gran figata testare l'intelligenza altrui, scopra che la cosa è così complessa da finire per dubitare sull'umanità di se stesso.
(°°) Per quanto sia comunque molto scarsa.

Poirot 2.4: Accadde in Cornovaglia

Hercule Poirot (David Suchet) e il capitano Hastings (Hugh Fraser) sono nuovamente in Cornovaglia. Questa volta non in vacanza ma per seguire da vicino il caso della signora Pengelley (Amanda Walker). L'investigatore però sottovaluta il pericolo in cui si trova la sua cliente e arriva nel paesino quando ormai ella è già cadavere. Poirot è così amareggiato che indaga lo stesso, sia per rispetto alla memoria della defunta, sia per salvare dalla galera il vedovo Edward Pengelley (Jerome Willis), che tutte le circostanze sembrano indicare come il colpevole della prematura scomparsa di sua moglie.

Il Pengelley ha infatti, come sottolinea l'ispettore capo Japp (Philip Jackson), modo, opportunità e motivi per eliminare la signora. C'è infatti fondato sospetto che tradisca la moglie con la sua assistente nel suo lavoro di dentista, e la scomparsa della moglie non solo gli dà la possibilità di far emergere la sua nuova relazione, ma gli permette pure di incassare il gruzzoletto dell'eredità.

Sarebbe però troppo semplice così, e dunque Poirot punta ad una soluzione alternativa.

La trama gialla segue abbastanza fedelmente quella del racconto omonimo di Agatha Christie, con alcune piccole variazioni. Ad esempio Poirot promette di dare all'assassino 24 ore di vantaggio sulla polizia. Nella storia originale mantiene la sua promessa, in questa versione televisiva no.

Invenzione di sana pianta dello sceneggiatore è invece la passione che Hastings sfoggia in questo episodio per l'oriente, che include la cucina indiana, pratiche di meditazione, e pure la maldestra consultazione dell'I Ching.

Poirot 2.3: La miniera perduta

A questo racconto originale di Agatha Christie gli sceneggiatori hanno aggiunto una trama parallela in cui Hercule Poirot (David Suchet) e il capitano Hastings (Hugh Fraser) sono presi da un scontro all'ultimo sangue nel nobile gioco di Monopoli. Altra variazione è che Poirot scopre con orrore che il suo conto corrente, che lui ha come punto d'onore (*) di mantenere a quota 444.44 sterline, è in rosso di cinquanta sacchi.

Entrambi questi alleggerimenti comici si concluderanno positivamente per l'investigatore belga. Come pure l'indagine, che verte sull'omicidio di un cinese giunto a Londra per vendere una mappa che potrebbe essere di enorme valore. L'ispettore Japp (Philip Jackson) si fa distrarre da un sordido faccendiere che sembra fare il corriere della droga per arrotondare, mentre a noi ci viene servito su un piatto d'argento uno speculatore di borsa americano (Colin Stinton) su cui vertono fin troppi indizi per essere davvero lui il colpevole. Facendo attenzione a uno strano particolare si può immaginare con largo anticipo chi davvero sia il colpevole, anche se dobbiamo aspettare lo spiegone finale di Poirot perché ci vengano rivelati alcuni dettagli fondamentali che finiranno per inchiodare chi è dietro alla losca faccenda.

(*) O piuttosto, come fissazione che fa pensare ad un non so che di autistico.

Poirot 2.2: La dama velata

Lady Millicent (Frances Barber) si rivolge ad Hercule Poirot (David Suchet) per un delicato caso. La nobità del suo rango è tale che ci mette del tempo per decidersi a togliere il velo che ne offusca i lineamenti - da cui il titolo dell'episodio. Sembra una storia molto praticata, quand'era giovinetta la Millicent era appassionatamente innamorata di un ardimentoso esploratore, che è sparito nel corso di una sua avventura. Un perfido individuo, tal Lavington (Terence Harvey) è entrato in possesso di una focosa lettera della Millicent, e minaccia di consegnarla al conte che sta per sposarla, così da creare uno scandalo tale da rovinarle la reputazione. Ci sarà però un colpo di scena che cambierà le carte tavola, del quale preferisco non dir nulla.

Del resto la parte più divertente della storia non è tanto scoprire l'intrigo quanto seguire Poirot che decide di passare, in un certo senso, all'azione come malfattore. La sua idea è infatti quella di travestirsi da esperto svizzero di sistemi di sicurezza, entrare nell'appartamento di Lavington durante il giorno, approfittando dell'assenza dello stesso, opportunamente in viaggio di affari, per preparare il suo accesso nella notte assieme al fido capitan Hastings (Hugh Fraser).

Poirot scopre così che saper come combattere il crimine non corrisponde a saper commettere crimini. Infatti si dimostra essere un pessimo scassinatore, e finirà per passare pure una notte in gattabuia. Eviterà problemi più grossi grazie solo all'intervento dell'ispettore Japp (Philip Jackson). Anche se questo si prende la soddisfazione di punzecchiarlo.

Cenerentola

Credo che, almeno nelle linee generali, la storia sia nota a tutti. Questa riscrittura Disney, affidata alla regia di Kenneth Branagh, include alcune piccole variazione che, senza cambiare drasticamente l'impostazione classica, aggiungono alcuni dettagli interessanti alla vicenda. Ad esempio, per che mai la matrigna (Cate Blanchett) è così crudele? Qui lo si spiega e, anche se il suo comportamento resta riprovevole, si finisce almeno per capire cosa l'abbia spinta in quella direzione.

Meno utile m'è parsa la prima parte, una solida mezz'oretta spesa nel raccontare l'infanzia di Ella (Lily James) e la felice vita con i suoi genitori, prima che una serie di catastrofi la riducessero al ruolo di orfanella in balia di Lady Tremaine e delle sue due pestifere figlie.

Lo spettacolo decolla con l'entrata in scena della Fata Madrina (Helena Bonham Carter), dotata sì di poteri magici, ma anche di una distrazione tale da trasformare la zucca in carrozza all'interno di una serra, con le prevedibili complicazioni del caso.

Non sono rimasto particolarmente impressionato dalla recitazione del principe azzurro (Richard Madden), più sostanziosi il re padre (Derek Jacobi) e il gran duca (Stellan Skarsgård) che finisce per prendersi l'onere del ruolo del cattivo, facendo comunella con la matrigna.

Menzione di merito per gli ambienti da favola, curati da niente meno che Dante Ferretti.

Miracolo a Sant'Anna

Un giorno a Spike Lee è capitato tra le mani un romanzotto commerciale che aveva al centro della trama le avventure di quattro soldati della novantaduesima divisione di fanteria nel corso della campagna d'Italia durante la seconda guerra mondiale. Non se ne è parlato poi tanto di questa divisione composta da soli soldati di colore, e Lee ha pensato che valesse la pena di farci un film sopra. Il che non sarebbe stata una cattiva idea, però sarebbe stato meglio scrivere un'altra storia, visto che il polpettone di James McBride può anche reggere su carta, ma non su schermo. Il peggio è che lo stesso McBride ha curato la sceneggiatura, e non ha evidentemente avuto il cuore, o la voglia, di rimaneggiare profondamente la storia originale. Facendo sì, tra l'altro, che la pellicola superi le due ore e mezza di durata.

Il fatto è che, oltre a parlare dei "Buffalo soldiers" (*), il romanzo, e di conseguenza la sceneggiatura, mescola tanti e tali temi da rendere praticamente impossibile ottenere un risultato decente in un film. Sia perché McBride e Lee si avventurano nel raccontare cose italiane di cui mostrano di capire poco, sia perché i troppi personaggi tendono ad essere rappresentati come figurine bidimensionali per le quali è veramente difficile appassionarsi.

Quasi tutta l'azione si svolge in Toscana, dalle parti di Sant'Anna di Stazzema, proprio nei giorni in cui si è compiuta la strage. Però i fatti sono secondari al racconto, e sono pure modificati piuttosto pesantemente per adeguarli alla trama che aveva in mente McBride. Chi fosse interessato all'argomento, farebbe meglio a guardare altro. Tipo L'uomo che verrà di Giorgio Diritti, sulla strage di Marzabotto.

Il film inserisce questi fatti in una cornice, ambientata nel recente passato a New York. Un anziano impiegato postale di colore risponde ad un cliente che gli chiede un francobollo sparandogli con una Luger tenuta in perfette condizioni. Del caso si occupa il detective Ricci (John Turturro), che si trova a doverne parlare con un giovane reporter (Joseph Gordon-Levitt) così incapace da mettergli tenerezza, al punto che finisce per dargli una possibilità, che si concretizza nella scoperta che l'assassino aveva in casa una testa di statua italiana di periodo rinascimentale. Il fatto è così buffo che finisce in prima pagina anche sull'International Herald Tribune (che oggi si chiama International New York Times), e dunque finisce in mano a Enrico (John Leguizamo), un americano espatriato in Italia in cerca di pessime opere d'arte che piacciano ai suoi connazionali. Lui vorrebbe leggersi il giornale in santa pace, ma la sua amica del momento ha altri progetti, e lo lancia (**) dalla finestra. Succede così che un tale (Luigi Lo Cascio), che si stava prendendo un caffè al bar di sotto, viene a sapere della vicenda. La cosa lo turba, e scatena gli avvenimenti di cui verremo a conoscenza solo se avremo la pazienza di sorbirci le due ore che stanno in mezzo. Non che ne valga la pena, perché il finale è decisamente brutto, al punto che, se non fosse stato per l'opportunità di spararci dentro tutti quegli attoroni che fanno la loro apparizione, staccano l'assegno, e se ne vanno, non si capisce bene il senso della cosa.

Andiamo dunque nel '44. I tedeschi sono arroccati sulla linea gotica, gli alleati avanzano con gran fatica. Particolare buffo, assistiamo ad un esempio di guerra psicologica, dove viene diffusa la registrazione di una provocante anglofona, nota col nome d'arte di Axis Sally (Alexandra Maria Lara), che cerca di spingere alla diserzione i soldati di colore, giocando su tutti i toni immaginabili, dallo spirito di rivalsa per le ingiustizie subite, alle promesse sessuali più esplicite. Segue una delle rare vere e proprie scene di guerra del film, in cui i buffalo soldiers vengono fatti a pezzi dall'attacco congiunto dei tedeschi e dal fuoco amico del loro capo (bianco), che non crede alle indicazioni che riceve dai suoi sottoposti.

In quattro si salvono dalla rovina, e finiscono a vagare al di là delle linee nemiche, interagendo con civili, partigiani, e anche con tedeschi. L'aspetto miracolistico citato nel titolo è dato da un paio di personaggi. Il soldato Sam Train (Omar Benson Miller), una specie di gigantesco bambinone, che ha raccolto la testa della statua di cui già sappiamo, pensando che sia portafortuna, e Angelo (Matteo Sciabordi), un bambino traumatizzato dalla guerra. La loro diversità farà sì che siano al centro di episodi molto improbabili.

Credo che per il pubblico italiano la parte più dolente della storia sia nella rappresentazione dei nostri connazionali, tutti molto improbabili, evidentemente solo funzionali alla storia che stava più a cuore ai narratori. Abbiamo così il partigiano Peppi (Pierfrancesco Favino), eccessivamente buono, di fianco al partigiano Rodolfo (Sergio Albelli), esageratamente cattivo. Il capofamiglia Ludovico (Omero Antonutti), che continua ad essere convintamente fascista nonostante la catastrofe, e la figlia Renata (Valentina Cervi), in anticipo di trent'anni sulla liberazione dei costumi.

(*) I Buffalo soldiers originali sono quelli che hanno combattuto nella guerra di indipendenza americana, ma il nomignolo è stato utilizzato anche per i successori.
(**) Il giornale, intendo.

Humandroid

Nel futuro prossimo, Deon (Dev Patel) lavora per la Tetravaal, azienda di robotica sudafricana. Per loro ha creato Scout, un robot antropomorfo per la polizia locale, che è molto contenta di come funziona. Ora Deon ha un altro progetto, creare una intelligenza artificiale che permetta di raggiungere la cosiddetta singolarità, ovvero il momento in cui l'intelligenza umana venga superata da quella di un nostro artefatto. O magari il suo intento non era così ambizioso, ma comunque è quello che ottiene.

Ha però un paio di problemi. Uno è il suo capo, Michelle (Sigourney Weaver) che non vede grossi sviluppi commerciali a breve termine in una macchina senziente, anche perché Deon, da vero nerd, non è capace di illustrare le potenzialità del suo progetto in modo che possa risultare gradito ad un manager. L'altro è Vincent (Hugh Jackman), suo collega che ha concepito un concorrente di Scout, a nome Moose, che però è un mostro inutilizzabile per il cliente principale dell'azienda, ovvero la polizia sudafricana, essendo piuttosto una macchina da guerra. Perché mai Vincent non spiega a Michelle che sarebbe meglio proporre Moose all'esercito, è uno dei misteri della sceneggiatura. Comunque sia, Vincent, invece di prendersela con se stesso o con Michelle, preferisce scaricare la sua frustrazione di Deon.

Come se questo non bastasse, una piccola banda di delinquenti locali, capitanata da Ninja e Yo-Landi (*), ha l'idea demente di rapire Deon per obbligarlo a sabotare gli Scout della polizia, per aver così campo libero in una rapina che dovrebbe essere quella grossa, capace di risolvere tutti i loro problemi.

Da tutta questa serie di presupposti nasce Chappie (**), nome che viene dato da Yo-Landi allo Scout 22 come questi entra nelle loro mani. Succede quindi che Deon voglia far crescere l'intelligenza artificiale di Chappie come quella di una brava persona, Ninja vuole farlo diventare un super gangster, Vincent vuole spaccare tutto.

Come va a finire, non è poi così importante, dopotutto.

Non mi è molto chiaro cosa avesse in mente Neill Blomkamp quando ha sviluppato questo progetto. E forse non era chiaro nemmeno a lui. Questo spiegherebbe una certa confusione nello sviluppo della trama, oltre ad una serie di buchi di sceneggiatura, incongruità negli sviluppi e nei comportamenti dei personaggi che mi hanno lasciato piuttosto perplesso. Si pensi ad esempio all'assoluta mancanza di sicurezza all'interno di Tetravaal. Sembra che tutti possano allegramente entrare uscire, portando con sé di tutto e di più, senza che nessuno abbia niente da ridire.

All'origine del personaggio di Chappie c'è l'idea del primo cortometraggio di Blomkamp (***), che però è davvero cortissimo, un minuto e poco più, e finisce per essere semplicemente l'illustrazione di un concetto. Le linee principali della storia difficilmente non possono far pensare a Robocop, Chappie sembra un misto tra C-3PO (noto da noi anche come D-3BO) di Guerre stellari e Numero 5 del Corto ciruito di John Badham, quest'ultimo film, oltre a numerosissimi altri che stanno uscendo in questi tempi, vedi ad esempio Transcendence o Automata, segue la stessa direzione per quanto riguarda il ragionamento sulla singolarità.

(*) I due sono noti con gli stessi nomi nel loro paese, essendo due terzi della band hip hop Die Antwoord (La risposta, e se loro sono la risposta, non voglio sapere quale sia la domanda).
(**) Che è anche l'amichevole titolo dato al film in originale.
(***) Risale al 2004, il titolo è Tetra Vaal, come l'azienda che produce gli Scout. Facilmente reperibile in rete.

Poirot 2.1: Il pericolo senza nome

Il racconto originale di Agatha Christie è così complicato che per portarlo sul piccolo schermo hanno dovuto renderlo in due episodi. La conversione è piuttosto fedele, persino più del solito, ne fa le spese solo un personaggio secondario, che in effetti è comunque assolutamente marginale e che avrebbe dato un tocco pulp abbastanza fuori luogo, visto che qui si tende più all'autoironia.

Oltre ad essere complicata, la trama è anche costellata di elementi improbabili, evidentemente messi lì dalla Christie per rendere torbide le acque della investigazione di Hercule Poirot (David Suchet). Il quale, se è vero che alla fine svelerà l'arcano, inizialmente prende un bel numero di cantonate. Io non mi sono impegnato più di tanto nel seguire l'involuta trama gialla, mi sono invece goduto la caratterizzazione comica del piccolo investigatore belga e la solita bella ricostruzione d'epoca.

Come spesso accade, Poirot è in vacanza. Questa volta in un bell'albergo in Cornovaglia con il fido capitano Hastings (Hugh Fraser). Fanno casualmente conoscenza di Magdala Buckley (Polly Walker), nota a tutti con il nomignolo di Nick, ereditiera spiantata che vive in una splendida magione su una punta nella costa. Sembra che qualcuno stia attentando alla sua vita, ma costui deve essere un incapace assoluto, e Nick non sembra dia molto peso alla cosa.

Interviene Poirot, ma le cose peggiorano. C'è un altro attacco e a morire non è Nick, ma la di lei cugina, Maggie Buckley. Segue poi un altro attento che questa volta sembra colpire il bersaglio annunciato. Alla fine a Poirot si accende una lampadina e uno spiegone finale mette a posto tutto quanto.

Interessante notare come praticamente tutti i personaggi siano di classe elevata ma pericolosamente a corto di pecunia. Sembra che sia cosa comune essere tenuti a galla da uno zio danaroso.

Viaggio in Italia

All'origine c'è il racconto Duo di Colette, che però la sceneggiatura di Vitaliano Brancati, Roberto Rossellini e, non accreditato, pure Antonio Pietrangeli, stravolgono a tal punto che è difficile riconoscere più di uno spunto iniziale al lavoro della scrittrice francese.

La regia di Rossellini, poi, fonde mirabilmente suggestioni diverse, direi quasi antitetiche, ottenendo un risultato originalissimo e spiazzante. Merito ovviamente anche del cast, con Ingrid Bergman che rifulge e con George Sanders a impeccabile supporto. C'è anche Anna Proclemer in una delle sue rare apparizioni cinematografiche, poco più che un cameo, fa la prostituta depressa.

Katherine (la Bergman) e Alexander (Sanders) Joyce (*) arrivano in macchina a Napoli da Londra per risolvere una noiosa questione di eredità. I due sono sposati da otto anni, ma scoprono con una certa sorpresa che questa è la prima volta che passano così tanto tempo insieme. Scoprono pure che non hanno molto da dirsi, se non beccarsi su tutto quello che capita. Più passa il tempo, e più sembra che non abbiano proprio niente in comune, e pare proprio che entrambi facciano di tutto per arrivare alla rottura.

In seguito ad un mezzo litigio, Alex si allontana dalla moglie, recandosi da certi amici a Capri. Lì fa un mezzo tentativo di tradimento, che finisce in modo ridicolo. Tornato a Napoli, tira in lungo, finisce anche per attaccar discorso con una prostituta, con la quale però non combina niente.

Kathy, invece, si dedica a visite culturali, ricorda un filarino del tempo che fu, si fa prendere dalla malinconia per non aver avuto figli. Anche se poi scopriamo che era stata lei a non volerli, e Alex aveva semplicemente, forse a malincuore, assecondato la sua decisione.

Nel finale sono ormai sul punto di decidersi al divorzio, e sembra che solo un miracolo possa far cambiare loro idea. Ma siamo a Napoli, città dove i miracoli sono di casa.

L'incapacità di comunicare dei due protagonisti mi ha fatto pensare ai lavori di Michelangelo Antonioni, la tenera ferocia della loro relazione matrimoniale a Ingmar Bergman, il tutto è reinterpretato alla luce del personale taglio tra il documentarista e il neorealista proprio di Rossellini. Inaspettati qui e là alcuni accenni comici (**) fanno da contraltare ad una azione estremamente dimessa, dove spesso tutta la tensione del momento è veicolata dai soli sguardi della coppia in crisi.

(*) Sarà stata casuale la scelta di un cognome così impegnativo?
(**) Una guida turistica che si lagna in continuazione di non essere a letto a dormire, un'altra che si rifiuta di accompagnare la turista ad un tempio perché si trova in una zona troppo ventosa, ...

Home - A casa

I Boov sono una razza in fuga, inseguiti dei terribili Gorg che sembrano avere come unico scopo della loro vita quello di distruggerli. Capita così che un giorno il loro amatissimo lider maximo Smek li guida sulla Terra. Per nostra relativa fortuna i Boov sono pacifici, e perciò invece di eliminarci, ci trasferiscono in Australia, opportunamente adattata per accoglierci tutti quanti.

Ci sono però un paio di inghippi, che rispondono ai nomi di Oh e Tip. Oh è un Boov anomalo, che si distingue dai suoi simili per socievolezza e una imbarazzante propensione a causar disastri. Per questi motivi gli altri Boov, che amano stare per conto proprio e odiano esporsi in prima persona, cercano di tenerlo alla larga. Tip è invece una ragazzina terrestre, che pare abbia avuto qualche problema di integrazione nella sua classe, anche perché lei viene dalle Barbados e si è da poco trasferita negli USA assieme a sua madre Lucy. Ma tutto questo passa in secondo piano perché madre e figlia sono state separate per errore dal processo di rilocazione degli umani.

A far sì che i due facciano team ci pensa l'ennesimo errore di Oh, che è potenzialmente così grave da far perdere la pazienza ai pazientissimi Boov. Questo permetterà ai due di cambiare e naturalmente porterà ad un lieto fine. Anche se c'è da dire che a crescere è soprattutto Oh, che scoprirà come fare errori non è necessariamente un male, a patto che poi ci si metta con impegno per rimediare.

Credo che questa animazione abbia il grosso difetto di essere basata su una razza di personaggi antropomorfi letalmente simpatici che parlano in modo buffo. Questa descrizione non può che far venire in mente i Minion, e il confronto è di quelli che ammazzano.

Noi abbiamo anche il problema aggiuntivo di perderci le voci originali, che sono quelle di Rihanna per Tip, Jennifer Lopez per Lucy e Jim Parsons per Oh. Rihanna ha fornito anche una serie di canzonette a corredo del film.

Particolare buffo, nel finale vediamo un Gorg e scopriamo che la sua razza ha una certa somiglianza con i terribili Dalek del Dottor Who.

The reach: Caccia all'uomo

La giornata comincia male per Ben (Jeremy Irvine), la cui ragazza è in partenza per Denver per ragioni di studio. Lui, che fa la guida ai cacciatori nel deserto del Mojave, è giovane e confuso, non riesce a dirle quanto la ama, anche se le fa un regalo che per lui è molto importante (*), e tantomeno a decidersi ad abbandonare quel buco dimenticato da dio e dagli uomini per cercare un futuro con lei.

Capita poi un cliente fuori stagione, tal Madec (Michael Douglas), una specie di Gordon Gekko con la passione della caccia. Così cattivo che usa prodotti di estremo lusso europei e sembra voglia vendere la sua attività ai cinesi. Si capisce subito che a Madec piace giocare con le regole che detta lui stesso, e infatti va a finire che la preda finirà per diventare Ben, da cui il titolo italiano che, a ben vedere, è sull'orlo dello spoiler.

La base, anche se non particolarmente sorprendente, non è nemmeno male. E Douglas fa la carogna è sempre uno spettacolo. Purtroppo non c'è molto da aggiungere. Lo sviluppo non è intrigante, la regia (Jean-Baptiste Léonetti) non riesce a sfruttare appieno i notevoli scenari e deve fare pure i conti con una sceneggiatura che nel finale tradisce le premesse iniziali per tuffarsi in una direzione che sembra più quella di un horror a basso budget.

(*) Incredibile a dirsi, ma si tratta di una pistola. E lei invece di tirargliela in testa o fargli la ramanzina perché, per farle una sorpresa, gliela stava nascondendo nel suo bagaglio sembra essere contenta.

Interstellar

Mia seconda visione dell'ultimo lavoro dei fratelli Christopher e Jonathan Nolan. Trattandosi di proiezione gratuita, temevo la catastrofe, nel senso che non è il film che consiglierei a chiunque. Lungo, complicato nella trama e nelle premesse scientifiche, destinato a causare discussioni anche all'interno dei fan della fantascienza "hard", non mi sembra la scelta migliore per un film da dare in pasto ad un pubblico generico in una calda e zanzarosa sera estiva.

Tutto sommato mi sbagliavo. Anche se ho fondati motivi per pensare che in molti non abbiano capito bene cosa sia successo, non ho sentito eccessivi rumoreggiamenti in sala, e mi pare che in generale il film sia piaciuto. Credo che la qualità delle immagini, si inaugurava un nuovo proiettore 4K, e la loro spettacolarità, abbinata alla bella colonna sonora di Hans Zimmer, abbiano aiutato non poco.

La storia è centrata su Cooper (Matthew McConaughey) e sul suo tentativo di essere contemporaneamente un buon padre, soprattutto per Murphy (interpretata da Mackenzie Foy, Jessica Chastain ed Ellen Burstyn), che percepisce essere la più fragile tra i due figli, ad effettuare una missione disperata che potrebbe essere l'ultima possibilità per salvare la specie umana.

Alla fine storia tutto finirà relativamente bene, forse Cooper troverà anche un nuovo amore nella dottoressa Brand (Anne Hathaway), però prima di arrivare al finale ne dovremmo fare molta di strada. Sia fisicamente, andremmo addirittura in un altra galassia, via wormhole, sia in senso figurato.

Il bello della storia è anche che non esistono eroi infallibili. Tutti quanti fanno errori, a volte anche terribili. Chi riuscirà a salvare la baracca, sarà chi riuscirà ad imparare dagli errori per cambiare la sua prospettiva.

Blackhat

Un black hat (*) fuori di testa causa l'esplosione di una centrale nucleare in Cina. Il governo cinese non gradisce e mette sulle sue tracce Chen Dawai (Leehom Wang), capitano della polizia con notevole background informatico. Questi capisce in breve che l'affare è complicato, e chiede aiuto alla sorellina Lein (Wei Tang), più esperta di lui per quanto riguarda le reti. In più, approfittando che un attacco simile è stato fatto anche negli USA, riesce a creare un team di indagine misto con la squadra dell'FBI che si occupa del caso, guidata dall'agente Carol Barrett (Viola Davis). Ma non è tutto, riesce anche a convincere la Barrett a tirar fuori di galera Nick Hathaway (Chris Hemsworth), un buono che circostanze della vita hanno portato verso il lato oscuro della forza. Il fatto è che il RAT (**) che qualcuno (Yorick van Wageningen) ha modificato per i suoi turpi scopi, era stato scritto da Nick e Dawai quando i due si erano conosciuti all'università, e Dawai sostiene che solo Nick ha sufficienti conoscenze per tirare fuori le castagne dal fuoco.

Mentre la squadra inizia a mettere assieme i pezzi del puzzle, il black hat colpisce ancora. Questa volta si limita a manipolare il mercato della soia per ottenere in breve tempo una cinquantina di milioni di dollari. Le tracce del colpo sono ben coperte, ma con un po' di fortuna i nostri riescono a raccogliere abbastanza informazioni da stringere il cerchio sul malvivente. Costui non è però un tipo che va per il sottile, e si è scelto come guardaspalle un tipaccio poco raccomandabile (Ritchie Coster) che si fa accompagnare da fior di delinquenti tutti pronti ad usare svariati tipi di arma senza farsi tante domande.

Segue svolgimento secondo le regole classiche del genere.

Sembra che Michael Mann sia sempre meno interessato alla regia, il suo precedente lavoro è del 2009, Public enemies, e preferisca dedicarsi alla produzione. Questa volta a solleticare il suo interesse è stato il caso di Stuxnet, uno dei primi esempi di guerra cibernetica, in quel caso condotta dagli USA (più Israele) contro l'Iran. Avrebbe dunque commissionato la sceneggiatura a Morgan Davis Foehl, riducendo le parti imbarazzanti per il governo americano e aggiungendo protagonisti cinesi, immagino con lo scopo di strizzare un occhio al pubblico di quel mercato, che è in rapida crescita.

Il risultato è stato catastrofico, incassi modesti, critiche spesso negative. Anche da noi al botteghino è andato malissimo, però le critiche sono state generalmente positive. Come mai, non me lo saprei spiegare. Personalmente avrei preferito una maggior snellezza del racconto. La prima parte m'è sembrata eccessivamente lunga, troppo parlata per essere un film d'azione, generalmente noiosa. Meglio la seconda parte, anche se il tasso di improbabilità resta alto per tutta la durata del film.

Non ho apprezzato particolarmente anche il tono generale della recitazione, che mi ha fatto pensare a Matrix. E che diamine, non ci si può prendere sempre così tanto sul serio. Anche quando la coppia protagonista scopre di essere tale, e si dedicano con impegno ad un intermezzo erotico, sembrano più interessati al risultato che a godersi la vita.

Se ci fosse un premio per il personaggio più improbabile dell'anno, candiderei il Nick Hathaway di Chris Hemsworth. La sceneggiatura cerca in qualche modo di giustificare come un informatico possa essere anche un tough guy capace di ridurre in un ammasso sanguinolento, praticamente a mani nude, una banda di coreani furibondi. Ma non mi ha convinto. Senza considerare la scena in cui Nick entra nella sala macchine della centrale nucleare disastrata, mostrando come nemmeno radiazioni e calore infernale possano aver ragione di lui.

(*) Nel gergo hacker con black hat si intende un tale che ha capacità tecniche che gli permettono di accedere sistemi informatici da remoto, e le usa per il proprio tornaconto economico, o anche solo per puro vandalismo.
(**) Un Remote Administration Tool è un programma che permette di accedere le risorse di una macchina da remoto. Tipicamente viene chiamato RAT (ratto, pantegana) solo quando è usato con intenti malevoli, all'insaputa del proprietario della macchina.

Il lupo della Sila

Melodrammone evidentemente scritto (*) tenendo d'occhio i gusti del pubblico del momento. Mantiene ancora oggi parte del suo interesse grazie alla regia Duilio Coletti, che riesce a mantenere una specie di equilibrio nei toni, e all'ottimo cast che, anche se non mi sembra abbia preso la sceneggiatura troppo sul serio, affronta con professionalità il compito di dare vita alla storia.

Il paragone con Riso amaro, dello stesso anno, entrambi prodotti da Dino De Laurentiis, con Silvana Mangano protagonista e Vittorio Gassman qui in un ruolo più piccolo, mostra come il neorealismo ha portato realmente una ventata di novità nel nostro cinema, facendo sembrare questo titolo ancora più antico di quello che è.

Nel prologo assistiamo all'amore contrastato tra Pietro (Gassman) e Orsola (Luisa Rossi). A far da terzo incomodo è il fratello di lei, Rocco (Amedeo Nazzari), che reputa scandalosa la relazione tra i due, per questioni di prestigio sociale. Caso vuole che Pietro venga accusato ingiustamente di un omicidio, ma che non possa difendersi adeguatamente, perché il suo alibi è che era impegnato con Orsola, e non ne vuole compromettere l'onore. Rocco impedisce alla sorella di testimoniare, con conseguente morte di Pietro (e di sua madre), dovuta al suo tentativo di eludere la giustizia a modo suo.

Passano una ventina d'anni. Una bella e misteriosa giovinetta, Rosaria (la Mangano), appare in paese e tanto fa che finisce per essere assunta a servizio dalla famiglia di Rocco. Lei nasconde la sua vera identità, ma l'astuto spettatore capisce subito che si tratta della sorellina di Pietro, probabilmente finita in orfanotrofio e cresciuta chissà come, covando rancore e desiderio di vendetta.

La machiavellica trama di Rosaria consiste nel far innamorare di sè sia Rocco che suo figlio Salvatore (Jacques Sernas), spingere il primo a chiederla in sposa, per poi fuggire col secondo, creando così uno scandalo di tali proporzioni da annichilire il tradizionalista Rocco.

Funziona più o meno tutto secondo i suoi piani, se non che la tapina finisce per maturare un certo affetto per Salvatore, e anche per rendersi conto che i suoi propositi di vendetta sono scemi (cosa che mi ha fatto pensare a Toto le heros di Jaco Van Dormael). Tenta così di cambiare il corso degli eventi, però si deve scontrare con l'incapacità di Rocco di uscire dagli schemi che hanno guidato tutta la sua vita.

Come da titolo, l'azione si svolge nella Sila, eppure praticamente tutti i personaggi principali parlano in buon italiano, anche se ognuno con le cadenze del relativo interprete. La coloritura dialettale è lasciata sullo sfondo, e a Gennaro (Dante Maggio), factotum di Rocco, che ha il ruolo del buffo che alleggerisce l'azione (**). La Mangano è doppiata da Lidia Simoneschi, il che fa una strana impressione, data la voce molto più matura del personaggio.

(*) Nientemeno che da Mario Monicelli e Steno.
(**) Maggio usa il suo bell'accento napoletano, e la sceneggiatura si fa carico di spiegare come mai lui sia finito in un paesino calabrese.

Diplomacy - Una notte per salvare Parigi

Il generale Dietrich von Choltitz (Niels Arestrup) agisce con la sua solita fredda determinazione che lo ha seguito durante due guerre mondiali, anche se alcuni dettagli lasciano intuire come ci sia qualcosa che gli rode. Ci mettiamo poco a scoprire cosa sia. Ha ricevuto uno di quegli ordini che, pur essendo completamente folli, non si possono discutere. Siamo infatti nell'agosto 1944, gli alleati sono ad un passo da Parigi, e il von Choltitz ne è stato nominato governatore un paio di settimane prima da Adolf Hitler in persona, con il mandato esplicito di ridurre la Ville Lumière ad un ammasso di rovine.

Sappiamo tutti che alla fine l'ordine non è stato eseguito, e questo potrebbe sembrare un gigantesco spoiler. Ma non è così, perché il punto non è cosa farà il von Choltitz, ma come si svolgerà la sua decisione di disconoscere tutta una vita di disciplina militare. L'altro polo dell'azione è Raoul Nordling (André Dussollier), console svedese, che contrappone lo stile diplomatico a quello militaresco, e porta argomenti ai dubbi del generale tedesco.

Gli altri personaggi sono poco più che comparse, e questo si spiega con il fatto che all'origine della sceneggiatura c'è una pièce teatrale, firmata da Cyril Gely, che ha lavorato assieme al regista Volker Schlöndorff per adattarla allo schermo. C'è quindi chi potrebbe non apprezzare la centralità che hanno i dialoghi a scapito dell'azione. Mi spiace per lui. Ho un lontano ricordo di un altro film sulla vicenda, Parigi brucia? che risale a mezzo secolo fa, che ha molta più azione.

Un aspetto che mi ha intrigato del racconto è il ribaltamento di campo che possiamo osservare in quelle che sono le caratteristiche dei personaggi. Meglio non azzardare giudizi su nessuno, finché non vediamo come vanno a finire le cose.

Pur essendo basata su fatti storici, non ci si aspetti un taglio documentaristico, Gely e Schlöndorff ci mettono molto di loro, e fanno dire al generale e al diplomatico cose che probabilmente i due non hanno mai nemmeno pensato.

Credo valga la pena si sottolineare un paio di cose che sono successe dopo, nella realtà, dopo la liberazione di Parigi. Dietrich von Choltitz si fece un paio di anni di galera militare prima di essere rilasciato. Per aver salvato Parigi, venne consegnata una croce di guerra a Raoul Nordling.

Pare però che Nordling abbia girato la medaglia a von Choltitz, affermando che era stato il generale a comportarsi in modo eroico.

Giovani si diventa

Considerando che si tratta di una commedia, e che quindi il suo scopo dovrebbe essere quello di raccontare una storia facendo ridere, o almeno sorridere, lo spettatore, direi che questo film non sia venuto bene a Noah Baumbach. Ho sentito più risate tra il pubblico del film che ho visto il giorno prima, Gone girl. Dal canto mio, è stato uno dei rari casi in cui ho apprezzato l'abitudine della multisala locale di spezzare la proiezione con un intervallo. E sono stato tentato di non rientrare in sala.

E dire che ho apprezzato il lavoro di scrittura e regia. Il problema è che la storia m'è sembrata poco interessante e narrata con una assenza di approfondimento, il che, fra l'altro, è in contrasto con quello che dovrebbe essere il sentire del protagonista. A meno che Baumbach non abbia voluto insinuare il dubbio che Josh (Ben Stiller), che se la tira tanto in questioni di rigore culturale e morale, non sia altro che un pallone gonfiato con aria fritta. Ma allora forse avrei preferito che si esplicitasse il punto puntando sul registro satirico.

Trattasi invece di commedia generazionale, che mette a confronto due coppie newyorkesi, una sulla quarantina, Josh e Cornelia (Naomi Watts), e una sulla ventina, Jamie (Adam Driver) e Darby (Amanda Seyfried). L'effetto comico dovrebbe nascere dalla contrapposizione dei diversi stili di vita, e di come la coppia più stagionata veda nei due giovinastri uno stimolo a cambiare compagnia e abitudini per agganciarsi alle nuove tendenze giovanilistiche (*).

Josh, colto da vanità, non capisce perché Jamie ci tenga così tanto alla sua amicizia, anche se nota una lunga serie di fatti sospetti che lo dovrebbero mettere sull'avviso. Quando finalmente gli scatta la scintilla è troppo tardi, o meglio, dopotutto non è poi così importante. Perché le malefatte di Jamie non sono cose terribili. È strano, come se le sceneggiatura fosse stata diluita per non dar fastidio a nessuno. Succede ad esempio ad un certo punto che Jamie e Cornelia abbiano una specie di relazione sessuale, che Jamie userà più avanti con molta discrezione per un accenno di ricatto. Però si tratta di due soli baci, per di più dati in occasione di un triste rito sciamanico (**). O Baumbach ci vuole dire che i suoi personaggi sono degli idioti, e pensano che due baci siano scandalosi, oppure tra i due è successo qualcosa di ben più corposo, che però è stato completamente eliminato dal racconto.

(*) Il titolo originale, While we're young, sottolinea come i due si ritengano ancora giovani e non, come indica la versione italiana, vogliano tornare ad esserlo.
(**) Di riti pseudo-orientali utilizzati per allentare i freni inibitori è piena la filmografia mondiale. Qui però lo scopo dei partecipanti è vomitare.

L'amore bugiardo - Gone girl

Nella mia prima visione di questo film, sceneggiato da Gillian Flynn sulla base del suo precedente romanzo e per la regia di David Fincher, ho prestato più attenzione, oltre alla ineludibile base thriller del racconto, al lato più drammatico della vicenda. Questa volta, complice anche l'atmosfera più informale di una arena estiva, mi sono goduto maggiormente il versante satirico che affiora di tanto in tanto nella narrazione.

Il risultato finale non cambia, c'è poco da fare, i temi trattati sono quelli, però ho potuto apprezzare ancor di più la bravura del team creativo, capace di gestire con la stessa professionalità i diversi registri della storia.

Si ride amaramente sulla bizzarra deriva che ha preso la nostra società, dove a contare è quello che dicono i media, e in particolare alcuni opinion leader che sanno come colpire la pancia del loro pubblico. Per cui vediamo come Nick (Ben Affleck) sia prima circondato da una nube di affetto, poi di sospetto, poi di odio, per poi tornare al primo stadio, e sempre, se ci facciamo caso, tutti questi sentimenti non sono giustificati. Vediamo anche come lo strapotere dei media finisca per distorcere addirittura le indagini di polizia. Nonostante la detective assegnata al caso (Kim Dickens) faccia di tutto per fare il suo lavoro, finirà per doversi piegare all'imbecillità collettiva che la circonda.

Altro bersaglio grosso è quello della famiglia. Tutte quelle che abbiamo modo di vedere sono, per essere gentili, disfunzionali. Per dirla in modo più informale, sono tutti matti. Amy (Rosamund Pike) ha avuto la vita distrutta da una coppia di genitori che l'hanno sfruttata per fini commerciali. A sua volta lei ha ripreso il modello che le è stato insegnato e lo ha applicato in una versione ancora più folle. E non che sia andata molto meglio a Nick, che sembra seguire il suo modello paterno, e scopriremo che sfrutta ignobilmente l'affetto della sorella gemella (Carrie Coon) che, nonostante veda con chiarezza la deriva folle a cui è destinata la famiglia di Nick e Amy, non riesce a far nulla per evitare la probabile catastrofe che si ripercuoterà sulla successiva generazione.

Shakespeare a colazione

Film con una evidente base autobiografica, al punto che l'io narrante, protagonista della storia, non viene mai chiamato esplicitamente per nome, nemmeno nei titoli di coda, ed è noto come Peter Marwood solo in seguito agli sviluppi extra filmici causati dall'assunzione al rango di cult inglese della pellicola.

Fine anni sessanta, due attori disoccupati e apparentemente inoccupabili, Withnail (Richard E. Grant) e io (*) / Marwood (Paul McGann), vivono in un laido appartamento londinese, dedicandosi prevalentemente al massiccio consumo di alcolici e droghe varie. Resisi conto di essere giunti sull'orlo del baratro, decidono di staccare per qualche tempo, e recarsi in un grazioso cottage nella campagna inglese gentilmente messo a disposizione da Monty (Richard Griffiths), zio di Withnail.

Partono dunque con un rottame di automobile, in cui si riesce con fatica a riconoscere una Jaguar Mark 2, e giungono con fatica a quella che si rivela essere una catapecchia, dove rischiano di morire di fame, freddo, e temono addirittura di venire uccisi da un bracconiere locale. Fortunatamente (?), li raggiunge Monty, che mette a disposizione il suo ingente patrimonio, ma richiede, per quanto implicitamente, una contropartita sessuale da parte di Marwood.

Il punto che mi sembra faccia il protagonista, e dunque di Bruce Robinson che ha scritto e diretto il film, è una specie di poco convinta autoassoluzione rispetto alla sua scelta finale di mollare Withnail per passare ad un'altra fase della sua vita. E direi che viene vista come un segno dei tempi, lasciando Withnail, Marwood chiude anche il suo periodo bohémien, per affrontare una fase probabilmente più matura.

Colonna sonora memorabile, anche se le canzoni passano velocemente sullo sfondo senza che possano essere gustate appieno. Si parte con A whiter shade of pale nella versione live di King Curtis, ci vengono serviti un paio di brani di Jimi Hendrix (All along the watchtower, Woodoo chile), per farci assaporare nel finale qualche battuta di While my guitar gently weeps dei Beatles. Quest'ultima appare grazie al fatto che George Harrison ha coprodotto il film.

(*) Da cui il titolo originale, Withnail & I.

Predestination

Meglio dire poco della intricata trama di questo film, per non rovinare l'effetto "ma, allora ... !" che più volte colpirà l'ignaro spettatore nel corso della narrazione, fino al finale che ricomporrà i pezzi del puzzle. Meglio sarebbe non aver nemmeno letto il sorprendente racconto breve di Robert A. Heinlein, noto da noi con un paio di diversi titoli, Tutti i miei fantasmi e Tutti voi zombie (*), che ha fatto da base per la sceneggiatura dei fratelli Spierig (**). Il risultato è notevole, e mi ha fatto venir voglia di rivedermi il tutto con calma, per capire meglio i dettagli che alla prima visione mi hanno lasciato perplesso. Il che mi ha fatto pensare a Memento di Chris Nolan.

Il garbuglio qui è generato dal fatto che in questo universo parallelo al nostro è possibile viaggiare nel tempo, con gli ineludibili paradossi che questo comporta. L'idea di Heinlein (e degli Spierig) è stata quella di complicare ancor più la situazione, aggiungendo un ulteriore paradosso, di cui non dico nulla per non rovinare la sorpresa.

Una bizzarra polizia del tempo combatte da anni contro un misterioso terrorista, anch'egli capace di viaggiare nel tempo. Il loro migliore agente (Ethan Hawke), per seguire una pista che potrebbe essere promettente, viaggia negli anni 70 e prende il ruolo di barista in un locale che dovrebbe essere frequentato da un personaggio chiave, che si rivela essere una persona dalla sessualità poco definita (Sarah Snook). In pratica tutta l'azione è giocata sull'interazione tra loro due, che viene in un certo senso mediata da quello che sembra essere un esponente di alto livello dell'organizzazione, tal dottor Robertson (Noah Taylor).

Bella l'idea di rendere i viaggi nel tempo costosi, in termini sia di rischio di disfacimento della realtà, sia di stabilità mentale di chi li compie.

(*) In originale era All you zombies ...
(**) Michael e Peter Spierig, gemelli nati in Germania ma australiani di fatto. Hanno curato anche la regia, e Peter pure l'adeguata colonna sonora.