Harry Potter e la camera dei segreti

Stessi ingredienti del primo episodio ma mescolati con maggior cura. Risultato meno confuso e più piacevole. La stessa storia originale prende una piega più interessante, con Harry (Daniel Radcliffe già meno bimbaccione) che ha le prime avvisaglie della sua contaminazione con il lato oscuro e inizia a rendersi conto che da grandi poteri derivano anche grandi responsabilità.

Tra i personaggi secondari qui domina Kenneth Branagh nei panni di un mago incapace ma affascinante, particina secondaria per Gemma Jones. Dimenticato di citare David Bradley che appariva già nella Pietra filosofale.

Harry Potter e la pietra filosofale

Ho seguito con una certa distrazione la trasposizione cinematografica della saga di Potter, al punto di non essere certo che questa si tratti della mia prima o seconda visione. Ora mi sembra giunto il momento di mettere le cose a posto ed imbarcarmi nella titanica impresa di (ri)vedersi questa serie.

La storia è quella che è, più o meno a questo punto la dovrebbero conoscere tutti, la formazione del giovane Potter (Daniel Radcliffe) destinato a diventare un mago e a salvare il mondo dal suo arcinemico Voldemort, o a perire nell'impresa. O meglio ... vabbé, non spoilero per quei due o tre che non conoscono i dettagli, vogliono leggersi tutta la storia come l'ha scritta la Rowling, e sono disgraziatamente passati da qui prima.

La lettura del libro prima (o invece) della visione del film è caldamente consigliata. Credo che lo spettatore casuale non ci capirebbe poi molto. Nonostante la lunghezza della pellicola, un paio d'ore e mezza, gran parte dei personaggi finiscono per essere appena abbozzati, anche perché il regista (Chris Columbus, anche produttore esecutivo) ha puntato soprattutto sulla spettacolarizzazione alla Walt Disney, alla Pomi d'ottone e manici di scopa, più che sull'approfondimento dei caratteri.

Colonna sonora di John Williams, che rafforza il parallelo tra Potter e Star Wars (lato oscuro della forza che corrompe, ecc ecc). Ottimo cast molto inglese che riesce mantenersi suppergiù credibile nonostante il bizzarro abbigliamento. Già perché inesplicabilmente i magici mantegono usi, costumi e abbigliamenti medioevali, il che deve complicare loro la vita non poco, visto che vivono mescolati con i comuni mortali. Si potrebbe pensare che il medioevo è stato il loro periodo d'oro e preferiscano tenerselo stretto, ma questo non spiegherebbe l'anacronismo della strepitosa locomotiva ottocentesca.

Tornando al cast, direi che il migliore sia Alan Rickman, che riesce a stare serio nonostante la ridicola pettinatura alla Renato Zero. Complimenti anche a John Hurt (particina come venditore di bacchette magiche), Richard Harris dall'imponente barba bianca e Maggie Smith.

Harold e Maude

Famiglia (alto borghese), religione (cattolica), psicoanalisi (freudiana), polizia, esercito, subiscono una feroce, anche se un poco datata, satira in questa commedia sentimentale dal retrogusto tragico. Scritto e prodotto da Colin Higgins, diretto da Hal Ashby, con la colonna sonora di Cat Steven, è decisamente un film figlio dei suoi tempi, con una forte enfasi sul singolo, visto come contrapposto ad una società che tende a opprimente e uniformante.

Il protagonista è Harold, un ragazzetto (Bud Cort) ricco di famiglia ma che non si trova a suo agio in quei ricchi panni. Non ha amici, passa le giornate ad inscenare con incredibile accuratezza finti suicidi (lo vediamo in azione sin dall'inizio, quando simula un impiccagione sotto lo sguardo della madre che si mostra già usa alle sue rappresentazioni), partecipare a cerimonie funebri, o assistere a demolizioni.

Per sua fortuna incontra Maude (Ruth Gordon, eccellente), anche lei frequentatrice assidua di funerali ma decisamente più sbarazzina (nonostante abbia un dramma nel suo passato, se ne accenna appena e in maniera indiretta, semplicemente mostrando un tatuaggio). Si piacciono, si frequentano, Harold supera la sua crisi e pensa di chiedere a Maude di sposarlo, ma non è cosa, Maude aveva già deciso altrimenti.

Monster House

Il chowder è una sorta di zuppa di pesce preparata dagli anglofoni su entrambe le sponde dell'Atlantico, un piatto tendenzialmente mostruoso che include un po' di tutto, a seconda delle versioni. Chowder è il soprannome di uno dei ragazzetti protagonisti della vicenda (tradotto adeguatamente in italiano con Timballo), e il chowder è una buona analogia per il film, che include temi diversi, portando ad un risultato troppo frammentario, almeno per i miei gusti.

Il cuore della vicenda è una triste e bellissima storia d'amore, in un certo senso simile a quella di Up, dove lui (Steve Buscemi) non riesce a completare il distacco da lei (Kathleen Turner), morta (o, a ben vedere, trasformatasi in una sorta di mostro) molti anni prima. Solo con l'aiuto di nuovi amici riuscirà a ritrovare un senso per la sua vita.

Purtroppo tutt'attorno questo nucleo è stato costruito un'horror da minorenni - non per nulla ambientato ad Halloween - dove tre ragazzini si trovano ad affrontare il mistero di un tremendo vicino e della sua mostruosa casa. Storie del genere a me, in genere, non dispiacciono, ma in questo caso i tre ragazzini non mi stanno per niente simpatici (in particolare Chowder) e non sono riuscito ad empatizzare con loro.

Ah, dimenticavo di dire che si tratta di una animazione, e i personaggi sono disegnati usando la tecnica motion capture (ovvero basando l'animazione sui reali movimenti degli attori, trasformati qui in sorta di caricature di loro stessi). Il risultato non mi ha particolarmente entusiasmato.

La sequenza iniziale è una esplicita citazione di Forrest Gump, anche qui seguiamo la prospettiva di una foglia che danza nel vento. Bella tecnicamente, ma mi è sembrata priva di alcun senso. In Gump c'era il parallelo tra la foglia e la vita del protagonista, qui credo sia semplicemente vuoto citazionismo.

Industrialmente parlando, si tratta di una produzione Sony dove ci hanno messo il becco gente del calibro di Robert Zemeckis e Steven Spielberg.

Mystic river

Il forte legame con Gone baby gone è dovuto a Dennis Lehane, che ha scritto i due romanzi che hanno fatto da base alle sceneggiature. Quasi identica l'ambientazione - Boston, quartieri non propriamente molto raccomandabili - ma molto differente lo sviluppo.

Qui il cardine della storia sono le relazioni tra i tre protagonisti e tra loro e le proprie mogli. La sceneggiatura (Brian Helgeland) e la regia (Clint Eastwood) danno un taglio quasi shakespeariano alla vicenda, che potrebbe essere traslata facilmente in diverso luogo e periodo. Una tale impostazione ad alta intensità richiede capacità attoriali conseguenti, che è garantita da un trio di star di tutto rispetto (Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon) e da comprimari all'altezza.

Allo spettatore disattento, o che non si voglia fare troppi problemi, potrebbe sembrare un semplice (si fa per dire) film investigativo che tratta un caso spinoso dai risvolti drammatici. Il prologo ci mostra tre ragazzetti che giocano finché un paio di tali che si atteggiano a poliziotti intervengono caricando uno dei tre in macchina. Si trattava di pedofili che abuseranno del poveretto per giorni. Salto di una ventina d'anni, i tre non si frequentano più ma un nuovo dramma li rimette in contatto. La figlia del più teppista (Penn) viene ferocemente uccisa; a quello che era il gregario, e nel frattempo è diventato poliziotto (Bacon), viene assegnato il caso (e Laurence Fishburne è il suo socio); il capro espiatorio (Robbins), violentato da piccolo, è tra i maggiori sospettati.

Come investigazioni se ne sono viste di più intriganti, ma qui, come detto, l'interesse è più sulle personalità dei personaggi e sulle loro interazioni. In parallelo c'è anche una sorta di studio sulle relazioni tra moglie e marito, che però risulta appena abbozzato, mostrando un rapporto basato sull'incomprensione (Robbins), uno sulla fuga e la completa assenza di dialogo (Bacon), e il meglio evidenziato, con una scena nel finale in cui Laura Linney si ritaglia di prepotenza uno spazio breve ma intenso, un legame alla Macbeth (Penn).

Gone baby gone

Dopo essermi visto The town m'è venuta la curiosità di vedermi anche il primo lungometraggio diretto (e co-sceneggiato) da Ben Affleck. In breve, questa storia è più convincente (merito del romanzo originale su cui è basata, immagino) e di conseguenza il risultato complessivo mi sembra superiore.

Bruttarello il titolo, sembra quello di una canzonetta pop, ma la responsabilità cade sul romanziere Dennis Lehane. In italiano al romanzo è stato cambiato titolo, probabilmente perché ritenuto non adatto al tono del racconto investigativo-delinquenziale, e questo mi ha causato un bizzarro equivoco. Più il film procedeva e più mi pareva di sapere dove si andasse a parare. Sulle prime pensavo si trattasse di una storia non particolarmente originale, pur narrata con un taglio personale, solo alla fine mi sono accorto che era tratta da un libro che avevo letto. L'effeto deja vù ha trovato così una spiegazione soddisfacente.

Per motivi personali non ho potuto dunque godermi appieno la trama investigativa, che però non è male. Abbiamo un mistero, una indagine che arriva ad una soluzione, per quanto insoddisfacente, una nuova indagine che getta una nuova chiave interpretativa su quello che avevamo visto nella prima ora, e una nuova soluzione, anch'essa non particolarmente soddisfacente ma vera - per quanto ne possiamo capire.

Ho comunque apprezzato il lato emozionale della vicenda, che tocca elementi molto sensibili, su tutti cosa sia "giusto" e cosa "sbagliato" e sull'impossibilità pratica di dividere il bene dal male. Diversamente da The town qui non ci sono personaggi in bianco e nero, abbiamo solo tante variazioni di tonalità sul grigio. Il protagonista sarà alla fine chiamato a fare una scelta tra due mali, e dovrà capire (kantianamente mi verrebbe da dire) dove lo guidi la legge morale che ha dentro di sé.

Narratore della vicenda e protagonista è un investigatore privato (Casey Affleck, fratello giovane del regista) ben lontano dagli stereotipi hard boiled: è un giovinetto acqua e sapone, si occupa di casi di ben poco spessore e ha per partner nel lavoro la stessa che ha nella vita (Michelle Monaghan, parte secondaria ma ben recitata). La scena iniziale, oltre a inquadrare la vicenda, mi è sembrata un atto di amore del regista per Boston, girata con il cuore in mano. Mi ha fatto pensare a Manhattan di Allen, anche se qui Affleck ci fa vedere una parte di città molto meno raccomandabile, ma mantenendo lo stesso grado di affetto. E vien da dire, buoni tutti ad amare Manhattan. Ma come dice il protagonista, ci sono cose che uno non sceglie, la famiglia, il quartiere dove si nasce.

Cast di tutto rispetto, Morgan Freeman è a capo della squadra che si occupa dei reati contro i minori, Ed Harris è tra i suoi sottoposti.

Cose dell'altro mondo

Il legame è veramente molto tenue, però mi ha fatto a pensare a Miracolo a Milano delle premiata coppia Zavattini-De Sica (nel senso di Vittorio). In entrambi i casi si parte da una triste realtà, e poi si sterza bruscamente nel fantastico.

Purtroppo gli autori hanno attinto, più che al suddetto capolavoro del cinema italiano, ad un oscuro filmetto americano, A Day Without a Mexican, rapidamente citato nei titoli di testa. L'essere un adattamento di un film straniero, e la presenza nel cast di Valentina Lodovini fa pensare anche a Benvenuti al sud, paragone meno azzardato, ma che si risolve anche lui a svantaggio del titolo corrente.

Il film inizia con un toro, e così ho pensato pure a Il toro di Mazzacurati, anche lì Diego Abatantuono è protagonista.

L'idea su cui è basata la storia non è malvagia, in un paesotto del Veneto si percepisce un sentimento diffuso anti-immigrati. Una notte questi scompaiono tutti e la popolazione si trova a dover fare i conti con una situazione complicata da gestire. Materiale per un corto, che viene infarcito da un paio di storie, artificiosamente collegate da una parentela che verrà rivelata solo nel finale.

Il cast non è male, ma sfruttato malamente da Francesco Patierno (regista e cosceneggiatore). Abatantuono è un industrialotto che fa pure il polemista leghistoide in una televisione locale, predicando per l'allontanamento degli stranieri su cui pure campa (dipendenti della sua azienda, prostituta che frequenta, servitù nella casa). La parte dovrebbe creare un misto di repulsione e simpatia, nello sperimentato solco della commedia all'italiana, ma non mi pare si possa dire che abbia centrato il bersaglio. C'è da dire anche che Abatantuono che parla in veneto non è molto convincente, forse sarebbe stato opportuno adattare la sceneggiatura alla sua evidente milanesità.

Valerio Mastandrea è un poliziotto romano in visita alla madre (parte piccola, ma ben interpretata da Laura Efrikian) colpita da Alzheimer che incongruamente abita nel Veneto. Oltre a visitare la madre, ne approfitta per cercare di convincere la sua ex (la Lodovini) a tornare con lui. Lei insegna, e ha una relazione con uno straniero, che l'ha messa incinta. Curiosamente la sparizione di lui non la inquieta poi tanto, d'altronde sembrava che non fosse poi nemmeno troppo interessata a sposare il padre di suo figlio.

Una apparizione anche per Sergio Bustric, nella parte di un buffo personaggio in bilico tra magia contadina e imbroglioncello modernizzato.

Una bella riscrittura, una direzione con mano più ferma, e magari una partecipazione più attiva dei protagonisti avrebbe giovato al risultato finale.

Eva contro Eva

Consigliata la visione a ridosso di La diva Julia. Curiosamente simile al Viale del tramonto, che è dello stesso anno; mi ha fatto pensare, per il meccanismo narrativo e alcuni particolari, anche a Il falò delle vanità.

Tutto sommato un filmone, anche se mi pare che la regia (Joseph L. Mankiewicz) lasci correre in alcune scene una recitazione non proprio all'altezza, e che la sceneggiatura (lo stesso Mankiewicz) giunga alla conclusione con una certa difficoltà.

Eccellente protagonista Bette Davis nei panni di una acclamata attrice quarantenne agli inizi di una crisi di mezza età. Una adorante fan (la Eva del titolo, Anne Baxter) la riesce ad avvicinare e, nonostante la sua factotum (parte piccola ma ben disegnata e ben interpretata da Thelma Ritter, ottima caratterista che quattro anni dopo sarà in La finestra sul cortile) le manifesti subito le sue perplessità, diventa una sorta di sua ombra. Si rivelerà essere una tremenda manipolatrice, disposta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi.

Forse è proprio la Baxter il punto debole dell'azione, dovendo interpretare una giovane attrice capace di cancellare sulla scena la Davis, cosa impensabile. E giustamente il regista non la mostra in azione, praticamente chiedendoci di crederci a scatola chiusa.

La vicenda è narrata in un curioso flashback che lascia fuori solo una breve introduzione e l'epilogo, staccando e tornando sul fermo immagine preso al momento della consegna a Eva di un prestigioso (e inesistente) premio teatrale.

Il narratore è un viscido e cinico critico teatrale (George Sanders, una lunga e gloriosa carriera di cui questo film è uno tra i tasselli meglio riuscitogli, ma non da dimenticare anche la sua partecipazione ad Uno sparo nel buio) che inizia a raccontare la vicenda in prima persona, cedendo poi il testimone ad altri, e fornendo un punto di vista a suo modo distaccato dalla vicenda. In teoria potrebbe quasi anche essere considerato lui il vincitore della storia, anche se in realtà ammetterà lui stesso di non meritarsi che il peggio di quello che la vita può offrire.

A vincere direi che è quindi proprio il personaggio della Davis, che finisce per usare quella che sembrerebbe una sconfitta per dare alla sua vita una dimensione più completa.

La regia usa con evidente piacere la parte non originale della colonna sonora, ad esempio facendo suonare al pianista presente nell'azione brani come Stormy weather (dopo la visione sono andato a risentirmelo nella versione di Ella Fitzgerald) e Blue moon. In un altra scena, Bette Davis accende l'autoradio per far sì che un brano (originale, credo) faccia da sottofondo alla scena.

Da notare poi che si tratta di una delle prime apparizione di Marilyn Monroe e direi che qui Mankiewicz ha genialmente costruito il personaggio che le è restato appiccicato per tutta la carriera: bella, svampita, capace di battute fulminanti o assolutamente sciocche.

The town

Eppure c'é qualcosa che non mi convince. Non sono riuscito ad appassionarmi, forse è questo il problema. Direi che è un buon prodotto medio, un buon film da vedere, che lascia pure qualcosa, ma gli manca il guizzo che lo distingue dai molti altri film simili.

E' decisamente un opera di Ben Affleck (regia, co-sceneggiatura, interpretazione come protagonista), che conferma di essere capace non solo come attore. Forse gli manca solo l'esperienza. Come regista mostra di saper gestire sia le scene di azione (spari, inseguimenti col botto, tensione varia) sia quelle che giocano più sui livelli emotivi.

La storia è molto bostoniana, e in particolare tratta di Charlestown, quartiere operaio che vanta il non lusighiero primato in termini di densità di rapinatori di banche per kilometro quadro al mondo. Protagonista, per l'appunto, un rapinatore di banche (Affleck) e la sua squadra (tra cui Jeremy Renner, amico di infanzia). Nel rapinare una banca il nostro si imbatte in una bella bancaria (Rebecca Hall, che non mi convince molto ma credo di essere in minoranza) e se ne innamora. Riusciranno i piccioncini a coronare il loro sogno d'amore? Non è detto, sia perché hanno entrambi problemi personali che si trascinano dietro dall'infanzia (parte del problema è rappresentato dal padre, Chris Cooper, parte piccola ma succosa), sia per la situazione di lui (fare il delinquente non è certo un buon biglietto da visita). Interessante notare come i "cattivi" siano quelli che ostacolano il cambiamento del protagonista, e sono quindi i referenti della malavita che manovrano i rapinatori (un Pete Postlethwaite a fine carriera, ben in parte) e il segugio dell'FBI (Jon Hamm) a cui fa comodo semplificarsi il lavoro.

Forse il punto debole sta nello schematismo con cui viene svolta la vicenda (possibile che un rapinatore di banche, delinquente figlio di delinquente, ex giocatore di hockey, sia tutto sommato una brava persona che, se non fosse per le circostanze, non farebbe male a una mosca?). Forse il personaggio di Affleck avrebbe dovuto mostrare meglio il suo lato oscuro, e non lasciare tutto al suo sodale (Renner) il monopolio della violenza insensata.

Le idi di marzo

Progetto interpretato, diretto, co-sceneggiato, co-prodotto (tra gli altri c'è anche Leonardo DiCaprio) da George Clooney che mi sembra sia riuscito a fare un buon lavoro in tutti i ruoli.

Come attore interpreta un candidato presidenziale molto liberal per gli standard americani ma che nonostante questo sembra che abbia ottime possibilità di vittoria. Non è il protagonista della vicenda e viene tenuto correttamente dal regista nei giusti limiti.

La direzione non è eclatante ma ha alcuni meriti non trascurabili, primo fra tutti quello di non cedere alla tentazione di puntare tutto su Clooney come attore. Inoltre ci sono due o tre scene girate veramente bene, tipo quella in cui non ci viene fatto vedere cosa succede, l'azione si svolge dentro una macchina, la macchina da presa è all'esterno e si avvicina lentamente, ma non vediamo né sentiamo nulla, dobbiamo immaginare tutto vedendo come esce uno dei personaggi dal veicolo.

Buona anche la sceneggiatura (non originale), anche se mi è parsa un po' troppo lenta nella prima fase, quella di costruzione dei personaggi. E niente da dire nemmeno sulla produzione, che deve aver avuto la maggiore uscita in compensi per il cast, decisamente di alto livello.

Protagonista Ryan Gosling, ai vertici del team che organizza la campagna elettorale per un governatore democratico di cui ha una grande stima. Il suo capo è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e hanno come avversario Paul Giamatti che guida la campagna dell'altro democratico in gara. In un ruolo secondario, giornalista politica del New York Times sempre in caccia di notizie, Marisa Tomei. Gosling subisce il fascino di una giovane stagista (Evan Rachel Wood) da cui, come è lecito aspettarsi, deriveranno tutti i problemi.

Da un punto di vista italiano, il racconto della corruzione, falsità, intrighi e mancanza di ideali della politica americana fa ridere. Diamine, il peggiore dei personaggi rappresentato nel film verrebbe divorato in pochi secondi dagli squali che girano dalle nostre parti. Ma questa più che essere una debolezza della sceneggiatura è un nostro problema etico. In ogni caso il racconto delle traversie del giovane Gosling che si deve confrontare con nemici e dubbi amici ha una sua profondità e interesse. Finale amaro giustificato dalle premesse.

The IT crowd - terza serie

In linea con le due precedenti stagioni, non ci sono novità sostanziali, se non il restyling dell'ufficio. Qualche attimo un po' sonnacchioso in un paio di puntate, forse tre.

1 - From hell. Roy crede di riconoscere il muratore che sta facendo lavori a casa di Jen come un partecipante del reality "Builder from hell" (muratore infernale), noto per fare cose terribili sul lavoro. Moss è alle prese con dei ragazzacci che lo deridono.

2 - Are we not men? Roy e Moss cercano di comportarsi come persone "normali", fingendo di seguire il campionato di calcio. Jen scarta l'ennesimo pretendente, questo perché sembra un prestigiatore.

3 - Tramps like us. Si conclude una vicenda iniziata in 2-6, Douglas (nuovo capo azienda dopo il suicidio del padre) paga i tre IT per le molestie sessuali a cui li ha sottoposti. Per una serie di bizzarre circostanze Roy finisce sulla strada senza un soldo.

4 - The speech. Jen viene premiata come impiegata del mese, fa scrivere il discorso ai Roy e Moss (dato che non sa cosa sia il suo lavoro) che le fanno dire un mucchio di sciocchezze. Douglas ha una avventura con una giornalista dall'oscuro passato.

5 - Friendface. Presa in giro di Facebook e degli effetti collaterali dei social network, soprattutto nel caso di individui ben poco sociali.

6 - Calendar geeks. Moss si trova coinvolto nella realizzazione di un calendario sexy che per strane vie diventa una specie di dannazione.

Furore

Adattamento dell'omonimo romanzo di John Steinbeck, che in originale fa The grapes of wrath, suonando qualcosa come I frutti dell'ira. A dire il vero né nel libro né nel film si vedono questi frutti, ma piuttosto le condizioni che potrebbero spiegare prese di posizione piuttosto irate.

Si narrano le vicende di una famiglia del midwest americano, Oklahoma per la precisione, ai tempi della grande depressione. Impressionante notare come le cose non siano cambiate poi di molto, nella sostanza.

Figura principale nel film è quella di Tom (Henry Fonda), tipo piuttosto iracondo che però vuol bene alla mamma (Jane Darwell). Per sua fortuna incontra un prete spretato (John Carradine) a cui sembra gli sia andato un po' di volta il cervello, pur restando un brav'uomo, forse anche meglio di come era prima. Dice infatti di essersi spretato per aver scoperto di non saper più cosa sia giusto e cosa no, ma di volere con umiltà cercare di capirlo. La crisi fa sì che moltissimi piccoli proprietari vengano scacciati dalle proprie terre e costretti a cercare fortuna in California, pubblicizzata come fosse il paradiso in terra. Emozionante la scena in cui Mà distrugge i suoi ricordi di una vita prima di abbandonare per sempre la sua terra. Segue viaggio travagliato, scoperta che in California si stava persino peggio che in Oklahoma, tentativo di ottenere un barlume di speranza nella vita. Il finale è leggermente più ottimista dell'originale di Steinbeck.

Regia asciutta di John Ford che ben si adatta al tema trattato.

The chronicles of Riddick

Il pregio fondamentale del secondo episodio delle avventure di Riddick è quello di avermi fatto rivalutare il precedente Pitch black. Pensavo che lì i problemi venissero dal lato scrittura e pensavo che la regia avesse raddrizzato la situazione, ma vedo che qui alla parte creativa c'è il solo David Twohy e il risultato è nettamente inferiore.

I molti soldi a disposizione della produzione devono aver convinto Twohy a lasciare il filone tra l'horror e il fantascientifico straccione post-atomico per dedicarsi alla fantascienza classica "imperiale", alla Star wars o Dune. D'altro canto le atmosfere usate sono quelle da supereroi cupi alla Batman, complicate da una scenografia tra il futurismo e il gotico, inscatolando tra l'altro i figuranti in armature di gusto rinascimentale del tutto insensate.

Resta Vin Diesel nei panni di Riddick, che subisce alcuni cambiamenti, il principale dei quali è che adesso vede bene anche alla luce normale, e gli occhialetti che gli erano necessari qui diventano un mero accessorio alla moda.

Cast variegato che include Thandie Newton nel ruolo di una dark lady molto cospirativa e Judi Dench molto aerea.

Pitch black

Primo episodio delle cronache di Riddick, penso che sia da considerare inguardabile per chi non abbia una certa passione per la fantascienza. E anche tra potenziali spettatori superstiti i risultati potrebbero essere altalenanti.

Una descrizione sommaria potrebbe catalogarlo come una sorta di Alien ambientato in un deserto alla Mad Max. B movie, quindi, ma diretto con una certa grazia (David Twohy). Piacevole la fotografia, che sfrutta il presupposto del mondo alieno illuminato da ben tre soli per ammannirci bizzarri colori e luminosità.

Le note dolenti vengono dalla storia, responsabilità principale dei fratelli Wheat con zampino del regista che, pur partendo da una idea interessante, resta scomodamente in bilico tra gli stereotipi del genere e le scemenze senza senso.

Per quanto riguarda gli stereotipi: astronave in panne si schianta su pianeta sconosciuto, chi ne sa di più muore ancora prima che l'azione inizi, un drappello di superstiti eterogenei deve superare difficoltà esterne e interne per cavarsela, i personaggi minori e qualche protagonista fanno una fine orrenda.

L'elenco delle sciocchezze è troppo lungo per questa sede. Per dirne una: lo sciame meteorico che porta al disastro fa incomparabilmente meno danni di quelli che dovrebbe fare. Dati i buchi che vengono fatti vedere, l'astronave sarebbe dovuta esplodere subito - un cortometraggio tra i più brevi nella storia della fantascienza. Oppure i buchi dovevano essere molto, ma molto (molto, molto, molto) più piccoli.

Da dire poi che si tratta di un gruppo di sfigatoni. Non solo fanno naufragio, ma finiscono su un pianeta desertico, perennemente sotto i raggi infocati di tre soli, giusto immediatamente prima che, come accade solo una volta ogni 22 anni, ci sia una eclissi totale.

Decisamente improbabile, poi, che su tale pianeta si sia evoluta una curiosa razza di predatori notturni che per 22 anni non ha niente da fare se non aspettare. Ci sarebbe da chiedersi anche che cosa si aspettino questi simpatici mostri tutti zanne e speroni. Mica è così facile che capiti qualcuno in visita.

Ma dicevo che penso ci sia una idea interessante nel film, e sarebbe poi il protagonista, un bruto assassino tutto muscoli e niente cervello, interpretato adeguatamente da Vin Diesel, che si è fatto operare agli occhi in modo da avere una visione notturna spettacolosa. Perché ha fatto mai questa idiozia e non si è comprato uno di quegli aggeggini che fanno vedere tutto verde mi sfugge, ma non è questo il punto. Il punto sarebbe che Riddick, perché di lui si tratta, inizialmente è in catene, e ha una voglia matta di fuggire (fuggire dove, vien da chiedersi) e magari ammazzare un po' tutti (invece di sedersi e aspettare che l'inospitale pianeta faccia il lavoro sporco al posto suo), ma poi viene giocoforza portato ad interagire più garbatamente con i suoi compagni di sventura.

Insomma, si tratta del solito western con cacciatore di teste che sta portando la sua preda dallo sceriffo per intascare la taglia, ma si imbattono in una carovana di pionieri ... però i cattivi qui non sono gli indiani ma mordaci alieni.

Bunraku

Curioso film che mescola fumetti, videogiochi, samurai, western (spaghetti), post-catastrofismo ottenendo un risultato che non mi riesce facilmente di descrivere. Parto travagliato della fantasia (malata) di Guy Moshe che ha diretto sulla base della sceneggiatura che ha tratto da un racconto di Boaz Davidson, che sarebbe poi tra i produttori di film come The Expendables, l'ultimo Conan, Rambo e altre delizie del genere. Il che spiega come, pur essendo lui un illustre sconosciuto, sia riuscito a racimolare un budget non colossale per gli standard americani (ma per i nostri sì) ma comunque notevole per una produzione indipendente, e soprattutto ad attirare noti attori nel progetto.

La storia prende le mosse da una catastrofe planetaria, in seguito alla quale si decide di bandire l'uso di tutte le armi da fuoco nel pianeta, cosicché la gente si ammazza all'arma bianca. Un futuro alla Mad Max, in certi aspetti uguale al nostro presente, in altri regredito ad un passato prossimo o anche remoto.

In una città di cartapesta, ma che più la Dogville di von Trier ricorda la Sin City di Tarantino (che occhiegga pure nell'attenzione strabica all'oriente e allo spaghetti western) e soci, due sconosciuti, Josh Hartnett e tale Gackt (una pop-star giapponese, se ho capito bene), arrivano a cercare ognuno di completare la propria diversa (e abbastanza scema) missione. Un barista da cui nessuna persona provvista di un minimo di buon senso (il natural born killer Woody Harrelson) accetterebbe il più innocuo aperitivo li mette assieme, avendo misteriosamente capito che possono risultare utili anche per la sua di missione. Seguono una impressionante serie di sciabolate, grida e botte, non trascurando pure una sottile traccia romantica, che a suo modo mi ha ricordato Valzer finale per un killer, che permette i due (più uno) di raggiungere il nemico comune, l'elusivo capo della mala locale (Ron Perlman) che tra l'altro si spupazza Demi Moore. Tanto per gradire.

A livello visuale il risultato è divertente, ma tirato troppo per le lunghe (due ore!). La storia però è una barba. Terrei d'occhio Moshe e spererei che gli capitasse per le mani una vicenda più interessante.

Slevin - Patto criminale

Siamo dalle parti de I soliti sospetti, Ocean's eleven, Pulp fiction, tanto per fare un po' di titoli, ma il risultato è meno piacevole. Colpa soprattutto della sceneggiatura, direi.

Cast interessante, con Ben Kingsley e Morgan Freeman nei panni di due boss della mala newyorkese, Bruce Willis in quelli del killer a pagamento, Stanley Tucci lo sbirro, Josh Hartnett lu bello guaglione, e Lucy Liu quella che passava di lì per caso.

La storia narrata è improbabile e sembra che abbia il solo scopo di far divertire il cast. Potrebbe incidentalmente riuscire divertente anche allo spettatore che vuole passare un paio d'ore in compagnia di una sorta di indovinello criminale tra ammazzamenti vari.

Thor

C'è del marcio in Danimarca, e c'è anche del buono in questo fumettone blockbuster, nonostante le apparenze. Merito probabilmente di Kenneth Branagh, magari anche solo della sua ingombrante presenza alla regia, che deve essere riuscito a far sì che la sceneggiatura prendesse (anche) direzioni più complicate di quello che ci si sarebbe legittimamente potuti aspettare.

Seguiamo così Thor (un muscoloso Chris Hemsworth adeguato al ruolo) che da adolescente figlio di papà diventa adulto. E questa è già una notizia, in un mondo dove sembra che tutti cercano di restare allo stadio infantile il più a lungo possibile. Altra notizia è che l'occasione di crescere gli viene dal fallimento il che, soprattutto visto dal punto di vista americano, deve essere praticamente uno shock epocale. Capita così che Thor, privato dei poteri dal padre Odino (Anthony Hopkins) per averne fatta una più grossa delle altre, piombi sulla terra, ma non riesca bene a capire cosa gli sia successo finché non scopre di non essere più capace di usare il suo martello, fonte dei suoi poteri. Naturalmente supererà questa fase ma, anche qui piuttosto sorprendentemente, solo quando riuscirà a crescere emotivamente.

E non è solo il personaggio di Thor ad essere costruito con una certa profondità, ma un po' tutti i protagonisti divini. Odino ha i suoi lati oscuri, il supercattivo Loki (Tom Hiddleston appena visto in Midnight in Paris, tra l'altro, buon lavoro qui direi, nonostante un carattere non disegnato bene) ha, a ben vedere, tutte le ragioni di essere tale.

Il lato umano della vicenda, invece, zoppica visibilmente. Due ottimi attori, Natalie Portman e Stellan Skarsgård, si trovano a dover gestire personaggi poco più che abbozzati e puramente di contorno.

Credo ci siano molti riferimenti alla serie fumettistica della Marvel, che con me sono andati completamente sprecati. Me la sono cavata grazie al fatto che nella Guida galattica per autostoppisti (serie cartacea, non il film) il personaggio di Thor ha un suo spazio significativo.

Nel finale si lascia intravvedere che il sequel è già bello che pronto. Non mi aspetto niente di buono.

Midnight in Paris

Anni venti a Parigi, un tale cerca di spiegare a tre tizi al bar che lui arriva dal 2010, e spende le sue giornate diviso tra queste due diverse epoche. I tre non capiscono cosa ci sia di strano. Bella forza, sono surrealisti. Tipica situazione alla Woody Allen, un po' come in Prendi i soldi e scappa l'ergastolano che non riusciva a scappare veniva messo in isolamento in compagnia di un assicuratore, per rendere la pena ancor più crudele. Si parte praticamente da cliché ben noti e li si stravolge aggiungendo situazioni di per sé normali ma completamente stranianti.

La nostalgia è il forte legame (non cercato) con Radio America di Altman, che ho appena visto, anche se lo sviluppo è decisamente diverso. Qui il vero motore dell'azione è l'insoddisfazione del protagonista (un sorprendente Owen Wilson - non eccezionale a dire il vero, ma ero prevenuto nei suoi confronti, e invece se la cava in maniera più che dignitosa, e la sua espressione di stupefatta incredulità di fronte a situazioni incredibilmente stupefacenti è perfetta, oltre che estremamente comica) che sarebbe sul punto di sposare una odiosa fidanzata (ma decisamente bellina - Rachel McAdams) con cui, quando ci pensa bene, scopre di avere ben poco in comune, se non un certo apprezzamento per la cucina indiana.

Lo troviamo dunque in crisi esistenziale/creativa (vorrebbe essere un autore letterario, ma ha invece intrapreso una carriera di sceneggiatore di successo a Hollywood) acuita dal fatto di trovarsi a Parigi, un ambiente che sprizza cultura da ogni angolo, soprattutto se paragonato alla California. A questo punto c'è un (giustamente) inesplicabile salto temporale, che possiamo vedere a nostra scelta come reale o immaginario, e che ricorda un po' l'espediente usato in Alice per rappresentare la crisi della protagonista, e che permette al protagonista di confrontarsi direttamente con il suo sogno, vivere nella Parigi degli anni 20, incontrando tra gli altri personaggi come Hemingway (Corey Stoll), Scott Fitzgerald (Tom Hiddleston), Picasso, Salvador Dalí (un brillante Adrien Brody, surreale al punto giusto), Gertrude Stein (Kathy Bates in ottima forma), Joséphine Baker, Cole Porter e confrontarsi con una sua sorta di alter ego femminile (Marion Cotillard) per cui si prenderà una mezza cotta.

Alla fine il protagonista dovrà prendere una serie di decisioni non da poco. Rinchiudersi in un paradiso artificiale o affrontare una quotidianità meno affascinante, ma reale? Seguire la comoda strada di un ricco ma infelice matrimonio o tentare la ventura seguendo la propria vocazione?

A ben vedere, si tratta di una ripresa del precedente Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, ma qui i toni sono molto più allegri, ho riso, sorriso, mi sono lasciato coinvolgere dalla sorpresa di eventi irreali ma ben costruiti, dall'emozione ben raccontata dell'incontro con personaggi ormai mitici. Pensa, incontrare Luis Buñuel. E prendersi la soddisfazione di suggerirgli lo spunto per L'angelo sterminatore!

PS: link alle recensioni citate nel commento da il bibliofilo: Curzio Maltese, Alessandra Levantesi Kezich. Rispetto alla Kezich io contesterei il premio al miglior alter ego di Allen, che darei a Larry David (Basta che funzioni), ma in effetti mi sembra che se la sia cavata meglio di Jason Biggs (Anything else) o anche Kenneth Branagh (Celebrity). Mentre Maltese mi pare che abbia percepito più comicità di me, che ci ho visto anche un aspetto più... direi quasi esistenzialista, per restare in tema parigino.

Radio America

A Prairie home companion è, oltre che il titolo originale del film, uno show radiofonico americano di gran successo il cui boss, Garrison Keillor, ha imbastito una sceneggiatura che mantiene lo spirito del programma, pur stravolgendolo, e l'ha sottoposta niente di meno che a Robert Altman, che l'ha fatta diventare il suo ultimo film.

A narrare la vicenda è uno stralunato investigatore privato alla Marlowe (vedi Il lungo addio) ma con una pericolosa tendenza alla Clouseau e trasferito di peso ai nostri giorni (un ottimo Kevin Kline) che si è adattato a fare il servizio di sicurezza per lo show radiofonico che, come spesso accade da quelle parti, è registrato in diretta in teatro. E' l'ultima puntata, alcuni non lo sanno, altri fanno finta di non saperlo, altri ancora pensano che lo spettacolo comunque deve continuare, qualunque cosa accada. Ad interferire con la serata intervengono una misteriosa femme fatale molto noir (pur essendo in bianco - Virginia Madsen) al punto da essere indicata nei titoli di coda come la donna pericolosa e da ricordare Bruno Ganz in Il cielo sopra Berlino, e un texano (Tommy Lee Jones) tutto soldi e niente sentimento che ammette incidentalmente di essere diventato così per autodifesa, avendo fallito come musicista.

Memoria dei bei tempi andati (alla Radio days), meditazione sulla morte, vista comunque come parte della vita, racconto di quel bizzarro Midwest americano che poco appare al cinema ma che in realtà è parte importante (nel bene e nel male) di quella nazione. Vista con uno sguardo affettuoso e scanzonato da un grande regista in forma strepitosa, nonostante fosse in età così avanzata che gli è stato permesso di girare solo con la clausola di avere pronto la riserva (Paul Thomas Anderson), si avvale di un cast eccezionale - oltre ai sopra citati, una strepitosa Meryl Streep su tutti, poi John C. Reilly, Lily Tomlin, Woody Harrelson, lo stesso Garrison Keillor sceneggiatore nei panni di un quasi se stesso. Ma è davvero il caso di dire che anche i ruoli minori rendono al massimo, potenza di una regia (l'ho già detto?) memorabile.